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PSYCHOMEDIA
RISPOSTA AL DISAGIO
Anoressia e Bulimia



Anoressia, o l'invivibilità del bisogno:
trattamento nel gruppo monosintomatico a finalità analitica

di Stefania Marinelli



Come è noto, la crisi anoressica esplode solitamente nel corso dell'adolescenza e tende presto a diventare una organizzazione generale del carattere, del comportamento, della cultura: insomma la scelta di uno stile di vita. Tale stile è basato sulla necessità di mantenere sottoalimentati o denutriti corpo e mente e di mantenere separate le funzioni e le esigenze di entrambi, producendo parallelamente una ideologia anche sofisticata, estetica, dietologica, ginnica e filosofica, di tipo astensionista. Si assiste ad una lotta contro il bisogno - di amore, di dipendere, di legarsi, di alimentarsi e di ridurre o meglio negare il vuoto. Perché il crocevia della crisi sta sempre nell'adolescenza? Perché la risposta è generalmente arroccante, anche se corrisponde a diverse storie e a differenti organizzazioni sintomatologiche sottostanti? Sono stati studiati infatti i versanti più comuni e essenziali della condizione anoressica, quali quello fobico-ossessivo; quello più contrassegnato da depressione e scissione profonda; quello isterico. Questi stati mentali si erano già formati precedentemente alla crisi? Si erano manifestati? In che modo? Si può presumere che prendano l'avvio da situazioni primitive dello sviluppo soggettivo e delle interazioni all'interno del gruppo familiare? Come e quando si può intervenire?

Scegliere di vivere annullando il desiderio, il bisogno e la realtà stessa dello scambio, del contatto e del nutrimento per vivere non può avvenire se non per una motivazione grave: probabilmente ad un certo punto della vita, dello sviluppo, questa può apparire come l'ultima barriera prima della disgregazione di sé: l'arrocamento in sé, per non poter transitare in un vuoto pericoloso, o in una confusione vertiginosa; la negazione per rinviare l'incontro con una grave immaturità, con aspetti di sviluppo mancato e per non dare forma e realtà a esperienze interne mostruose o ritenute tali, reali o fantastiche che esse siano, vissute nel corpo o nella mente, o a mezzo tra le due. Vicende pulsionali, sensoriali, affettive immerse nel disordine senza soggetto, prive di riconoscimento e di elaborazione immaginativi e cognitivi, sono quelle che appaiono durante la cura di queste condizioni - quando di cura sia stato possibile ammettere il bisogno.

Una paziente che, spaventata della sua magrezza e del suo sguardo inanimato, ha chiesto aiuto, sentendo nascere in sé durante la terapia, i primi movimenti del bisogno di provare sensazioni ed emozioni, rappresenta nel sogno per un lungo periodo il nuovo registro esperito, come la presenza in sé di un sudicio barbone. In un gruppo di pazienti anoressiche, che dopo un certo periodo si avvia alla elaborazione di un sentire nuovo e si misura con contenuti emozionali e sensoriali finora sconosciuti, nasce una rappresentazione "collettiva", sognata o fantasticata da tutte le pazienti a turno, per la quale l'avvenuta percezione di oggetti psichici e fisici nuovi, quali il bisogno e la sensazione corporea, è sentita come uno stupro, come una violenza lacerante e intrusiva. Se la persona non è formata e se la vagina non può essere immaginata, quale soggetto potrebbe affrontare allora l'evento del menarca? Se l'idea di dentro-fuori o di vuoto-pieno o di tutto-niente non è stata plasmata né delimitata, anzi se il disordine sensoriale e dello scambio fra mente e corpo ha prodotto una autoanestesia, o uno sprofondamento esperienziale sottratto allo sviluppo e alle sue elaborazioni, da quale corpo presessuale potrebbe nascere un corpo sessuato, ritenuto capace di procreazione e di piacere?

Una paziente dice nel gruppo, quando finalmente trova un innamorato che la toglie alla sua solitudine: "Per me lui o un altro sono uguali; non li vedo; io non amo uno piuttosto che un altro, io amo l'amore". Risalendo lontano, si ritrova che l'amore di lei bambina per il padre era stato ugualmente sacrificato e non riconosciuto, acceso dalla passione introversa della solitudine e della negazione, e radicato nel disconoscimento violento e totale di un'altra passione, precedente, primaria, quella per la madre, che non occupa nella memoria nessun' altra immagine che quella della deprivazione anoressica o anoressizzante: una madre che vomita e ingoia; che nutre meccanicamente e senza amore (o di un amore soffocante, Ripa di Meana), di cibo solo materiale e doveroso, freddo o distante; una madre che ama non riamata dal marito o viceversa, o che lo combatte o è da lui combattuta e denigrata; o comunque una madre che non ha mai preso in considerazione l'ipotesi della propria felicità (se non narcisistica) e che sua figlia sia in ogni caso diversa da lei, sia separata e separabile da lei, considerandola piuttosto un proprio distretto o prolungamento psichico e fisico. Una figlia così concepita, allora, è una figlia che ha subìto in sé esperienze destinate ad un adulto (quelle del letto della coppia genitoriale per esempio) che da quell'adulto non sono state contenute, elaborate e delimitate, debordando invece verso quel distretto impreparato e casuale, intercambiabile, che è divenuta una figlia rimasta inclusa nella fantasia dei genitori, o i cui genitori sono rimasti inclusi in lei.

