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Da "IL CORPO E IL TESTO" :
"Kafka e la malattia come significante"
di Laura Montani
Sappiamo che omologare la complessità di un'opera alla semplicità
di un sintomo nevrotico, riduce - quando non azzera - le possibilità
ermeneutiche proprie del discorso psicoanalitico e insieme distrugge la
polisemia del messaggio letterario. Per quanto riguarda Kafka, inoltre,
questa strada è stata talmente battuta - non importa dire qui con
quali risultati - da scoraggiare, per la sua ovvietà, chiunque volesse
ancora intraprenderla.
È piuttosto un altro percorso che ci interessa qui prospettare
- come psicoanalisti e/o medici - volto a leggere, semplicemente, quando
Kafka dice della malattia e a indicarne alcuni punti di sorprendente coincidenza
con il discorso avviato da Freud. Discorso che nel suo svolgimento complessivo
trova con la formulazione del concetto di narcisismo (cfr. FREUD, 1914)
il suo punto di massima condensazione teorica, tanto da ribaltare definitivamente
ed irrevocabilmente la nozione stessa di malattia (nel suo doppio utilizzo
somatico e psichico) che già gli studi sull'isteria e sul sogno
avevano contribuito largamente a modificare.
Tra Freud e Kafka - a quanto si sa - non ci sono stati incontri né
scambi di sorta. Freud non conosceva lo scrittore praghese e Kafka riteneva
la psicoanalisi, almeno per la sua parte terapeutica, un tremendo errore
(cfr. KAFKA, 1952) ; eppure in entrambe le scritture, prende corpo un senso
della malattia che la consegna al terreno contraddittorio del desiderio
e a quello ambiguo del godimento e ne svela, anche nella rimozione e nello
spostamento, la segreta sostanza di "materia erotica".
"Che hai fatto del dono del sesso ? E' fallito, si dirà infine,
e sarà tutto. Ma avrebbe potuto riuscire facilmente. Certo un'inezia,
e anche questa inavvertita ha recato la decisione. Che ci trovi di strano?
così è stato nelle più grandi battaglie della storia".
(KAFKA, 1951, trad. it. p. 606).
Quanto qui scrive Kafka (siamo nel 1952), sull'inezia inavvertita
che lavorando segretamente decide della vita sessuale come della storia,
presenta analogie non superficiali con la formulazione freudiana del concetto
di nevrosi che trova in un saggio del 1925 (cfr. FREUD, 1925) la sua esposizione
più chiara.
Senza stabilire paralleli troppo rigidi e forse fuorvianti e analogie
forzose e costrittive tra i due autori, i testi, le date, notiamo qui soltanto
che Freud andò occupandosi del problema del narcisismo passo passo
e senza un intimo bisogno di conclusione, - come egli stesso si esprime
(cfr. FREUD, 1917) facendo sua un'osservazione di Lou Andreas-Salome -
e lavorò a lungo tutto il corso della sua vita ad arricchire un
concetto che già nel 1914 per la sua straordinaria polisemia aveva
portato lo sconcerto negli ambienti più conservatori della psicoanalisi.
Kafka, dal canto suo, svolge in sorprendente parallelo - servendosi
di un procedimento "indiziario" non dissimile dal metodo analitico - un
discorso sulla malattia non meno denso, appassionante e rivoluzionario
sia per chi lo legga sotto l'angolatura della teoria freudiana del narcisismo,
sia per chi di esso si serva esclusivamente per rintracciare all'interno
del testo una possibile "poetica".
Una volta di più psicoanalisi e letteratura, che gli "specialismi"
vogliono rigorosamente separate, attestano di un'oscura e affascinante
convergenza di piani di ricerca che può essere senz'altro messa
in dubbio, assunta con cautela, problematizzata, ma non smentita.
Malattia = scrittura, malattia = follia, malattia = ebraismo, sono soltanto
alcune delle identità che i testi di Kafka suggeriscono e che giustificano
la possibilità di ipotizzare, operante al loro interno, una "poetica
della malattia" : così, nel vasto tracciato reticolare dell'opera,
si incrociano, e possono essere assunti qui come possibile percorso di
lettura e stimolo di riflessione tra i tanti, malattia e femminile come
figure intorno a cui si dispone il testo. Accostamento non nuovo, che la
cultura occidentale porta iscritto dentro di sé, come mostra il
pensiero mitico, di cui la scrittura di Kafka mantiene alcune credenze
e andamenti.
