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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: ARTE E PSICOTERAPIA
Area: Arteterapia



Un’arte che ama nascondersi

Marco Alessandrini*



Postfazione al libro
Joan Mirò, Lavoro come un giardiniere e altri scritti, Milano, Abscondita, 2008

Casa Editrice Abscondita
Via Manin 13, 20121 Milano (Mi)
abscondita@fastwebnet.it



georges raillard Tutte le sue tele potrebbero partire dalla mano per andare verso una stella...
joan miró Dalla mia mano o dai miei piedi (pesta i piedi). Cammino nel buio. Nel buio, e ci sono delle impronte. Delle impronte nel buio.

j. miró, Il colore dei miei sogni.
Conversazioni con Georges Raillard


Una ridda di paragoni affolla la mente di chi si accosti all’arte di Miró. Tutto infatti, nell’opera di questo artista, allude e suggerisce, senza mai dire. Lui stesso, uomo di proverbiali silenzi, sembrava presentarsi come un enigma. Il suo miglior amico, Joan Prats, diceva: «Conoscendo tutto di Miró, di lui non so nulla».
I paragoni sorgono dunque spontanei: sono una necessità di orientarsi, di capire. Paradossalmente tuttavia, l’arte di Mirò non intende alimentare analogie o lasciare aperte più strade, rinviando a una pluralità di richiami. Piuttosto essa ricerca e vuole additare un’unica strada, che è poi l’origine di tutte le possibili strade.
È quindi opportuno che i paragoni costeggino questa strada originaria, la cifra esplicativa di un’intera arte. E perciò, primo tra tutti, è possibile avanzare il paragone con Eraclito. Si pensi infatti a un celebre aforisma di questo antico filosofo: «la natura ama nascondersi». Lo si confronti con un altro precedente, che di quello appena citato è l’implicita spiegazione: «il Signore», vale a dire il principio sovrapersonale che domina il cosmo, è ciò «di cui a Delfi risiede l’oracolo», e quest’ultimo «non parla e non cela, ma significa».
Ecco dunque che a voler seguire questi due aforismi, chi si appresti a indagare la natura non potrà né spiegarla né negarla, ma alla maniera di un oracolo dovrà tentare di vaticinarla attraverso cifre ed enigmi che svelino il fondamento da cui essa è governata.
D’altronde, se nell’arte di Miró esiste un tema portante, esso è precisamente la natura, in particolare gli splendidi paesaggi rurali e marini di Montroig e di Maiorca (per un breve periodo anche gli scenari di Varengeville-sur-Mer). Dunque, da un lato l’atmosfera della provincia di Tarragona, dove la luce scolpisce le rocce, calda e abbagliante, dura e concreta; dall’altro l’anima del Mediterraneo, dove la luminosità si attenua e si sublima diventando, come diceva lo stesso Miró, traslucida e poetica. Terra e aria, si potrebbe dire, o materia e spirito, gravità e leggerezza, poli opposti che nelle opere di questo artista coesistono, si sovrappongono. Ne nasce una tessitura composita, uno sfondo magnetico dove poi si posa una pittura che insieme è scrittura, a tal punto in essa le figure ricorrono in forma di schema, di astrazione, di segno. Ed ecco quindi nella sua opera stagliarsi elementi naturali: alberi di carrubo e di eucalipto, insetti, lumache e serpenti, poi uccelli e infine esseri umani, soprattutto donne, tutti riuniti a comporre un discorso perché ridotti alla loro nascosta struttura, tradotti in un misterioso alfabeto che non enuncia e non dice, ma disvela, rende evidente. Un alfabeto di immagini che hanno ritmo e musica, e movimento, come fossero una danza, e però somigliano anche a parole scritte o pronunciate, soprattutto parole di poesia. Proprio di fronte a un tal genere di alfabeto, che evoca in un unico atto la parola, l’immagine, il suono, il gesto, restando indeciso tra queste diverse modalità di espressione, risulta palese quanto la natura per Miró, come già per Eraclito, ami nascondersi, sebbene per meglio manifestarsi, per dare evidenza alla sua pura essenza. Un’essenza che precede la differenziazione tra le varie modalità di espressione, perché di esse è l’origine comune, la matrice.
