PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> ABUSO


PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: RISPOSTA AL DISAGIO
Area: Abuso e Maltrattamento


La relazione pedofila

Franca Pezzoni e Cosimo Schinaia

Dal Capitolo 8 del libro "Pedofilia pedofilie. La psicoanalisi e il mondo del pedofilo"



    I violenti e i prevaricatori sono responsabili non solo del male che fanno alle loro vittime, ma anche di quello cui le inducono in seguito ai torti patiti.
    Alessandro Manzoni
In Dostoevskij e il parricidio (1927) Freud annovera il grande scrittore russo tra i delinquenti e gli immorali, parlando per lui di una predisposizione pulsionale perversa, che doveva renderlo proclive al sadomasochismo. Tra le ragioni che lo hanno spinto a questa diagnosi cita, oltre alla particolare abiezione morale dei suoi personaggi e al vizio del gioco, il probabile abuso sessuale da lui perpetrato nei confronti di una fanciulla ancora impubere (come lo stesso scrittore ebbe ad ammettere). Freud ci ricorda che il tema dell'abuso sessuale di una minore era comparso anche nella confessione di Stavroghin del romanzo I demoni e nell'opera incompiuta Storia di un grande peccatore.
Così Freud riassume le principali peculiarità psicologiche dello scrittore russo: "La fortissima pulsione distruttiva di Dostoevskij, che avrebbe facilmente potuto farne un criminale, si dirige nella vita principalmente contro la sua stessa persona (si rivolge cioè all'interno anziché all'esterno), esprimendosi perciò sotto forma di masochismo e di senso di colpa. Comunque la sua personalità conserva un numero notevole di tratti sadici, che si manifestano nella sua eccitabilità, nell'acuto desiderio di tormentare il prossimo, nell'intolleranza anche verso le persone amate; questi tratti inoltre traspaiono nel modo in cui egli, autore, tratta i suoi lettori" (p. 523).
La configurazione di perversione sadomasochistica all'interno della personalità del pedofilo è pertanto già presente negli scritti di Freud, nonostante in altre parti della sua opera egli si sia espresso in termini diversi.
Ancora più che nelle altre forme di perversione, è possibile riconoscere nel pedofilo una visione integralista dell'esistenza e delle relazioni, con la conseguente applicazione rigida e coerente dei princìpi derivati dalla sua "dottrina ideologica". Il pedofilo è convinto dogmaticamente della giustezza e della liceità delle sue inclinazioni, dei suoi desideri, dei suoi atteggiamenti, e si oppone attraverso la sistematica trasgressione delle norme a una società ingiusta ed eticamente pervasiva, che gli impedisce di godere pienamente del bambino e impedisce al bambino di godere dell'amore dell'adulto (Schinaia, 2000).
"I pedofili (...) possono sentire che il mondo è un insieme di relazioni sessualizzate, che i bambini da loro desiderati sono a loro volta pieni di desideri sessuali e che non ci si può sottrarre a questa fonte insostituibile di piacere" (De Masi, 1999a, p. 103).
"La seduzione innovativa che dovrebbe essere basata sulle caratteristiche del riconoscimento dell'altro e perciò delle differenze di sesso e di generazione, e sul rispetto di tali differenze, si sclerotizza invece come seduzione narcisistica sessualizzata, promotrice di relazioni incestuose, ambigue, al tempo stesso captatrici e rifiutanti. La pulsione di impossessamento, di freudiana memoria, che potremmo qualificare - da un punto di vista relazionale - come imperativo a possedere l'oggetto, come appropriazione e dominio, come imposizione di un marchio, sta alla base della violenza perentoria e dell'urgenza dei bisogni, ma anche non tiene conto dell'oggetto in quanto altro, con sue differenze e peculiari necessità. Questa violenza è alla base anche di maltrattamenti fisici e psichici, di abusi sessuali, di funzionamenti psichici e agiti perversi" (Racalbuto, 1999, p. 49).
"Uno degli effetti a cui è sottomessa la sessualità infantile è la relazione pedofila, che offre l'opportunità di riempire il vuoto intollerabile provato in seguito al "non-ascolto" e alla non-accoglienza dei bisogni emozionali sessuali pregenitali infantili e che tende a costituirsi attraverso regole ben precise in cui il segreto e la colpa sono i perni portanti. Tali regole sono facilmente introiettate dal bambino in quanto rappresentano le regole condivise dai modelli primari di riferimento" (Lanotte, 1999, p. 74).
Bouchet-Kervella (1996) si domanda se il bisogno di proclamare l'irresistibile valore erotico che un bambino ha per un adulto non vada visto come un tentativo di negare e sostituire l'insopportabile rappresentazione inversa: quella del bambino non desiderato e indesiderabile, da eliminare, secondo una modalità talvolta molto vicina a un fantasma infanticida appena velato, come Raskovsky (1973) ha avuto modo di indagare.
La pedofilia, presupponendo la magica abolizione delle differenze fra generazioni e negando il valore e anche l'esistenza del ruolo e della funzione dei genitori, aderisce totalmente a una sorta di mito dell'eterna giovinezza, per cui il mondo delle relazioni è un nirvana infantile dove il corpo e la bellezza infantile vengono idealizzati e assolutizzati, mentre i corpi adulti semplicemente non esistono più né come macchine desideranti né, tantomeno, come oggetti del desiderio.
"Il pedofilo si fa bambino lui, non pretendendo che l'altro si faccia presto adulto per non costituire un peso e sollevare da ogni responsabilità" (Camarca e Parsi, 2000).
"Il pedofilo ama il suo doppio narcisisistico e gode di quanto avrebbe voluto fosse fatto a lui. Egli è al posto del bambino, ma anche al posto dell'adulto, spesso descritto come un padre autoritario, severo, violento, una caricatura del padre dell'orda primitiva. Un padre tirannico e sadico che violenta e domina i figli ed esige una sottomissione totale. Nella realtà il padre del pedofilo è piuttosto assente, morto o in ogni caso molto svalorizzato nel discorso materno (...) l'identificazione con questo tipo di padre presuppone una sorta di inversione di valori. Il padre dell'orda, padre pedofilo, diventa l'ideale di padre" (Szwec, 1993, p. 592).
Secondo Devereux (cit. in Gauthier-Hanon e Téboul, 1988, p. 226) la pedofilia sarebbe attribuibile all'assenza di interesse dei padri per i loro figli, i quali cercano di compensare "l'assenza del padre" con altri uomini adulti.
Il gioco di valorizzazione e svalorizzazione del padre nell'immaginario del pedofilo mette in evidenza che nessuno in realtà gli ha insegnato a essere padre. Possiamo rintracciare nell'assenza paterna le varie fabbricazioni, a livello di falso Sé, di presunte vocazioni paterne, quali quelle sbandierate attraverso le più diverse professioni che rendono stabili i contatti con i bambini (insegnanti, educatori, religiosi ecc.).
Si evidenziano un'estrema fragilità narcisistica accompagnata da un fondo di angoscia catastrofica, il passaggio da vissuti di riparazione e adozione a vissuti di rifiuto e disinteresse per il bambino, una compensazione di superficie raggiunta tramite il ricorso a una personalità artificiale corrispondente all'Io ideale e costanti minacce di esplosioni di violenza ogni volta che la coerenza dell'Io viene messa in discussione.
L'immaginario specifico può costituirsi secondo alcune caratteristiche modalità:

1. Il pedofilo vuole essere un ragazzo insieme ad altri ragazzi nel mondo dei giochi e della fantasia; De Masi (1998) descrive un mondo della ragazzità. Un istitutore quarantenne così si esprimeva, dopo essere stato allontanato da un collegio per "presunti" episodi di pedofilia: "Io voglio bene ai miei ragazzi e voglio solo aiutarli a tirare fuori il meglio di loro (...) apparteniamo allo stesso mondo (...) non ci sono distanze fra me e loro. Ho un documento che comprova che sono proprio un istitutore e che sono nato quarant'anni fa, ma in realtà sono uno di loro, appartengo al loro mondo." L'identificazione con il mondo adolescenziale non appare incrinabile da qualsivoglia elemento di realtà.
Per il pedofilo non esiste sviluppo oltre l'adolescenza, tanto che l'oggetto d'amore viene perduto nel momento in cui acquisisce i caratteri somatici dell'adulto. Il mondo idealizzato di Peter Pan, in cui non si cresce mai, sembra essere la metafora del mondo ideale della pedofilia. In modo simile si esprimeva Peter Pan: "Non voglio diventare un uomo - disse con passione - voglio rimanere sempre un ragazzino e divertirmi. Così sono scappato nei giardini di Kensington e ho vissuto per molto tempo tra le fate" (Barrie, 1906, p. 30).
Peter Pan è convinto di essersi creato da solo e che il suo ruolo di genitore è salvifico per i ragazzi smarriti dell'umanità (Mancuso, 1997).
La bontà e l'amore per l'educatore quarantenne potevano esprimersi soltanto nell'incontro con la purezza dei ragazzi, mentre tutto il male veniva confinato nel mondo meschino degli adulti, in passato la propria madre, quindi gli istitutori del collegio dove fu rinchiuso da bambino e dove subì una violenza sessuale, e infine l'analista nel transfert.
Thomä e Käkele (1988) descrivono un caso di pedofilia nel quale, dopo nove mesi di incontri in cui si alternavano ipnosi e uso del registratore, è cominciata una psicoterapia psicoanalitica, che ha permesso un reale trattamento dei disturbi psicosessuali manifesti ormai fissati. All'inizio dell'analisi, gli autori sono arrivati a chiarire che il paziente "nei ragazzi cerca sé stesso: si tratta di un amore per identificazione; i ragazzi lo attraggono perché - almeno esteriormente - sono come lui voleva essere allora: indipendenti, liberi, senza legami e senza paure" (vol. 2, p. 257).

2. È frequente notare come i pedofili dichiarino di essere stati bambini intelligenti, sensibili e privilegiati e di avere goduto di un'infanzia meravigliosa, idealizzata nei loro racconti, da cui sono emersi in modo traumatico, a causa di tradimenti da parte dei genitori o di persone depositarie della loro fiducia. Il tradimento implica l'impossibilità di accordare fiducia all'adulto e la necessità di fondare un nuovo ordine nell'organizzazione dell'età, del tempo e delle relazioni.
L'incontro con il mondo adulto viene eluso e il rifugiarsi idealizzato nel mondo infantile indica il rifiuto da parte del futuro pedofilo a diventare l'adulto svalutato e inconsciamente odiato (De Masi, 1998).
In realtà i pedofili sono stati bambini isolati che si sono sentiti esclusi dagli altri bambini e che hanno invidiato la vitalità dei loro coetanei. Da adulti possono tentare di possedere e di catturare come delle prede quei bambini, cercando di impossessarsi di quella vitalità, di quell'energia che hanno ammirato e che a loro sono mancate.
Questa disposizione vampiresca fa sì che la spinta del pedofilo verso il bambino assuma caratteristiche positive ed egosintoniche; il pedofilo ha bisogno della linfa vitale del bambino per contrastare "un nucleo di fondo mortifero-depresso" (ibid., p. 24) che lo prosciugherebbe fino a ucciderlo.

Sottolineo alcuni capisaldi della relazione pedofila.

La relazione pedofila è asimmetrica. È l'adulto che induce o costringe il bambino a farsi complice. La capacità di creare l'atmosfera emotiva per sollecitare la volontaria partecipazione del bambino viene considerata un vero e proprio talento del pedofilo. "Non sorvegliato dalla coscienza, perché non in comunicazione con la coscienza, lo sguardo del desiderio è veloce, agile, penetrante, pronto a catturare le sfumature, le allusioni, i segnali appena accennati. E questo, che è poi il gioco dell'amore, se avviene ad armi pari tra gli adulti che, consenzienti, vogliono scoprire l'un l'altro il proprio enigma e volere lo sconcerto dentro di sé, si fa tragedia quando questa destrezza del desiderio adulto incontra il desiderio indifferenziato del bambino che conosce solo l'accoglienza e il rifiuto" (Galimberti, 2000a, p. 17).
"Il pedofilo si costruisce il proprio piacere, ne rivendica perfino il diritto, esasperando una funzione edonistica per lui vitale, alla quale non può rinunciare, poiché diversamente verrebbe a perdere quella "possibilità riparativa" (noumenica) e quella "occasione catartica" (fenomenica) che segnano tragicamente il suo "essere nel mondo"" (Aguglia e Riolo, 1999, p. 11).
Stupisce la facilità di accesso del pedofilo al mondo infantile, la capacità di comunicare e di incontrarsi in senso fenomenologico con un mondo non adulto. "Nell'incontro pedofilo sembra attivarsi una risonanza intima emotiva simile, per quanto riguarda la richiesta d'amore, ma fondamentalmente differente per quanto riguarda la modalità dell'essere nell'amore: orientata verso il bambino e spinta dal bisogno di soddisfacimento sessuale del pedofilo, orientata verso l'adulto e spinta dal bisogno di gratificazione, protezione e cura nel bambino" (Lanotte, 1999, p. 72).
La complicità successiva all'adescamento, che talvolta si osserva nelle relazioni pedofile, non va confusa con la reciprocità, ma va associata a fenomeni di precoce "adultizzazione" che, manifestandosi con una certa promiscuità confusiva e con un esibito desiderio di sedurre, sono evidentemente difese dalla percezione del dolore dell'abbandono e della mancanza di cure (De Masi, 1999b).
"Nel rapporto sessuale maturo - scrive De Martis (1989, p. 283) - tanto nel piacere preliminare quanto nel coito, tutti gli aspetti anche i più arcaici (quali l'aspirazione fusionale e le valenze cannibaliche), sono messi al servizio di un'autentica reciprocità, ove il dare e il ricevere piacere rappresenta la meta di una relazione con il partner affettivamente pacificata (...) Nei perversi avviene il contrario: la sessualità distruttiva viene contrabbandata attraverso la mistificazione di un piacere ardente. Ma la soluzione rimane inevitabilmente narcisistica, autoerotica, impulsiva, agita."
Il pedofilo capta e stravolge, attraverso il perverso gioco seduttivo, la tentazione del bambino di realizzare le fantasie di magica sostituzione del genitore, bruciando le tappe dello sviluppo e accedendo senza conflitti alla condizione adulta. Conferma, falsificandole e degradandole, le fantasie del bambino e impedisce il necessario confronto e l'indispensabile negoziazione con il mondo esterno.
"La vera reciprocità è la relazione fra soggetti che abitano lo spazio dell'intersoggettività, lo spazio dell'incontro, nel quale l'altro rimane sempre e comunque altro" (Fanali, 1998, p. 140).
Il bambino con cui il pedofilo entra in contatto non ha una consistenza emotiva, che viene riconosciuta e rispettata, ma viene pensato e costruito come un homunculus, una sorta di disarmonico adulto in miniatura.
La struttura del sistema relazionale è chiusa e autoreferenziale, e al suo interno si consuma il rito della violenza e della sopraffazione, seppure camuffata da seduzione. Per descrivere questo sistema relazionale Fanali fa riferimento al film Salò, al cui inizio Pier Paolo Pasolini "presenta lo scenario in cui si consumano le terribili, orribili violenze da parte di ignobili rappresentanti del potere fascista su inermi adolescenti. Davanti alla villa Pasolini inquadra un arco: è la siepe che cinge il giardino della villa. La siepe è un confine oltre il quale c'è la vita, al di qua del quale la morte (...) Gli adolescenti di Salò sono destinati tragicamente a morire. Non possono uscire" (ibid., pp. 143 sg.).
È interessante notare che gli abusatori scelgono, tra i bambini, i più derelitti, i più sottomessi, non soltanto per la facilità con cui possono circuirli, ma come caratteristica di attrazione.
"Ciò corrisponde al fatto che gli uomini hanno difficoltà riguardo alle loro identificazioni maschili. Si comprende allora (...) perché l'insieme degli studi di prevalenza mostrano che l'età dei bambini più a rischio è quella tra i nove e i dodici anni" (Balier, 1993, p. 576).
Bisogna inoltre aggiungere che il passaggio dalla fase prepubere alla pubertà non necessariamente comporta una maturità sufficiente per sostenere un rapporto sessuale con un adulto, soprattutto in un contesto storico come quello occidentale attuale, dove gli adolescenti, e in particolare i preadolescenti, non raggiungono funzioni sociali maturative e restano in una condizione di minorità psicologica sostenuta e agevolata dal contesto sociale, che sposta sempre più in avanti i tempi dell'emancipazione e della maturità. Si assiste quindi a un'asimmetria che supera il dato anagrafico bruto per situarsi in una relazione in ogni caso basata sul dominio psicologico e sulla subdola seduzione.
"Sotto tale profilo, la violenza (che naturalmente resta anche, e principalmente, atto immediatamente e brutalmente fisico) si configura di volta in volta come violazione di regole interpersonali condivise, come coartazione dell'identità di Alter ad opera di Ego (o come coartazione bidirezionale Ego ¨Æ Alter), come relazione disarmonica, come comunicazione asimmetrica e inefficace, suscettibile spesso di bloccare, almeno pro tempore, la comunicazione medesima" (Moravia, 1998, p. 20).

