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PSYCHOMEDIA
RELAZIONE GRUPPO<=>INDIVIDUO
Coppia e Famiglia


INTERVISTA/DIBATTITO

di Gabriela Tavazza e Daniela De Berardinis

A) La supervisione come spazio intermedio, mediatore di pensiero, di storia, di legami tra famiglia e curanti?
Intervista a cura di Giuseppe Martini.
Rispondono: Cono Aldo Barnà, Luigi Boccanegra, Simona Taccani

B) Dibattito a cura di Gabriela Tavazza e Daniela De Berardinis.
Rispondono: Barbara Pinciara, Enza Quattrocchi, Maria Teresa Stivanello

C) Seduta commentata di incontro pazienti-familiari
A cura di Francesco Borgia

articolo tratto dal n.2/98 di INTERAZIONI (Rivista edita da Franco Angeli)


INTERVISTA/DIBATTITO


Nel tentativo di fornire degli stimoli che cogliessero il complesso articolarsi di tematiche e/o problematiche proprie delle strutture a carattere residenziale o semiresidenziale, abbiamo scelto di impostare la sezione dedicata al dibattito in modo da poter rappresentare le molteplici voci degli attori in gioco. Nelle strutture intermedie è in realtà più visibile l'inevitabile gioco delle ripetitività transferali (Ferenczi, Resnik); il nuovo per essere tale sarà relazionale ovvero dovrà coinvolgere inevitabilmente pazienti ed operatori.
Le strutture intermedie sia per le loro caratteristiche strutturali ma soprattutto per il loro mandato di presa in carico e di trattamento, prolungato nel tempo, attivano e sono depositarie di complessi livelli relazionali.
I contributi del dibattito e dell'intervista ci permettono di aprire una finestra di osservazione propria di sistemi diversi: il sistema curante, il sistema utenza, nello specifico quello dei familiari, e il sistema supervisore.
All'interno della sezione la prima parte è dedicata all'intervista di tre psicoanalisti che nella loro professione clinica hanno svolto e svolgono interventi di supervisione in strutture intermedie.
La supervisione, nello specifico psicoanalitica, ormai da anni è uno strumento di "lavoro" sempre più utilizzato nei servizi sanitari. Tale strumento ha assunto, in particolare nelle strutture a carattere residenziale e semiresidenziale, una funzione pregnante nell'analisi delle dinamiche intersoggettive in modo da restituire ai curanti "il senso e la simbolizzazione degli interventi e delle azioni di cura" (S. Taccani).
La seconda parte della sezione riporta un dibattito tra tre responsabili di strutture intermedie che ci offre la possibilità di entrare nel vivo della costruzione e gestione del rapporto tra la struttura, l'utente e la sua famiglia.
Abbiamo chiesto a ciascuno di loro di fornire una breve scheda descrittiva del servizio e del suo mandato al fine di rendere più contestualizzabile l'esperienza che emerge dal dibattito.
Conclude la sezione un confronto tra i familiari di pazienti inseriti in una Comunità Terapeutica ai quali sono state sottoposte alcune delle domande già proposte ai responsabili, fatte alcune modifiche legate al contesto.

Gabriela Tavazza e Daniela De Berardinis



La supervisione come spazio intermedio, mediatore di pensiero, di storia, di legami tra famiglia e curanti?
Intervista a cura di Giuseppe Martini.
Rispondono: Cono Aldo Barnà, Luigi Boccanegra, Simona Taccani


1) Le Strutture Intermedie, e la Comunità Terapeutica in particolare, hanno sempre rappresentato un terreno elettivo per il pensiero e la pratica psicoanalitica. Come si articola, al loro interno, l'intreccio - che della psicoanalisi è così rappresentativo - tra attività clinica e supervisione? Per quali problemi viene richiesto l'intervento di supervisione? Ed è possibile rintracciare nell'ambito di tali problematiche alcune tematiche costanti, pur nella differenza dei contesti socio-culturali da cui sorge la domanda?

2) E' possibile ipotizzare che le strutture intermedie svolgano una funzione genitoriale? Come essa entra in funzione, sia nei termini di rappresentazioni interne, sia di interazioni paziente-operatore, sia infine di transfert istituzionale? Quali problematiche ciò viene ad aprire e come queste si riflettono nella supervisione dell'équipe?

3) Ha conoscenza di esperienze cliniche che coinvolgono, all'interno delle Strutture Intermedie, la famiglia del paziente? (incontri saltuari supportivi, psicoterapia familiare, psicoterapia della coppia genitoriale, gruppi multifamiliari, etc.)? Potrebbe brevemente descriverle e fornire una sua opinione?

4) Come si articola, e come appare nella supervisione, la relazione tra paziente, familiari e operatori, e quali problemi emotivi viene a suscitare, specie a questi ultimi?


Cono Aldo Barnà (Psicoanalista SPI)

1) Ritengo che tutte le situazioni di cura e di riabilitazione del disagio psichico e tutti gli ambiti clinici e/o istituzionali predisposti per tali attività si possano giovare del vertice osservativo e interpretativo della psicoanalisi.
Ciò sia in termini di riferimento culturale per il proprio lavoro, sia in termini di uso "proprio" del metodo psicoanalitico e di apprendimento dello stesso attraverso la consulenza di psicoanalisti competenti. E' importante che gli psicoanalisti chiamati ad un contributo "extra-moenia" operino con il massimo di accortezza oltre che di competenza; soprattutto senza arroganza e con grande rispetto delle prerogative del contesto nel quale si va ad operare.
Introdurre con discrezione anche un piccolo avanzamento di carattere psicodinamico in contesti, a volte, molto distanti ideologicamente, culturalmente e metodologicamente dalla psicoanalisi, è un risultato importante.
Lo psicoanalista consulente-supervisore può infatti produrre una fiducia crescente nella supervisione e nella psicoanalisi, da parte di tutti gli operatori della salute mentale, a qualunque titolo, coinvolti nella gestione dei pazienti, se opera con competenza e prudenza, se aderisce alle aspettative, interpretando correttamente la domanda di supervisione e valutando adeguatamente il contesto storico-dinamico in cui essa nasce, e se cura, nel tempo, il suo sviluppo in senso psicoanalitico.
La domanda è di solito formulata in modo non chiaro poiché raccoglie istanze diverse, conflittuali e spesso ambivalenti, delle differenti componenti professionali e dei livelli di responsabilità istituzionale.
Una parte del lavoro del supervisore consiste nel relazionarsi con le motivazioni esplicite della domanda, mentre è attento a percepire, enucleare e avviare nel senso di una presa di coscienza e di una elaborazione, i contenuti profondi, non sempre manifesti, della domanda del gruppo e dei singoli dentro il gruppo.
Ritengo necessario "fochettare" continuamente tra i vari livelli della domanda e fornire risposte, più o meno interpretative, alla domanda reale presente nel gruppo. Parlo di interpretazioni caute e indirette che non suscitino le resistenze del gruppo e non trasformino impropriamente il contesto della supervisione in un contesto psicoterapeutico che, esplicitamente, non viene richiesto. In questo la supervisione di gruppo deve essere cauta ed accorta quanto e più della supervisione individuale.
Ritengo che le tematiche costanti si riferiscano al desiderio-bisogno di avere a disposizione degli strumenti. Intanto un luogo stabile dove esprimere pensieri ed emozioni relativi alla propria "esposizione" allo "specifico", un luogo che sia stabile, riparato dal "quotidiano" e protetto dal supervisore rispetto agli altri contesti di confronto. Quindi di poter avere strumenti di comprensione e operativi, più validi nel rapporto con i pazienti. Di avere anche strumenti per contenere meglio le ansie suscitate dal rapporto con i pazienti, dal confronto con i colleghi e dall'esposizione alle dinamiche gruppali. Infine di costruire un vertice meta-contestuale di significazione e di proiezione del proprio lavoro in quanto quest'ultimo tende a sfilacciarsi nel tempo fermo della psicosi e della resistenza al cambiamento. Comunque di confrontare le proprie aspettative, più o meno idealizzate, con una visione, una lettura, autorevolmente giustificata in senso scientifico teorico e di competenza, rispetto alle situazioni cliniche prese in cura. Questo lavoro può incidere efficacemente nella elaborazione e nel superamento di "fissazioni controtransferali" più o meno collusive, che contribuiscono al costituirsi delle situazioni di impasse così frequenti nella cura e nella riabilitazione dei pazienti.
La supervisione non ha comunque il compito di proporre assetti operativi e/o operazioni psicoanalitici "propri" nel trattamento dei pazienti, quanto un vertice mentale di lettura dei "fatti" clinici, relazionali e affettivi e quindi una disposizione emozionale operativa mutuate dall'assetto e dalla disposizione proposte dall'analista nel lavoro assieme al gruppo di supervisione. Un'aspetto questo che invalida potenzialmente le supervisioni occasionali una tantum per gruppi di operatori che non abbiano già usufruito di un'esperienza di supervisione più costante e prolungata nel tempo.

2) Il contesto terapeutico "intermedio" residenziale o semi-residenziale è alternativo al ricovero ospedaliero e al trattamento ambulatoriale, ma è soprattutto un'alternativa alle dinamiche patologiche presenti in termini di "designazione" nel contesto familiare del paziente.
Le figure degli operatori, alcuni di essi in particolare e la stessa équipe terapeutica, rappresentano un contesto affettivo e di riferimento identificatorio alternativo alla famiglia capace di avviare per il paziente una problematica di "svincolo" bloccata all'interno della dinamica familiare.
La supervisione può contribuire allo svelamento, la messa a fuoco e la migliore comprensione delle dinamiche profonde con cui il paziente vive il rapporto con gli operatori di riferimento e, viceversa, dei fenomeni controtransferali che si attivano negli operatori. Così come può evidenziare il transfert nei riguardi dell'istituzione.
La comprensione e l'esplicitazione di questi vertici rendono gli operatori molto più consapevoli del legame paziente-istituzione e paziente-operatori ciò che rende a sua volta più adeguata la loro risposta terapeutica.

3) Nella Comunità Reverie, dove opero come consulente-supervisore, sono attivi regolarmente incontri di vario tipo e frequenza con le famiglie dei pazienti. Ritengo che una certa "presa in carico" della famiglia sia necessaria per ridurre i rischi di fallimento e gli acting's per i pazienti assunti all'interno dei programmi della struttura intermedia.
In alcuni casi (Ravenna) erano attivi dei piccoli gruppi omogenei di familiari dei pazienti in carico alla struttura. Ho supervisionato il lavoro di alcuni di questi gruppi che ho trovato molto interessanti ma anche molto difficili da condurre.

