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Sylvia Plath: la scrittura-difesa di una bambina che voleva essere Dio

di Marina Di Pasquale




“La vita non ha senso se non la puoi tradurre in versi”.
(Sylvia Plath, 1956)

Voleva fermare l’attimo e renderlo eterno, squarciare il cielo con la sua scrittura inzuppata di poesia e preparare il pranzo ad autori come Joyce e Virginia Woolf.
Sylvia Plath, la poetessa ebrea americana nata a Boston nel 1932 e morta suicida a Londra l’undici febbraio del 1963, cercava uno spazio sicuro dove rifugiarsi.
Un luogo sincero dove dichiarare il suo essere-nel-mondo senza sperimentare un continuo sentimento di nientificazione.

“Non ho consistenza, sono vuota, dietro gli occhi sento una caverna pietrificata, un abisso infernale [...] non so chi sono né dove sto andando...”

Le opere di Sylvia Plath, quelle che sono sopravvissute alla sua costante “castrazione artistica”, sono veramente poche se si pensa che per più di vent’anni, questa giovane americana dalle gambe lunghe e dai capelli biondo rossiccio, ha cercato di far coincidere la vita con la letteratura.
Vivere e scrivere, un binomio inscindibile e complicato. Difficile per una scrittrice che non riesce a catturare i suoi pensieri per capire “cosa chiedere alla vita”, sperando di trovare una formula per diventare “perfetta come Dio”.
Impossibile quando anche un semplice foglio bianco si trasforma in un nemico contro cui lottare.

“Voglio scrivere perché ho bisogno di eccellere in uno dei mezzi di interpretazione della vita [...] La scrittura è necessaria alla sopravvivenza del mio spocchioso equilibrio come il pane per il corpo [...] Ho bisogno di scrivere e di esplorare le profonde miniere dell’esperienza e dell’immaginazione, far uscire le parole che esaminandosi, diranno tutto...”

Ogni volta che si trovava di fronte ad una pagina bianca Sylvia cercava di riempirla con un flusso anarchico di parole, “come se” quel foglio fosse un vuoto da colmare, uno spazio intimo su cui imprimere il tempo, le emozioni e i pensieri.
Leggendo i diari, le lettere scritte alla madre Aurelia Shoeber e le poesie che coincidono con l’ultimo momento di tensione psichica della poetessa, si può notare come la sua ossessione per la scrittura sia determinata da diversi fattori che ruotano attorno alla ricerca di una rappresentazione stabile del Sé.
Queste tre composizioni letterarie, pubblicate dai familiari dopo il suicidio della scrittrice, esprimono una peculiare modalità di manipolazione poetica e psicologica del significato della parola, che, a seconda dello spazio lirico in cui si trova “depositata”, tende ad assumere caratteristiche psicodinamiche differenti.
Analizzando la particolare costruzione del verso delle poesie ricche di sonorità e sensorialità si può comprendere come il suo funzionamento mentale, instabile ed impulsivo, riesca a trasformarsi in un occasione poetica dove il parlare di morte può anche significare un disperato bisogno di vivere.
Un modo per dare senso ad un esistenza scissa che, attraverso una scrittura specchio, pelle e contenitore, Sylvia cerca di recuperare lottando contro le divinità ctonie che animano il suo mondo interno: un universo caotico, che, sin da piccola, la portò ad intrattenere un rapporto morboso con la scrittura.
Creatività come chance, difesa dalla paura d’impazzire, contenitore stabile dove proiettare quegli oggetti intollerabili e contraddittori che, trasformati dal suo Io poetico, diventano una sorta di revérie letteraria capace di bonificare gli stati emotivi indigeribili.
Queste rappresentazioni caotiche e mortifere iniziarono ad animare la sua dimensione psichica negli anni della sua adolescenza, fase dello sviluppo in cui la Plath inizia a scrivere i suoi primi diari intimi nei quali si nota un dialogo che oscilla dal bisogno di uno specchio/Narciso, capace di dare stabilità ad un sentimento dell’identità insufficiente, ad una comunicazione intima con un vero Sé congelato, soffocato da una falsa compiacenza che lentamente la spinse verso il baratro.
La particolare tipologia di scrittura utilizzata nel confessionale privato somiglia infatti a quella specifica relazione oggettuale speculare che la madre intrattiene con il bambino nelle prime fasi del suo sviluppo psichico: periodo evolutivo in cui la percezione di uno sguardo affettivamente stabile diventa la condizione necessaria per una rappresentazione del Sé, coerente e continua nel tempo.
Per altro, lo stesso rapporto morboso intrattenuto con il diario privato, sembra quasi generato da uno spasmodico tentativo di recupero di alcuni aspetti dissociati della sua identità, che, succedendosi a fasi alterne, la portavano a vivere un doloroso e altalenante sentimento della sua esistenza.
Per la Plath ogni giorno è un’esperienza diversa, che ha perso il significato del giorno precedente, ed ogni attimo sembra un vano tentativo per cercare di dialogare con un Sè avvolto da una finta pelle, cucita addosso dalla madre Aurelia.
Il diario-rifugio sembra infatti l’unica possibilità per raggiungere quella parte dell’identità che Sylvia rinnega nel quotidiano. Se tra le mura domestiche accetta d’indossare la maschera di compiacenza, che la collega alle figure che ruotano attorno alla sua vita, nel confessionale privato si spoglia di ogni abito imposto e inizia il dialogo con il suo vero Sé.
E’ interessante notare come, alle volte, la Plath incarni il ruolo di madre di se stessa, tentando di abbozzare dei consigli per conquistarsi la considerazione degli altri.