«Queste tele» afferma Miró in una delle sue ultime interviste – nel 1978 con Santiago Amón – «sono campi sonori, campi di ritmi calligrafici e musicali. Sono state concepite e dipinte come fossero poemi». Verrebbe da aggiungere: poemi di un oracolo, formulazioni che distillano, al termine di un lungo percorso compositivo, intuizioni visionarie, lucide veggenze. E come oracoli o profezie, questi dipinti mirano a manifestare senza nulla spiegare, avendo per unico intento quello di dispiegare. Nella stessa intervista, Miró aggiunge: «Nonostante possa sembrare una mancanza di modestia, ritengo di possedere un certo dono profetico […]». Anche Georges Raillard, autore delle conversazioni intitolate Il colore dei miei sogni (pubblicate nel 1977), ribadisce: «Di tutti i poeti tra cui trova i migliori maestri, si richiama spesso a Rimbaud: da lui ha avuto la conferma che occorre diventare veggenti».
L’arte di Miró, tra le tante inflessioni, ha dunque senz’altro quella oracolare. Si consideri come quest’uomo minuto e di poche parole, dall’aria seriosa e al tempo stesso sognante, lavorasse con ritmi e disciplina da asceta, leggesse nelle pause un po’ di tutto, dai filosofi ai mistici ai poeti, o ascoltasse musica alla ricerca non tanto di cultura bensì di una condizione ispirativa che più che all’estasi si avvicinasse all’allucinazione. Lui stesso racconta che negli anni dell’apprendistato parigino, trovandosi costretto a saltare i pasti, si coricava di sera senza aver cenato e traeva continuo spunto, per disegni, dipinti, sculture, dal trascrivere su quaderni di appunti le allucinazioni dovute alla fame.
Erano anche gli anni del surrealismo, e Miró apparteneva a questo movimento. Quindi inseguiva scientemente, come fonte creativa, tutto quanto potesse sgorgare dal caso, dall’automatismo medianico, da un atteggiamento affine alla trance. In lui però questa attitudine si cala in un sentimento di profonda appartenenza all’indole catalana, ai paesaggi e alle genti di questa orgogliosa regione della Spagna. Ecco quindi che Miró attinge, con caparbietà e soprattutto con infinito amore, ai graffiti preistorici delle caverne di quei luoghi o all’artigianato popolare, inseguendo dovunque un’emozione di stupore primordiale. Va peraltro detto che in tal modo egli però non ricercava, come ad esempio Picasso, forme espressive primitive e figurazioni radicalmente istintuali, né, come accadeva a Klee, un ipotetico «momento cosmogenetico» da ricostruire con insistito studio e con voluto calcolo. Miró tendeva con rigore, ma sempre con semplicità e naturalezza – oltre che con la visionarietà di cui s’è appena parlato – a una ricerca creativa che fosse al tempo stesso sua, dell’intero suo popolo e della natura tutta. Una spinta primitiva comune anche al più umile dei fili d’erba, a tutto ciò che è piccolo e anonimo, aspetti nei quali secondo Miró – concorde in questo con i grandi mistici spagnoli da lui tanto ammirati – affiora con massima intensità la potenza del creato.