Nella cosmogonia di Esiodo si legge che il genere umano, essendo costituito
esclusivamente da uomini - una stirpe di maschi - , non conosceva né
il male né la fatica. Ma quando Zeus approntò per gli uomini
"l'insidia minacciosa contro la quale non v'è difesa" sotto le sembianze
di Pandora, la "prima donna, da allora le malattie colpiscono gli uomini
di giorno, vengono inattese di notte, fatali, mute, poiché Zeus,
astuto, negò loro la voce" (Esiodo, cit. in KERÈNYI, 1963).
Il linguaggio del mito dispone di un altro preciso referente, l'Androgino,
per ribadire quello che la leggenda di Pandora espone già chiaramente
: il bene sta nel "corpo e tutto-uno", dove il sesso gode un piacere indiviso
che non si scambia né ha bisogno dell'altro; il male e la sua origine
stanno nella separazione e nella differenza (PLATONE, Simposio). E in questa
differenza sta la donna.
L'equazione femminile = malattia, antica, si diceva, come la cultura
che l'ha prodotta, ha luogo nella differenza (sessuale) ma non è
un prodotto di tale differenza. Essa agglutina il fantasma di castrazione
e la mancanza del pene da parte della donna in un referente simbolico unico
per entrambi i sessi, la malattia, in un contesto, quello della poiesi
mitica e del discorso poetico, che fa affiorare quanto la scienza copre.
Equazione dunque non meno densa di quella che delega, come nella psicoanalisi,
alla lingua la definizione del femminile come la particella "non" (la donna
"non" ha il pene), ma di segno opposto. Là dove infatti la scienza
rimuove o soltanto adombra con paura (cfr. FREUD, 1919), il discorso del
mito e il discorso poetico semplicemente dicono.
Così, della malattia, Kafka scrive a Milena Jesenská:
"Tu dici, Milena, che non comprendi. Cerca di comprenderlo chiamandolo
malattia. È una delle tante manifestazioni patologiche che la psicoanalisi
crede di avere scoperto. Io non la chiamo malattia e credo che la parte
terapeutica della psicoanalisi sia un tremendo errore. Tutte queste cosiddette
malattie, per tristi che siano, sono manifestazioni di fede, sforzo dell'individuo
per rimanere ancorato a un qualche territorio materno".(KAFKA, 1952,
trad. it. p. 216).
Non si può a questo punto omettere di rilevare la consonanza
che l'equazione "femminile = malattia" posta da Kafka presenta con quella
"corpo materno = perturbante" posta da Freud (1919). Entrambe le equazioni
ascrivono al "materno" un analogo valore di corpo semiotico (cfr. KRISTEVA,
1974), limite del senso contro cui trae forma il segno. Questo corpo di
desiderio originario è, nel discorso freudiano, luogo di deposito
di un narcisismo altrettanto alborale che imprime alla storia soggettiva,
attraverso l'identificazione prima e la regressione poi, il ritmo paradossale
della corsa all'indietro verso un Eden perduto e improbabile, dove la differenza
non ha luogo e dove il corpo uno della madre e del figlio - quel luogo
immemoriale chiamato da Freud (1919) Heimat, antica "patria" - nella fantasia
narcisistica continua a vivere indiviso.
Un femminile inteso come luogo di avvio e di ritorno del narcisismo
primario occupa - sappiamo ancora da Freud (1919) - il posto del rimosso
nell'economia complessiva dell'essere umano e - per ciò stesso,
qui aggiungiamo - può affiorare spostato assumendo le svariate forme
della malattia.
Tutto questo appare nel discorso rappresentativo di Kafka che radicalizza
e spinge fino alle estreme conseguenze taluni assunti teorici della psicoanalisi
tra i più problematici e giunge a soluzioni che troverebbero certamente
consenso presso il Freud di Al di là del principio del piacere (FREUD,
1920).