4) La storia familiare, la "designazione" e le dinamiche interne alla famiglia, sono molto presenti nella supervisione del caso così com'è spesso evidenziabile la ricaduta di tutto ciò nella relazione del paziente con la struttura e con gli operatori. In moti casi è possibile approfondire l'analisi degli aspetti controtransferali degli operatori nei confronti del paziente e della relazione con la famiglia.
L'esplicitazione e l'elaborazione di questa complessa rete di vissuti, di identificazioni e di proiezioni rende più chiara la linea terapeutica con cui operare e gli aggiustamenti affettivi necessari nei confronti del paziente. Spesso la supervisione alleggerisce gli operatori di sentimenti di colpa e di inadeguatezza profondamene e segretamente vissuti nei confronti dell'andamento della terapia dei pazienti in carico.


Luigi Boccanegra (Psicoanalista SPI)

Per fare in modo che anche la risposta scritta non entri in contraddizione con un elemento che ritengo prioritario nella comunicazione all'interno delle Strutture Intermedie, ho preferito non suddividerla troppo, per cui ho scelto soltanto alcuni punti.
L'elemento prioritario che dicevo è costituito da quella che il filosofo A.G. Gargani definisce "restituzione di emozioni indivise": ciò comporta l'esigenza, da un lato di non inf1azionare la parola e dall'altro di concentrare gli ingredienti che entrano nella composizione della risposta in modo che essa sia chiara e riconoscibile dal punto di vista cognitivo e viva dal punto di vista emotivo (A. Correale a questo proposito parla di "chiara freschezza").
I quattro punti su cui mi soffermerò maggiormente riguardano allora: il perché viene richiesta la supervisione; il tipo di "genitorialità in atto" che in certi casi vi si osserva; il rapporto con i familiari; l'apporto di risorse che reciprocamente operatori e familiari riescono a scambiare consolidando la propria consapevolezza civile.
Per quanto riguarda la richiesta mi pare di poter fare una distinzione tra le équipe che hanno raggiunto una certa organizzazione ed uno standard di lavoro più integrato in senso specifico, e quelle che per la recente nomina dei conduttori, o per la precarietà e scarsa continuità degli operatori nella struttura intermedia, individuano nella supervisione un intervento che permetta in poco tempo di supplire a queste carenze. Questo tipo di richiesta piuttosto impropria va chiarito in partenza, per evitare che la supervisione debba suscitare delle aspettative che riguardano più i bisogni degli operatori che dei pazienti.
Con questo non voglio dire che si debba essere prevenuti, ma che la supervisione ha i suoi limiti e le sue condizioni per essere utilizzata a buon fine. In ogni caso bisogna che ci siano alcuni requisiti: un assetto organizzativo funzionante, un conduttore stimato dai propri collaboratori, degli operatori che ne abbiano formulato la richiesta in modo anche diversificato, differenziandosi dai conduttori.
Il grado di cooperazione che, nonostante questi elementi, il gruppo è poi in grado effettivamente di realizzare, costituisce invece un'incognita iniziale che solo strada facendo si delinea e definisce.
Le richieste più comuni mi pare siano, in ambito universitario, legate al tentativo di avvicinare di più l'aspetto didattico a quello pratico dei reparti, dato che spesso vi è una scollatura tra corpo docente, specializzandi e personale infermieristico. Nell'ambito delle cliniche private la proposta può nascere dall'esigenza di individuare per esempio nel Centro diurno la struttura "pilota" su cui investire, perché svolga una funzione dinamica trainante nei confronti dei reparti di lunga degenza.
Nelle USL di solito l'aspettativa è meno definita e può riguardare il fatto di avviare una trasformazione istituzionale, di coordinare meglio il lavoro di un gruppo ospedaliero con quello territoriale, di riprendere un percorso elaborativo dopo il vuoto lasciato dalla partenza di alcuni colleghi, di contare su una figura esterna che alleggerisca il compito formativo dei conduttori, di sostenere il personale che assiste i morenti, di essere un antidoto alla routine...
Nelle équipe che hanno raggiunto un determinato assetto, la richiesta è di solito motivata dal fatto che alcuni dei conduttori che abbiano costatato l'esauribilità degli spazi e dei momenti di elaborazione all'interno del gruppo, siano in grado di riconoscere lo stato di saturazione provocato dai casi "difficili" senza per questo rinchiudersi in uno specialismo individuale privo di sbocchi operativi.
Anche per il supervisore non è sempre facile, qualora la richiesta risulti appropriata, riuscire a rispondere con slancio e simpatia evitando con il proprio atteggiamento di confermare una superiorità teorica che "gira su se stessa".
Ma c'è un punto che voglio sottolineare rispondendo a questa domanda e riguarda le particolari condizioni di espressione e di ascolto che devono realizzarsi nel gruppo perché la supervisione sia efficace. La possibilità di esprimersi deve raggiungere un certo grado di arbitrarietà che permetta all'operatore che interviene di poter entrare in un'area comunicativa nella quale gli elementi osservativi che riferisce possano essere al tempo stesso attribuiti obiettivamente al paziente oppure alla sua soggettività "perturbata". E' una soglia delicata che può essere raggiunta soltanto se i legami con i colleghi hanno più volte permesso di verificare che, raggiungendo questa soglia rischiosa, non si va necessariamente incontro a ferite gratuite o ad incomprensioni, ma si attiva una risposta complementare che "ci affianca" su quel punto fornendoci altri elementi di verifica che permettono di consolidare la plausibilità di quanto è stato espresso inizialmente.
C'è un testo della Tustin su questo punto: "L'operatore che utilizza la propria vulnerabilità per comprendere questi bambini eccessivamente vulnerabili, può sentirsi psicologicamente ferito da un gruppo nel quale siano troppo attivi un'eccessiva ambizione e le manovre politiche. In tali gruppi la fragilità umana e la fallibilità sono disprezzate come segni di debolezza da essere sfruttati: mettere un ago nei punti deboli è all'ordine del giorno, per quanto sia mascherato sotto un aspetto civile".
Se le condizioni di espressione e di ricezione sono adeguate, la supervisione facilita il lavoro di raccolta dei frammenti in modo tale che esso raggiunga un certo grado di confluenza significativa ("scena modello" nella concettualizzazione di A. Correale) da risultare al tempo stesso rappresentativa dal punto di vista dei contenuti e convincente dal punto di vista emotivo.
L'effetto rivitalizzante che la confluenza raggiunta insieme determina nel vissuto degli operatori, costituisce un "sovrappiù" di risorse inattese che si ridistribuiscono tra i componenti e che sono ottimali se rendono più lucido il compito di quelli inizialmente più provati.
In questi casi c'è un effetto catartico specifico che ha i caratteri di una rigenerazione dello sguardo. A gioco fermo poi si possono dire tante cose, ma c'è un elemento di tempestività, sia nel fatto che uno degli operatori se la senta di esporsi un po' di più su quel dato caso e che un altro si attivi affiancandolo in modo complementare, che non è facilmente riproducibile a parole, anche se è nostro compito tracciare delle mappe via via più verosimili e meno fumose di quello che accade.
La genitorialità che nelle istituzioni in genere viene vissuta in relazione all'esercizio dell'autorità o come conseguente alla differenza tra le generazioni, mi pare che nelle strutture intermedie, vada incontro ad un'osservazione e ad una funzione più specifiche.
L'esercizio introspettivo che fa parte della funzione psicoterapica e gli incontri di supervisione rendono infatti gli operatori più consapevoli di svolgere una vera e propria "funzione genitoriale", nella misura in cui la riflessione après coup e la ricostruzione del caso clinico in gruppo li esercita ad un'osservazione più accurata dei movimenti affettivi dei pazienti nei loro confronti.
Le strutture cosiddette intermedie, caratterizzate dal fatto di essere da un lato più agili dei reparti (perché sono alleggerite della degenza a tempo pieno) e dall'altro più continuative degli ambulatori (perché offrono uno spazio di convivenza e di quotidianità), si prestano ad uno sviluppo più graduale della simbiosi istituzionale (J. Bleger) che risulta per questo compatibile con le condizioni di auto-osservabilità, per cui gli operatori hanno la possibilità di visualizzare il grado di intensità con cui vengono investiti dai pazienti: se da una funzione genericamente familiare o prevalentemente materna, paterna, fraterna.
Per la tendenza con cui questi investimenti tendono nei servizi a diventare stereotipati (cosa che accade frequentemente se non c'è introspezione ed elaborazione, anche per le particolarità caratterologiche degli operatori), si determina spesso una caricaturalità degli interventi che tende ad infantilizzare i pazienti facendo leva sui loro aspetti dipendenti, impoverendo la comunicazione reciproca e le possibili relazioni umane tra operatori e pazienti.
Nei confronti di questi processi, la supervisione svolge una funzione de-costruttiva permettendo di visualizzare le angosce che sorreggono queste forme spontanee di complicità reciproca ri-mobilizzando le aspettative trasformative rispetto alle tendenze imitative che porterebbero a riprodurre pari pari sull'équipe le funzioni genitoriali familiari senza distinzione, confondendo realtà interna e realtà esterna come un tutt'uno.
La supervisione riesce ad ottenere questo scopo se la ricostruzione del caso clinico permette di individuare la genitorialità più come una funzione dinamica di differenziazione e di inter-connessione che come un effetto di rispecchiamento (per questo parlavo all'inizio di genitorialità "in atto").
Funzione genitoriale in questo senso mi sembra quella di un'infermiera che, avvicinata nel momento di chiusura serale del Centro da un paziente che le chiedeva informazioni sulla cartolina che aveva ricevuto per il servizio militare, non rinviava la cosa all'indomani ma era in grado di suggerirgli di parlare con il collega in servizio in quel momento, non solo perché era un uomo, ma perché aveva contemporaneamente presente il fatto che il paziente proveniva da una famiglia con un padre alcolista e una madre che degradava il padre.
Se la struttura intermedia ha la "chance" di essere più esercitata in questi processi di differenziazione e di inter-connessione (tra aspetti materni e paterni), può costituire un punto di riferimento anche per gli altri servizi nella misura in cui sviluppa una maggior consapevolezza nei confronti dei fenomeni di dipendenza dalla realtà gerarchica (amministrativa o politica).
Per esempio in questi ultimi anni, nel Veneto, il Centro diurno di Verona (Vicolo Terese) ha svolto una funzione importante di aggregazione nei confronti di molti altri servizi locali sorti più recentemente, che hanno trovato nell'esperienza dei colleghi veronesi una traccia genitoriale preformata con cui confrontarsi (vedi gli incontri di Costagrande riportati in "Spartir le pene" di F. Nosè e L. Speri, ed. Mazziana).