È questa un’attitudine tutt’altro che ingenua, come molti stereotipi vorrebbero: l’arte di Miró nasce invece da una straordinaria coniugazione di studio e di spontaneità. In essa infatti il vaglio della riflessione va poi sempre incontro a un successivo sforzo di autocancellazione, affinché il ragionamento, anzi la stessa personalità dell’artista, lascino spazio a ciò che al di dietro o al di sotto, sedimentandosi, è germogliato. Si tratta di qualcosa che poi, come i fenomeni della natura, in una serie di momenti apparentemente casuali ma in realtà «propizi» – quasi obbedienti al concetto di kairós –, diventerà per spinta autonoma un dipinto o una scultura. Per Miró, compito di chi crea è porsi in accordo con ciò che soltanto a modo proprio può nascere e svilupparsi, sebbene mai si svilupperebbe se non intervenissero, in un mutuo stimolarsi, l’azione, la sensibilità e la volizione di un compagno umano.
Ecco dunque Miró osservare, accompagnare, potare e infine raccogliere – più o meno come farebbe un giardiniere. D’altronde è quanto lui stesso afferma nella bellissima intervista del 1958 con Yvon Taillandier, intitolata appunto Lavoro come un giardiniere: «L’anonimato» – ma si potrebbe dire anche ciò che è autonomo e che procede per propria spinta interna – «mi permette di rinunciare a me stesso, ma rinunciando a me stesso giungo ad affermarmi maggiormente».
Può sembrare strano ribadire un contatto tanto profondo con la natura per un artista le cui opere la trasfigurano in astrazioni estreme, in artifici che molto sembrano distanziarsene. Davvero si direbbe che secondo Miró la natura ami nascondersi. Ma proprio per questo occorre domandarsi: a suo giudizio, che cosa della natura tenderebbe a celarsi? O per dirlo altrimenti: che cosa la sua arte tenterebbe di mostrare e di significare?
C’è qualcosa di imprendibile nella natura, e tuttavia di evidente, a condizione di disporsi a uno sguardo non soltanto razionale ma aperto all’incanto e allo stupore, al vaticinio e all’allucinazione. È il sentire, ad esempio, da cui nascono i miti, un termine non casuale perché la critica parla da sempre, per l’arte di Miró, di una personale mitologia costruita per narrare un ordito di sensazioni che lui coglie nella natura, e da qui poi nell’esistenza e nel cosmo. Sorge peraltro spontaneo pensare che l’imprendibile non risieda nella natura, ma nell’animo di Miró, il quale poi inconsapevolmente lo proietterebbe all’esterno, nell’opera, scambiando per realtà circostante un universo proveniente dall’intimo.
Si sfiora qui un punto cruciale, il cuore non solo dell’arte di Miró, ma del percepire umano: il legame tra l’uomo che osserva e la natura osservata, un confine a tal punto sfumato da rendere impossibile stabilire che cosa appartenga all’interiorità della persona e che cosa invece all’universo esterno. E se l’arte di Miró affascina come un sortilegio, coinvolge come un gioco, trasmette quanto un rito, ciò accade perché essa si muove deliberatamente in questa terra di mezzo dove ogni sentire è al suo inizio, in bilico tra emozione e mondo esterno.
Cesare Brandi, nel suo libro Segno e immagine del 1960, ebbe a ipotizzare alla base della mente umana, e perciò all’origine delle due principali attività espressive da questa prodotte – la parola e l’immagine –, l’esistenza di «un ceppo comune, una disponibilità originaria», un vero «stadio preconcettuale della conoscenza». Rifacendosi ai cosiddetti schemi trascendentali proposti da Kant, ma anche agli studi della Gestalt-Psychologie, Brandi parlava dei barlumi o degli albori di ogni atto di coscienza, solitamente ignorati ma sempre in atto nel sentire di chiunque e in ogni istante, sia pure inconsciamente. «La formazione dello schema» scrive infatti Brandi «almeno in modo rudimentale e primario, deve porsi all’atto stesso della percezione, come prelevamento, sul dato offerto dalla retina, dall’udito o da altro senso, di particolari che generalizzano o sommarizzano l’oggetto». E concludeva con un esempio, precisando che a questo livello, «come si esprime l’Arnheim [Arte e percezione visiva, 1957], il bambino di due anni percepirà la “caninità” prima di essere capace di distinguere un cane dall’altro».