Le lettere, soprattutto, che interpretano la malattia come circuito
regressivo, sono strettamente in linea con il pensiero di Freud (1920),
insieme al racconto di Ein Landarzt, che rimanda dallo specifico di un
corpo leso alla più vasta interpretazione di tutta un'essenza lesa.
A Milena, Kafka scriveva tra l'altro:
"Sono malato di mente, la malattia polmonare non è altro che
lo straripare della malattia mentale". (KAFKA, 1952, trad. it. p. 60).
A Ottla, la sorella, Kafka scrive della malattia come forma estrema
di sopravvivenza, trucco disperato che l'organismo nella sua totalità
mette in atto per rimanere in vita (cfr. KAFKA, 1954). Le immagini sono
quelle di una battaglia che si svolge in una zona dell'essere ignota, pericolosa
e segreta, dove scrivere ed essere malati assumono la stessa valenza e
ricostituiscono, con i rispettivi linguaggi, un senso dell'essere perduto
e segreto. La malattia di Kafka non è muta, come vuole Esiodo, ma
parla e dice, attraverso la scrittura e il linguaggio degli organi, quanto
la regressione suggerisce per riattingere nell'immaginario il corpo della
madre (e il concreto della "lesione" ripropone il fantasma di un'originaria
mancanza/castrazione che la fantasia di incesto satura direttamente sul
corpo).
Così nei frammenti :
"Sotto ogni intenzione si acquatta la malattia come sotto una foglia
d'albero. Se tu ti chini per vederla essa si sente scoperta, salta su,
quella magra e muta malignità, e invece che schiacciata, vuole essere
fecondata da te". (KAFKA, 1953, trad. it. p. 314).
E a Milena :
"Penso solamente alla spiegazione del male che escogitai per il caso
mio e che si conviene in molti casi. Ecco, il cervello non riusciva a tollerare
più le preoccupazioni e i dolori che gli erano imposti. Diceva -
Non ne posso più, ma se c'è ancora qualcuno cui importi conservare
il totale, mi tolga un po' del mio peso e si potrà campare ancora
un tantino. Allora si fecero avanti i polmoni che, tanto, non avevano niente
da perdere". (KAFKA, 1952, trad. it. p. 30).
E ancora a Milena :
"[...] come ti appartengo [...] con questo enorme polverone che trentotto
anni di vita hanno sollevato e si deposita nei polmoni". (KAFKA, 1952,
trad. it. p. 72).
Insieme, e forse più dei carteggi dove viene scambiato con le
donne il sangue (Ottla), la colpa (Félice), la allucinata lucidità
del monologo interiore (Milena), è comunque in Ein Landarzt che
la malattia affiora in tutto il suo "fondo nero" - lo stesso della madre
e del sangue - e rivela i percorsi segreti che la regressione segna sul
corpo.
Qualche parola sulla fabula.
Ein Landarzt (sigla tedesca per il racconto che tradotto in italiano porta il titolo "Un medico di compagnia") è la storia iper-reale di un medico che non può
raggiungere il malato perché manca del cavallo e quando, come per
magia, ne trova non uno ma ben due e lo raggiunge, non può curarlo
perché, a un primo sguardo, non riesce a "vedere" la malattia. Anzi,
addirittura per il medico "il giovane è sano, la circolazione del
sangue è un po' scarsa, la madre premurosa gli ha dato un po' troppo
caffè, ma è sano e bisognerebbe buttarlo fuori dal letto
con uno spintone".
In definitiva una storia carnevalesca nel senso di Bachtin (1965),
che affida la sua economia profonda - l'affiorare della malattia e il suo
rendersi visibile - al capovolgimento/identità dei ruoli del medico
che finisce nel letto del malato come un malato, e del malato che, in questa
iper-reale vicinanza, si fa da sé la sua terribile diagnosi: "Con
una bella ferita sono venuto al mondo. È stato tutto il mio corredo".
Nello stesso anno in cui scriveva Ein Landarzt Kafka annotava nel diario:
"L'età della ferita, più della sua profondità
e del suo propagarsi ne costituisce la dolorosità. Essere continuamente
squarciato nel medesimo canale della ferita, vedere medicata la ferita
già operata infinite volte, ecco il guaio". (KAFKA, 1951, trad.
it. p. 584).