Per quanto riguarda le iniziative nei confronti dei familiari dei pazienti, mi pare di poter dire che esse costituiscono un'acquisizione recente delle strutture intermedie, e che questo intervento sia più valorizzato dalle équipe che hanno maggiore esperienza. Di solito è la verifica ripetuta del limite che hanno in certi casi tutti i nostri interventi a convincerci che un continuativo lavoro con i familiari può avere alla lunga delle ripercussioni anche sorprendenti sulla salute del paziente.
Anna Pandolfi sostiene che fin dall'inizio della presa in carico si dovrebbe poter valutare il margine di modifica di cui un paziente dispone per un eventuale cambiamento, rispetto al legame che ha con un genitore dal quale non si differenzia.
Pare che di questa saggia considerazione ciascuno riesca a tener conto soltanto dopo aver provato tutte le altre strade.
Silvia Soccorsi, con cui ho avuto occasione di lavorare nelle supervisioni al Centro di San Godenzo (Roma), sosteneva in proposito che nelle istituzioni, e non solo, veniva sprecato molto tempo a causa di questa vera e propria "diagnosi iniziale mancata".
Di solito è consigliabile che un'apposita riunione quindicinale per i familiari affianchi fin dall'inizio il lavoro di un Centro diurno, non solo per avere dei riscontri comparativi durante la degenza, ma per acquisire una miglior conoscenza delle abitudini e dei costumi della famiglia. E' consigliabile infatti che, con la propria cultura di tipo tecnico, il servizio non eserciti un'azione colonizzatrice nei confronti della cultura originaria del paziente, ma riesca a suggerire gradualmente quelle modifiche che valorizzano a seconda dei casi, ora la differenziazione ora un maggior affiatamento tra i componenti della famiglia.
Di solito i familiari sia dentro che fuori del servizio si aiutano molto tra loro, e il contatto con gli operatori può continuare per anni anche dopo, indipendentemente dalle ragioni iniziali per cui si era reso necessario all'inizio.

Quella che a proposito del quarto punto, ho chiamato la consapevolezza civile non è un fatto acquisito ma una finalità da raggiungere alla quale si cerca di avvicinarsi per approssimazioni successive, che di volta in volta vanno rettificate strada facendo. Essa costituisce la risultante finale verso cui convergono i momenti presi in considerazione nei punti precedenti. Se non vi fosse questa finalità ad orientare il lavoro di un Centro diurno nel suo significato complessivo, ciascuno degli altri momenti potrebbe diventare prevalente e procedere per conto proprio. Per esempio l'individuazione delle "scene modello" potrebbe far evolvere l'équipe verso un'accentuazione del momento della ricerca, cioè verso un'identità prevalentemente esplorativa ed estetica, perdendo di vista il momento restitutivo e terapeutico.
La funzione genitoriale, presa isolatamente, potrebbe accentuare lo sviluppo di relazioni umane e terapeutiche anche molto profonde che risulterebbero però piuttosto bizzarre rispetto alla cultura di provenienza del paziente, allontanandolo notevolmente dai suoi familiari.
Le riunioni con le famiglie a loro volta potrebbero evolvere verso la formazione di associazioni spontanee che, se da un lato svolgono una funzione di sensibilizzazione nei confronti del quartiere o della città, dall'altro orientano ad assumere iniziative sempre meno terapeutiche e di intrattenimento generico (soggiorni, viaggi, mercatini, iniziative più o meno folkloristiche, etc.) che finiscono per diluire la specificità dell'intervento in generiche iniziative assistenziali.
Riuscire a tenere simultaneamente presenti le diverse esigenze dei pazienti, degli operatori e dei familiari costituisce un momento di sintesi per il quale la competenza tecnica deve essere affiancata dalla consapevolezza civile. La tecnica deve essere accompagnata da un criterio di equità in base al quale la distribuzione delle risorse affettive ed umane disponibili avvenga secondo criteri individuabili che possano essere discussi e criticati. Tra le varie ipotesi ho trovato che il criterio proposto dal teorico della giustizia J. Rawls (così come viene commentato da P. Ricoeur) può essere praticabile, proprio perché si limita a fornire delle indicazioni di minima. Secondo Rawls si deve procedere aiutando "chi si impegna di più, cercando nel farlo un modo che danneggi il meno possibile chi parte più svantaggiato".
Naturalmente si tratta di un criterio distributivo di minima che va poi concretizzato attraverso quella che Ricoeur definisce la "saggezza pratica" di cui il gruppo è capace e che dipende dalla concertazione dei diversi punti di vista che variano in base al rapporto tra le generazioni all'interno dell'équipe. Il fatto che le strutture intermedie siano ora diventate di moda tende a caratterizzarle in modo sempre più mono-generazionale per cui, non solo vengono a mancare degli operatori che abbiano visto i pazienti anche in altri contesti di cura, ma lo scambio tra punti di vista diversi a seconda dell'età e dell'esperienza diminuisce notevolmente. La supervisione stessa sarebbe più utile se si limitasse ad essere un elemento discontinuo di richiamo di quella saggezza pluri-generazionale che fosse già un patrimonio psicologico del gruppo.


Simona Taccani

1) La richiesta di un intervento di supervisione può essere avanzata per due situazioni diverse che segnano anche un processo sostanzialmente differente.
Una prima è una richiesta di supervisione che potremmo chiamare clinica, in cui gli operatori della struttura intermedia sentono il bisogno di ricercare o affinare un metodo di lavoro sui singoli pazienti o sul gruppo nel suo insieme.
Si tratta in questo caso di un lavoro che ha il suo fulcro nelle problematiche del singolo o del gruppo, nel campo intersoggettivo che attorno a questi viene a crearsi.
Una seconda situazione è quella che si verifica quando la richiesta di supervisione è mossa da una "crisi" istituzionale in seno all'équipe curante.
In questo caso, centrale è il lavoro attorno al processo di crisi, a come si configura, alle dinamiche conflittuali che si sono venute a creare e, beninteso, a come, in che modo e di quale portata è il riflesso sul funzionamento della struttura ed anche dei singoli pazienti e del gruppo nel suo insieme.
Benché sia evidente che nella concretezza del lavoro le due situazioni non si mantengano poi così distinte, anzi sfumino una nell'altra e si possa creare una interdipendenza, è il punto di partenza, cioè la domanda che è sostanzialmente molto diversa e sono convinta che è fondamentale che il supervisore e l'équipe l'abbiano ben presente.
Associativamente mi vien da pensare alla differenza che passa tra il fare, nel progetto di un viaggio, ricorso a una "guida" che offra la sua professionalità e la sua esperienza, la sua conoscenza del terreno e delle sue insidie, e la richiesta di un intervento di soccorso perché immobilizzati lungo il percorso, e magari anche in pericolo.
Le tematiche costanti. Una prima, fondamentale, mi sembra essere la necessità che ogni operatore, secondo le proprie possibilità e risorse personali e professionali, di ruolo istituzionale che ricopre, sia in grado di essere e di mantenersi in contatto con i propri movimenti psichici.
Mi pare essere un requisito fondamentale per un operare sufficientemente adeguato in comunità, quale che sia il contesto socio-culturale, e mi sembra anche che la perdita di questo contatto sia uno dei primi segnali di un malfunzionamento che si fa strada.
Una seconda problematica comune mi sembra essere quella inerente alla costante ricerca del singolo, del gruppo e della struttura nel suo insieme, dell'equilibrio intra e inter-soggettivo tra presenza, vicinanza, sollecitudine e non-presenza, relativa distanza.
Sono infatti convinta che uno dei problemi che può portare a un grave disfunzionamento istituzionale - sino a configurarsi come "maltrattamento istituzionale" - può spesso avere la sua ragione in una utilizzazione persino ideologica del legame, della presenza, della cura.
Un eccesso di legame, di presenza, di cura costituisce da un lato una difesa da angosce "spaziali" di differenziazione, di autonomizzazione, dall'altro un importante registro di problematica assia frequente in seno alle strutture intermedie. E' anche evidente il rimando a problematiche analoghe nel contesto dell'ambito familiare. E' un discorso lungo e complesso che meriterebbe ampio dibattito e scambio.

2) Le problematiche sono inerenti al lutto, anzi alle sequenze di lutti che ogni struttura deve necessariamente vivere per potersi mantenere vitale e creativa, quindi capace di cambiamento.
Il lutto - che l'operatore e l'équipe deve affrontare - è quello relativo alla perdita della figura di genitore ideale tanto nella realtà interna che esterna del singolo paziente o del gruppo dei pazienti. E' infatti indubbio che le strutture intermedie per una parte svolgano una funzione genitoriale a tutti i livelli ed in ogni contesto interno, esterno, reale, fantasmatico, transferale. E questo costituisce un grosso pericolo: come tutti sanno, ben presto le dinamiche intra ed interfamiliari ovviamente patologiche vengano a ricrearsi in misura esponenziale, complicate ancor più dalle relazioni con le famiglie reali.
Nella mia esperienza questa è forse la problematica che come supervisore mi trovo più spesso ad affrontare nel corso del lavoro con le équipes.
E con essa la problematica dell'autorità, del potere nelle loro diverse angolature, soprattutto del potere non manifesto, criptico.
Dell'autorità fondante della norma e delle regole, e del potere non riconosciuto, del potere dalle connotazioni perverse, nel senso di perversività narcisistica.
Anche qui è immediato il riferimento alla famiglia, alla patologia familiare. Questo è anche un aspetto delle problematiche istituzionali che a mio avviso solo in sede di supervisione possono essere affrontate e spesso con difficoltà e sofferenza da parte degli operatori dell'équipe di cura.

3) Direi che tutte le strutture in cui opero come consulente supervisore esterno da più o meno tempo comprendono nel progetto di intervento anche i familiari dei pazienti.
Questo a mio avviso costituisce già un passo importante di per sé, nel senso di un'apertura più ampia all'intersoggettivo, all'attuale, alla realtà esterna del o dei pazienti. Credo tutti gli operatori concordino con l'impegno emotivo che questo passo necessita.
E' questo però anche un momento che favorisce la differenziazione dei vari membri della struttura che nello scambio intersoggettivo vivono, ri-vivono, attivano, ri-attivano problematiche complesse inerenti la loro famiglia interna, così come quelle dei pazienti con tutto ciò che poi irrompe nella realtà dell'incontro, della comunicazione, della gestione del quotidiano.
Il ruolo del supervisore può essere importante nell'impedire la cristallizzazione di vissuti di esclusione o di squalifica di alcune famiglie indubbiamente non competenti, non accoglienti ed anche molto disturbate.
Importanti anche la mobilizzazione se non la smobilizzazione di sentimenti di ostilità e di colpa direttamente connessi come abbiamo più sopra menzionato ai fantasmi di onnipotenza e di immortalità che sono insiti - almeno in parte - in ogni istituzione di cura.
Il fenomeno dell'illusione gruppale descritto nei gruppi da Didier Anzieu si ritrova sempre a un certo momento nel ciclo vitale di un'istituzione; il supervisore, per la sua posizione di esperto esterno rispetto ai movimenti collusivi o discriminativi del gruppo curante, ha un ruolo centrale come "differenziatore" nel senso di mobilitatore di identità e di ruoli differenziati non solo nel quotidiano istituzionale ma anche nell'attività psichica inconscia (fantasmatica) dell'insieme dell'istituzione.