ֿ° aprile. Programma: conquistare amicizie e influenzare gli altri: Evita di bere troppo, sii casta e non buttarti via con gli altri. Sii amichevole e più controllata - se è necessario- alone “ donna del mistero“ calma, gentile, lievemente sconcertata dagli scandali piccanti. Tieni per te i tuoi guai, non blaterare troppo [...]”

Ma nei momenti di forte tensione, quando, perseguitata dal suo doppio, inizia a sperimentare un senso di colpa nato dalla convinzione di non essere perfetta, anziché cercare di trovare una formula per lottare contro un Sé sadico e rigido, si abbandona agli impulsi autodistruttivi che descrive nel suo diario:

“Tu sei talmente ossessionata dal bisogno sempre più incombente di essere autonoma, di affrontare l’enorme, gigantesco mondo [...] e tu devi essere capace di farti una vera e propria vita creativa da Sola [...] Sei un’ipocrita incoerente molto spaventata, devi costruire barriere tra te e il mondo [...] Smettila di pensare egoisticamente a rasoi e autolesioni e a uscire e farla finita”

La sua continua ricerca del suicidio, oggetto di discussioni quasi poetiche e letterarie con l’amica e compagna di corso Anne Sexton, sembra caratterizzata da una forte onnipotenza che la fa sentire quasi “eccezionale” nella sua arte di farsi del male.

“Come un gatto ho nove vite da morire. Questa è la numero tre. La prima volta successe che avevi dieci anni. Fu un incidente. Ma la seconda volta ero decisa a insistere, a non recedere assolutamente. Mi dondolavo chiusa come conchiglia. Dovettero chiamare e chiamare e staccarmi via i vermi come perle appiccicose. Morire è un’arte, come ogni altra cosa. Io lo faccio in un modo eccezionale. Io lo faccio che sembra come un inferno. Io lo faccio che sembra reale. Ammetterete che ho la vocazione”