In Ein Landarzt la ferita che a tutta prima il medico non aveva visto
e i familiari sembravano ignorare, è resa visibile dall'intervento
paradigmatico delle donne del racconto - la madre e la sorella del malato
- come se il femminile (luogo da cui la ferita trae il suo valore simbolico)
servisse da filtro a un professionale quanto vano sguardo medico.
Misteriosa e primaria come il processo che la genera, la ferita addensa
su di sé l'altissimo valore figurale del testo ed è, agli
effetti della narrazione, al tempo stesso reale e simbolica. Infatti nel
momento in cui il medico, nudo, viene messo a giacere accanto al malato
"dalla parte della ferita", questa li accomuna, medico e malato, in un
unico destino di nascita in cui ricombaciano.
"E vengono i familiari e gli anziani del villaggio e mi spogliano.
Un coro di scolari col maestro in testa sta davanti alla casa intonando
una melodia molto semplice con queste parole:
- Spogliatelo e sanerà.
Se non lo fa, ammazzatelo !
Non è che un medico,
non è che un medico.
Eccomi spogliato; con le dita nella mia barba, la testa piegata da
una parte, guardo tranquillo questa gente. Mi sento perfettamente calmo
e superiore a tutti, e lo rimango anche, benché non mi serva a niente
perché già mi prendono per la testa e per i piedi e mi mettono
nel letto. Verso il muro, dalla parte della ferita mi mettono. Poi tutti
se ne vanno dalla camera; la porta viene chiusa; il canto cessa".
Spogliato del ruolo, il medico si trova a diretto contatto con un simbolo
che non può interpretare, ma solo "patire" nella sua potenza di
significante che sopravanza ed eccede la condizione linguistica da cui
pure prende forma. Ma di questo eccesso il linguaggio poetico rende ragione
e così ancora nel 1917, nei diari, Kafka dice a sé stesso:
"La ferita ai polmoni è soltanto un simbolo, come tu affermi,
il simbolo della ferita, la cui infiammazione si chiama Félice".
(KAFKA, 1954, trad. it. 583-584).
In funzione di spia stilistica che permette di leggere il racconto
come lo sviluppo semantico di un tema mancate iniziale - con una manifestazione
per così dire "letterale" del movimento che innesca il processo
generativo di ogni narrazione (cfr. PROPP, 1928) - il breve segmento narrativo:
"aber das Pferd fehlte, das Pferd". ("ma il cavallo, mancava il cavallo")
denuncia con la ripetizione il carattere poetico della scittura di Ein
Landarzt, e insieme indica dove si addensa quel surplus di senso che esso
contiene.
Così il racconto "apre":
"Ero in grande imbarazzo: c'era un viaggio urgente da fare; un malato
grave mi attendeva in un villaggio distante dieci miglia; un fitto nevischio
riempiva tutto lo spazio esistente tra me e lui; avevo una carrozza, leggera,
dalle ruote grandi, proprio come ci voleva per le nostre strade di campagna;
avvolto nella pelliccia, con la borsa degli strumenti in mano, me ne stavo
già nel cortile pronto per la partenza; ma il cavallo, mancava il
cavallo" .
Rappresentazioni che sorgono dal terreno dirompente dell'energia narcisistica,
il cavallo e la sua mancanza segnano nel testo il punto virtuale di congiunzione
semantica con l'elemento narrativo delegato a rappresentare tale energia
in tutta la sua potenza: la ferita (che si imprime sul corpo come un marchio/simbolo
della mancanza, e "dice" di un'originaria divisione del soggetto e del
taglio che lo definisce e lo segna come "nato").
Il simbolo della ferita si costruisce nel testo e acquista la sua polisemia
per "contiguità" con la metafora della mancanza, la quale a sua
volta, alla luce del simbolo, si chiarisce come "mancanza d'essere", e
svela il suo significato profondo di "tema di nascita".