4) Riallacciandomi a quanto accennato più sopra vorrei ancora sottolineare la complessità delle problematiche connesse che richiedono anche nel lavoro di supervisione ampi spazi di interrogazione e riflessione comune.
Mi soffermo su un aspetto che mi pare saliente anche per la sua relativa frequenza: la collusione con il diniego del paziente delle proprie origini. Ciò che era presente all'interno del nucleo familiare si ripropone ora in seno all'istituzione che si assume il compito di ri-creare il paziente, in una nuova ri-generazione istituzionale senza problemi, senza conflitti, soprattutto senza i problemi e i conflitti della sua famiglia di origine.
A questo atteggiamento ne conseguono altri, quali l'esclusione della famiglia, da ogni progetto di intervento.
Mi è stato recentemente richiesto un parere dai genitori di una giovane che frequenta, da quasi cinque anni, una comunità per pazienti con disturbi di personalità. Questi genitori peraltro indubbiamente portatori di problemi, di dinamiche complesse e disfunzionali lamentavano di non essere messi a giorno del programma terapeutico, dei tempi previsti, di sentirsi esclusi ed ignorati: "il tempo tra una visita e l'altra di M. è così lungo e il tempo della visita così breve che facciamo fatica a riconoscerci, ancor più a comunicare e quindi a stare insieme. Forse va bene così, forse questo è l'obiettivo che gli operatori si pongono e perseguono, ma almeno vorremmo esserne a conoscenza".
Questo vissuto era nel tempo diventato, per i genitori di M., così intenso da indurli a chiedermi un parere che sostanzialmente suonava così: "Noi non tolleriamo più tutto questo, pensiamo di interrompere il progetto terapeutico della comunità. Lei che ne pensa?".
Al di là del caso specifico io penso che situazioni di questo tipo non siano poi così rare e possano in alcuni casi essere un importante co-fattore (più o meno evidente ed esplicito) di crisi istituzionale.
Una supervisione può essere utile nell'aiutare gli operatori della comunità a trovare e a costruire il "loro" setting per l'approccio alle famiglie, approccio come spazio di ascolto, di scambio, di comprensione, magari anche del modo di funzionamento, ma che mai si propone esplicitamente in alcun modo obiettivi terapeutici.

Concludendo mi pare di poter affermare che il nocciolo del lavoro di supervisione agli operatori di comunità consiste nel proporre loro una linea di ricerca personale e gruppale di senso e di simbolizzazione degli interventi e delle azioni di cura.
Ricerca questa che si oppone alla pericolosità dell'eccesso di automatismo del quotidiano, fattore come tutti sappiamo di potente destrutturazione e attivatore di entropia.



Dibattito a cura di Gabriela Tavazza e Daniela De Berardinis.
Rispondono: Barbara Pinciara, Enza Quattrocchi, Maria Teresa Stivanello


1) Quale ruolo può svolgere la famiglia nella costruzione del progetto terapeutico del paziente inserito nella struttura?

2) Quale ruolo assume la struttura nel modulare i processi di separazione del paziente dalla famiglia?

3) Quali sono gli interventi che prevedono il coinvolgimento dei familiari?

4) Quali ambiti sono più facilmente oggetto di conflitto tra la struttura e la famiglia?

5) La struttura dovrebbe avere un ruolo vicariante rispetto alla famiglia, e comunque è questo un vissuto riscontrabile nei pazienti?


Barbara Pinciara [Responsabile Unità Operativa di Psichiatria di Merate (LC)]

Centro residenziale di terapie (CRT)

Il mandato istituzionale, previsto dal Progetto Obbiettivo per la Tutela della Salute Mentale anni 1995/1997, stilato dalla Regione Lombardia sulla falsa riga di quello nazionale, prevede in questa struttura, ideata sul modello della Comunità Terapeutica, il ricovero di pazienti in fase subacuta per un periodo di sei mesi/ un anno, ma anche di più se necessario, a fini riabilitativi e di risocializzazione.
Il CRT una struttura residenziale, aperta 24 ore su 24 per sette giorni alla settimana per tutto l'arco dell'anno. E' operativo in regime di residenzialità solo diurna dal Gennaio '99 e di residenzialità completa dal 1 Marzo '99.
Attualmente ospita 7 pazienti a residenzialità completa e 2 a residenzialità diurna, anche se i posti disponibili sono 12, ma si è preferito procedere con inserimenti successivi e distanziati nel tempo.
L'équipe composta da un medico psichiatra, da uno psicologo, da un infermiere coordinatore, da 10 infermieri professionali, da 2 educatori professionali e da 3 ausiliari socio-sanitari; è inoltre, previsto l'ausilio di volontari e di un obiettore di coscienza.
I pazienti inseriti sono affetti da patologie di tipo psicotico e portatori di disturbi di personalità.
Attualmente l'età media degli ospiti è piuttosto bassa, ma non vi è preclusione a ricoverare pazienti anche in età più matura, purché il progetto di inserimento sia a termine e non definitivo, per la quale eventualità è previsto un presidio di Comunità Protetta.


Centro Diurno (CD)

Il CD è la sede dove si attuano per 8 ore al giorno per 5 giorni alla settimana in regime semiresidenziale programmi terapeutico riabilitativi ed attività di risocializzazione, intese al recupero e allo sviluppo degli aspetti deficitari e delle attività sociali di pazienti con gravi disturbi psicopatologici.
Il CD aperto dal 1991, attualmente contiguo al Centro Psico Sociale, ospita circa 25 pazienti, con modalità differenti di frequenza a seconda del programma terapeutico.
L'équipe è composta da 2 educatori professionali a tempo pieno ed uno a part-time, da un'infermiera professionale a tempo pieno e da 3 a part-time.
Lo psichiatra responsabile presta alcune ore settimanali per le riunioni di supervisione e programmazione del lavoro clinico e tutti gli psichiatri o psicologi che hanno pazienti inseriti, a turno partecipano alle riunioni di discussione dei casi clinici insieme al personale.
Il CD accoglie pazienti affetti da psicosi, disturbi di personalità, disturbi depressivi, in fase subacuta o cronica, ma a volte funziona anche come centro crisi, qualora si ritenga contro producente il ricovero in SPDC.


