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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: RISPOSTA AL DISAGIO
Area: Abuso e Maltrattamento


L'ascolto del minore vittima di abuso sessuale

Cristina Roccia(1)



Sara è seduta davanti a me e sbuffa. E’ una bellissima ragazza di diciassette anni, con un lungo ciuffo di capelli che le cade sul viso. Tutto il tempo della prima seduta con me Sara lo occupa a soffiare sul suo ciuffetto di capelli guardando l’orologio, apparentemente impaziente di andare via. Ho ascoltato il suo silenzio cercando di vedere oltre quel viso annoiato, quel ciuffo di capelli che va su e giù, quella sua aria di sfida e di strafottenza. Nei suoi occhi ho visto la paura.

L’ascolto dell’adolescente vittima di gravi maltrattamenti o di abusi è una sfida per ogni adulto. Troppo spesso non c’è niente da “ascoltare” nel vero e proprio senso della parola: può accadere di trovarci di fronte a ragazzi silenziosi, vuoti, privi di contenuti da comunicare nei loro discorsi, senza interessi, a volte depressi, a volte aggressivi o provocatori. Chi ha avuto occasione di lavorare in una comunità per adolescenti, soprattutto se le ospiti sono ex vittime di abuso sessuale, o con genitori adottivi o affidatari di questo genere di ragazzi, sa quanto sia difficile relazionarsi con loro, accettare le loro difficoltà troppo spesso nascoste dietro a comportamenti bizzarri.

Penso a Luisa che per anni si è sporcata le mutande di feci e invece di lavarle le nascondeva accuratamente in ogni angolo della casa facendo andare su tutte le furie la madre affidataria; a Paola che è da sempre terribilmente svogliata ed a diciassette anni non riesce né a studiare né a mantenersi un lavoro (“sono tutti troppo faticosi per me”), inducendo negli educatori sentimenti di rifiuto e di rassegnazione nei suoi confronti; a Francesca che passa le sue giornate a provocare i maschi dal balcone della comunità; a Sabrina che sfida continuamente la sua famiglia adottiva scappando di casa, tornando tardi la sera, rispondendo in modo maleducato.

“Tanto io lo so che nessuna famiglia mi ha voluto”, mi dirà Sara quando dopo alcune seduta ha incominciato a fidarsi di me. “E chi la vuole una come me? Faccio troppo schifo, lo so da sola, non rispetto mai le regole, rispondo male, vado in giro vestita in un modo che fa vergognare, non faccio un cazzo da mattina a sera. Io lo so che anche gli educatori non mi vogliono. Mi tengono perché sono obbligati, non sanno dove mettermi, ma a diciotto anni secondo me mi sbattono fuori. Tanto sono io che me ne voglio andare, non saranno loro a sbattermi fuori”.

Le parole di Sara, drammatiche nella loro crudezza, fanno riflettere perché terribilmente corrispondenti al vero. Sara è una ragazza che davvero nessuno vuole, a mala pena sopportata dagli adulti che si prendono cura di lei, con una lunga storia di violenze sessuali intrafamigliari e di percosse alle spalle, di interventi istituzionali sbagliati, di abbandoni. Un tempo bambina odiata e rifiutata dalla famiglia, oggi è lei che induce negli altri sentimenti di fastidio, di rifiuto, di rabbia anche negli adulti che si avvicinano a lei con le migliori intenzioni. Sara non è un caso isolato; spesso l’adolescente vittima di maltrattamenti induce nell’adulto che si prende cura di lui (psicologo, insegnante, educatore o genitore che sia) sentimenti negativi che agiscono nella relazione a volte in modo incontrollato e incontrollabile.

Ascoltare l’adolescente vittima di abuso sessuale significa ascoltare non solo e non tanto il suo dolore e il racconto delle esperienze di violenza, troppo spesso entrambi nascosti ed invisibili, ma soprattutto le comunicazioni extra verbali che questi ragazzi ci fanno attraverso il loro corpo, l’espressione del viso, l’abbigliamento, il comportamento, i sintomi somatici, le emozioni, le difficoltà scolastiche e lavorative. Attribuire a queste comunicazioni il giusto significato, comprenderne le motivazioni profonde e nascoste, può aiutare l’adulto a provare comprensione e preoccupazione verso questi ragazzi, accettando con meno fatica alcuni loro comportamenti. Ciò che è decisivo è riuscire a restare nella relazione, per quanto problematica essa sia, con la fiducia e la speranza di in cambiamento.


