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PSYCHOMEDIA
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Trasgressione e Reclusione



L'educatore in carcere: ruoli e compiti formativi

Daniele Rondanini

(Psicologo, Educatore, Casa Circondariale Maschile "N.C." Rebibbia, Roma)


La riforma penitenziaria vede la luce in un periodo, gli anni settanta, nel quale sotto la spinta di fattori sociali e culturali vengono approvate numerose leggi che indicano obiettivi e finalità per i servizi sociali, sanitari e educativi. Ricordiamo, tra le altre, lo statuto dei lavoratori, i decreti delegati nella scuola, la legge sui consultori, sull'assistenza psichiatrica, sull'interruzione di gravidanza. D'altra parte, è rinvenibile un lungo processo di preparazione della legge 354/75, almeno a partire dal momento in cui le Nazioni Unite adottarono le Regole Minime per il trattamento dei detenuti (1955) alle quali il nostro paese aderì, e che costituiscono il primo faticoso proporsi nell'ambito dell'esecuzione penale di una cultura del rispetto, peraltro sempre da compiersi e da migliorarsi. I principi e le condotte umanitarie che in epoche antecedenti della storia del penitenziario pure emanavano da direttori, cappellani o volontari di carità non compensavano i soprusi, ancor meno riconoscevano al detenuto lo status di soggetto di diritti civili.
La nuova legge si realizza all'insegna della risocializzazione o rieducazione come obiettivo del trattamento del detenuto. Nel fare proprio tale programma essa ha costituito l'obiettivazione formale dei principi enunciati dalla Costituzione, in particolare l'articolo 27, che stabilisce che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". L'articolo 1 dell'Ordinamento Penitenziario, dal suo canto, stabilisce che "il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare la dignità della persona", aggiunge che "è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche ed a credenze religiose".
Ulteriore fondamentale carattere del trattamento è il suo consistere in un procedimento individualizzato, ossia condotto tenendo presente la particolare situazione della persona. Esso richiede pertanto che quella situazione venga preliminarmente indagata durante una fase di osservazione, che la legge stessa distingue appositamente da quella vera e propria di trattamento. L'osservazione mira a individuare i percorsi personali e sociali che hanno "determinato" il comportamento criminoso, a "rilevare le carenze fisio psichiche e le altre cause del disadattamento sociale" (art. 13 O.P.). L'osservazione è quindi finalizzata alla predisposizione di un programma rieducativo individuale da articolare con strumenti che sono principalmente l'istruzione, il lavoro, la religione, le attività culturali, ricreative e sportive, i contatti con il mondo esterno, i rapporti con la famiglia.
Come si vede, gli stessi presupposti epistemologici alla base delle indicazioni di osservazione e trattamento dettate dalla legge si sono rivelate manifestamente anacronistiche. Il modello è quello di un individuo detenuto visto come un'entità isolata dal contesto istituzionale in cui si trova inserito, portatore di una patologia psico-sociale che nel carcere va individuata nelle sue cause e "curata". Il paradigma scientifico è ancora quello positivista: da una parte il soggetto dell'indagine "neutrale", dall'altra l'oggetto passivo a proposito del quale ricercare le cause di natura organica, psicologica, sociale che hanno determinato il comportamento delinquenziale, ciò cui consegue il rimedio correzionale unilateralmente trasmesso.
E' evidente che tale paradigma esclude la possibilità di considerare, come parte integrante dell'osservazione, le complesse implicazioni della relazione dinamica e processuale tra osservatore e osservato che modula e costella per ognuno la percezione dell'altro, pur nel quadro di ruoli e consapevolezza diversi. Ed è evidente altresì che esso non comprende le dinamiche attive nel campo istituzionale cui il soggetto (ma anche l'operatore) è costretto, che limitano enormemente le possibilità di sperimentare le proprie opzioni propulsive. E che tuttavia includono sempre possibilità favorevoli, spazi da sondare, opportunità da cogliere. Tanto è detto per scongiurare l'equivoco che in tale realtà nulla può essere praticato a meno che...la realtà non cambi.