La relazione pedofila è ripetitiva e monotona. La ripetitività, in assenza di una sostanziale simmetria, sembra garantire la veridicità di una relazione, che altrimenti non avrebbe sostanza. Essa non viene avvertita dal pedofilo (ed è l'unico a non avvertirla) in virtù dell'eccitamento che accompagna la compulsione e che, come la droga, trasforma ogni volta lo stesso identico rito in appetibile novità.
Le sensazioni prevalenti nella lettura delle contorte costruzioni sadomasochistiche del marchese de Sade sono la noia e il fastidio, prima ancora che il disgusto; men che meno compaiono sensazioni di eccitazione. Sentimenti analoghi sono provocati dalla visione della maggior parte dei film a luci rosse.
Il pedofilo, che di solito presenta caratteristiche di ipernormalità, di eccessivo conformismo, avverte l'esigenza di condurre a termine l'atto come proveniente da una indifferibile necessità interiore che lo costringe a una rigorosa coerenza. Le caratteristiche di ristrettezza mentale ampiamente segnalate da Brenman (1988) nella crudeltà mentale vanno a braccetto con la noiosa monotonia del comportamento pedofilo, anche per via dell'elevatissimo spazio mentale che, grazie all'intensissimo eccitamento, viene concesso alla perversione, che quindi riduce necessariamente lo spazio mentale per le altre operazioni psichiche. "Per evitare la consapevolezza del senso di colpa, le percezioni della mente vengono ristrette sì da dare un'apparente giustificazione alla crudeltà" (p. 288).
L'incontro sessuale consiste nella pedissequa ripetizione di quanto è stato costruito in anticipo nella mente del pedofilo. Non vi è spazio alcuno per l'improvvisazione e la spontaneità, e ogni sequenza dell'incontro deve geometricamente corrispondere al film immaginativo già preparato dal pedofilo; una presenza reale, altra, rischierebbe, introducendo le proprie esigenze, di rovinare il progetto che non ammette repliche o variazioni e, ledendo la trama di un racconto già scritto, comprometterebbe la possibilità di eccitamento orgasmico.
Siamo completamente da un'altra parte rispetto all'onnipotenza infantile che per Freud sosteneva la fantasia perversa; siamo nel mondo dell'obbligatorietà, della compulsività, della mancanza di libertà e creatività.
Queste caratteristiche, la ripetitività e la monotonia, rendono sempre possibile nella storia degli abusatori sessuali lo spettro della recidiva. Per gli psicologi del Sé la risposta pedofilica rappresenta un tentativo difensivo, perennemente insoddisfacente e pertanto reiterabile all'infinito, di usare massicciamente la sessualità per tentare di contrastare la carente coesione del Sé.
Mentre Balier (1996) vede nella ripetizione la ricerca all'esterno di una fallita interiorizzazione del fallo e il sigillo della pulsione di morte, Bonnet (1997) riprende un apporto anteriore di Freud, quello di Ricordare, ripetere e rielaborare del 1914: "La stessa traslazione rappresenta un elemento della ripetizione e la ripetizione è la traslazione del passato dimenticato" (p. 356). L'affermazione che la ripetizione di un atto è anche un atto di transfert ha ovviamente importanti implicazioni terapeutiche e riduce il senso di impotenza che può pervadere l'analista al lavoro. Anche Anna Freud (1964) ha distinto la coazione a ripetere dall'elaborazione ripetitiva, un meccanismo dell'Io che ripete un'esperienza con variazioni utili alla sua assimilazione, come il volgere un'esperienza passiva in esperienza attiva.
Lichtenberg (1989) propone il concetto di scene modello per individuare alcune modalità interattive che presentificano modi di relazione sempre vissuti e ripetuti, ma mai finora "pensati". "Tale approccio si basa sull'idea che una parte importante dei nostri modi di essere non abbia un corrispettivo inconscio rappresentabile, per esempio sul modello della fantasia inconscia della Klein. Il corrispettivo di certi modi di essere affonda invece in una sorta di vissuto fondamentale caratterizzato dalla ripetizione, che non corrisponde però alla rievocazione di modalità interattive e relazionali di cui il soggetto non ha mai avuto coscienza" (Correale e Neri, 1999, p. 16).
Anche se, come abbiamo avuto modo di vedere, singoli atteggiamenti o comportamenti pedofili di per sé non hanno nulla in comune con la criminalità sessuale, è possibile, anzi è frequente che il rapporto asimmetrico dominante-dominato, adulto-bambino, subisca una estrema escalation e vada verso il massimo dell'orgasmo perverso, che coincide con il piacere derivante dal potere di uccisione (De Masi, 1998).
La escalation è in relazione all'assuefazione, che provoca un innalzamento della soglia del piacere (De Masi, 1999a).
Al prevalere di modalità persuasive e concilianti nel periodo che precede la violenza subentrano modalità di rapporto in cui la violenza psicologica assume un ruolo centrale, in quanto il pedofilo teme che il gioco della penombra in cui si svolge subisca l'effetto luce e appaia in superficie divenendo quindi realtà, cosa che causa ansia al pedofilo, che teme l'irrompere sulla scena della realtà rispetto ai suoi costrutti immaginari (Aguglia e Riolo, 1999).
La escalation perversa, che da situazioni di gioco erotico apparentemente sotto controllo può condurre fino alla morte, è descritta nel già citato romanzo Dei bambini non si sa niente, in cui i giochi erotici di un gruppo di bambini guidati da un sadico adolescente culminano nella morte di una bambina, che è stata tanto violentemente, quanto senza la coscienza di tale violenza, sodomizzata con il manico di una racchetta da tennis.
La difficoltà a entrare in contatto con le proprie angosce e l'impossibilità di provare un qualsivoglia senso di responsabilità, e quindi di prendere coscienza della propria partecipazione nello svolgimento delle fasi successive che hanno caratterizzato l'escalation perversa del gioco, si traduce nell'automatica decisione di sotterrare la piccola vittima, cancellando e negando in tal modo non solo il delitto, ma tutti i passaggi che hanno condotto alla morte della bambina, in quanto inelaborabili.
Una ricerca effettuata su un campione di 91 soggetti evidenzia che la percentuale di pedofili che uccidono o tentano di uccidere il bambino durante o dopo la violenza è pari all'8 per cento (ibid.).
La relazione pedofilia-morte, con la sottolineatura del potere totale degli adulti sugli adolescenti, considerati esseri belli, altamente appetibili, ma inferiori, è uno degli assi portanti del romanzo Pornografia dello scrittore polacco Witold Gombrowicz (1960).
Così si può leggere nella presentazione all'edizione italiana: "I due anziani protagonisti (Witold e Federico), attirati verso il basso (la giovinezza), riescono a costruire con i loro sguardi, la loro esagerazione dei particolari e i macchinosi intrighi, un folle castello di fenomeni che ha l'apparenza di un rapporto intimo e segreto tra Enrichetta e Carlo (gli adolescenti). Quest'ultimo, con la sua giovanile e ruspante bellezza, unisce Federico e Witold in un ulteriore gioco di seduzione: un legame omosessuale che vive nell'obiettivo di buttare Carlo tra le braccia di Enrichetta. Federico e Witold sembrano mettere in piedi tutto quel teatrino di intrighi perché sono innamorati della giovinezza di Carlo" (Cataluccio, 1994, p. xi).
E lo stesso Gombrowicz scrive: "A poco a poco i due signori, affascinati dalla bellezza del giovane, si innamorano della coppia. Vogliono a tutti i costi penetrare dentro quel fascino, legarsi ai giovani (...) e scoprono un delitto, un peccato commesso insieme a loro per farli intrufolare in quella intimità altrimenti impenetrabile; organizzano perciò un assassinio in comune" (1960, p. 196).
Gli adulti sono intelligenti, torbidi, lascivi e detengono tutto il potere; gli adolescenti rappresentano l'innocenza coinvolta dalla seduzione e travolta fino alle estreme conseguenze. "Traspare anzi il fatto che non sono né gli uni (gli adulti) né gli altri a dominare; appare invece che la schiavitù, pur nell'asimmetria sia reciproca" (Iaria, 1999).
Lo stato di eccitamento coinvolge tutti e ha come massima espressione il piacere dell'omicidio, che rappresenta il culmine della relazione sadomasochistica, che cerca disperatamente di tenere a bada l'angoscia di morte.