Benjamin per primo ha individuato in Ein Landarzt questo tema di nascita
(cfr. BENJAMIN, 1977) e l'ha fatto coincidere con l'entrata in scena dei
due misteriosi cavalli, che qui riportiamo:
"Percorsi ancora una volta il cortile; non mi riusciva di trovare alcuna
soluzione; distratto, tormentato, urtai con il piede la porta sconnessa
del porcile che già da anni non serviva più. La porta si
aprì oscillando sui cardini in qua e in là. Ne uscì
un fiato tiepido e un'aria come di cavalli. Un uomo, rannicchiato in quel
basso stanzino, mostrava il suo viso aperto, dagli occhi azzurri. "Devo
attaccare?", mi domandò avanzando carponi. Non sapevo che rispondere
e mi chinai solo per vedere chi ci fosse ancora nella stalla. La domestica
mi era accanto. "Non si sa mai quel che si ha in casa propria", disse,
e ridemmo entrambi.
"Olà fratello, olà sorella !" gridò lo stalliere
e due cavalli, due bestie dai fianchi poderosi, si spinsero, uno dopo l'altro,
con le gambe strette al corpo, piegando le belle teste come cammelli, facendo
forza soltanto con il tronco, fuori dell'apertura della porta, e dai loro
corpi si sprigionava un denso vapore".
Il rapporto con l'oggetto, il costituirsi di questo come un "per sé"
nel gioco pulsionale soggettivo, rappresenta uno dei punti di maggiore
problematicità all'interno della ricerca freudiana sul narcisismo.
Quando Freud (1914) fa cenno a due modi d'amare propri dell'essere umano
che seguirebbero due modalità di scelta diverse, una narcisistica,
l'altra per appoggio, il tentativo di conservare tensione e dualismo tra
libido dell'io e libido oggettuale suona assai poco convinto e come forzato.
Tant'è che la nascita contraddittoria dell'amore cosiddetto oggettuale,
si maschera là dove Freud (1914) dice:
"L'amore parentale, così commovente e in fondo così infantile,
non è altro che il narcisismo dei genitori tornato a nuova vita,
tramutato in amore oggettuale, esso rivela senza infingimenti l'antica
natura".
Nel rapporto d'amore dunque, il narcisismo rivela "senza infingimenti"
tutta la sua capacità di azzerare la differenza, riportando la relazione
là dove "quel che egli stesso è, quel che egli stesso
era, quel che egli stesso vorrebbe essere, la persona che fu parte del
proprio sé" è quanto il soggetto scambia con l'oggetto della
sua scelta.
In questo senso il personaggio di Rosa, la giovane domestica che introduce
nel racconto il problema dell'altro come oggetto d'amore - chance possibile
e subito perduta come ogni altra "diversità" del vecchio medico
del racconto -, autorizza una volta di più a leggere Ein Landarzt
come la rappresentazione di un'energia autarchica e autoriprodutrrice che
condensa fortemente il valore sintattico dei personaggi della narrazione
e li riporta tutti, come facce segrete, all'io narrante che ne è
il protagonista.
Così, come lo stalliere assume nell'economia del racconto il
valore di "doppio", la part maudite del medico che affiora improvvisamente
e sposta l'azione narrativa sul piano fantastico della ripetizione della
scena primaria, dove il medico - figlio e il padre - stupratore - stalliere
ormai non si distinguono più, nello stesso modo Rosa, il virtuale
oggetto d'amore possibile come "per sé" viene immediatamente inglobato
(e perduto) dal mondo totipotente, polimorfo e perverso del "porcile".
Appena lo stalliere le imprime sul corpo il segno e il marchio di appartenenza
a questo mondo senza tempo e senza differenza (il morso, la traccia dei
denti, rossa, sulla guancia), Rosa entra nella serialità di un desiderio
che vuole la sua consumazione su una scena dove, senza fine, si ripete
la rappresentazione di un organismo che si autofeconda. Così la
ferita sulla guancia di Rosa altro non è che il preludio narrativo
al "fiore nel fianco" del malato adolescente.