Questa futura anoressica ha imparato presto a sbarazzarsi del proprio apparato percettivo, dei suoi contenuti e di tutta sé. Quando, a tredici anni, verrà richiesta di vivere all'interno del proprio corpo una vicenda ormonale che le richiede di individuarsi come persona integrata e come donna, ella si salverà dalla sua impreparazione e dal suo conflitto, inscenando la fantasia onnipotente della rinuncia, della superiorità verso il bisogno, della sparizione mistica, della iperproduzione o prestazione fisica. Farà una scissione di una parte di sé immaginata come immune, esente, potentissima: esente proprio dal bisogno, di qualunque natura esso sia - primo il bisogno di essere riempita, bonificata, fecondata da quel genitale, diverso dal proprio, che ella non possiede e che dovrebbe imparare a riconoscere e a richiedere - ma dal quale, però, diverrebbe dipendente. E dipendere, nella tradizione, è pericoloso: si disferebbero le difese arroccanti, la minaccia del vuoto divorante diverrebbe persecutoria; qualunque cerimoniale adatto a serializzare, demotivare, desoggettivare l'esperienza, è migliore che affrontarla; qualunque panico isterico è meno angosciante da comunicare che il tormento riconoscibile della propria confusione e miseria; qualunque difesa è migliore del mostro della depressione svuotante e paralizzante. Il compito dell'anoressia è pronto.

Ma addentriamoci meglio nello spinoso argomento: perché proprio l'anoressia, e perché sembra contagiarsi. Non so rispondere a queste domande; ma ho conosciuto molte volte questa vulnerabile potenza del dolore anoressico, così arroccato e poi, piano piano, così incline a cercare un senso, a formare un legame. In un gruppo di terapia questo desiderio segreto e sano di allacciare legami e di interrogarsi sulla propria condizione, si organizza presto come illusione di appartenenza eterna ad un popolo specializzato, e questa concezione aiuta a disporre un apparato terapeutico, conoscitivo. In un altro l'idea di un approdo verso qualcosa di rigenerante si manifesta come desiderio di collegamento a tutte le altre pazienti, da ritenere inseparabili: talmente forte è questo bisogno di unione, che le pazienti sognano a catena gli stessi sogni; editano racconti e ricordi simili o simmetrici; ricercano nomi, oggetti, caratteristiche del gruppo anche fuori, nella vita reale, perché non vi siano fratture nella continuità del legame: ed è così che imparano a sviluppare un coraggio nuovo verso la propria diversità, che diventa meno potente, nel bene e nel male. In un altro gruppo l'emozione collegata al ritrovamento di una Istituzione specializzata e di una terapeuta specializzata è così forte che incentiva un amore e una solidarietà straordinari, tali da rendere tollerabile il peso della competizione e da poterla sentire come spinta verso la ricerca.

Nel setting duale verrebbe chiamata in campo la identificazione adesiva; nel gruppo potrebbe essere utile parlare di onnipotenza fruibile o di gruppo come oggetto-sé (Neri). I sentimenti di vergogna, di dominio, di rifiuto, di solitudine, divengono tali che se ne può parlare: e condividere è molto importante per incrinare l'arroccamento e per creare uno spazio adatto a riconoscere che gli eventi esistono, il tempo esiste e non è infinito, la perdita esiste e forse si può tentare di darle un nome, di farne un uso, di ordinarla. Quando si diffonde in un gruppo così concepito la sensazione di questa possibilità, allora le pazienti anoressiche divengono anche generose e ricche di fantasia e intelligenza. La passività rinunciante diviene aggressività crudele, e questo sostanzia l'esperienza soggettiva, ne aumenta il senso, la consistenza. Sogni e racconti crudeli rendono ragione di una soggettività nuova, attiva, efficace, al posto di quella confusa, disorientata e esclusa. La scoperta di poter plasmare un mondo mentale privato, ma anche condiviso all'interno di un gruppo o di una Istituzione, e comunque verificato in una narrazione comune, aiuta a valorizzare in ogni caso un racconto di sé, e questo ha un forte valore identitario, sia storico sia prospettico; non ha importanza se nel racconto c'è dolore, ansia, rabbia: ma che questo venga visto e tollerato, elaborato insieme.