Il ruolo dello sguardo
Come ci ricorda Fenichel (1945), Freud ha associato le tendenze voyeuristiche a una fissazione alla scena primaria, nella quale il bambino assiste al rapporto sessuale tra i genitori. Questa precoce esperienza traumatica potrebbe stimolare l'angoscia di castrazione e portare il bambino, una volta adulto, a rimettere in atto la scena più e più volte nel tentativo di padroneggiare attivamente un trauma vissuto passivamente.
"Si può immaginare un intrico fra desiderio fusionale, affascinazione e timore della distruzione che ben giustifica la dizione bioniana di "terrore senza nome". Sull'importanza di questi primi accadimenti esiste una sostanziale convergenza fra le varie scuole psicoanalitiche, sia che si voglia privilegiare una lettura kleiniana, winnicottiana, mahleriana o bioniana. Sono qui in gioco aspetti variamente definiti nei processi di separazione-individuazione e di scissione-idealizzazione in cui si abbozza la differenza fra i sessi" (De Martis, 1989, pp. 273 sg.).
"Il ruolo dell'immaginazione spiega la centralità della funzione visiva nella costruzione della scena perversa e l'importanza della componente estetico-voyeuristica nel godimento che ne deriva. Il guardare come mezzo per catturare e incorporare l'altro, l'essere guardati o il ferire lo sguardo nell'esibizionismo [spesso segno di un fortissimo bisogno di esistere e opporsi al senso tragico del nulla], il concentrarsi eccitato sugli organi sessuali nella pornografia, fanno parte dello scenario immaginario necessario alla perversione" (De Masi, 1999a, p. 96).

In tutta l'opera pittorica di Balthus sono presenti provocazioni erotiche, occhi socchiusi, il vestito svolazzante sui corpi radiosi delle adolescenti, forma suprema e sacrale della Bellezza. Il pittore nega spudoratamente, però, qualsiasi contenuto erotico alle sue opere, anche a quelle in cui più evidente è l'espressione di sentimenti pedofili, in cui più morbose sono le descrizioni di giovanette dal pube immaturamente glabro, tese nell'ascolto di un desiderio sessuale che non riescono a controllare.
Nei quadri di Balthus si possono osservare "gli sguardi torvi delle fanciulle, l'esagerato esibizionismo delle parti genitali e dei seni; le spalle angolose, in rotta con il mondo; le braccia in atteggiamenti perversi; una paurosa solitudine; l'eccessiva separazione fra il mondo dell'infanzia e quello degli adulti" (Almansi, 1990, p. 131).
Tra l'essere e il nulla Balthus ha aperto una terza via: il può essere. L'angoscia metafisica esplode nelle sue immagini di adolescenti che non sono più bambini, ma non ancora adulti, "che si trovano in quel fragile spazio dove tutto è in gioco, dove tutte le possibilità della vita sono ancora formulate come desideri, prima di schiudersi nel piacere, nella vita stessa" (Tasset, 1996, p. 17).
Il quadro Leçon de guitare del 1934 ha certamente un significato di torbida perversione. In esso la maestra usa la giovanissima allieva come un oggetto erotico, anche se il quadro è basato su uno schema figurativo ripreso dal tema della Pietà con la Madonna che tiene il figlio morto sulle ginocchia. Balthus "ha preso come suo territorio di analisi psicologica le ninfette, le torbide bambinette sui dieci, dodici anni che sono tanto più provocanti quanto meno sanno che cosa significa la provocazione" (Almansi, 1990, p. 131).
Il continuo ripetersi del soggetto delle ingenue e sensuali adolescenti in fiore nei quadri di Balthus ci permette di focalizzare la nostra attenzione su forme accettate, in quanto artisticamente significative, dello sguardo narcisisticamente seduttivo dell'adulto.
D'altronde il Caravaggio ci aveva dato ampia dimostrazione della capacità di sublimazione dello sguardo pedofilo, trasferendo la sensualità dello sguardo dell'adulto nella provocatoria sensualità degli sguardi e delle movenze dei suoi ragazzi dipinti.
Nella pittura del Caravaggio "l'antitesi fra tradizione e rivoluzione (regola e sovversione) ottiene il superamento delle gerarchie generistiche (non c'è pittura di genere in Caravaggio) vincolate a contenuti e soggetti" (Marini, 1981, p. 361).
Caravaggio sceglie anche, per le sue esigenze di iconografia sacra, l'attimo mondano della messa in scena. Tra osservanza e deviazione, la sensualità dei fanciulli è fortemente erotizzata, ed è evidente sui loro volti l'intenzionalità scandalosamente seduttiva, come si può osservare nel famoso dipinto I musici, opera giovanile in cui, secondo Baglione (1642), biografo del pittore, le figure furono ritratte da giovani modelli al naturale. La scrittrice Czobor (1954) volle scorgere nel suonatore di liuto l'autoritratto idealizzato del maestro.
"Una classe dominante neofeudale chiusa in una forte autocoscienza ideologica e attenta a quello che significassero, culturalmente, le "immagini" sacre e profane, avrebbe severamente bandito ogni dipinto caravaggesco. Avviene invece che questa pittura per la sua novità, per la sua qualità (di immagine, non di vagheggiata stesura) piaccia, sia apprezzata e ricercata dalle principali gallerie" (Conti, 1979, p. 222).
Il successo ottenuto allora dalle opere del Caravaggio e quello di oggi da parte di Balthus può essere compreso non soltanto facendo ricorso alla loro innegabile qualità pittorica, ma anche prendendo atto che la trasposizione estetica ha permesso la rappresentazione di sentimenti e desideri che, pur albergando nell'animo umano, non avrebbero potuto essere comunicati a causa dell'ambigua rarefazione e dell'inquietante ineffabilità.
Se la pedofilia come tendenza agita rappresenta una "minoranza silenziosa" consistente e attiva, la pedofilia come tendenza non agita è fortemente intricata con l'immaginario sessuale dominante che contempla anche l'appropriazione erotica del corpo infantile, e riguarda sicuramente un'area molto più vasta della popolazione (Foti e Roccia, 1994b).
Se una rappresentazione artistica dello sguardo perverso permette anche impensate possibilità identificative e, scandagliando le profondità dell'animo umano, evita manichee distinzioni tra il normale e il patologico, non può e non deve diventare strumento di propaganda della perversione, perché in tal modo tradirebbe, probabilmente, le intenzioni (anche inconsce) dell'autore, attribuendogli connotazioni che gli sono estranee e collocandolo arbitrariamente in un "movimento". Scrive Camarca: "[Non c'è] nessun capolavoro in grado di eguagliare l'importanza unica di una vita umana. Non c'è libro, non c'è scultura, né scoperta scientifica che possa edificarsi nelle viscere di un bambino" (in Camarca e Parsi, 2000, p.40).