Sembra goffo e ironico il suo modo di flirtare con Madama Morte, come se anche questo debba trasformarsi in un’opera letteraria, un modo per esorcizzare i fantasmi che le abitano il corpo, facendole dipingere la vita con i colori grigi della depressione.
La melanconia è infatti la musa poetica che la stordisce fino al delirio: episodio disturbato che la Plath cerca di allontanare chiudendosi nella sua stanza, dove trasformava il battito della macchina da scrivere in letteratura e poesia.
Composizioni che l’accompagneranno per tutta la vita, imponendole una lotta stressante contro il suo“deprimente demone nero-bianco” che, pagina per pagina, l’aspetta nei quaderni vuoti.
Cercava l’alloro poetico e la perfezione assoluta, ma quel senso di vuoto, che la ha accompagnata nel faticoso corso della sua vita, riusciva solo a nutrire il suo sentimento di nientificazione.
Intere notti passate ad ascoltare pensieri cupi e parole inafferrabili, concetti all’interno dei quali riusciva distinguere solo una voce che le ricordava che “la perfezione è una donna che non può avere figli”.
Leggendo le pagine dei sui diari si può notare, inoltre, come la parola scritta venga affannosamente invocata come lo sguardo dolce di una madre sufficientemente buona, l’oggetto confortante che non riuscì a sperimentare negli anni tristi della sua infanzia.
Proprio in questa fase dello sviluppo, la bambina che voleva essere Dio, inizia a conversare con i suoi fantasmi chiedendogli di darle la capacità di raccontare la vita così come appare. Ma invece di trovare le energie per descrivere il mondo “camminando con i pori aperti”, alla fine tutti i suoi sforzi disperati si trasformavano in fiumi d’inchiostro, per cercare di conquistarsi l’amore di un padre assente e la comprensione di una madre autoritaria.
Piccola e fragile, con le ginocchia segnate dalla sabbia della casa al mare dei nonni, collezionava conchiglie imitando un modello da signorina perfetta, come quello descritto nel romanzo Piccole Donne di Louisa May Alcott.
E quella giovane “sea girl”, come lei stessa si definiva da bambina, continuerà ad esistere e ad animare tutta la sua produzione letteraria, che la farà rientrare nella cerchia elitaria dei confessional poets del Novecento.
Il marito Ted Hughes, il “Colosso” che l’abbandona per raggiungere un’altra donna, parlerà della Plath solo dopo il suo suicidio. Quando, ricordando il suo modo straordinario di trasformare il suo nucleo infantile in letteratura e poesia, dimostrerà, a chi lo ha tanto odiato, quanto amava la sua giovane e triste sposa dalle “lunghe gambe americane”.

“La forza delle sue poesie è dovuta alla sua abilità di restare aggrappata ai suoi sentimenti infantili, ad emozioni che hanno lavorato dietro per vent’anni. Questa bambina vulnerabile è alla base di tutta la sua opera, scritta in versi capaci di rivelare qualcosa di molto violento e molto primitivo: la disposizione a sacrificare tutto per una nuova nascita”.
(Ted Hughes, I Diari, 1982, Prefazione)

L’erudizione ctonia della prosa di Sylvia Plath inizia a muovere i primi passi quando, a soli sette anni, perde il padre Otto, a causa di un diabete mal curato che successivamente sfocia in una cancrena alla gamba.
Malattia vissuta dalla famiglia con rabbia e tanta tensione scaricata nel rapporto con la piccola Sylvia, che inizia ad amare e odiare i genitori con l’ingenuità dei suoi anni. Il dolore per la morte del padre si mescolerà ad un onnipotente senso di colpa nato dalla convinzione di averlo ucciso con tutta l’aggressività di una figlia non amata.
Dall’analisi che la Plath iniziò negli anni cinquanta, con la psicanalista freudiana Ruth Barnhouse, emersero infatti una serie di rappresentazioni obbrobriose riconducibili a questo aspetto del suo pensiero disturbato.

“Con Ruth Barnhouse ho raggiunto una certa profondità, ho affrontato quei sogni sulle deformità e la morte. Se davvero penso di avere ucciso e castrato mio padre è possibile che tutti i miei sogni di persone deformi e torturate siano le visioni colpevoli che ho di lui o la paura che mi arrivino delle punizioni. Come placarle? Come far si che la piantino di tramare su quello che mi resta da vivere?”

“Papà ammazzarti avrei dovuto ma sei morto prima che io ci riuscissi, tu greve marmo, sacco pieno di Dio statua orrenda dal grigio alluce grosso come una foca di frisco [...] mai parlarti ho potuto, mi s’incollava la lingua al palato. Mi s’incollava a un filo spinato [...] ho avuto sempre terrore di te [...] fabbricai un modello di te, uomo in nero dall’aria Meinkampf [...] Papà carogna, ho finito”
(Sylvia Plath, 1960, versi tratti dalla poesia “Daddy”)

Ma in realtà l’abbandono paterno s’inseriva in un circuito di dolore già esistente, generato dalla perdita del legame con la madre Aurelia, che s’interrompe con la nascita del fratello Warren: il figlio maschio che arriva in casa Plath quando Sylvia ha appena due anni.
L’odio per il padre, per la madre, la gelosia per il fratello, visto come il maschio che gratifica le aspettative della famiglia che da anni attendeva un ragazzotto, alimenteranno la sua convinzione di non essere importante e soprattutto di non valere nulla. Sensazioni che si diffonderanno nel suo rapporto con la scrittura, che appare infatti determinata dal bisogno di definire il significato della sua esistenza.