L’ascolto del linguaggio del corpo

Sara, come lei stessa è in grado di riconoscere, utilizza un abbigliamento molto sexy: magliette troppo attillate e troppo stesse, pantaloni aderentissimi, scollature vertiginose. Essendo una bellissima ragazza il suo corpo non passa di certo inosservato, ed in qualche modo è il suo biglietto da visita nei confronti del mondo che la circonda. Gli uomini si eccitano, le fanno proposte oscene, cercano di metterle le mani addosso. Il suo abbigliamento è uno dei principali motivi di conflitto con gli educatori della comunità che la ospita; le dicono che si veste come una prostituta e la obbligano persino a prendere la pillola anche se Sara insiste di non averne bisogno perché lei a letto con i ragazzi non ci andrà mai.

E’ questo un problema molto diffuso nelle ragazzine che hanno vissuto esperienze di abuso, ma in Sara esso assume una connotazione particolare. Lei non si guarda mai allo specchio quando si veste in questo modo perché sa, lei dice, che se lo facesse inorridirebbe di fronte a se stessa e non potrebbe mai più uscire di casa. Sara chiede a me di farle da specchio ed io le rinvio in tono benevolo ma fermo ciò che vedo. La mia piccola paziente è terribilmente dispiaciuta del fatto che tutti, ma proprio tutti, pensino che lei è “una facile, che va con tutti”, mentre al contrario lei mi assicura che mai un uomo, oltre a suo fratello che l’ha violentata brutalmente per anni, le ha messo e le metterà mai le mani addosso. Anch’io faccio fatica a crederle, ma ciò che maggiormente mi interessa capire è a che cosa le serva mettere in scena questa “parte della bambola sexy” nella quale lei stessa si sente in imbarazzo. Apparentemente questo le crea solo un mare di guai e induce negli adulti, dai quali lei invece vorrebbe essere amata, sentimenti di rifiuto.

Capiamo insieme che l’abbigliamento è uno strumento per rivivere il trauma dell’abuso uscendone questa volta vincitrice. Sara eccita i maschi per poi umiliarli, “mandarli a fanculo”, picchiarli, deriderli, e mentre ciò accade lei vede la faccia del suo stupratore, il fratello, al posto di quella dell’uomo che ha di fronte. “Non è che me la immagino, io la sua testa la vedo proprio sul collo di quello stronzo che sto mandando a fanculo”.

Sara mette in atto delle difese dissociative, evidenti nell’azione di rifuggire la propria immagine allo specchio, per non vedere quelle parti di sé che, collegate alle violenze subite da bambina, appaiono ai suoi occhi intollerabili. “Nella maggior parte dei casi di dissociazione”, scrive Glen O. Gabbard (1995 pag. 276) diversi schemi o rappresentazioni del Sé devono essere mantenuti in compartimenti mentali separati poiché essi sono in conflitto l’uno con l’altro”.

Possiamo intravedere nel comportamento seduttivo di Sara l’anticamera di una sua possibile perversione futura. Secondo Stoller “nella perversione l’ostilità di una forma di fantasia di vendetta celata nelle azioni che costituiscono la perversione e serve a convertire il trauma dell’infanzia nel trionfo dell’adulto… Una perversione è un modo adottato per rivivere il reale trauma sessuale storicamente sperimentato, e nell’atto perverso il passato viene concellato. Questa volta il trauma si trasforma in piacere, in orgasmo, in vittoria” (Stoller, 1978, p.22). Sara finalmente si prende la propria rivincita sul fratello e, se nella realtà lei ha sempre avuto il ruolo della vittima indifesa e perdente, nella fantasia di vendetta finalmente è lei che ha in mano il controllo della situazione, è lei che eccita il “fratello-ragazzo sconosciuto” che le sta di fronte, ed è sempre lei che, da vincitrice, può fermare il gioco umiliando l’avversario.