Ciò vale, nel nostro contesto, anche per gli operatori del trattamento i cui obiettivi tendano a quel principio di giustizia sostanziale, peraltro non distante dal proprio mandato, che si realizza nei rapporti, nell'operatività, nell'attenzione alla persona e nella modifica delle situazioni apertamente in contrasto con il principio (costituzionale) per cui ogni persona, nessuna esclusa, in qualsiasi contesto ha diritto a condizioni di vita che promuovano le sue possibilità di riscattarsi. Altri principi come la difesa sociale, la neutralizzazione, il castigo, quand'anche necessari, sono logicamente richiesti dalla relatività dei primi che derivano a loro volta - pur se appare retorico ribadirlo - da una percezione dell'altrui similarità, dal riconoscimento di diritti e garanzie comuni.
Nell'équipe di osservazione e trattamento, composta da direttore, educatore, psicologo, assistente sociale e rappresentante della sorveglianza, la figura dell'educatore, immessa nel sistema penitenziario con la riforma, è quella che nell'espletamento di quelle funzioni riveste un ruolo centrale e attorno alla quale le altre ruotano con compiti complementari o talvolta addirittura contrastanti da parte di chi, presente nel carcere fin dalle sue origini, traina non di rado i valori e le condotte della vecchia cultura punitiva.
Questa, che per ragioni ovvie di non appartenenza storica e di contrasto con il suo mandato l'educatore rifiuta, costituisce effettivamente la resistenza più ostinata che egli incontra, connotando il suo lavoro di un rischio costante di antagonizzazione, deleteria per se stesso, per il detenuto, per l'istituzione. Quando invece egli la riconosce come elemento di realtà che in quanto tale è comunque anch'essa soggetta a mutamento, la fiducia in un suo superamento, chiunque ne sia testimone, e nel significato del proprio impegno permane.
Effettivamente, l'ingresso a seguito della riforma dei professionisti della rieducazione ha richiesto loro un immediato impegno operativo, non solo il confronto con le ambiguità ideologiche e le approssimazioni scientifiche del testo legislativo, bensì l'immersione in vivo in un'altra stessa società, totale, emarginante ed emarginata, cattiva coscienza della società civile, con i suoi valori, le sue regole implicite, i suoi criteri di gerarchia e di esercizio del potere. A costoro, antesignani rappresentanti della società libera ammessi nella "fortezza", gli antichi e i nuovi custodi facendone più o meno consapevolmente parte integrante, sono presto apparsi evidenti i meccanismi perversi dell'istituzione carceraria, i processi di spersonalizzazione, di isolamento e di stigmatizzazione, nonché quelli di adattamento passivo, opportunistico e intransigente alle regole del sistema.
Eppure, spazi di manovra nel senso di un accrescimento del proprio potere (che è altra cosa dal carrierismo) sono possibili in ogni contesto, soprattutto nell'ambito di sistemi complessi, dove il potere, pur gerarchicamente definito, è in effetti differenziato e diffusamente delegato. Potrebbe bastare, al limite, l'osservanza delle norme per detenerne uno spicchio ed in ogni caso non illudersi che possano essere altri ad accordarlo o riconoscerlo a prescindere dalla professionalità del soggetto. Questa per un operatore socio-psico-pedagogico si misura sostanzialmente dalla conferma proveniente dall'utente e da relazioni comunicative nello specifico contesto operativo finalizzate al conseguimento degli obiettivi.
Nel nostro contesto, "l'operatore può definire la relazione con tutte le componenti del sistema con le quali viene in contatto, ritagliandosi uno spazio senza sprecare risorse e senza illusioni di un cambiamento onnipotente. In particolare, nel rapporto con il detenuto, questa chiave di lettura permette di dotare di senso una relazione individualizzata, non più coatta o strumentale ad altri fini, ma liberamente chiesta e offerta. Instaurare un contatto può significare per il detenuto avere una possibilità di relazione per verificare il proprio progetto di esistenza ed acquisire strumenti per rendere più adeguate le sue interazioni con le norme del sistema interno e dei sistema esterni di controllo sociale. L'atteggiamento non è tanto di accertare il vero o il falso, ma di ingaggiare il detenuto in una relazione che lo faccia riflettere sull'utilità o meno e sul significato di un atto non conforme, di inventare nuove punteggiature del suo comportamento, rinunciando così a dirigerlo attraverso forme di violenza trattamentale"(1).
Come si vede, l'esigenza per tali operatori di una formazione adeguata e, ancor prima, di motivazioni personali che la giustifichino non è tanto peregrina. Unico e semplice requisito di ammissione richiesto fino all'ultimo dei concorsi pubblici per operatore penitenziario è stato il diploma di scuola media superiore(!).