La UOP (Unità Operativa di Psichiatria) di Merate è dotata di un CD (Centro Diurno) e di un CRT (Centro Residenziale di Terapia) e, ancora da attivare, di una CP (Comunità Protetta), prevista in funzione per l'anno 2000.
La UOP si occupa elettivamente di pazienti affetti da gravi disturbi psicopatologici del gruppo delle psicosi e dei disturbi di personalità.
Se il Centro Diurno è una struttura funzionante solamente in regime di semiresidenzialità giornaliera, nell'arco delle otto ore per cinque giorni alla settimana e con programmi diversificati, centrati sui bisogni del paziente e che prevedono frequenze differenziate, il CRT, polo della riabilitazione e della risocializzazione, ospita invece pazienti con residenzialità effettiva notturna per tutto l'arco della settimana, ma accoglie anche ospiti con inserimenti a frequenza solamente diurna, differenti, però, da coloro che frequentano il CD per l'età giovanile e per la caratteristica di essere meno cronicizzati.
Nel protocollo di accesso al CRT sono previste le rilevazioni dei bisogni degli invianti, intesi come i colleghi che hanno in carico il paziente, del paziente stesso e dei famigliari, questo al fine di valutare quali sono gli obiettivi e le motivazioni che conducono alla richiesta di istituzionalizzazione, che spesso sono totalmente differenti ed in contrasto tra di loro.
Essendo gli utilizzatori della struttura pazienti affetti da patologie gravi, caratterizzati da aspetti di fusionalità simbiotica con i famigliari, si ritiene indispensabile intrattenere rapporti con la famiglia non solo nella fase di valutazione diagnostica iniziale, ma anche durante tutto l'arco della presa in carico, al fine della prosecuzione e del buon esito del trattamento e della futura dimissione definitiva del paziente, sia che questa avvenga di nuovo in seno alla famiglia che in altre strutture o in una dimensione di autonomia.
In teoria, potrebbero essere previsti anche casi estremi, in cui questo lavoro non sia del tutto possibile, ma finora, pur con le difficoltà di percorso, non è mai successo che sia avvenuta un'assoluta mancanza di collaborazione.
Durante il lavoro di raccolta anamnestica del materiale clinico e nel corso dei colloqui di valutazione sono emerse posizioni differenti che spaziano dall'ambivalenza alla delega più totale, spesso, infatti, l'invio è determinato dal fatto che la situazione all'esterno non è più tollerabile per l'alto grado di conflittualità ed emotività espressa raggiunta e pertanto i moti espulsivi da parte della famiglia sono molto intensi e i colleghi stessi si trovano in una fase di stallo, nella misura in cui non sono più in grado di tenere a bada la situazione, per cui il "non sappiamo più cosa fare, pensateci voi" è il vissuto che sottende la richiesta di istituzionalizzazione, che evidentemente in questi casi ha sempre carattere di urgenza e di delega deresponsabilizzante.
Per evitare tutto questo e che pertanto la comunità sia vissuta come una sorta di ultimo stadio, si rende assolutamente necessario e prioritario il lavoro di valutazione con i tre soggetti interessati; questa presa di tempo, oltre a fornire utili notizie, crea una sorta di spazio e di tempo transizionali, funzionali a ripristinare la riflessione e ad interrompere quel cortocircuito di agiti ed improvvisazioni, che, venuta meno una comunicazione collaborativa, hanno ormai condotto a posizioni divergenti e conflittuali.
D'altronde, il mandato istituzionale della comunità non è certamente quello di risolvere problemi di emergenza-urgenza, svolto dal SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura), per cui l'équipe del CRT deve essere ben ferma nel pretendere di far rispettare tempi e metodi del protocollo di accesso, certamente non per rigidità, ma per evitare di cadere in controagiti pericolosi.
I colloqui preparatori hanno proprio lo scopo di esplorare i vissuti e, se possibile, di integrare gli obiettivi, per formulare un progetto comune ed evitare, come si è detto, deleghe totali, il che può essere più facile se vi è già una buona integrazione con le équipe delle altre strutture della UOP.
Nella nostra osservazione si verificano più frequentemente tre situazioni relazionali da parte dei famigliari durante i momenti iniziali di consultazione per l'invio: come si è detto, vissuti di espulsione e delega totale, ambivalenza rispetto all'inserimento con desiderio di dimostrare che il paziente non è gestibile, accompagnamento ed affidamento.
Nel primo caso è opportuno andare a verificare se questi sentimenti datano da molto tempo o sono frutto di situazioni contingenti più recenti, sia al fine di saggiarne l'intensità e la cronicità, sia per poter valutare meglio le dinamiche che le possibilità di un cambiamento per il paziente e per la sua famiglia.
La seconda condizione è ancora più difficile da gestire, perché accompagnata dal vissuto del nec tecum, nec sine te vivere possum e se la vicinanza è molto più conflittuale e non più gestibile, la lontananza fa scattare bisogni di riavvicinamento e di gelosia verso l'équipe, con conseguente tentativo di distruggere il progetto, non solo per il bisogno di dimostrare da parte dei genitori di non essere inadeguati e che, pertanto, chiunque, al loro posto, non sarebbe in grado di gestire un figlio così malato e difficile, ma anche per la vera e propria sofferenza e lacerazione, che si vengono a creare per entrambi i poli della relazione in seguito alla minaccia di allentamento della stessa.
Spesso, in questi casi, erroneamente, si è portati a parteggiare per il paziente, vivendolo come vittima intrappolata nel meccanismo famigliare, senza tenere conto anche delle sue valenze di ingaggio con la famiglia e dei suoi bisogni contrapposti di autonomia e dipendenza dalla stessa.
La terza condizione si verifica quando i genitori, a volte molto anziani, percepiscono, frequentemente in seguito a malattia, l'approssimarsi della fine della loro vita, per cui, non sentendosi più in grado di occuparsi del figlio malato, lo affidano, come per una sorta di esecuzione testamentaria, all'équipe, perché dei nuovi oggetti sostitutivi si prendano cura di lui, perpetrando così la simbiosi.
Evidentemente, a seconda della situazione, si rendono necessari comportamenti differenziati per poter creare l'alleanza di lavoro e formulare un progetto che pur tenendo conto di bisogni differenti, abbia una sorta di comune denominatore, che permetta a tutti di accettarlo, condividerlo e quindi di portarlo avanti.
Nella nostra esperienza si è riscontrato che, se non si procede ad un approfondimento della diagnosi psicodinamica di valutazione dell'intensità dei nuclei simbiotici, del rilevamento degli aspetti di fusionalità, delle valenze emancipogene, dei conflitti, oltre che degli elementi deficitari, non è possibile avere indicatori sufficienti per decidere se è opportuno procedere per tentare di rompere, ridurre, rendendola da totale a focale, o rinforzare la simbiosi con gli oggetti originari, se affiancarsi e proteggerla nella gestione quotidiana dei rapporti famigliari o se, come si è detto, sia necessario sostituirsi ad essi quando non più disponibili.
Una volta individuate queste tappe, che si svilupperanno in seguito anche durante la permanenza in comunità, è possibile procedere all'inserimento del paziente.
Nel primo caso, con il favore dell'allontanamento, mano a mano che vengono rilevati i motivi della conflittualità, si procede a chiarirli per detendere la tensione, nel tentativo di ridimensionare così i moti espulsivi o, se possibile, cercando di favorire una maggior autonomia del paziente, ma anche di salvaguardare il rapporto con i genitori. Spesso, i genitori tendono ad allontanare anche gli operatori, identificandoli con il figlio in una visione negativa e svalutante.
Nel secondo caso, nella condizione di una simbiosi ambivalente, si mira a cooptare i genitori come coterapeuti, per farli sentire vicini e partecipi del progetto, talvolta compensandoli con il fornire un sostegno relazionale che occupi il vuoto lasciato dall'allontanamento del figlio, per poter così ridurre l'ambivalenza e iniziare a creare l'alleanza terapeutica.
Gli operatori dovrebbero prudentemente astenersi, almeno inizialmente, da commenti o consigli troppo stimolanti verso scelte di autonomia e quindi di separazione, al fine di non entrare nella sfida dei confronti e della conseguente svalutazione, che potrebbe rinfocolare sentimenti di gelosia e non terrebbe conto dei contemporanei bisogni di vicinanza. Ci si può, invece, in questi casi, limitare a considerare lo status quo come una condizione inevitabile, determinata da una serie di eventi ineluttabili, per far percepire ai genitori empatia e considerazione per le loro difficoltà, stando ben attenti a non colpevolizzare o demonizzare la famiglia.
Infine, nell'ultimo caso ci si occuperà di accompagnare i genitori al grande passo, se necessario collaborando nel curarli ed assisterli a loro volta, per favorire un distacco, il meno traumatico possibile, aiutando entrambi i poli della coppia simbiotica ad elaborare, dove possibile, il lutto per la futura separazione e rassicurandoli che la funzione di accudimento, portata avanti dall'équipe, garantirà la sopravvivenza e l'integrità del paziente.
Rispetto alla rosa dei molteplici e possibili interventi da utilizzare, si passa da vere e proprie terapie della famiglia a orientamento sistemico o misto sistemico - psicodinamico con il ricorso a centri al di fuori della UOP, che non è in grado per il momento di fornire un tipo di intervento così strutturato, a incontri di consultazione per un opportuno confronto o supervisione, a prese in carico individuali o di coppia da parte dei colleghi del servizio territoriale, dei restanti membri della famiglia, quando siano particolarmente disturbati, ricorrendo quindi ad interventi al di fuori della comunità o, invece, a incontri sistematici all'interno della stessa, che prevedano prescrizioni o assegnazioni di compiti concordati ai famigliari, verifiche, trattamenti di sostegno, assistenza ed interventi al domicilio, compiuti dagli operatori o attraverso attivazione della rete sociale esterna.
A questo riguardo ci sembra assolutamente opportuno intrattenere rapporti anche con gli psichiatri invianti, che sono comunque sempre i depositare della presa in carico e della cura del paziente; per evitare un'affiliazione totale ed eterna, infatti, è necessario e funzionale mantenere il legame con l'équipe del territorio per favorire una collaborazione che integri gli interventi di riabilitazione e di risocializzazione, mirati a un possibile reinserimento all'interno della famiglia e del contesto sociale con modalità più corrette e partecipi.
Proprio a questo scopo, durante il periodo di permanenza in comunità, consolidata l'alleanza, spesso il paziente viene accompagnato al proprio domicilio, trascorre le festività a casa o vacanze con la famiglia o la famiglia stessa viene invitata per momenti di intrattenimento all'interno della comunità.
L'integrazione deve avvenire perciò a più livelli, dentro e fuori la struttura, che con gli operatori svolge, dunque, il ruolo di intermediario tra il paziente ed il resto della sua famiglia per riprendere e chiarificare la comunicazione distorta, ricucendo i rapporti interrotti, ma anche ridimensionando la conflittualità e i vissuti di inadeguatezza sia dei genitori, che si sentono colpevoli e parte in causa della malattia del figlio, sia del paziente che, vivendosi a sua volta come inadeguato, sente di averli delusi.
Un'altra delle funzioni di supporto è legata al ridurre le attese ideali ed onnipotenti da entrambe le parti, che impediscono un rapporto corretto sul piano di realtà, di modo che i due poli della relazione famigliare possano imparare ad accettarsi e comprendersi.
Nella corretta alleanza di lavoro, la funzione vicariante della comunità dovrebbe essere percepita da entrambi, famigliari e paziente, anche se spesso succede che il paziente con il suo comportamento manipolatorio utilizzi l'alleanza per un attacco ai genitori. Pertanto, nel gioco reciproco della seduzione, è difficile, ma assolutamente necessario per l'équipe non schierarsi, mantenendo la giusta equidistanza per garantire una sorta di neutralità.
Si rende indispensabile, inoltre, favorire la corretta percezione da parte del paziente, mediata attraverso l'elaborazione del lutto di non avere genitori infallibili o perfetti, che proprio con la permanenza nella struttura, nella cadenza e nei riti della quotidianità, si possono compensare aspetti deficitari ed appianare conflitti, senza attribuirne la responsabilità ai genitori.
Infatti, nella scena istituzionale (Correale), attraverso esperienze emotive correttive, il paziente può ripercorrere le tappe della memoria emotiva autobiografica, rivivendole serenamente e ridimensionandole in modo più aderente alla realtà.
Gli ambiti più frequentemente oggetto di conflitto sono spesso legati alla libertà del paziente, infatti a volte la delega ad occuparsi del figlio viene concessa a patto che si diventi totalmente responsabili e custodi dello stesso, che non dovrebbe poter uscire da solo, imparare a gestire autonomamente il denaro, recuperare spazi di autonomia. Cristallizzando così i moti emancipativi ed i processi di crescita, l'équipe dovrebbe perpetrare il comportamento dei genitori, anzi accentuarne il controllo.
In fondo, l'impossibilità di ridurre la simbiosi, non accettando che il figlio possa essere un individuo separato ed autonomo con bisogni, interessi ed obiettivi propri, è ciò che ha favorito l'instaurarsi della patologia e del conflitto ed è spesso difficile per i genitori staccarsi da questo schema di comportamento. Gli operatori vengono così spesso vissuti come troppo permissivi, nella misura in cui non avrebbero correttamente compreso la vera natura e la doppiezza del figlio e si sarebbero fatti ingannare dalle apparenze.
Inoltre, il figlio deficitario è spesso considerato un fannullone, che ha tradito le aspettative della famiglia ed è profonda la convinzione che unicamente controllo e punizioni potrebbero in parte recuperarlo.
Dal momento che i genitori si considerano gli unici, veri conoscitori del figlio, coloro, che, come si è detto, l'hanno realmente capito, a differenza degli operatori, investono anche loro, come il figlio, di sentimenti di svalutazione.
E' possibile così sperimentare direttamente la pesante critica, a cui è sottoposto il paziente e che viene estesa, dunque, anche all'équipe.
E', perciò, necessario considerare questi aspetti come una sorta di passaggio obbligato, per evitare di cadere in inutili sfide, in rassegnazione improduttiva o in sentimenti di sterile demotivazione.
Passiamo ora a considerare le relazioni con i famigliari all'interno del Centro Diurno.
All'interno di questa struttura i pazienti inseriti sono di due categorie: un gruppo di cronici, più stabilizzati, con quindi un'età media maggiore ed un secondo di più giovani, con una condizione personale e famigliare meno conflittuale e deteriorata rispetto a quelli inseriti in comunità, per cui non si rende necessario un allontanamento anche residenziale dalla situazione famigliare.
Per i primi vi è, pertanto, la necessità di ridurre gli aspetti regressivi, per gli altri di migliorare le abilità sociali ed evitare la cronicizzazione.
Rispetto alle famiglie, dal momento che l'inserimento prevede solo permanenze limitate nell'arco della giornata e per alcuni solo frequenze mirate a gruppi specifici, i rapporti sono più facili ed oltre ai possibili interventi previsti per la situazione precedente, si è proceduto, anche perché i pazienti inseriti sono molto più numerosi, a gruppi di trattamento cognitivo-comportamentale del genere la "scuola dei genitori", finalizzati a spiegare ai famigliari che cos'è la malattia, come rapportarsi in modo più congruo con il proprio congiunto malato e a correggere visioni distorte e pregiudizi stigmatizzanti.
Spesso, sono emersi vissuti di vergogna per la malattia, che hanno condotto all'isolamento, sentimenti di colpa ed inadeguatezza, difficoltà con il vicinato e con le proprie famiglie di origine e molti temi sono stati affrontati con soddisfazione.
Queste riunioni hanno favorito il fatto che alcuni parenti si raggruppassero in associazioni di famigliari e si ritrovassero con l'aiuto di volontari per collaborare insieme nella gestione dei propri congiunti malati, condividendo vissuti, speranze e frustrazioni attraverso meccanismi positivi di identificazione.
Inizialmente, queste iniziative sembravano essere onerose sia dal punto di vista del tempo che della resa, perché era sempre richiesta la presenza degli operatori, ma avendo poi il gruppo acquistato maggior autonomia, queste riunioni hanno permesso di ovviare proprio alla solitudine così frequentemente denunciata.
La presenza di volontari, persone scelte con buone capacità relazionali, ha favorito anche l'instaurarsi di relazioni più usuali, esulando dal cortocircuito condizionante del rapporto univoco con gli operatori.
Si sono così formati gruppi di intrattenimento per il tempo libero ed il CD ha acquistato una valenza di centro sociale e di ritrovo, allargato anche ai famigliari.