Anche un linguaggio inedito, magari tutto al negativo, potrà tornare utile per esprimere l'acquisizione di un senso di sé che mancava. Purché il dolore non sia più un evento somatico; o un disordine definitivo dello sviluppo; o una perversità del carattere; o qualcos'altro che il tempo del rifiuto personale e sociale avrà sancito: ma il dolore, dispiegandosi nel tempo, nello spazio, nel racconto e nel legame affettivo della cura, divenga la possibilità di essere rispecchiati senza che si ripetano traumi e catastrofi, o meglio i loro esiti, avvenuti tanto tempo prima e così perpetuati nel tempo, che non li si riconosce più, o di loro non si è mai potuto o saputo dire nulla, nemmeno che c'erano stati. E forse il grande terrore di una persona anoressica è quello di sentire che finora lo spazio che è riuscita a strappare alla sua paura di essere divorata e sparire - e alla paura di divorare e di far sparire se stessa e la realtà, è piuttosto esiguo e virtuale. Dobbiamo accompagnarla se vogliamo che questo spazio assuma un senso diverso.

Ma io spero ora di non aver fatto sparire voi, abusando della vostra attenzione e consegnandovi pensieri e responsabilità; spero piuttosto, con la semplicità della mia esperienza diretta, di essere riuscita a comunicare qualcosa che somigli alla vostra possibilità di pensare, associare, utilizzare in qualche modo quella che è la vostra esperienza e quella che stiamo facendo noi oggi, per poter discutere insieme, mettendo in comune diversi punti di vista e opinioni.

NOTA CONCLUSIVA

Ho svolto da anni gruppi di terapia monosintomatici con pazienti anoressiche. Credo che in nessun'altra patologia si ritrovi così facilmente infatti la spinta ad aggregarsi con ciò che è simile e comune e che viene scambiato a prima vista per identico e indifferenziato: questo sembra aiutare la costruzione di un primo campo di elementi collettivi del gruppo, facilita l'esperienza dell'appartenenza comune, dell'illusione come fattore coesivo e produttivo, del rispecchiamento. Questo aspetto è anche a sua volta quello che facilita il passaggio verso la ricerca delle differenze, ne sottolinea l'elemento di dolore e separazione e aiuta a contare su un patrimonio o mitologia affettiva delle comunanze e degli affetti riconosciuti come diffusi nell'insieme del gruppo prima o al di là delle singole persone, producendo una soglia di lavoro che consente il doppio transito degli elementi dall'uno all'altro versante in modo più fluido. Quando il lavoro del cambiamento, e del cambiamento catastrofico diviene possibile perché i fenomeni nel gruppo sono maturati verso una maggiore chierezza e leggibilità, restituzione degli stili personali e riappropriazione di sé appaiono meno impensabili. Sembra che il campo dell'appartenenza denotato attraverso il sintomo, faciliti l'accesso alla concezione di un bisogno o ad una attenuazione dell'obbligo a negarlo e che esso possa fungere da soggetto gruppale, quasi vicariante e fruibile per i singoli, laddove la concezione e la presenza della soggettività è sentita gravemente minacciata.

Un'altra notazione sul trattamento in gruppi monosintomatici delle patologie alimentari è da ricercare nella loro specifica tendenza verso l'elemento della dissociazione e della duplicazione, della ricerca fra autentico e falso, basati su antiche scissioni e negazioni degli impulsi primari, compiuti nelle più remote esperienze alimentari e affettive: questa tendenza aiuta a creare un campo di contrasti aperti, che è spesso trasformabile in un conflitto o serie di conflitti più elaborabili e integrabili che non nell'ambito di una singola patologia, che verrebbe più confinata rispetto ad altre diverse all'interno di un gruppo. L'amplificazione, in questo caso porta giovamento.

Infine, una considerazione sulla possibilità di ampliare le concezioni indicate anche ad altre categorie di disturbi, che in ogni caso si presentano come affini, quali altre patologie del tipo alimentare (mettiamo il diabete) che possono utilmente essere studiate nel versante psicosomatico come patologie contenenti l'aspetto autofagico; o le malattie autoimmuni, che del pari contengono l'elemento del sé che non riconosce sue proprie parti e le attacca. Si potrebbe infatti dire generalmente che il trattamento in gruppo monosintomatico fin qui descritto aiuti tutte quelle sofferenze che si situano tra il versante psichico e quello somatico e che sono perciò ingaggiate con il problema identitario di base, risalente ai deficit o ai disordini del sé.


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