È di frequente riscontro, nelle storie dei pedofili, la tendenza a fotografare e a collezionare fotografie o a riprendere spesso con materiale tecnico molto sofisticato i bambini, e non solo allo scopo di una diffusione di immagini pornografiche, tra l'altro molto ricercate anche in rete, ma come contributo all'eccitamento pedofilo.
"[Il pedofilo] bulimicamente ingurgita quante più fotografie gli è possibile.E parlo di soggetti in grado di collezionare qualcosa come cento-centocinquantamila immagini con bimbi brutalizzati.Immagini che ripone religiosamente in files minuziosamente preparati, divisi per argomenti e in ordine alfabetico e per località e per età delle vittime e per generalità" (Camarca e Parsi, 2000, p. 81).
È lo stesso mezzo tecnico a favorire il voyeurismo. Ci ricorda Servadio (1967) che ""fissare" l'oggetto della fotografia, coglierlo nella posizione, nel momento ritenuti migliori, incorporare l'immagine all'interno della macchina, sentirlo infine in tal modo catturato, prigioniero (...) tutti questi sentimenti e atti sono indiscutibilmente scopofilici" (p. 64).
Per un lunghissimo periodo fotografia e bambino sono stati tecnicamente incompatibili a causa dell'impossibilità da parte del bambino a stare fermo e mantenere la posa. I dagherrotipi di infanti ancora rimasti ci mostrano bimbetti contratti, irrigiditi, mummificati, probabilmente rimproverati, talvolta minacciati purché fossero docili oggetti a disposizione del fotografo.
Dalla storia della fotografia emerge che il bambino così com'è non va bene, dice Amodeo in un lavoro del 1981, "al contrario va travestito da adulto in miniatura con tutti i connotati dell'eleganza, o da cupido, o da fatina. Se lo si fotografa così com'è, è per altri scopi: per dimostrare la propria sensibilità sociale (cosa vi è di più condivisibile della denuncia dello sfruttamento infantile?) com'è il caso di Hine, o per attizzare attraverso l'uso dell'infanzia infelice la polemica sociale, come fece con maggior rigore Riis, o ancora per praticare del bozzettismo a basso costo, di cui Cartier-Bresson ci ha lasciato gli esempi migliori". Seppure con parole estremamente provocatorie, Amodeo esprime il disagio derivante dal fatto che comunque nella fotografia il bambino è usato e violentato dallo sguardo adulto e sostiene che l'innocenza è assente nella storia del bimbo fotografato e che la fotografia colta è piena di bimbi che sono tutti alieni, esseri stranieri, maschere, travestiti, trasfigurati.
Basta osservare le fotografie apparentemente innocenti di Lewis Carroll, pseudonimo del matematico e scrittore Lutwidge Dogson, l'autore di Alice nel Paese delle meraviglie, che fu un voyeur pedofilo conclamato, per rendersi conto che quelle immagini non appartengono alle bambine, ma sono trasformazioni, tanto artistiche quanto abusive, di posture naturali e spontanee in pose seduttive e ammiccanti attraverso uno sguardo eccitato e perverso.
La morbosità con cui vengono fissate parti del corpo lievemente scoperte rimanda all'eccitazione perversa di Proust quando descrive in modo estetizzante, raffinato fino all'estenuazione, la sensualità delle caviglie delle cicliste di Balbec.
Carroll riempie lastre su lastre di apparente compiacente seduttività, ma si tratta di una falsificazione della realtà, in quanto proietta la sua iperestesia sensuale dentro i giovani soggetti (Gernsheim, 1971; Cohen, 1979).
Uno dei primi esempi storici di fotografia pornografica è quello offerto dai nudi di Wilhelm von Gloeden (1856-1931) a Taormina. "Nella campagna siciliana, in riva al mare, su terrazzi e in cortili interni, von Gloeden mette in scena, con i ragazzi del posto, il suo sogno di una vita ideale, omerico-arcadica" (von Taschizki, 1997).
I ragazzi ritratti in pose da antichi Greci (Falzone del Barbarò, Miroglia e Mussa, 1980) presentano espressioni visuali che definirei "pre-pasoliniane", e la loro maschera evidenzia una maliziosità proletaria che nasconde la paura e il bisogno. Hochkofler (2001, p. 13) afferma che "quando [i ragazzi] guardano in macchina, lo fanno con candore non ignaro di sensualità. L'innocenza dei giovani sembra coniugarsi con l'esperienza, non del peccato o della colpa, estranea allo sguardo dell'autore, ma con l'esperienza naturale del sesso". Una lettura più attenta e meno estetizzante di queste fotografie ci fa apprezzare invece il pesante intervento del fotografo, che trasforma i corpi in manichini, la passiva e interessata accondiscendenza in ludico esibizionismo, la malcelata vergogna per una condizione così lontana dalla propria realtà culturale in rarefatta e partecipe condivisione dello sguardo pedofilo.
Negli anni trenta, dopo la sua morte, la maggior parte dei suoi negativi su vetro e delle sue fotografie furono distrutti dai fascisti, che ritenevano osceni i suoi nudi.La riscoperta di Wilhelm von Gloeden come uno dei migliori fotografi di nudo di questo secolo avviene a partire dalla fine degli anni sessanta (von Taschizki, 1997).
Il volume fotografico di Sally Mann Immediate Family (1992) ci fa invece incontrare lo sguardo pedofilo dei nostri tempi, non quello descritto come patologico e moralmente censurato a più livelli, ma quello attraente, creativo, disinibito di una famosa fotografa che ritrae i suoi figli, due bambine e un bambino, nudi e nelle posizioni più originali e conturbanti. Il libro nell'intenzione dell'autrice vorrebbe essere un gioco divertente, in cui i bambini si travestono da adulti e assumono quelle pose seduttive, che potremmo ritrovare nei manifesti pubblicitari o nelle riviste di moda, dove il corpo nudo viene esibito come oggetto di consumo, oltre che come modello di bellezza ideale.
Il risultato di questa operazione (artistica o commerciale?) sembra essere la produzione di un perverso racconto per immagini in cui le impudiche esibizioni dei corpi dei bambini, i loro improbabili ammiccamenti sono evidentemente erotizzati dallo sguardo materno, che vuole ammantare le loro pose di un'ingenua sensualità, la cui inautenticità è immediatamente avvertibile dal lettore.
Se Sally Mann aveva intenzione di giocare con i corpi dei suoi bambini, ottiene il risultato di riuscirci, esponendo la loro levigata delicatezza, le loro naturali smorfie, la loro acerba intimità alla trasformazione e alla degradazione in oggetto di consumo anche se soltanto visuale.
La distanza fra queste immagini e le pose seduttive offerte dai quadri di Greuze è siderale.
Jean-Baptiste Greuze (1725-1805), un pittore del Settecento francese anticipatore di Fragonard, dipingeva quadri di genere in cui con apparente innocenza venivano rappresentate scene di vita domestica quotidiana dove la famiglia sembrava colta in un'istantanea, dal vivo, in una sorta di descrittivismo realistico.
Qualunque pretesto fosse indicato nel titolo - "innocenza, malizia, fedeltà o più apertamente baccante - non mancava mai l'occasione di mostrare una spalla rotonda e spesso un seno attraverso la camicia" (Thuiller, 1964, p. 225).
In uno dei suoi quadri più famosi Greuze dipinge la scena di un padre che legge la Bibbia ai suoi figli e mette in evidenza la maliziosità della fanciulla attraverso un seno scoperto, nudità allettante, appena intravista, e lo sguardo rivolto al cielo, malinconicamente languido, inequivocabilmente seduttore.
Mentre nel libro fotografico di Sally Mann il registro comunicativo usato è quello della pseudolibertà collusiva, dell'esibizionismo compiaciuto delle proprie perversioni attraverso il mettere in mostra provocatoriamente le sensuali nudità dei figli, nel quadro di Greuze vi sono più registri comunicativi, che rimandano alla complessità delle relazioni all'interno della famiglia incestuosa. Gli intenti fastidiosamente e visibilmente sentenzianti, moraleggianti (Thuiller, 1964) del pittore vengono falsificati dagli ammiccamenti seduttivi della giovane figlia, e il risultato finale non consiste nel favorire nell'osservatore l'insorgenza di sentimenti di commozione e di compiacimento per la religiosità che vorrebbe pervadere il quadretto familiare rappresentato, ma piuttosto vengono favoriti sentimenti di irritazione per la compresenza inestricabile dell'intento commovente, di quello didascalico e di quello seduttivo.
Se Greuze fa intravedere dietro gli occhiali del lettore della Bibbia il padre pedofilo, il cui sguardo rende seduttiva la figlia, le fotografie di Sally Mann annullano la complessità dei movimenti emotivi e comunicativi che possono entrare in gioco nella costituzione della famiglia incestuosa, per rendere tutto semplice, evidente, piatto, senza alcun chiaroscuro, come sembra essere propagandata la sessualità ai nostri tempi e, soprattutto, come sembra avvenire nella mente del pedofilo.