Estela V. Welldon riferendosi a comportamenti analoghi nelle donne adulte che, vittime di incesto nell’infanzia, sono diventate prostitute nell’età adulta, ci ricorda che questo modo di agire è destinato al fallimento da un punto di vista relazionale “perché la motivazione che sta alla base dei rapporti fisici si radica nell’odio piuttosto che nell’amore, e gli oggetti di tali incontri, che siano rappresentati dal corpo stesso della paziente o da quello dei suoi clienti, non sono altro che sostituti simbolici di persone reali a cui è indirizzata la loro vendetta” ( 1995 p. 171).

In Sara c’è anche un senso di onnipotenza che la porta a sottovalutare la pericolosità del proprio comportamento esponendosi a una possibile nuova vittimizzazione sessuale nel momento in cui il “gioco” dovesse scapparle di mano, evento che poi di fatto viene segnalato come frequente nelle donne che da bambine sono state vittime di abusi sessuali (Welldon, o.p.; Goodwing, 1989).

Per ritornare al nostro discorso sull’ascolto delle comunicazione extra-verbali delle adolescenti, a cosa può servirci conoscere le motivazioni che portano Sara a utilizzare un abbigliamento poco adatto ad una ragazza della sua età? Certo non possiamo illuderci che magicamente il comportamento cessi solo perché noi, ed insieme a noi la paziente, ne abbiamo compreso le motivazioni psicologiche. Come educatori però potremmo riuscire a rapportarci a lei in modo diverso. Capire può aiutare a provare meno rabbia nei suoi confronti e più compassione, sentimento che potrà avvicinare a lei anzichè allontanare. Restando nella relazione con l’altro senza umiliarlo, attaccarlo, allontanarlo, l’educatore potrà con maggior fermezza contrastare quei comportamenti che, giustamente, vengono rinviati a Sara come inopportuni e pericolosi, mantenendo la fiducia in una sua possibilità di cambiamento. Imporre la pillola a Sara significa trasmetterle, sia pur senza una chiara esplicitazione, il messaggio che lei non è e non può diventare in grado di controllare la propria sessualità. Imporle un abbigliamento più adatto alla sua età, mantenendo un atteggiamento di rispetto nei suoi confronti, è un messaggio che apparentemente crea maggior scompiglio (è probabile che Sara si ribelli e che non sia disponibile ad accettare queste nuove regole della comunità) ma è anche un atto di amore e di speranza nei suoi confronti.

Il corpo è spesso veicolo di molte comunicazioni nelle ragazze che hanno subito un abuso sessuale. “Le azioni compiute dalle donne prese in esame”, afferma Welldon (p. 174 op. cit.) “sono dettate dal profondo disgusto nei confronti del proprio corpo, che tentano di affrontare e risolvere con mezzi differenti, e non esclusivamente per mezzo della prostituzione. Tuttavia, un’implacabile aggressione di natura sadica rivolta contro il proprio corpo nella sua totalità rappresenta spesso la norma, e si accompagna ad un’attività libidica smodata o, al contrario, alla sua totale rimozione”. Il corpo è fatto oggetto di persecuzione esibendolo, ma anche nascondendolo, imbruttendolo, trascurandolo, rendendolo bersaglio di atti di aggressione (pensiamo alla bulimia ed all’anoressia che sono conseguenze assai frequenti dell’abuso sessuale).

Spesso diversi comportamenti aggressivi verso il proprio corpo coesistono nella stessa persona. Francesca, oggi di ventiquattro anni, racconta di come da ragazzina odiasse a tal punto il proprio corpo, oggetto per anni di violenza sessuale da parte degli educatori della parrocchia dove lei si recava a giocare nella preadolescenza, che le faceva schifo toccarsi anche solo per lavarsi. Questo le produceva delle croste di sporcizia sul corpo, e le faceva emanare un odore fetido che la rendeva oggetto di scherno da parte dei compagni di scuola. Nell’adolescenza Francesca ricorda di essere stata invece una ragazza molto carina, con un iper investimento sul proprio corpo che usava per adescare ragazzini più piccoli di lei, per poi cercare nell’età adulta un equilibrio rispetto all’esibizione del proprio corpo che le consentisse di inserirsi con meno problemi nel mondo lavorativo.