Ebbene, se da tali embrionali astrazioni, ancora impastate di realtà, sorgono poi, componendosi e raffinandosi in dettagli e in concetti, sia la parola che l’immagine, soltanto allora nettamente distinte, Miró sceglie di procedere a ritroso: di ridiscendere in questo originario fondo comune, in questa vivida alba dell’uomo e del mondo. Sceglie inoltre di farne il proprio regno. Tracciando perciò, su sfondi di colore e di materia del tutto incerti tra scenari d’anima e paesaggi reali, segni grafici che si imparentano con l’ideogramma e il pittogramma, perché non sono né parola né immagine, danza o musica, ma tutte queste cose prima del loro diversificarsi. E poi, in questo regno, il suo è lo sguardo di un bambino, ma dentro gli occhi di un adulto: inusitata fusione grazie a cui – proseguendo l’esempio suggerito da Arnheim e ripreso da Brandi – il cane è già un cane, riconoscibile e differenziato come tale, ma tuttavia impregnato e trasmutato da un’imprendibile, antecedente «caninità».
Occorre non confondere tale operazione con quanto già al tempo di Miró andavano sperimentando artisti quali Arshile Gorky o Jackson Pollock – quest’ultimo da lui personalmente conosciuto e ammirato –, i quali, è vero, ritraggono il contatto originario tra mente e realtà, ma lo trascrivono, se così si può dire, nella forma senza forma del magma e dello smarrimento, lungo una liquidità di confini dove non rimane che aderire a una materia del tutto caotica, una sorta di primaria e iridescente hylé. Se invece anche Miró discende alle fonti del sentire, lì secondo lui mente e materia, pur non sapendo ancora di se stesse, già si coniugano in figurazioni ben precise, «schemi», nell’accezione di Brandi, pre-razionali ma non per questo meno esatti.
Miró dunque non credeva a un’informe magmaticità. La sua scelta è personale e ancora oggi insuperata: percepire, di questa magmatica area di confine, le regole interne, creando di pari passo un linguaggio in grado di renderle evidenti nella loro precisione, e di lasciarle trasparire. Un linguaggio che come già si è detto aderisca a esse, ponendosi così tra parola e immagine, tra musica e gesto, non senza rievocare anche il gioco, le operazioni magiche, il vaticinio, lo sguardo dell’artigiano e il sapere di un giardiniere. Ma sempre in quell’«aldiquà» dove i vari linguaggi, poco differenziati e costantemente nascenti, non enunciano la natura, non spiegano il reale: ne rendono manifeste le essenze preconcettuali, qui ritratte al loro primo sorgere.
Di nuovo, non si pensi al recupero di un’impulsiva ingenuità, ancor meno a una sorta di art brut. Il linguaggio pittorico composto da Miró è l’alfabeto di un eterno inizio, ma costruito ritrovandone ogni volta, con studio e fatica, le tracce. «E l’arte astratta?» gli chiede in un’intervista del 1951 Rafael Santos Torroella. Risponde Miró: «No. Da lì non verrà mai nessuna liberazione spirituale. Non si conquista un centimetro di libertà con un’arte di formule raggelate. Si diventa liberi soltanto a forza di lavorare e di lottare contro se stessi».
Bisogna precisare che qui per arte astratta Miró intendeva soprattutto un’espressività fondata su astrazioni geometriche, su schemi stilizzati e ridotti a calcolo. Egli deplorava precisamente quello che soltanto uno sguardo superficiale coglierebbe nelle sue opere, le quali invece, pur fondate su composizioni articolate e geometrizzanti, esprimono un’immensa libertà, appunto perché immerse nel fuoco da cui nascono le forme e le parole, la natura umana e la vita stessa. In Mirò le forme stilizzate e il calcolo compositivo sono veicolo di intuizioni fulminee, di emozioni immediate, poi elaborate da una facoltà di astrazione mai meramente razionale, bensì pre-razionale, sempre legata alla natura, alla materia. È questa una capacità del tutto prossima a meccanismi percettivi e sensoriali la cui logica, volutamente potenziata, trasforma la fantasia in strumento conoscitivo. «In lui» scrive Georges Raillard «conoscenza, rivoluzione e felicità sono connesse».