La confusione dei valori attoriali (cfr. GREIMAS, 1979) del racconto
si prefigura, come mostra l'analisi linguistica, fin dal suo primo enunciato:
"ero in grande imbarazzo". In italiano imbarazzo è sinonimo di confusione,
come pure in tedesco il termine corrispondente, Verlegenheit, usato da
Kafka. Ci troviamo di fronte a una microstruttura interlinguistica che
autorizza ad ascrivere il senso del termine imbarazzo all'area semantica
del "mescolato", del "non diviso". Inoltre, la particolare sfumatura che
tale temine assume nella lingua spagnola contribuisce ad arricchirne a
rinforzarne il senso di "totalità indivisa" : la natura dell'imbarazzo
prospettato in Ein Landarzt si chiarisce infatti nell'apprendere che lo
spagnolo usa per designare sia lo stato di imbarazzo che quello di gravidanza
un'unica espressione linguistica: embarazado.
In Ein Landarzt lo svelamento del senso paradossale della malattia come
ritorno a una "totalità indivisa" avviene per progressive associazioni
e assimilazioni di significato delle singole sequenze narrative con il
tema di "mancanza" iniziale.
Così, quello che si gioca nel testo quanto alla malattia cui
il tema di "mancanza" necessariamente allude, si risolve tutto nella figura
della ferita che, nel suo valore polisenso di corpo/sesso aperto, rimanda
direttamente, in a semantica del sesso, al femminile (cfr. LEMOINE-LUCCIONI,
1976). In tale semantica la ferita è (per l'un sesso come per l'altro)
narcisistica, e viene assunta nel doppio senso di ferita originaria (la
nascita che taglia via dal corpo materno) e castrazione (immaginaria per
l'uomo, simbolica per la donna) e ripropone e riafferma prepotentemente
l'unità originaria dell'organismo leso. Come figura, essa compare
nel racconto ugualmente con un doppio significato, storico e metastorico,
di taglio che immette il soggetto nell'universo della differenza e ne fa
da una parte "nato da donna", dall'altra riconferma, come segno, l'appartenenza
del corpo soggettivo al corpo totale della madre, il suo essere "nato di
donna".
La descrizione della ferita di per sé, fornita dal testo, impone,
senza commento, una lettura precisa sulla falsariga della "vitalità"
e dell'onnipotenza magica e autoriproduttiva caratteristiche del vissuto
interiore del narcisismo.
"Ora ho trovato: sì, il ragazzo è malato. Sul fianco
destro, verso l'anca, è aperta una ferita grande come il palmo della
mano, di color rosa, in diverse gradazioni, scura verso il fondo, più
chiara verso gli orli, leggermente granulosa, con il sangue raggrumato,
aperta come la bocca di una miniera. Vista da lontano è così.
Ma da vicino appare ancora più grave. E come guardarla senza ansare
lievemente? Dei vermi lunghi e grossi come il mio dito mignolo, rosei di
suo, spruzzati di sangue, brulicano trattenuti all'interno della ferita,
con le testine bianche e le numerose zampine tendenti verso la luce. [...]
- Mi salverai ? - sussurra il giovane abbagliato dalla vita
che brulica nella ferita".
Un contenuto rappresentativo altrimenti inesprimibile, prende
corpo e si declina tramite la figura della ferita, a cui possiamo assegnare
il valore di luogo di massima densità simbolica del testo. La vita
che "brulica" nella ferita e che "abbaglia" è della stessa marca
autarchica e onnipotente a cui va ascritta ogni azione e ogni presenza
che nel testo risulta "magica" e inspiegabile: così i due cavalli
fantastici, pure creature di desiderio, così lo stalliere che impone
a Rosa quello stupro fantastico che il medico non ha compiuto, così
infine il porcile stesso dove queste vite tutte insieme sembrano "brulicare".
La ferita che stabilisce un continuum tra il corpo del medico e quello
del malato secondo il doppio tracciato regressivo-compensatorio della consanguineità/omosessualità,
se comunque allude al ritrovamento dell'onnipotenza primaria tramite l'identità
(nel senso di uguaglianza) con il corpo immaginario della madre, segna
anche, sul versante dell'Io, la perdita di identità (nel senso di
individuazione personale).