La relazione con il pedofilo
È di comune riscontro che nella storia personale dei pedofili vi siano gravi disfunzioni della coppia genitoriale, segreti di famiglia più o meno censurati, relazioni precoci disturbate. I pedofili frequentemente hanno subìto traumi o abusi sessuali infantili, diventando a loro volta abusatori.
Per il trauma svolgono un ruolo importante l'età del bambino, i parametri dell'abuso (frequenza, durata, tipo di abuso), gli aspetti psicobiologici della personalità (eccitabilità, sensibilità al piacere e al dolore), la qualità dell'ambiente esterno (la possibilità, per esempio, di parlarne o meno) e la modalità dell'aggressione. Il vero trauma è quello di cui non si può fare esperienza psichica e simbolica ed è per questo che va distinto dalle situazioni traumatiche che possono essere vissute in epoche successive all'infanzia e che possono essere presenti nella coscienza e nella narrazione autobiografica del paziente.
L'essenza del trauma è il fatto che l'Io viene messo "fuori combattimento": di fronte a un accumulo di eccitamento di origine sia interna che esterna, l'Io sperimenta una condizione di impotenza, costituendosi come la vittima centrale dell'episodio traumatico. In una fase precoce della vita, un trauma potrà dare luogo, a seconda del contesto ambientale in cui si attua, a una distorsione o addirittura a un arresto dello sviluppo, "esattamente come le mura di sostegno di una casa - scriveva Anna Freud - sono più danneggiabili durante le operazioni di costruzione, che dopo completate" (A. Freud, 1964, p. 719).
Lopez (1997) afferma che in più del 50 per cento dei casi il bambino vittima diventa a sua volta abusatore, ma altre statistiche riferiscono dati intorno all'80 per cento. In ogni caso la maggior parte delle ricerche affermano che l'abusante è stato a sua volta, durante l'infanzia, vittima di abusi (Stoller, 1976; Miller, 1981; Groth, 1981; de Young, 1982; Byng-Hall e Stevenson-Hinde, 1991; Dobash e altri, 1993; Foti e Roccia, 1994b).
Presentandosi nella realtà sessuale del ragazzo, l'abusatore distrugge tutto il processo fantasmatico che, ai confini tra inconscio e preconscio, avrebbe dovuto permettere all'oggetto interno di costituirsi lungo il corso dello sviluppo (Balier, 1996), e sottrae lo spazio psichico al cui interno possono essere giocati i desideri edipici.
Gabbard (1997) rileva che i principali problemi tecnici che sorgono durante l'analisi di pazienti con storie di abuso infantile sono costituiti dalla mancanza di quello che Winnicott chiama "spazio potenziale" e Ogden (1994) "spazio analitico" di riflessione, e tale collasso favorisce concretezza e propensione all'acting. In analisi si riattualizza quello che Bollas (1989) aveva descritto come il nucleo emotivo del trauma dell'incesto: insieme all'innocenza la bambina perde la capacità di fantasia e la fiducia nel mondo. I pazienti abusati rivelano un'eccessiva concretezza transferale e l'incapacità di mantenere uno spazio psicoanalitico riflessivo, da cui deriva una propensione all'enactment.
Questo fenomeno manifesta l'incapacità dei pazienti traumatizzati di pensare a sé stessi e alle relazioni in modo articolato e riflessivo, una caratteristica che li accomuna ai pazienti borderline.
"Nel trattamento psicoanalitico di questi pazienti manca una trama elaborativa del trauma; per loro è possibile ripetere fatti, ma non promuovere pensieri rappresentativi e metaforici dell'evento e della situazione traumatica, poiché gli aspetti traumatici non possono essere riassorbiti dall'apparato psichico né essere riformulati e risignificati" (Zerbi Schwartz, 1998, p. 537).
La teoria della trasmissione intergenerazionale dell'abuso sessuale infantile trova dei contributi molto significativi anche nella teoria dell'attaccamento, che ha evidenziato come i bambini maltrattati spesso mostrino pattern di attaccamento insoliti, come il modello di tipo D "disorganizzato-disorientato" che risulterebbe dall'esperienza di una relazione con un caregiver di tipo minaccioso e/o terrorizzante (Simonelli e Petruccelli, 1999).
L'abuso subìto altera nel bambino i modelli operativi interni delle relazioni e delle corrispondenti interiorizzazioni tanto da colpire seriamente la regolazione delle emozioni e del comportamento, innescando il ciclo intergenerazionale dell'abuso.
Si realizza un'inversione di ruoli in cui la vittima diventerà carnefice per sentirsi meno impotente nei confronti del dolore e della passività esperiti durante l'abuso subìto, per tollerare meglio la dissonanza cognitiva conseguente all'incapacità di trovare risposte e attribuzioni causali adeguate (Main e Goldwyn, 1984).
Il comportamento "disorganizzato-disorientato" è indicativo del crollo delle strategie comportamentali e attentive ed è collegato a una maggiore predisposizione a disturbi dissociativi, a comportamenti simili all'autoipnosi indotta da ripetute esposizioni alla situazione paradossale che porta a stati simili a trance (Main e Hesse, 1992).
Ovviamente, se queste annotazioni sono valide per la maggior parte delle persone traumatizzate, non possono essere generalizzate; infatti i teorici dell'attaccamento, con in testa Fonagy (Fonagy, Steele e altri, 1991; Fonagy, 1993; Fonagy e Target, 1996; Fonagy, 2000), sottolineano come, pur in presenza di gravi traumi infantili, possa essere conservata la funzione riflessiva o di metacognizione, cioè la capacità del soggetto di rappresentarsi la natura degli stati mentali di sé e degli altri (funzione che a sua volta deriva dalla capacità della madre di rappresentarsi lo stato mentale del bambino) e di riferire a essa il proprio e l'altrui comportamento. Un buon utilizzo della funzione riflessiva permette un superamento delle conseguenze del trauma, dando un senso al comportamento abusante ed evitando così la riproduzione di atteggiamenti violenti.
Il mantenimento di una funzione riflessiva sufficientemente buona potrebbe spiegare perché molti pazienti che nell'infanzia hanno subìto violenze sessuali non diventano da adulti a loro volta abusatori e riescono ad avere delle qualità genitoriali accettabili. L'esperienza di due menti che lavorano insieme nella relazione psicoanalitica può essere in grado di fornire la funzione riflessiva che è stata attivamente danneggiata per poter fare fronte all'esperienza traumatica.
Le stesse annotazioni che sono state fatte per le analisi di persone che hanno subìto un abuso sessuale infantile si possono fare, con caratteristiche però di maggiore rigidità e fissità, per i pedofili che richiedono un trattamento psicoterapeutico.
Si può notare che la caratteristica maggiore ottusità emotiva presente negli abusatori sessuali spesso può associarsi a una completa assenza di memoria sia del trauma attivamente agito nel passato recente sia del trauma passivamente subìto nel passato remoto. L'ombra del trauma pare avvolgere non solo l'oggetto traumatizzato, ma anche il soggetto traumatizzante, rinviando in un certo senso al trauma storico. In entrambi i casi, fatta salva la reciproca opposta posizione, a trauma avvenuto si assiste a una trasformazione molto spesso irreparabile.
La valorizzazione dei traumi antichi (isolati o cumulativi che siano) e la loro stretta interrelazione con il costituirsi della personalità pedofila possono permetterci la costituzione e il mantenimento di un setting in cui la pazienza e la certezza dell'importanza dell'esperienza contenitiva possono fare da volano per gli auspicabili cambiamenti, senza dare tutto per perduto a priori.
Per Camarca e Parsi (2000) l'abuso sessuale subìto nell'infanzia "è una fola, una menzogna, tra l'altro molto propagandata dagli stessi pedofili come a cercarsi un alibi, una giustificazione pietosa agli occhi della stampa e di chi li dovrà giudicare" (p. 28).
Affermare che il pedofilo è stato a sua volta una vittima rischia di condannare anticipatamente i bambini vittime per reati che mai commetteranno. "Così il pedofilo vince due volte.Li stupra e poi li lorda" (ibid., p. 32).
De Masi (1999a) ci ricorda che il trauma spesso non è rintracciabile e, dove è presente, non è direttamente dimostrabile la sua diretta connessione con la perversione.
Credo che in questi casi invece che cercare il trauma inteso come evento esterno inatteso e occasionale, direttamente violento o subdolo che sia, psichicamente e simbolicamente inelaborabile, che interrompe la trama esistenziale del soggetto, vadano cercate le microfratture traumatiche, gli avvenimenti che giorno dopo giorno possono condurre a situazioni di inelaborabilità, analizzando le reciproche influenze interne ed esterne dei fenomeni.
Pur conscio che un ampliamento del concetto di trauma può rendere impreciso e confuso il significato patogenetico di una situazione traumatica, credo che sia opportuno non restare fermi alle antiche formulazioni concettuali. Vale la pena distinguere i traumi gravi, che potrebbero determinare in chiunque conseguenze traumatiche, temporaneee o permanenti, dai traumi minori (Semi, 1989b).
Bisogna pensare, però, a un equilibrio fra l'esperienza psichica soggettiva, che determina la maggiore o minore intensità di un trauma in relazione a un evento dato (Sandler, 1967), e la presenza di traumi rilevabili, le cui conseguenze traumatiche non possono essere superate né tantomeno ignorate, come avviene per molti traumi minori (Semi, 1989b).
L'apparente mancanza di connessione fra trauma e perversione può essere spiegata pensando al macroevento traumatico come a una modalità per condensare e rendere evidenti microtraumi esperiti nelle relazioni di accudimento primario, che non riuscirebbero in altro modo a superare la soglia necessaria perché possa esserci una loro significativa rappresentazione tanto interna quanto esterna.
Anche gli studi neuroscientifici segnalano l'impatto dell'atmosfera traumatica.Per Bessel van der Kolk (cit. in un lavoro di Lingiardi del 2001) "episodi traumatici distinti e isolati possono produrre risposte biologiche e comportamentali discrete (...) senza necessariamente coinvolgere la totalità dell'identità della persona. L'abuso cronico e la trascuratezza, d'altro canto, sembrano avere un effetto più pervasivo sui processi regolatori biologici e psicologici, senza necessariamente produrre assetti discreti. Sul lungo periodo la perdita della "base sicura" può produrre gli effetti più devastanti perché il sostegno esterno appare una condizione necessaria per imparare come regolare gli stati affettivi interni e come modulare le risposte comportamentali agli stressors esterni".
Gli agiti, gli enactments, possono essere vissuti e letti non tanto come attacchi, ma in alcuni casi come la sola possibilità comunicativa in pazienti che non hanno le risorse emotive e comunicative per rappresentare accadimenti traumatici inelaborabili.