Se tale operazione è per certi versi inequivocabilmente surrealista, nella sostanza trascende questo e ogni altro movimento artistico. Sarebbe infatti opportuno considerare l’arte di Miró alla stessa stregua di come Borges inquadrava quella di Kafka. Secondo il narratore argentino, a Kafka ha fatto inevitabilmente seguito una generazione di scrittori pre-kafkiani. Senza dubbio Borges non ha voluto intendere che lo scrittore boemo fosse talmente in anticipo rispetto al suo tempo da aver reso necessario, ad altri, di ripartire da posizioni precedenti. Piuttosto, Kafka sarebbe riuscito a balzare al di là di ogni tempo, al di là di ogni stile. Proprio come sembra accadere all’arte di Miró; e infatti non ha avuto né allievi né continuatori, né tanto meno imitatori – non ha inaugurato alcuna corrente artistica. La sua arte, assolutamente legata a quanto precede le differenziazioni rigorose, a quanto di pre-razionale fonda una logica «altra» e senza tempo, è inevitabilmente irripetibile, e soprattutto non è suscettibile di superamento. Come lui stesso riferisce ne Il colore dei miei sogni, qualcosa di simile fu intuito da Raymond Roussel, che acquistò una piccola tela di Miró, confidando poi a Michel Leiris, amico di entrambi: «Miró va oltre la pittura».
Anche da questo punto di vista Miró non trasmette alcun messaggio: aspira a riprodurre, a rendere manifeste le leggi arcane dell’incontro tra i propri sogni – volta a volta inquietanti e gioiosi – e le cose: tra l’inatteso che affiora nell’animo e ciò che lo sguardo, la mano intuiscono e sfiorano nelle pieghe degli oggetti e degli eventi. «Lei non parla di forme, ma soltanto di intensità e di colori» dice Georges Raillard a Miró. Quando poi gli domanda perché, quanto all’identità delle sue figure pittoriche, la lasci definire agli altri in mille modi contrastanti, Miró risponde: «Sì, sì. È come vogliono loro. Può essere un cane, una donna, non so che. Non mi interessa. Certo, quando lavoro, nella mia testa c’è una donna o un uccello. In modo molto concreto, una donna o un uccello. Dopo, tocca agli altri».
Paesaggi terrestri, i quadri di Miró sembrano tuttavia cieli stellati. Se qualcuno non avesse intuito già visivamente il perché, gli scritti di questo artista – qui presentati in una scelta essenziale –, procedendo allo stesso modo dei dipinti e delle opere plastiche, non spiegano le ragioni: le emanano. Comprendere tali ragioni è un atto immediato, semplice quanto ogni atto conoscitivo nel suo fondo più puro: lì dove la terra – prima che le ulteriori differenziazioni la trasformino in entità statica e opaca – è ancora un’essenza che si libra nell’aria, e i cieli una luce che tutto sostiene, solida e salda almeno quanto la terra.


* Marco Alessandrini - Psichiatra, psicoterapeuta, Responsabile Unità Operativa Territoriale del Centro di Salute Mentale di Chieti, Professore a contratto presso l'Università di Chieti per l'insegnamento di Psichiatria nella Facoltà di Psicologia e per l'insegnamento di Psicosomatica nella Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Breve (autorizzata dal MURST)

Indirizzo per la corrispondenza: Centro di Salute Mentale (C.S.M), Viale Amendola n. 47, 66100 Chieti (Ch), tel. 0871-35.89.08/33, fax 0871-35.89.23; e-mail: lucesegreta@libero.it



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