Così il racconto, dopo aver rappresentato la fantasia autogenerativa
che sta alla base dell'incesto e dell'omosessualità, già
indicati da CHIOZZA (1975, sulla scorta di Freud, 1914 ; 1920 ; 1922) come
le due possibili "sortite" del narcisismo, si chiude con la completa perdita
di identità da parte del medico che ha risposto alla chiamata "fatale",
portando al massimo dell'espressione il tema di mancanza iniziale.
"In questo modo non tornerò mai a casa; la mia florida clientela
è perduta, un successore mi deruba, ma senza profitto, perché
non mi può sostituire; nella mia casa fa da padrone lo schifoso
stalliere; Rosa è la sua vittima; non ci posso neanche pensare.
Nudo, esposto al gelo di questa maledettissima epoca, su una carrozza realmente
esistente, tirata da cavalli reali, vado attorno vagando, povero vecchio.
La mia pelliccia pensola dietro la carrozza, ma io non la posso raggiungere,
e neanche uno fra la gentaglia inquieta dei pazienti muove un dito. Sono
stato ingannato! Ingannato! Una volta dato retta al falso allarme del campanello
notturno non c'è più rimedio".
Ein Landarzt e le lettere a Ottla anticipano l'intuizione folgorante
che percorre tutto il carteggio con Milena Jesenská : la malattia,
nella sua epifania corporea, non è che il frutto di una battaglia
che si svolge tutta "dentro" l'individuo, tanto che di essa semore e comunque
si può dire che sia essenzialmente "malattia spirituale", espressione
della perdita di un senso originario.
Il corpo poi ne configurerà i tratti.
La malattia di cui Kafka parla alla sorella - la propria, la tubercolosi
- che aggredisce di colpo e si manifesta in un improvviso sbocco di sangue,
presenta le stesse caratteristiche di mistero, incontrollabilità,
segretezza, della malattia dell'adolescente del racconto. Ne mantiene soprattutto
il carattere di improvviso aprirsi del corpo sotto la spinta potente di
una vita oscura - dunque il carattere di ferita in senso stretto e in senso
metaforico - insieme a quello di un ritorno nella zona primaria del sangue,
il proprio che è lo stesso della madre, e conserva tutta la potenza
di tale identità.
"Erano circa le quattro del mattino. Io mi sveglio, mi meraviglio della
strana quantità di saliva in bocca, la sputo ma poi decido di accendere
la luce. E così comincia. Crleni, non so se è scritta bene,
ma è un'espressione efficace per questo sgorgare dalla gola. Pensai
che non dovesse smettere più. Come facevo a tappare la sorgente
se non l'avevo aperta. [...] Ecco dunque la situazione di questa malattia
spirituale, la tubercolosi". (KAFKA, 1974, trad. it. p. 75-76, il corsivo
è nostro).
In che senso una malattia che si presenta come fatto specifico del
corpo può essere definita "malattia spirituale", senza che questo
non suoni profondamente contraddittorio con la visione classica della malattia
stessa e non metta in scacco le strategie tradizionali del discorso scientifico
volte ad averne ragione, cioè a curarla? Come sciogliere in maniera
pertinente l'ambiguità contenuta in proposito nella formulazione
kafkiana della malattia, che peraltro in Ein Landarzt è costantemente
presente, tanto da rappresentare il pilastro narrativo del racconto?
Sappiamo che l'ambiguità è uno dei tratti caratteristici
del discorso poetico (cfr. JAKOBSON, 1960). Tale ambiguità, da cui
ricaviamo, rispetto al messaggio, un surplus di senso, è non solo
l'elemento che caratterizza la visione kafkiana della tubercolosi come
"malattia spirituale", ma anche lo statuto linguistico della sua formulazione
della malattia in toto come "ancoraggio a un qualche territorio materno".
Ein Landarzt è, dunque, un discorso "poetico" sulla malattia
di cui svela e mette in luce aspetti e forme impraticabili e imprevedibili
da parte del discorso scientifico che le assegna, in fondo, la stessa valenza
di "continente nero" con cui la psicoanalisi iscrive il femminile nel suo
orizzonte teorico sotto il titolo di una negazione (la donna non ha il
pene).