E’ evocativa delle problematiche legate alla corporeità delle vittime di abuso la fiaba di Dogni Pelo dei fratelli Grimm (per ulteriori riferimenti alla fiaba cfr. Foti, Roccia, 1994). Il desiderio sessuale paterno ha trasformato per un certo periodo la figlia nella più bella fanciulla del mondo, ricoprendola di vesti d’oro, d’argento e di stelle che mettevano in risalto la sua bellezza. Per reazione Dognipelo , quando decide di fuggire, cerca di imbruttirsi il più possibile, ricoprendo il proprio corpo di cenere e vestendosi con un mantello che la fa somigliare più ad un animale che ad una persona. La propria bellezza ed il proprio potere erotico sono infatti diventate fonte di pericolo.


L’ascolto delle distanza affettiva

Chiunque abbia subito l’incesto, afferma Welldon (1995), a prescindere dal sesso di appartenenza, incontra enormi difficoltà a creare rapporti interpersonali, e questi ostacoli corrispondono allo stato confusionale prodotto da esperienze traumatiche e precoci di abuso. La profonda ferita prodotta dall’abuso sessuale o dalle situazioni di estremo maltrattamento può produrre nel soggetto una sfiducia di base verso “gli altri”. Non è infrequente sentire frasi come: “Odio gli uomini e non mi fido delle donne” pronunciate da ragazze che vivono il mondo come nemico, con diffidenza e sospettosità. In molte situazioni l’adulto si sente relegato dietro un sottile ed invalicabile muro, invisibile ma molto resistente, che impedisce ogni forma di avvicinamento fra se stessi e il minore del quale ci si vuole prendere cura.

Ricordo una preadolescente che sembrava indifferente a qualsiasi accadimento intorno a lei: poteva essere picchiata dai genitori affidatari, derisa dai compagni, ma anche coccolata ed amata con tenerezza. Nulla sembrava arrivare davvero fino al suo cuore al punto da farla apparire sempre terribilmente distante a chi si occupava di lei. Questi meccanismi di difesa, messi in atto nella relazione quotidiana con un genitore, un educatore, un terapeuta, possono indurre nell’adulto sentimenti di contro-identificazione. E’ difficile riuscire a reggere il bisogno di questi ragazzi di mantenere le distanze, la loro paura di coinvolgersi in qualunque rapporto interpersonale. Come adulti ci si può sentire rifiutati, impotenti, ed agire di conseguenza.

Le difese che separano il minore dal resto del mondo sono, in molte situazioni, tanto forti da non permettere non solo un sano accesso alle relazioni affettive, ma neppure una naturale ed indispensabile curiosità verso la vita. Un atteggiamento di rassegnazione e disinteresse verso la vita, le persone e le cose che lo circondano è una tragica quanto diffusa problematica di molti adolescenti vittime di gravi maltrattamenti. A volte questo ritiro dal mondo si manifesta con un fallimento nella vita lavorativa o scolastica, ma in molti casi esso può spingersi fino al punto di portare l’adolescente ad una totale apatia in cui niente e nessuno riesce a risvegliare un qualche interesse.

Non è infrequente che il muro di difese che il soggetto erige fra se ed il mondo assuma la forma del comportamento aggressivo, provocatorio, strafottente. Può capitare che un atteggiamento aggressivo, oppositivo, venga scambiato per sicurezza, determinazione. In realtà è molto spesso sintomo di estrema fragilità, di paura. I ragazzi che ostentano questo tipo di atteggiamento sono quelli che hanno bisogno di protezione, aiuto nelle loro decisioni, anche se questo può voler dire scontrarsi duramente, affermano Di Rienzo ed altri (1999). “Che me ne fotte!”, dice spesso Sara quando viene messa di fronte ad una qualche difficoltà. Se Sara “se ne fotte” di tutto non può soffrire e nella sua onnipotenza può illudersi di essere invulnerabile. Proprio nell’aggressività risiede spesso l’idea di potersi difendere dalle avversità della vita; essere forti, capaci di rapportarsi in modo adeguato agli altri, significa essere aggressivi per molti soggetti traumatizzati. Nella loro infanzia hanno imparato che solo chi urla più forte ed impone con la forza e la violenza la propria volontà ha diritto di esistere. L’aggressività può essere anche una forma di reazione all’estrema situazione di impotenza sperimentata nel corso dell’abuso, quando, vittima inerme, si è dovuto subire impassibili l’aggressività altrui.