“Io detestavo i bambini. Io che ero il centro di un ’universo di tenerezza, ho sentito come un colpo di pugnale e un freddo polare ha gelato le mie ossa...stringendo il mio rancore...villana e piena di rimorsi, come un piccolo orsacchiotto triste, sono partita, tristemente tutta sola, trascinando le mie gambe verso la direzione opposta, verso la prigione dell’oblio. In quel momento ho sentito un modo freddo e sobrio come se mi trovassi su una stella lontana, la separazione da ogni cosa...Ho sentito il muro della mia pelle. Io sono Io. Questa pietra è una pietra: la meravigliosa fusione che c’era stata tra me e le cose del mondo, non esisteva più..
Il mio iniziale, disperato slancio di entusiasmo nei confronti degli altri è il residuo del mio antico timore che le persone se ne vadano e mi abbandonino, costringendomi a rimanere sola. Ho passato tutta la vita a farmi scaricare dalle persone che amavo di più: papà che muore e mi abbandona, mamma in qualche modo assente [...] riempio gli incidenti più banali come può essere un ritardo di qualcuno che amo, di un contenuto emotivo freddo...”.

L’impossibilità di mentalizzare la precoce rottura del legame con la madre le inibirà la capacità di elaborare gli abbandoni successivi, dinamiche psicopatologiche che la porteranno ad intrattenere un rapporto di morbosa dipendenza dagli oggetti e dalle persone.
La scrittura, come il cibo, il tabacco, il sesso e l’alcol, diventerà un bisogno anestetizzante ed un filo immaginario per cercare di ricucire i pezzi del mosaico della sua vita.
E ogni volta che il suo modello di perfezione irrealistica si traduceva nell’impossibilità di concretizzarlo, l’oscuro male della depressione diventava la paralisi di ogni occasione poetica.

“Penso che la mia poesia - afferma in una registrazione radiofonica del 30 ottobre 1962 - sia frutto diretto delle esperienze dei miei sensi e delle mie emozioni, ma devo dire che non posso provare simpatia per quelle “grida del cuore” che non prendono forma che dalla droga o dalla violenza o da qualsiasi altra cosa. Credo che si dovrebbe saper controllare, manipolare le esperienze anche le più terribili, come la follia, come la tortura [...] e che si dovrebbe saperle manipolare con una mente lucida che dia loro forma”

Nella lirica di questa scrittrice ebrea americana il bisogno di dare concretezza all’esperienza psichica, attraverso una scrittura intesa come la forma di un concetto inafferrabile, si alterna ad un faticoso tentativo di mettere insieme dei mucchi di parole per cercare di sconfiggere il suo vuoto interiore.
Ma non riuscendo a vivere né nel-mondo-della-vita e neppure nel-mondo-della-poesia, schiava delle sue angosce d’abbandono, finisce con l’accettare il suo falso Sè che le garantisce l’amore di chi la circonda.
La produzione poetica che la Plath scrisse dopo l’abbandono del marito Ted Hughes, e che disgraziatamente coincide con la sua notorietà, nasce infatti da un bisogno di sublimazione della perdita trasformandola in atto creativo.
La poesia è a tutti gli effetti una revérie, un modo per trasmutare le emozioni dolorose in occasione letteraria, una straordinaria possibilità creativa per cercare di tenere a bada la voce primitiva di Thanatos che la conquistò per tre volte.
La metafora poetica, figura retorica assai presente nella produzione lirica di Sylvia Plath, può essere per altro paragonata ad una sorta di simbolo primitivo utilizzato per dare senso a un’esperienza non mentalizzata.

“Non ho idee, ho solo sensazioni.Voglio lavorare per mettere insieme il complesso mosaico della mia infanzia: esercitarmi a catturare sensazioni ed esperienze nell’informe subbuglio della memoria e sbatterle in bianco e nero sulla macchina da scrivere”

Particolare è inoltre la sensorialità che scivola, verso dopo verso, all’interno della sua metrica poetica, come se questa fosse un tentativo di far dire ai sensi quello che le parole non riescono a comunicare: il bisogno di recuperare sensazioni perdute che hanno lasciato segni confusi nel registro della memoria epidermica.
La scelta della metafora sembra inoltre il risultato di un lavoro artigianale scelto con cura e dedizione: il prodotto di una tensione psichica evacuata di getto in un torrente lirico mostruoso.