Ein Landarzt, mettendo in scena una malattia paradossalmente vitale,
tocca i punti nevralgici della rimozione che attraversano l'apparato di
senso del discorso scientifico tradizionale. Il racconto costruisce un
altro senso della malattia nel momento in cui smonta le strategie in forza
delle quali essa trova un posto nel discorso ufficiale della medicina (che
solo di recente ha cominciato a porsi il problema della malattia come segno,
facendola rientrare nell'ambito dell'attività simbolica umana).
Tale smontaggio si determina là dove il racconto rimanda a una
struttura attanziale profonda, leggibile in doppia direzione: medico <--->
malato. Questo modello, frutto di un'operazione condensante, è l'apporto
conoscitivo che, "discorsivizzato" (cfr. GREINAS, 1979) attraverso un'elaborazione
per così dire "poetica", Ein Landarzt offre ai fini di una comprensione
della malattia in quanto condizione fondante la relazione medico <--->
malato. Intesa nel senso kafkiano di ancoraggio a un qualche territorio
materno, la malattia si presenta quindi come una sorta di a priori (condizione
di possibilità appunto) della relazione stessa: essa smaschera la
posticcia diversità delle due parti contraenti e indica nel medico
e nel malato due poli interni a un'identica figurazione.
Il testo kafkiano, com'è naturale, non rappresenta questa struttura
relazionale dal punto di vista della scienza, cui resta estranea la comprensione
del corpo che "si apre" al linguaggio del sintomo: è questo un mistero
che il discorso scientifico può assumere solo disponendosi ad arrischiare
la trasparenza di un mondo tutto "mentalizzabile" nell'opacità intrattabile
di ciò che ha l'essere di "un" corpo. Ma forse è questo il
richio sul cui sfondo assume senso, e forza, il freudiano "Wo Es war, soll
Ich werden" (cfr. FREUD, 1932), che, in pieno accordo con Lacan (1966),
non può essere inteso se non come: "Là dove Es era, Io debbo
divenire".
Riferimenti bibliografici.
Per le opere di Kafka citate nel testo, la data fa riferimento all'anno
di pubblicazione di Franz Kafka, Gesammelte Werke, hrsg. Von Max Brod,
Frankfurt am Nain, S. Fischer Verlag. In bibliografia l'anno di composizione
è posto in parentesi quadra. Tutte le citazioni del racconto Ein
Landarzt (1916-17) sono tratte dalla traduzione italiana di Rodolfo Paoli:
Un medico di campagna, Mondadori, Milano, 1981. In taluni casi si è
operata qualche modifica della traduzione, al fine di una resa più
letterale di alcuni passaggi fondamentali per l'interpretazione svolta
nel presente studio.
Per i riferimenti alle opere di Freud si è adottata, in bibliografia,
la sigla OSF = S. Freud, Opere, Boringhieri, Torino, 1967-1980 (XI vol.).
* BATCHIN, M. B, [1940], Tvorcèstvo Fransua Rable i narodnaja
kul'tura Srednevekov'ja i Renessansa, Mosca, 1965, trad. it. L'opera di
Francois Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino, 1979.
* BENJAMIN, W., (1977), Gesammelte Schriften, II, 3, 1215, Frankfurt,
am Main.
* CHIOZZA, L. A., (1978), Ideas para una concepcion psicoanalitica
del cancer, Buenos Aires, trad. it. Psicoanalisi e cancro, Borla, Roma,
1981.
* FREUD, S., (1914), Zur Einführung des Narzissmus, trad. it.
in OSF, VII, pp. 443-474.
* FREUD, S., (1917), Briefe 1873-1939, trad. it. in Lettere, Boringhieri,
Torino, 1960, pp. 292-293.
* FREUD, S., (1919), Das Unheimliche, trad. it. in OSF, VIII, pp. 81-112.
* FREUD, S., (1920), Jenseits des Lustprinzips, trad. it. in OSF, IX,
pp. 193-252.
* FREUD, S., (1922), Das Ich und das Es, trad. it. in OSF, IX, 475-520.
* FREUD, S., (1932), Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung
in die Psychoanalyse, trad. it. in OSF, XI, pp. 121- 284
PM
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