La prima segnalazione su Sara venne fatta dalla scuola quando ancora la bambina frequentava le elementari; aveva rotto la testa di un suo compagno con un mattone e picchiava tutti i bambini che le si avvicinavano. Era affetta da una forma di mutismo elettivo e comunicava solo attraverso atti di violenza.

In molti soggetti traumatizzati si può manifestare a volte una vera e propria paura di esistere, come nel caso di Francesca, di cui ho già parlato in precedenza, che apparentemente è una donna forte, aggressiva, così terribilmente arrabbiata da allontanare da sé tutti coloro che tentano di avvicinarla. Dietro la sua rabbia si nasconde una bambina che ha sempre solo desiderato scomparire; “Quando andavo a scuola strisciavo contro i muri perché speravo sempre di non essere vista dagli altri, avrei voluto essere trasparente perché pensavo che sul mio corpo fossero visibili a tutti le tracce delle azioni vergognose che facevo all’oratorio. Quante volte ho desiderato di non essere nata. Quante volte ho incrociato lo sguardo di un mio compagno ed ho pensato: ‘Lui sa…’, e speravo di potermi dissolvere nel nulla come una bolla di sapone”. Anche la rabbia è in un certo senso un modo per scomparire: Francesca non è più vista perché la sua travolgente aggressività sovrasta ogni cosa e rende invisibile la ragazzina fragile che lei è, allontana gli sguardi indiscreti perché nessuno è in grado di reggere troppo a lungo il contatto con la sua aggressività. Aggredire è in fondo un modo per restare soli.


L’ascolto del contro trasfer

In psicoterapia l’utilizzo del contro transfer è stato ormai ampiamente studiato sin dai tempi di Freud ed è una risorsa preziosa a disposizione del terapeuta. Per contro transfer si intendono quelle emozioni che il soggetto induce nell’altro con il proprio comportamento. Tale fenomeno è troppo spesso sottovalutato al di fuori del contesto terapeutico, mentre esso potrebbe essere un’utile risorsa per molti educatori e genitori che hanno a che fare con questo genere di soggetti traumatizzati.

L’adolescente di per sé fa sperimentare all’adulto emozioni molto forti e contrastanti fra loro. L’adolescente abusato induce spesso nell’educatore emozioni ancor più intense. Se in alcuni momenti si può provare nei suoi confronti affetto, compassione, tenerezza, simpatia, in molti altri l’adulto può sperimentare sentimenti negativi quali fastidio, rabbia, rifiuto, o anche imbarazzanti quali per esempio eccitazione sessuale. Se tali emozioni vengono negate perché troppo in contrasto con l’ideale dell’Io dell’educatore esse possono agire negativamente nella relazione. Se vengono riconosciute e fatte oggetto di pensiero, esse possono fornire informazioni preziose su noi stessi e sul soggetto che le ha evocate ed essere una risorsa sulla quale tentare di costruire un legame più solido con il minore (cf. C. Roccia, 2000).

Per esempio il padre adottivo che viene sedotto dalla figlia e portato a provare eccitazione sessuale nei suoi confronti si troverà certo in grande difficoltà, ma se saprà reagire evitando sia il passaggio all’atto incestuoso sia la fuga (che si verifica in genere allontanando la ragazza di casa), potrà essere di grande aiuto alla minore. Potrà aiutarla a riflettere su qualcosa di molto intimo e privato e ad attribuirvi un significato. Forse la sessualità è l’unico modo con il quale la ragazza da bambina ha imparato a chiedere o ricevere affetto, o forse questo serve per manifestare il proprio disprezzo verso i maschi, o forse ancora è uno strumento per salvare l’immagine interna del proprio padre abusante (sono stata io a sedurlo e tutti gli uomini cadono nella mia trappola se provocati, quindi mio padre non ha fatto nulla di particolarmente grave).