“ Nella valle delle tue dita conversano, vermiciattoli [...] Un anello d’oro con dentro il sole [...] Un tumulto di specchi e il mare che frantuma [...] Un fiore trascurato [...] La mia faccia un anonimo perfetto lino ebraico [...] E all’anestesista la mia storia e ai chirurghi il mio corpo [...] Io cargo di trent’anni [...] La sua mammona ebrea gli sta di guardia al sesso [...] Per lo più le squisite verità sono artifici elaborati in discipline di fuoco e ghiaccio che nascondono incongrui elementi come calzini sporchi e avanzi di piatti macchiati di uova e pane vecchio; forse questi sofismi ci possono placare”.

Come Pallade Athena, Sylvia Plath sembra partorita da una proiezione intellettuale della madre Aurelia. Rinnega la sua natura femminile scegliendo le armi dell’intelligenza e della poesia, ed, esponendo lo scudo con la testa di Medusa, pietrifica il lettore con l’impeto violento della sua lirica.
Il tema della perfezione, oltre a coinvolgere la struttura della sua opera letteraria, si ritrova anche nei canoni estetici che Sylvia abbraccia per cercare di aumentare la bellezza del suo corpo e della sua immagine fisica. Un’eccezionalità che, più che, appartenere ad un vezzo tipicamente femminile, sembra generata da un dispetto al maschile, provocato dall’antico disinteresse paterno.
In oltre, la pulsione sessuale, che la Plath cerca di soffocare ogni qual volta si dirige verso un oggetto, sembra comparire nelle sue opere erotizzandole al punto tale da produrre parole-feticci.
E’ intensa la carica erotica che spesso si trova nelle sue poesie, “come se” anche queste fossero un appuntamento sessuale con uno sconosciuto.

“Sei uno schianto! Sei venuta? Tu fingevi, fingevi per darli il nonsocchè. L’impotente marito si avvia fuori al caffè [...] Qua c’è un buco che è una manna. Ragazzo mio è l’ultima occasione [...] Ogni donna è una vacca [...] Quel che mi piace è lo stantuffo in movimento [...] Non ti sbalordisce il mio calore? Sono un’immensa camelia che s’infuoca e va e viene, vampa a vampa”

Nella sua lirica particolarmente interessante, oltre agli aspetti sensuali e difensivi generati da una forte angoscia abbandonica, si nota come la parola poetica, proiettata nel foglio bianco, tende ad assumere una sorta di fisicità trasformandosi in una parola-corpo che contiene un’esperienza intangibile.
Attraverso la poesia i pensieri caotici e le emozioni indigeribili trovano la loro forma all’interno della pagina bianca: in questo luogo dell’immaginazione, con una precisione straordinaria, la Plath inizia una costruzione meticolosa di involucri verbali poetici che racchiudono ogni sua esperienza psico-emotiva.
La poesia sembra infatti un corpo e una pelle di parole che sostiene un contenitore psichico colabrodo: un serbatoio esperenziale perennemente minacciato dalla paura d’impazzire.
L’evacuazione letteraria, non contenuta all’interno del suo Io-pelle, deteriorato da buchi psichici provocati da una tensione emotiva non bonificata, viene gestita in modo idraulico attraverso le dinamiche primitive dei processi psichici coinvolti nell’identificazione proiettiva, intesa da Bion come la modalità arcaica di una prima comunicazione tra la madre e il bambino.
Nella lirica di Sylvia Plath, sembra quasi che la parola alfa, una volta trasferita all’interno dello spazio bianco, si trasformi in una lettura beta capace di bonificare il dolore della vita utilizzando la poesia come una revèrie.
E quando sopraggiungere l’angoscia nichilista provocata dalla sua continua percezione di non sapere chi è, la parola scritta viene utilizzata come la rappresentazione proiettata di un Io ideale, che le dà l’occasione di osservarsi in un’immagine concreta.