Enza Quattrocchi [Primario U.O. di Psichiatria - Dipartimento salute mentale, ASL 11 Empoli (Regione Toscana)]

Le strutture intermedie residenziali e semiresidenziali del DSM della ASL 11 sono presidi collocati pienamente nella rete dei servizi del DSM e della ASL medesima.
Come è noto, il modello di assistenza psichiatrica in Toscana è improntato secondo il concetto di continuità terapeutica strettamente inteso.
Il modello assistenziale adottato dal nostro DSM, aderisce coerentemente a questi principi; ha una caratterizzazione prevalentemente territoriale anche se include nel suo assetto il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura.
I presidi deputati all'assistenza psichiatrica sono, dunque, distribuiti nelle due zone:
- no 3 CSM (il CSM è il luogo privilegiato per l'accoglimento della domanda e per l'elaborazione della risposta attraverso la formulazione del progetto terapeutico; vi operano tutti gli psichiatri del DSM ed infermieri professionali).
- no 1 SPDC (è collocato presso l'ospedale generale con le caratteristiche di reparto autonomo, ma inserito nell'area medica, dispone di no 12 posti letto. Vi operano tutti gli psichiatri del DSM, infermieri professionali ed operatori tecnico assistenza).
- no 3 Centri diurni (con un totale di 45/50 posti). Sono una risorsa fondamentale per attuare i programmi riabilitativi. Si svolgono svariate attività rivolte a pazienti fortemente compromessi dal punto di vista psicopatologico. Il personale operante è dipendente della ASL ed appartiene al DSM; vi operano infermieri professionali, educatori professionali, psichiatri, psicologi ed esperti esterni in qualità di consulenti, per le varie attività.
- no 2 Comunità terapeutiche (sono strutture ad alta valenza terapeutica dove la vita quotidiana "rinegoziata" e "condivisa" con gli operatori (infermieri professionali, educatori professionali, operatori tecnico assistenza) e con il gruppo di pazienti, è l'essenza della terapia medesima. Disponiamo complessivamente di 8+9 posti destinati a pazienti affetti da disturbo compreso nello spettro schizofrenico, che necessitano di intraprendere un programma terapeutico riabilitativo intensivo al riparo fondamentalmente da due condizioni opposte, ma entrambe paralizzanti; l'alta Emotività espressa e la scarsissima stimolazione.
Gli operatori sono dipendenti dalla ASL ed appartengono al DSM. Psichiatri e psicologi svolgono la propria attività per l'andamento delle due strutture attraverso gruppi terapeutici per i pazienti, gruppi di supervisione e discussione con gli operatori, psicoterapia individuale per i pazienti e per i familiari, gruppi psicoeducazionali e psicoterapeutici per i familiari.
Inoltre vi è il supporto di un supervisore esterno con impostazione psicodinamica.
- no 5 residenze assistite (sono distribuite nel territorio e dispongono al massimo di no 4 posti ciascuna. Il totale dei posti è di 14).
Sono deputate ad ospitare pazienti che hanno raggiunto una certa autonomia.
La gestione della struttura è frutto della collaborazione tra gli operatori del DSM (educatori professionali, infermieri professionali, psichiatri, il Servizio Sociale e gli assistenti domiciliari di una Cooperativa).
Nella nostra organizzazione tendiamo, dunque, a collocare in posizione centrale, la relazione terapeutica che viene supportata e favorita in tutte le sue espressioni attraverso un sistema complesso che garantisce la continuità terapeutica.


In merito al ruolo della famiglia del paziente inserito nelle strutture intermedie, siano esse semiresidenziali, che residenziali, ritengo si possa rispondere ai cinque quesiti in forma sintetica.

Ruolo della famiglia.
Gradatamente negli anni ed in particolare nel ventennio intercorso dalla riforma psichiatrica ad oggi, il ruolo della famiglia nei progetti di cura rivolti a pazienti affetti da disagio psichico grave, ha avuto una considerevole evoluzione.
E' di recente memoria una certa prassi oltremodo semplicistica e colpevolizzante in uso, durante la fase del superamento della istituzione manicomiale, nei Servizi, che mal interpretavano gli aspetti relazionali del disagio psichico.
Molto spesso infatti il coinvolgimento dei familiari transitava attraverso una collusione dei curanti con i già presenti, in forma latente, vissuti di colpa dei familiari.
Oggi appare assodato che il ruolo della famiglia nel progetto terapeutico è fondamentale. Un ruolo che va considerato secondo due prospettive, la prima che vuole la famiglia quale destinataria di attenzione e di cura attraverso modalità che vanno dalla psicoeducazione ed il sostegno (spiegazione, oggettivazione della malattia, decolpevolizzazione), alla terapia sistemico relazionale, ovvero alla psicoterapia psicodinamica ma anche alla psicoanalisi della famiglia; la seconda attraverso il coinvolgimento nel progetto che porta la famiglia ad assumere un ruolo di collaborazione con i curanti.
L'inserimento del paziente nella struttura intermedia, soprattutto nelle Comunità terapeutiche, cioè nelle strutture residenziali, è spesso legato all'esigenza di proteggere il paziente e la famiglia da un clima di alta Emotività Espressa, pertanto nel corso dell'inserimento il rapporto tra paziente e familiari ha la necessità di essere mediato, riformulato, misurato.
Il livello di E.E. nelle famiglie con paziente psicotico, porta a far sì che si sviluppi una sorta di circuito vizioso nel cui ambito il paziente può avviarsi verso la cronicità attraverso il ripetuto rinforzo dell'ambiente rispetto alla squalifica ed attraverso le micro costanti esperienze quotidiane di stigmatizzazione.
Ci troviamo in molti casi a contatto con modalità di rapporto di tipo fusionale o simbiotico tra paziente e familiari, ne consegue che il processo di separazione necessario per arrivare all'inserimento in struttura si configura come molto complesso.
Generalmente questo tipo di pazienti non è riuscito ad evolvere attraverso quei processi di separazione ed individuazione che contribuiscono alla costituzione di un Sé solido ed affermato e pertanto un "gioco relazionale a volte tragicamente e drammaticamente tormentoso" come ci ricorda A. Correale, rende reciprocamente invischiati, pazienti e familiari.
Una vera e propria amalgama (Racamier-Correale).
In altri casi ci troviamo a contatto con famiglie definite a "cintura di gomma" (rubber fence family) per la forte componente omeostatica rispetto ai cambiamenti dove la "morfostasi" prevale sulla "morfogenesi" (Wertheim). Questo tipo di assetto è caratteristico delle famiglie dove si verifica il disturbo psicotico. Se è vero che l'assetto descritto è persistente, è altrettanto vero che spesso accade che, attraverso modalità relazionali nuove che vengono a stabilirsi nell'ambito delle Strutture Intermedie, il paziente, ma anche i familiari, vengono a contatto con modalità alternative di rapportarsi.
Il clima rassicurante, incoraggiante contribuisce a far sì che il paziente migliori il proprio gradiente di autostima; pertanto è indispensabile che anche la famiglia segua con partecipazione i cambiamenti ed è importante che venga sostenuta allo scopo di arginare possibili atteggiamenti recidivi di squalifica.
La scuola inglese propone il modello di riabilitazione sincronico e congiunto (key and lock) rivolto al paziente ed al suo contesto.
Laddove per contesto intendiamo principalmente famiglia, senza escludere, peraltro, il gruppo curante che dovrebbe avere gli strumenti e la capacità autocritica rispetto alle caratteristiche peculiari ed "a rischio" della relazione terapeutica stabilita con il paziente.
Il coinvolgimento dei familiari nel programma terapeutico del paziente inserito nelle strutture intermedie è bene che proceda di pari passo con le azioni rivolte alla cura del paziente.
E' opportuno che il coinvolgimento sia continuo, graduale, finalizzato a quanto espresso nei precedenti punti ed altresì volto a scongiurare il rischio dell'abbandono e della delega totale alla équipe curante da parte della famiglia medesima.
E' molto frequente infatti che i familiari non riescano a stabilire un atteggiamento equilibrato con il proprio congiunto (o stretto in un rapporto esclusivo con difficoltà ad affidare ed affidarsi, ovvero lasciato totalmente ai curanti). Il coinvolgimento del nucleo familiare è necessario per incidere sul tipo di comunicazione patogena tra i componenti del nucleo, ma anche per riattivare la competenza della famiglia in qualità di mediatore per il paziente con il mondo esterno.
E' evidente che l'intervento così orientato può evolvere verso risultati che vedono i familiari convertire l'"energia" spesa in apprensione, disagio, forte E.E., in energia costruttiva al servizio della riabilitazione reale del paziente.
Gli ambiti, oggetto di conflitto fra la struttura ed i familiari, possono essere molti come già precedentemente esposto.
Si ritiene sia particolarmente rischiosa una sorta di collusione tra paziente e familiari nel contrapporre a tendenze trasformative e di maggiore autonomia, atteggiamenti omeostatici laddove i ruoli tendono a mantenersi rigidi ed improntati alla dipendenza.
Molto spesso gli ambiti, oggetto di conflitto tra il gruppo curante ed i familiari sono legati alle diverse aspettative di vita rispetto al paziente; una accesa ed orba conflittualità non può che acuire la sofferenza del paziente e favorirne il ritiro difensivo o sul versante autistico o sul versante delirante.
Le strutture intermedie non possono e non devono assumere un ruolo vicariante rispetto alla famiglia, anche se, la vita comunitaria, il rapporto con gli operatori, la condivisione della quotidianità con questi e con gli altri pazienti riproduce inevitabilmente un modello simile a quello della vita familiare in senso lato.
Inevitabilmente si viene a creare l'incontro tra codici affettivi.
E' possibile che questa quotidianità rinegoziata, possa favorire alcuni cambiamenti relativi alle modalità comunicative. Sono questi i cambiamenti auspicati ed è questo l'obiettivo principale della terapia nell'ambito delle strutture intermedie.
Se l'obiettivo è questo, è pur vero che dobbiamo tener presenti complessi intrecci che possono far sì che si ripropongano tra operatori e pazienti dinamiche simili a quelle familiari.