Lasciasi amare significa rischiare di essere uccisi per questi bambini. La solitudine e il rifiuto, a volte, possono quindi essere percepiti come meno pericolosi dell’amore. I tentativi del minore di allontanarci da lui possono essere vissuti in modo meno persecutorio e negativo se si riesce a leggerli come un disperato tentativo di sopravvivenza psichica. Cercare doveristicamente di amare un bambino che non si riesce ad amare è un’operazione destinata a fallire in partenza. Scrivono Di Rienzo ed altri (1999): “Quando ci si trova di fronte a bambini che hanno sofferto molto e a lungo prima di essere adottati, ci si sente disarmati. Il loro mondo interiore, caratterizzato dalla mancanza di affetti, è difficile da riempire di contenuti costruttivi. Può capitare che si richiudano in loro stessi opponendo un muro in apparenza invalicabile, o che aggrediscano per paura di dover entrare i genitori e per il timore di rifiutati ancora una volta”.

I genitori adottivi e affidartari, così come ovviamente ogni operatore minorile, dovrebbero essere preparati a saper riconoscere ed accettare le loro emozioni, anche negative, verso il nuovo arrivato. Anche questo fa parte dell’accettazione del passato del bambino abusato. Chiunque accolga in casa un nuovo ospite lo fa con amore ed entusiasmo e si aspetta di essere ricambiato con altrettanto amore ed altrettanto entusiasmo. Ma questi sentimenti non appartengono al minore abusato. Il suo mondo interno è in genere popolato di fantasmi terrificanti, caos, rabbie indicibili, mostri, ricordi terribili e dolorosi. Tutto questo il minore porta ai suoi nuovi genitori, al suo terapeuta, agli educatori della sua nuova comunità, tutto questo gli fa vivere e sperimentare standogli vicino, e questo è ciò che spesso ci si trova dentro cercando di amare un adolescente abusato. E’ naturale, è prevedibile, fa parte del gioco.

Qualche volta qualche operatore particolarmente esperto prepara la famiglia affidataria a questo genere di problemi prima dell’inizio dell’affido, ma anche in questo caso il genitore molto spesso non ci crede. Non si dice che con la forza dell’amore si possono superare tutti i problemi? Forse è giusto che sia così perché in caso contrario mancherebbe l’entusiasmo per fare determinate scelte e gli adolescenti vittime di maltrattamento non avrebbero un futuro.

Certo, a poco a poco l’amore è contagioso ed a mano a mano che il minore potrà veder diminuire i fantasmi del proprio mondo interno potrà anche riuscire a fidarsi degli altri ed a permettere a se stesso ed agli altri di dare e ricevere amore. Ma ci vuole tempo, molto tempo, ed è indispensabile che durante questo lungo periodo l’adulto non perda mai la speranza. Già l’adolescente sente di essere senza speranze; se questa rassegnazione diventa anche facente parte dell’adulto che a vario titolo si deve occupare di lui dal suo futuro sarà cancellato per sempre il sorriso.


BIBLIOGRAFIA

C. Foti, C. Roccia (1994) “La fiaba, un’occasione per parlare di violenza sessuale ai bambini” in C. Roccia, C. Foti (a cura di) L’abuso sessuale sui minori, Ed. Unicopli, Milano

G. O. Gabbard (1995) Psichiatria psicodinamica, Ed. Cortina, Milano

E. De Rienzo, C. Saccoccio, F. Tonizzo, G. Viarengo (1999) Storie di figli adottivi, Ed. Utet, Torino

C. Roccia (2000) Riconoscere e ascoltare il trauma. Maltrattamento e abuso sessuale sui minori. Prevenzione e terapia, Angeli, Milano

R.J Stoller (1978) Perversione, la forma erotica dell’odio, Feltrinelli, Milano

E. Welldon (1995) Madre, madonna, prostituta, Ed. Centro Scientifico Torinese, Torino

Note:
1)Psicologa, psicoterapeuta, "Synergia Centro Trauma", Via Peschiera 15, 10024Moncalieri (To) tel 335/67.65.376
www.synergiacentrotrauma.it


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