“Sono un groviglio di nervi senza identità. Ora so cos’è la solitudine, credo. Parte da un punto indefinito dell’Io: come una malattia del sangue che si diffonde in tutto il corpo sicchè non si può localizzarne il focolaio.[...] Non ho consistenza, sono vuota, dietro gli occhi sento una caverna pietrificata, un abisso infernale.
Voglio lavorare per mettere insieme il complesso mosaico della mia infanzia: esercitarmi a catturare sensazioni ed esperienze nell’informe subbuglio della memoria e sbatterle in bianco e nero sulla macchina da scrivere

Le sue ansie di solitudine, provocate da episodi arcaici di abbandono (maternage carente e perdita del padre in tenera età), si riattivavano ogni qual volta la lontananza dall’oggetto d’amore risvegliava i suoi fantasmi infantili fortificando i lutti primari; e quando l’immaginario prendeva il sopravvento, facendole perdere il suo contatto con la realtà, le angosce reali iniziavano a confondersi con quelle fantasmatiche.
Un altro aspetto interessante della scrittura di questa autrice si può notare da un attenta analisi delle lettere che la Plath scrisse per più di vent’anni alla madre Aurelia Shoeber. Se nelle pagine del diario la parola scritta assume una tonalità prevalentemente di tipo speculare, che invece nella poesia si trasforma nel bisogno di un contenitore psichico per dare stabilità al Sè, la tipologia di scrittura utilizzata nelle lettere alla madre sembra generata dalla necessità di un oggetto transizionale che madre e figlia si scambiano all’interno delle lettere.
La parola utilizzata nell’epistolario sembra rimandare a quei fenomeni transizionali che sopraggiungono in un area del gioco dove la relazione tra la madre e il suo bambino viene mediata da sostituti morbidi e calorosi che rappresentano dei surrogati materni in un periodo particolare della crescita del bambino.

In questo spazio psichico, animato dall’illusione di una indipendenza, che in realtà ha più il sapore di una forte dipendenza dall’oggetto supporto materno, il bambino inizia a interiorizzare un oggetto costante, capace di addolcire i momenti dolorosi della sua vita.
L’epistolario di Sylvia Plath testimonia infatti il mancato superamento della fase di separazione-individuazione e l’impossibilità di rappresentarsi l’assenza della madre senza sperimentare il dolore dell’angoscia abbandonica.
Il continuo controllo della presenza della madre Aurelia si mescola inoltre alla ricerca di un rifornimento narcisistico ed analitico, che Sylvia utilizza nei suoi momenti di pseudoemancipazione.
Ma anche qui una parte dell’esperienza psichica di Sylvia viene sempre negata: quella dove descrive la sofferenza di una bambina che non è mai cresciuta.

“Cara mamma, adesso ho bisogno di aiuto. A casa tutto è impossibile, non posso andare in nessun posto, sono molto malata e psicologicamente sarebbe la cosa peggiore vederti adesso, o tornare a casa”

In quest’altra lettera, che la Plath spedisce alla madre esattamente due giorni dopo la precedente, si nota l’evidente contraddizione esperenziale della poetessa, che, rinnegando il dolore inizialmente sperimentato, scrive alla madre:

“Mammina mia adorata, non far caso alle mie ultime lettere, francamente dovevo essere delirante per pensare di star male e mettere sottosopra la vita degli altri per il mio comodo [...] Vivo e scrivo per ricevere lettere. Tua Sivvy”

Una chiara finzione che le dà la possibilità di rispecchiarsi negli occhi di sua madre, ma che, alla fine, invece di aiutarla a superare i suoi momenti di perdita della speranza, la porta a fortificare la percezione di un’esistenza falsa e scissa.
Sylvia Plath è decisamente una scrittrice esemplare nel dimostrare come spesso l’Io creativo possa nascere a partire da una trasformazione o di un recupero di alcune dinamiche psicologiche legate a certi aspetti mnemonici, che si trovano all’interno della relazione madre-bambino.
In certi soggetti creativi e fortemente intellettuali, spesso, si riscontrano delle tracce menstiche legate ad esperienze tattili, visive, olfattive e uditive che sono rimaste inglobate all’interno di un area senza nome e significato.
Questo modo “extra-ordinario” e psico(pato)logico di “Sentire le parole”, analizzato in modo magistrale da Mauro Mancia, può raggiungere un grado di accessibilità solo se mediato da una creazione artistica o finalizzato a questa.
La capacità trasformativa è infatti il requisito necessario per raccogliere esperienze impercettibili e sensazioni affievolite, che si muovono nel caos della mente.
Una psiche a volte muta, ma che non dimentica del tutto.

BIBLIOGRAFIA

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