Maria Teresa Stivanello [Responsabile Comunità Terapeutica di Oriago, Dipartimento di Psichiatria Resp. Dott. A. Marcolin, ULSS 13 Mirano (Ve), Via Monte Catino, 6 Oriago di Mira (Ve)]

La Comunità Terapeutica di cui sono responsabile fa parte dei servizi del Dipartimento di Psichiatria dell'Azienda ULSS 13 Mirano - Dolo del Veneto. La Comunità è stata aperta nel 1986, può ospitare 8 pazienti in residenzialità e generalmente ne segue altri 4/5 in semiresidenzialità. Accogliamo pazienti con patologia psicotica che si ritiene siano suscettibili al trattamento comunitario e che non presentino problemi primitivi di dipendenza o handicap di tipo fisico, non ci sono vincoli specifici riguardo all'età dei pazienti, anche se generalmente abbiamo accolto persone giovani e di media età (dai 18 ai 45 anni).
L'intervento proposto è terapeutico-riabilitativo e può essere definito integrato (farmacologico, psicoterapico e relazionale). I supporti teorici di riferimento sono psicodinamici e relazionali. Si cerca di aiutare i pazienti a riconoscere e recuperare, attraverso la relazione continua con gli operatori e la psicoterapia, gli aspetti sani presenti e a superare o contenere le manifestazioni psicopatologiche. La quotidianità, con i suoi ritmi, è la base degli interventi terapeutici ed il tramite per costruire prima un'alleanza di lavoro e quindi una relazione terapeutica che avvii il cambiamento.
All'interno della comunità operano 8 infermieri professionali, un addetto all'assistenza e un educatore part-time, che garantiscono una doppia presenza diurna e una notturna, uno psicologo per i gruppi di psicoterapia, uno psichiatra che sta iniziando a seguire in maniera strutturata le famiglie e il conduttore responsabile che si fa carico anche della psicoterapia dei pazienti. Il personale laureato lavora in comunità a part-time. Settimanalmente si tiene una riunione d'équipe generale e c'è una supervisione programmata. La comunità è a totale gestione pubblica, gratuita per gli utenti (ad esclusione delle spese personali che sono gestite con gli operatori) e accoglie unicamente pazienti della nostra zona anche per garantire la continuità terapeutica.


Le risposte al questionario proposto sono state discusse in équipe e questa discussione ci ha permesso di riflettere su alcuni cambiamenti avvenuti durante gli anni nel rapporto con le famiglie dei pazienti e sull'importanza che esse hanno nel rendere possibile il progetto comunitario. All'inizio talvolta si pensava di poter aiutare il paziente contro o nonostante la famiglia, adesso siamo più consapevoli che la famiglia deve essere sostenuta e possibilmente diventare una nostra alleata.
Ci sembra necessario rilevare la differenza sostanziale nella relazione con i famigliari legata al grado di parentela esistente con gli ospiti; molte considerazioni sono sicuramente più adeguate se la famiglia è costituita dai genitori, più coinvolti e problematici, piuttosto che da fratelli o altri congiunti.

1) Nella nostra esperienza la famiglia diventa un elemento importante nella costruzione del progetto terapeutico e sarebbe necessario che fosse alleata con l'équipe nel proporre e motivare il paziente alla cura comunitaria; ovviamente questo è il ruolo ideale che però generalmente non è presente. La possibilità che la famiglia accolga e condivida la proposta di un percorso comunitario richiede da parte dell'équipe un lavoro d'accoglimento e conoscenza anche della famiglia, che va sostenuta e motivata essa stessa. E' necessario che la famiglia ci possa conoscere per potersi fidare e collaborare e questo, pur essendo un'esigenza sin dall'avvio del progetto comunitario, si può ottenere solo durante il percorso terapeutico. Talvolta è possibile attuare un progetto terapeutico con un paziente anche se la famiglia è passiva o assente, mentre ci sembra improponibile poter aiutare un paziente se la famiglia si oppone al progetto. Talvolta l'opposizione della famiglia non è esplicita e diretta, ma si manifesta attraverso "agiti" apparentemente banali che riescono ad alterare il rapporto di fiducia tra noi e il paziente, nonché tra noi e i famigliari stessi.
Un altro ruolo importante che riveste la famiglia è quello di aiutarci a conoscere in maniera più approfondita sia le problematiche del paziente sia la sua storia. La ricostruzione anamnestica e l'ascolto dei momenti di sofferenza e disagio vissuti sono momenti che permettono la creazione del legame di fiducia e spazi in cui proporre ipotesi di cambiamento anche alla famiglia senza assumere il ruolo di giudice. La famiglia può essere una risorsa se non viene lasciata sola, se sente che siamo con lei e non dei suoi nemici. Se si riesce a costruire questo legame è possibile che la famiglia riesca a lavorare con noi e a delegarci la cura del famigliare. Durante tutto il percorso comunitario, la famiglia deve condividere il progetto e riconoscere le modificazioni anche minime che avvengono per supportare il paziente nei possibili momenti di crisi e di rifiuto del progetto. Anche con la famiglia è possibile creare un rapporto di fiducia e collaborazione solo attraverso un costante e continuo rapporto sia con gli operatori sia con il paziente. Alcune situazioni cliniche e famigliari ci hanno indotto a volte a ridurre al minimo o evitare la relazione con la famiglia dell'ospite, ma ci siamo resi conto che questo era un vantaggio solo apparente e temporaneo perché poi in ogni modo il paziente deve e vuole mantenere i contatti con il suo nucleo famigliare che spesso è l'unica risorsa reale presente.
Altro elemento utile che la famiglia fornisce indirettamente alla stesura del progetto terapeutico è quello di permetterci di conoscere e riconoscere la cultura e l'ambiente (sia fisico che emotivo) in cui il paziente è cresciuto, nonché di valutare le attese reali investite nel paziente.

2) Pensiamo che l'ingresso di un paziente in una struttura residenziale sia già di per se stesso un elemento che favorisce la separazione dalla famiglia; i presupposti per l'accoglimento (l'accettazione del progetto, il riconoscimento di un bisogno di cura e la delega agli operatori della gestione quotidiana) sono rappresentativi di un riconoscimento reciproco di individualità, almeno formalmente, separate. Ci sembra, perciò, che già la proposta di un percorso comunitario e la preparazione a questo diventino uno spazio dove cominciano ad essere introdotte le basi per avviare il processo di separazione anche psichica. Gli aspetti di gestione quotidiana, anche di tipo educativo e pedagogico, che concorrono a recuperare gli aspetti peculiari dell'essere persona, al di là dell'essere ammalato, sono un altro elemento che, favorendo il recupero dell'autonomia e la ricostruzione del Sé, entrano nel processo di differenziazione-separazione dai genitori. La possibilità che il paziente e la famiglia ritrovino il piacere di scoprirsi come "persone" aiuta nel ricostruire anche un'immagine interna reciproca più differenziata.
Dal punto di vista pratico abbiamo sperimentato l'importanza che alcune regole gestionali assumono nel favorire il distacco e la separazione. All'inizio del programma comunitario si tende ad evitare un rapporto diretto con i famigliari, non vengono programmati permessi a casa e sono regolamentati anche gli accessi dei famigliari in comunità. Gli operatori sono presenti nei momenti di incontro e fungono da moderatori e garantiscono il mantenimento di una giusta distanza. I famigliari sono aiutati a comunicare le loro perplessità, angosce e critiche in altri momenti di incontro sia con gli operatori sia con i terapeuti. Per ogni ospite viene individuato un operatore di riferimento che mantiene in maniera privilegiata il rapporto con la famiglia.
Un ulteriore elemento utile al processo di separazione è fornito dalla condivisione della quotidianità con gli altri ospiti; attraverso questo confronto continuo l'ospite può, contemporaneamente, percepire le sue caratteristiche personali, ma anche riconoscere aspetti comuni di sofferenza e disagio riuscendo progressivamente ad uscire dal suo nucleo autistico, ad elaborare i vissuti narcisistici di onnipotenza e ad utilizzare modi di relazione più adulte e autonome. Inoltre le richieste di autonomia pratica che progressivamente vengono proposte ai pazienti favoriscono il riconoscimento di un'immagine di Sé più gratificante e quindi meno confusa e dipendente dai genitori.