Quando il terapeuta viene condotto dal paziente nei luoghi del trauma, attraverso i linguaggi in quel momento possibili, non soltanto deve rispondere a una richiesta di condivisione emotiva dell'esperienza di impensabilità e di irrappresentabilità, che pure è un'esperienza assolutamente necessaria, anzi è la conditio sine qua non dell'incontro, ma soprattutto deve confermare la propria stabile presenza perché l'esperienza psicoanalitica sia utilmente vicaria e attivamente fornisca energia psichica, ricchezza associativa, esperienza strutturante.
Winnicott parlava in Fear of Breakdown (1974) dell'importanza di potere sperimentare nella relazione ciò che non si è potuto vivere quando è accaduto.
Il rifiuto del terapeuta di rivedere e di riattraversare assieme al paziente le vicende della violenza subita può impedire l'elaborazione dei sentimenti di pena, rabbia, colpa connessi al trauma (Malacrea e Vassalli, 1990).
"Gli enactments controtransferali sono il modo in cui il paziente può attualizzare nella relazione psicoanalitica uno scenario in cui l'analista è indotto a svolgere un ruolo che è parte del suo mondo interno. Se tali enactments controtransferali sono una parte inevitabile del processo psicoanalitico con questi pazienti, il valore evolutivo dell'analisi non sta nel fatto che l'analista si trovi a vivere questo ruolo (l'enactment), ma nelle osservazioni e successive comprensioni che da essi derivano" (Zerbi Schwartz, 2000).
Atteggiamenti emotivi del terapeuta che tendono a sminuire il senso devastatore del trauma subìto hanno a che fare con la difficoltà a identificarsi con un individuo in evoluzione, prevalendo atteggiamenti di invidia e rivalità distruttiva inconscia, come sembrano ricordare i miti di Crono e di Laio.
Bisogna aggiungere la particolare condizione di vulnerabilità in cui viene a trovarsi il paziente nel momento in cui, incamminandosi in un complesso percorso terapeutico, viene a vivere, seppure in maniera "protetta", condizioni che lo riportano a quelle che hanno favorito l'esperienza traumatica e anche al rischio di riprodurne gli effetti.
L'analista è anche un agente traumatogeno, se non altro perché si rende disponibile ad assumere su di sé aspetti di personaggi derivati dal mondo interno del paziente e che hanno reso necessario l'organizzarsi della personalità in senso patologico (Mancuso, 1997).
Ancora, non distinguere gli aspetti di realtà, e quindi non aiutare a distinguerli, potrebbe determinare un effetto iatrogeno, favorendo la concettualizzazione di ogni realtà come fantasia e inibendo, quindi, il processo di conoscenza (Laub e Auerhahn, 1993).
Il trauma può essere difficilmente elaborabile non soltanto per problemi emotivi inerenti il paziente, ma anche per difficoltà che hanno a che vedere con le fantasie inconsce dell'analista.
L'analista partecipa del mondo del suo paziente, ne respira le ideologie, le contraddizioni, e proprio per questo può non disporre delle distanze e dei tempi psichici necessari a riconoscere il simile e il diverso. L'identificazione del terapeuta con la vittima del pedofilo che verrà successivamente descritta, e la sua difficoltà a stabilire quel minimo di distanza necessaria allo stabilirsi di un rapporto terapeutico, possono trovare una ragionevole spiegazione nella teoria di Puget e Wender (1982) sui "mondi sovrapposti", per cui una perturbazione occasionata dall'apparizione nel contenuto espresso di un fatto o di una situazione in rapporto con il quotidiano dell'analista, che appartiene allo stesso mondo che ha favorito la situazione traumatica, può favorire dei veri e propri fenomeni di cecità osservativa e controtransferale.
Puget (1997) si chiede se l'analista può mantenere una vita indipendente dal fatto che vive in uno spazio sociale.
Ricordo a questo proposito la denuncia di Helena Besserman Vianna (1997) delle connivenze tra psicoanalisti e dittatura militare in Brasile, attraverso la sottovalutazione della responsabilità in episodi di tortura da parte di un allievo di una delle società psicoanalitiche brasiliane, e dei successivi silenzi di tutto il mondo psicoanalitico.
Inoltre, vi sono molti studi e ricerche sulla psicologia del torturatore, a cominciare da quelli classici di Fanon (1961), in cui vengono evidenziati non solo fenomeni di stress, ma notevoli problemi psichici derivanti dai traumi inferti e dalla protratta relazione con l'altrui sofferenza, quali allucinosi uditive proiettate nello spazio esterno e riferite agli urli dei torturati.
Anche Primo Levi (1986, p. 29) ha messo in luce il tema della "zona grigia della collaborazione delle vittime dei lager", ricordandoci che le vittime sono ubiquitarie.
La compartecipazione dell'analista allo svolgimento della relazione terapeutica, attraverso la valutazione etica inconscia dell'evento trauma, comporta un difficile lavoro sul proprio mondo interno, e quindi sul proprio controtransfert, in modo anche parzialmente indipendente dalla propria analisi personale. L'entrata nel "mondo che non c'è" del paziente può essere più o meno "traumatica" per lo stesso terapeuta (Mancuso, 1997).
In alcuni casi le condizioni estreme della relazione con il pedofilo possono riattivare conflitti che si credevano completamente elaborati, oppure possono far venire alla luce situazioni conflittuali che nell'analisi personale non avevano avuto le sollecitazioni necessarie a potersi evidenziare.
Si rende necessario per il terapeuta il massimo utilizzo delle proprie capacità autoanalitiche; eventualmente, soprattutto in casi di elevata sofferenza, il ritorno all'esperienza di un'analisi personale, e infine in ogni caso il ricorso a esperienze di supervisione o di scambio di opinioni con colleghi esperti, magari in gruppi di riflessione specifica.
Tutte queste complesse operazioni potrebbero rivelarsi inutili se si venisse a creare una situazione simile a quella di alcuni Stati americani dove specifiche leggi richiedono al terapeuta di infrangere il segreto professionale se durante il trattamento viene scoperta un'attività pedofila. "Solo se il terapeuta non sente minacciato il rigore deontologico del segreto professionale può, anche in casi così particolari, esercitare la scelta tra esigenze di sostegno e di controllo" (Berti e altri, 1999b, p. 232).
Nelle prime fasi la relazione terapeutica è in genere improntata al massimo di diffidenza e sfiducia, un po' come succede con i tossicodipendenti, che cercano una sorta di autarchia eccitata ed evitano la dipendenza da un oggetto umano, pur ricercando all'esterno un sostegno in grado di assicurare una continuità esistenziale.
Reticenza e banalizzazione o minimizzazione dei comportamenti pedofili contraddistinguono le prime comunicazioni, quasi si trattasse di un interrogatorio poliziesco, in quanto l'analista viene vissuto come figura da temere, capace di imporre la propria visione del mondo e di annullare, quindi, l'interiorità e i princìpi su cui si basano i comportamenti dell'analizzato.
Vengono ancora in mente le parole di Peter Pan, quando ribadisce: "Non voglio andare a scuola e imparare cose solenni! Nessuno mi prenderà, signora, e farà di me un uomo" (Barrie, 1906, p. 172).
Il terapeuta viene svalorizzato e accusato di incapacità di comprensione; le sue frasi vengono smontate, le sue parole isolate, il senso del discorso viene grossolanamente distorto.
Dopo la svalutazione e la derisione può evidenziarsi il tentativo di distruzione di ogni interpretazione, sentita come intrusiva, probabilmente anche in relazione alle precoci esperienze di intrusione che il paziente ha vissuto. Possono comparire atteggiamenti sprezzantemente trasgressivi, e può prendere consistenza la violenza variamente agita verso l'oggetto che è stato sistematicamente degradato.
Da vittima dell'incomprensione, il pedofilo si trasforma nell'accanito fustigatore degli "errori" dell'analista.
I problemi emotivi e tecnici che da subito si pongono all'analista sono notevoli; già oberato dal carico rappresentato dal suo negativo atteggiamento etico e culturale nei confronti del pedofilo, quando viene attaccato, quando sente a rischio di distruzione la sua capacità di pensare, prova di volta in volta irritazione, sfiducia, impotenza e, se il clima relazionale diventa più concitato, anche paura.
Il rischio nelle prime fasi è quello di rimandare al mittente la sua aggressività con l'aggiunta di un malcelato disprezzo, perpetuando così la comunicazione controaggressiva e rischiando di intensificare il circolo vizioso sadomasochistico (De Masi, 1994), oppure di assumere atteggiamenti pseudoconsolatori che, mistificando la realtà della complessità relazionale, risultino inautentici e impuntuali, andando a esaltare, invece che ridurre, le capacità di acting del paziente. Lo stesso Winnicott, che per primo ha puntato l'attenzione sulla centralità della partecipazione da parte dell'analista all'aggressione del paziente e della sua capacità di sopravvivere a tale aggressione, non è stato in grado di mettere in pratica le proprie raccomandazioni (Hoffman, 1998, cit. in Zerbi Schwartz, 2000).
Gabbard ha evidenziato alcune caratteristiche relazionali del paziente pedofilo durante il ricovero ospedaliero. Secondo l'autore nordamericano il diniego del paziente rispetto alla sua perversione può portare lo staff ospedaliero a colludere con lui, focalizzandosi su altri problemi. "In generale, i pazienti con parafilie saranno contrari a discutere i loro problemi nelle riunioni di gruppo o nelle riunioni di comunità nei reparti di degenza. Tuttavia, quando i componenti dello staff accondiscendono alla richiesta di evitare le tematiche sessuali nelle riunioni di terapia, di fatto colludono con la tendenza del paziente ad attraversare l'intero periodo di degenza senza affrontare la perversione che ha portato al ricovero (...) Molti pedofili sono persone tranquille che ammalieranno gli altri pazienti per evitare di doversi confrontare (...) I pedofili in un reparto ospedaliero possono virtualmente bloccare, nel gruppo dei pazienti, le risposte di feedback che invece vengono date agli altri pazienti" (Gabbard, 1994, p. 324).
Gabbard sottolinea che i pedofili possono ingannare i membri dello staff e di fatto fanno della terapia di gruppo una sceneggiata e conclude che alcuni pedofili possono curarsi meglio in case di correzione con programmi specializzati per gli aggressori sessuali, che comportano specifici approcci di messa a confronto in gruppo.
Ganzarain e Buchele (1990) hanno trovato che escludere i pedofili gravemente disturbati - quelli con sindromi cerebrali organiche, psicosi, abuso di sostanze, sociopatia e perversioni pure - può facilitare l'identificazione di un sottogruppo di pedofili che risponderà bene alla psicoterapia psicoanalitica di gruppo, evidenziando, nonostante le massicce difese iniziali determinate anche dal fatto che il trattamento è generalmente imposto, senso di colpa e di vergogna e migliorando la capacità di relazione oggettuale.
Un'altra valenza della psicoterapia di gruppo sta nella possibilità di ridurre l'atteggiamento di negazione che i pedofili continuano a sostenere a dispetto delle evidenze che attestano il loro abuso (O'Donohue e Letourneau, 1993).