Effettivamente, persiste l'assenza di una legge quadro che definisca a livello nazionale il profilo e l'iter formativo attraverso il quale si debba accedere alla professione di educatore, l'ordine e l'albo che regolamentino l'esercizio della professione stessa.
A fronte di questa situazione è giunta dall'Associazione Nazionale Educatori Professionali (ANEP) la proposta di prevedere istitutivamente due titoli e le rispettive figure: un diploma universitario di durata triennale per educatore professionale, con caratteristiche professionalizzanti miranti alla dimensione del diretto contatto con l'utenza ed allo sviluppo di competenze di aiuto e di stimolo alla crescita, badando peraltro a non disperdere l'esperienza degli istituti formativi con una dignità riconosciuta ricorrendo l'università a forme di convenzionamento(2); il diploma di laurea in pedagogia per le funzioni di coordinamento, programmazione e supervisione. I profili professionali individuati dall'Amministrazione Penitenziaria prevedono proprio due distinte figure, Educatore ed Educatore Coordinatore, che possono corrispondere a quei titoli.
La speranza è che prossimamente siano ammessi ad assumere compiti tanto delicati operatori in possesso dei requisiti specifici, considerate le complessità degli interventi richiesti e la necessità di motivazioni di base. L'utopia, forse, è che in futuro siano proprio loro, gli educatori professionali, ad accompagnare il detenuto nella vita quotidiana di sezione, rieducando nella condivisione necessaria di spazio e di tempo. Con ciò liberando da tale "gravame" il personale di polizia penitenziaria, che potrebbe occupare uno spazio più defilato e limitarsi a quelle funzioni di sorveglianza che sente più appropriate .
Ho insistito sui presupposti motivazionali e formativi degli operatori, di quello almeno che appare per ciò più deprivato, ritenendoli comunque imprescindibili ed i soli in grado di affrontare anche i "pesi" del contesto, nonché a legittimarne l'analisi. Il contesto penitenziario nel ventennio trascorso ha registrato modifiche legislative, spesso interpretate come il manifestarsi di un opposto ondeggiamento tra momenti di apertura ed altri tendenzialmente costrittivi. Valga per il primo aspetto la "legge Gozzini" del 1986 e l'enfasi da essa posta sui benefici alternativi alla detenzione, sebbene da molti ritenuto che abbia arrecato un appiattimento del modello rieducativo su una logica premiale e, quindi, disciplinare d'ella pure osservanza delle regole interne dell'istituzione, come premessa all'ottenimento di benefici. E si consideri, come esempio eclatante della classica inconciliabilità tra riabilitazione e coercizione, il decreto Scotti-Martelli del 1992, per cui la tipologia del reato commesso o presunto differenzia le modalità del trattamento, e l'accesso a qualsiasi beneficio è subordinato per gli appartenenti alla criminalità organizzata ad una loro effettiva collaborazione alle indagini.
Si determinerebbe in sostanza un ritorno ciclico di quella cultura che tende, attraverso il carcere, ad espellere dalla collettività quelle persone, considerate in ogni caso pericolose, in diretta relazione con il verificarsi di specifiche situazioni emozionali e tragiche che attraversano la vita civile del nostro paese.
D'altra parte, tanto più necessario, sebbene meno declamato, appare salvaguardare l'esecuzione penale da ingerenze, reattive o strategiche, che ne ostacolino il percorso già arduo di civilizzazione. Semmai, a dispetto di tanto discredito intorno al concetto di rieducazione e depotenziamento del modello trattamentale, che proviene dalle agenzie decisionali e da una certa letteratura in tema di pena, urgono schemi teorici ed operativi che rendano più efficace quel modello. E' necessario cominciare a produrre anche nuove proposte culturali, sostenerle con energia, e cercare di coinvolgere in esse, oltre agli stessi utenti, tutte quelle risorse della società che possono apportare validi contributi alla reintegrazione sociale del recluso perché, anche se il discorso può sembrare azzardato, si dovrà arrivare prima o poi a garantire certi diritti anche ai detenuti.

(1) Costa C., "La pena tra retribuzione e rieducazione: un'incongruenza gestibile? L'operatore carcerario tra punizione e trattamento", in Rassegna Italiana di Criminologia, 1990, 1, pag.69-70.

(2) Un esempio al riguardo è il corso triennale per educatori professionali tenuto presso l'Istituto di Ortofonologia di Roma (N.d.R.)

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