3) Gli interventi che prevedono il coinvolgimento dei famigliari dei pazienti sono in parte strutturati e in parte vengono attuati sulla base dello specifico di ogni paziente. Nell'ultimo anno abbiamo tentato di organizzare dei gruppi con i famigliari, ma per ora non è stato possibile proseguirli per la tipologia attuale dei gruppi famigliari (genitori separati, anziani ecc.) siamo però intenzionati a riproporli anche in previsione di nuovi accoglimenti. Attualmente i famigliari sono coinvolti nella fase di pre-accoglimento con incontri conoscitivi, di valutazione anamnestica e motivazionali; durante il periodo di residenzialità vengono effettuati colloqui periodici di verifica e sostegno tesi principalmente a valutare i cambiamenti in atto e a favorire il recupero di una relazione più adeguata con il paziente anche attraverso la programmazione di permessi a casa del paziente; nella fase di dimissione si valutano insieme i programmi e gli eventuali interventi futuri.
I famigliari inoltre possono settimanalmente venire in Comunità per stare assieme al paziente e agli operatori, verificando essi stessi il clima della struttura, periodicamente inoltre gli operatori organizzano degli accessi a domicilio con il paziente. Consideriamo gli interventi a domicilio particolarmente significativi perché permettono ai famigliari di sentirsi più a loro agio e di accogliere noi e il paziente come ospiti recuperando un'immagine più adulta e autonoma del paziente. Gli interventi a domicilio permettono inoltre agli operatori di sperimentare direttamente il clima famigliare e di valutare le modalità consuete di relazione famigliare.

4) Gli ambiti in cui più frequentemente ci siamo trovati in conflitto con la famiglia sono apparentemente banali e periferici rispetto al compito terapeutico assegnato, ma ci sembra assumano particolare importanza perché veicolano emozioni profonde ed esprimono la forza di legami patologici. I conflitti sorgono spesso su aspetti di gestione quotidiana, aspetti in cui i famigliari si sentono autorizzati ad essere più esperti di noi e attraverso i quali cercano di mantenere il controllo sul paziente evitando la delega, percepita come angosciante e dolorosa. Spesso i famigliari ritengono di essere depositari del sapere sul paziente, sui suoi bisogni e sulle sue necessità per cui rinunciano con difficoltà alla gestione del quotidiano e tendono ad essere intrusivi o limitativi (ad esempio è difficile condividere l'importanza che il paziente possa gestire autonomamente dei soldi, possa scegliere di suo gusto la biancheria e il vestiario, possa uscire da solo dalla Comunità, debba diventare autonomo nella cura delle sue cose). Ci sembra che queste difficoltà veicolino aspetti di gelosia e impotenza e servano a sedare l'ambivalenza e i sensi di colpa per l'allontanamento del congiunto da casa. Per alcuni famigliari, specialmente per le situazioni sub-croniche, è difficile accettare che il paziente possa apprezzare cose belle e vivere piacevolmente dei momenti lucidi esterni. Per questi motivi spesso i conflitti sono legati al contributo economico da dare al paziente per le sue spese.
Un altro ambito che suscita conflittualità è la definizione dei tempi di permanenza in Comunità, raramente c'è la richiesta di dimissioni precoci, più frequentemente, quando la relazione di fiducia si è costituita, si ritiene che, poiché il paziente sta meglio, la Comunità potrebbe diventare la sua casa per cui si tende a procrastinare il momento delle dimissioni.

5) A nostro parere la Comunità deve essere percepita come un ambiente famigliare e devono essere riproposti al suo interno ruoli di tipo genitoriale; è necessario però che gli operatori abbiano sempre presente che "è come se fosse una famiglia" questo per modulare continuamente la relazione con l'ospite e non sostituirsi completamente ai suoi famigliari. Crediamo che questa sia una delle sfide più significative che il trattamento comunitario pone: favorire l'emergere di una relazione affettiva famigliare, strutturata possibilmente in maniera più sana di quella sperimentata a casa, sapendo che questo è un ruolo terapeutico e che il nostro compito è di rendere autonomo anche da noi il paziente. Ovviamente il clima famigliare che s'instaura viene percepito positivamente dal paziente e crea inevitabilmente dei legami affettivi che talvolta durano al di là del progetto comunitario. Ci sembra che nel corso degli anni i pazienti abbiano goduto e utilizzato bene l'aspetto di famiglia della Comunità, riuscendo comunque a mantenere la differenziazione tra famigliari reali e la famiglia terapeutica.
Per concludere vorremmo ricordare che in alcune situazioni dei pazienti, consapevoli che noi non avremmo potuto essere la sua famiglia reale, hanno chiesto di concludere il periodo di residenzialità per affrontare, con gli strumenti acquisiti, il distacco e il rientro a casa prima che fosse troppo doloroso.



Seduta commentata di incontro pazienti-familiari
A cura di Francesco Borgia


Queste domande sono state poste durante un incontro del gruppo multifamiliare composto dagli utenti e dai loro genitori che si svolge presso la comunità terapeutico riabilitativa di via Montesanto 71 che fa parte del Dipartimento di Salute Mentale della ASL RM/E di Roma.
Il gruppo è condotto dal dr. Giorgio Villa, psichiatra, responsabile della comunità, dal dr. Francesco Borgia, psichiatra, dal dr. Alessandro Agate, psicologo, dal sig. Gianfranco De Carlo, infermiere, dalla dr.ssa Simona Di Giovanni , psicologa.


Quale ruolo pensate di poter svolgere nella costruzione del progetto terapeutico del paziente inserito nella struttura?

La madre di A.N. pensa che la Comunità Terapeutica dovrebbe aiutare i genitori a stare più tranquilli, A., infatti, non ha amici, non lavora, e secondo lei per questo si demoralizza. Da quando è entrato in Comunità Terapeutica tutto questo sta cambiando.
La madre di C. D. sostiene che la Comunità Terapeutica dovrebbe aiutarli a prendersi cura di se stessi, lavarsi, curare la propria igiene, tenere in ordine la propria stanza.
Il padre di A.N. si chiede come mai suo figlio e gli altri non curino la propria igiene.
C. B. sostiene che i ragazzi hanno la sudorazione più pesante rispetto alle ragazze.
C. D. afferma che per lei il problema è la sudorazione dei piedi.
Emerge l'idea dei genitori che gli operatori della Comunità Terapeutica corrispondano a figure familiari che si pongono il problema della cura del sé. Questo aspetto, peraltro non esente da competizione ed invidia da parte dei genitori, sembra essere alla lunga condiviso, sia nei rientri a casa temporanei, che nei progetti semiresidenziali. L'antico problema delle cure materne, della regolazione del Sé viene ripresentificato nella psicosi. Il registro primitivo della cura del corpo come cura della mente viene vissuto nella realtà dagli operatori e riaffrontato insieme ai genitori nel gruppo multifamiliare. Anche il problema dei rapporti sociali e del lavoro sembra coinvolgere alla pari operatori e familiari in un reciproco scambio di rapporti e di competenze rispetto all'utente.


Che problemi ha per voi comportato la separazione inevitabilmente implicita nell'ingresso della struttura intermedia?

Il padre di A.N. chiede se il figlio può uscire il venerdì per passare il weekend con loro. Vuole concordare nei minimi dettagli l'orario come per annullare qualunque conflitto rispetto alla separazione del figlio che è stata in altri momenti drammatica.
La madre di A.N. ricorda la pena provata durante il ricovero di A. nell'ospedale di Civitavecchia. Quando è entrato invece in Comunità Terapeutica era tranquilla, perché anche lui si era calmato.
Il padre di A.N. ricorda invece quando il figlio era sparito lasciandoli senza notizie. "Non ci sono parole per esprimere il tormento. Non sapevamo proprio dove fosse. Ho fatto il giro di tutte le caserme per chiedere ai suoi amici se sapessero dove stava. Solo attraverso l'arrivo di una multa abbiamo avuto la conferma che era vivo!".
C.B. ricorda all'inizio del suo inserimento in comunità il suo desiderio di fuga, la sua difficoltà di rispettare le regole. Una volta è uscito senza avvertire nessuno, ha mangiato un panino insieme ad un barbone, poi un amico carabiniere l'ha riportato in Comunità Terapeutica. "D'altra parte a casa mia madre non mi vuole!" afferma.
C.D. racconta: "Anch'io una volta sono uscita perché avevo bisogno di fuggire, poi dopo una lunga passeggiata sono rientrata".
La madre di C.B. ricorda come il primo ricovero in ospedale fu a suo parere particolarmente traumatico sia per lei che per il figlio, in quanto fu portato avanti a tradimento dal padre senza il suo parere.
L'ingresso in Comunità Terapeutica, comunque difficile per il figlio è stato vissuto serenamente da lei in quanto condiviso.
La separazione sembra comunque un richiamo a momenti drammatici. Viene ricordata come evento naturale e tranquillo quando condivisa. Quando è invece paragonabile a un tradimento o a un abbandono acquista note così drammatiche che come dice un familiare "non si possono esprimere a parole". E' interessante come emergano, nel racconto degli utenti, il desideri di fuga e di evasione che peraltro sembrano popolati di figure con cui si può condividere (il barbone e il carabiniere) la fuga stessa e il desiderio di ritornare.


Pensate che la struttura debba svolgere, per un certo periodo, una funzione analoga alla famiglia?

C.D. afferma che all'inizio l'esperienza della Comunità Terapeutica è stata dura: "Mi rubavano i miei oggetti personali, io non lo facevo che non volevo che neanche gli altri lo facessero. Facevo molta fatica a restare in comunità. Con i genitori d'altra parte prima o poi ci si rincontra e fa anche piacere". La madre ricorda di una volta in cui la figlia le aveva annunciato a sorpresa il ritorno a casa e poi era rientrata minacciandola. Era irriconoscibile sembrava un energumeno. Gli operatori della comunità le hanno permesso di rivedere C. come era in passato.
La madre di M. B. ricorda gli scambi aggressivi che c'erano tra il figlio e il padre e dopo la sua morte, il conflitto con lei. Tutto questo si è ridimensionato dopo l'ingresso in Comunità Terapeutica che è stata la sua nuova famiglia.
La madre di M. P. afferma che quando M. stava in Comunità Terapeutica lei, era rimasta sola in casa, aveva l'impressione di sentire la voce del figlio che la chiamava.
La madre di C. D. sostiene: "Forse la comunità serve ad entrambe perché dobbiamo imparare a convivere, d'altra parte non possiamo contare sugli altri parenti, non s'interessano né di me, né di mia figlia".
La madre di C. B. dice: "Invece le sorelle di C. sono molto materne con lui, si interessano di C. e hanno un buon rapporto".
La Comunità Terapeutica sembra da una parte aver una funzione di regolare i rapporti tra i familiari, dall'altra sembra configurarsi a tratti come i parenti avidi interessati solo ai soldi ("suscitare odio, seminare disperazione, trasmettere ansia persecutoria, creare confusione", D. Meltzer, M. Harris, Il ruolo educativo della famiglia, 1986). Un'ulteriore possibilità è invece quella di attribuire agli operatori funzioni familiari fraterne o genitoriali di stimolo e di cura ("generare amore, infondere speranza, contenere la sofferenza depressiva e pensare", D. Meltzer, M. Harris, Il ruolo educativo della famiglia, 1986).


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