Il conflitto tra l'esigenza di garantire il massimo di riservatezza alla relazione psicoanalitica e la necessità di contribuire con la comunicazione della propria esperienza allo sviluppo scientifico della psicoanalisi è stato analizzato da diversi autori fra i quali Klumpner e Frank (1991), Goldberg (1997), Tuckett (2000) e Gabbard (2000b).
Gabbard sottolinea la necessità di destreggiarsi tra la possibilità di un travestimento sostanzioso di tutti gli elementi che possono facilitare il riconoscimento del caso clinico e mettere in discussione l'intimità e la riservatezza dell'incontro psicoanalitico, il dovere etico della richiesta del consenso informato per la pubblicazione del materiale clinico, e la composizione di un caso clinico esemplare a partire da frammenti riguardanti diversi casi che hanno rilevanti aspetti comuni. Non viene consigliata nessuna strategia precisa, ma vengono proposte opzioni che possono essere variamente combinate in relazione alla specificità del materiale clinico che si intende presentare e pubblicare.
Sono rarissimi i casi di pedofilia in cui il paziente dà il benestare per la comunicazione scientifica di materiale clinico riguardante le sedute, e quando questa evenienza si realizza la richiesta è quella del più totale anonimato e della più completa irriconoscibilità.
Le consuete ragioni di riservatezza che in generale rendono difficoltoso presentare il materiale clinico a disposizione vengono ulteriormente in primo piano nei casi di pedofilia, perché di solito si tratta di situazioni molto segrete e personali, e i diretti interessati non vogliono alcuna forma di pubblicità, pretendendo spesso una privatezza che si avvicina alla clandestinità delle ricercate relazioni pedofile.
Nonostante tali richieste siano state completamente soddisfatte nella preparazione e nella pubblicazione del materiale clinico che viene presentato, il risultato ottenuto è assolutamente paradossale. Al massimo di camuffamento possibile nella stesura dei casi clinici fa da contrappunto il paradosso di un generico alone di estesa riconoscibilità; la tendenza alla ripetizione di comportamenti simili in situazioni cliniche differenti e la sovrapponibilità di alcuni dati anamnestici e relazionali delle storie dei pedofili fa sì che diversi pazienti possano per una parte più o meno consistente riconoscersi nel materiale presentato. "Lei sta parlando di me!" è l'affermazione che ho sentito quando ho fatto leggere i casi clinici a un paziente in terapia a causa di condotte pedofile, proprio come avviene con gli studenti di medicina quando, come nel romanzo Tre uomini in barca di Jerome, credono di essere ammalati di tutti i mali che di volta in volta vanno studiando.
Nel momento in cui spiegavo che non si trattava di lui e della sua storia, ma di situazioni letterarie che, come in un collage, mettevano insieme sentimenti, affetti ed esperienze provenienti da diversi casi, il paziente restava allibito, anche lui incredulo rispetto alla sovrapponibilità, se non addirittura alla riproducibilità, della propria esperienza, ritenuta fino ad allora assolutamente singolare.
Questi elementi, che derivano dalla scelta di aver pensato a una pubblicazione sulla pedofilia, rafforzano la decisione di avere messo fra le caratteristiche centrali della vita del pedofilo la ripetitività, la monotonia, la mancanza di fantasia.
Proprio per questa ragione ritengo che il materiale qui offerto possa essere paradigmatico dei comportamenti pedofili e, quindi, particolarmente utile nella decifrazione di specifici moti d'animo e notevolmente significativo nella descrizione delle relazioni con persone che presentano questo tipo di patologia.
Nei capitoli che seguono vengono fornite due storie cliniche che, tanto arbitrariamente quanto a ragion veduta, sono state costruite per evitare di violare la privacy, inserendo episodi provenienti da diversi casi clinici seguiti.
I due casi presentati raccontano delle vicissitudini relazionali presenti nell'incontro con il pedofilo e delle specificità inerenti il presentarsi di un quadro di perversione pedofila e di un quadro di perversità pedofila.


PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> ENGLISH VERSION OF THIS PAGE