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PSYCHOMEDIA
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Tesi di Laurea di Federica Manieri

Il mosaico nella terapia della schizofrenia: l'esempio "Il Faro di Anzio",
mosaico murale prodotto nel contesto di un trattamento psichiatrico al D.S.M. di Aprilia


Capitolo 3 - L'arteterapia; la creatività quale sistema riabilitativo



3.1. L'arteterapia nella storia

"Il Faro di Anzio" insieme agli altri progetti portati avanti dalla stessa Dottoressa Anna Maria Meoni, è tra le poche proposte attuate di arteterapia associata alla tecnica della Gruppoanalisi.
L'arteterapia è un trattamento psicologico che compare nella seconda metà del XX secolo a seguito delle sperimentazioni di psicoterapia dinamica derivate dalla Psicoanalisi, anche se in alcuni campi, quali la musicoterapia e la teatroterapia, vanta origini più antiche. Si conoscono infatti vere e proprie pratiche di musicoterapia passiva (somministrazione di brani musicali con scopo ansiolitico) nei Manicomi arabi già dall'800 d.C. e con P. Pinel la terapia morale comincia proprio come pratica teatrale nei Manicomi europei.
Ma è dal 1950 che si conferma come terapia individuale per poi espandersi sempre di più al gruppo e sempre di più in contesti rigorosi di espressione non verbale (nota 8).

3.2. L'arteterapia oggi

L'arteterapia può essere definita un intervento di aiuto e di sostegno alla persona a mediazione non verbale che utilizza i materiali artistici e il processo creativo come sostituzione o integrazione della comunicazione verbale, nella relazione tra operatore e paziente.
L'intervento si svolge attraverso un percorso in cui la persona è protagonista di quanto avviene: il paziente esprime contenuti personali che possono essere ricordi, sensazioni, sogni, desideri, emozioni, con il dipingere, il disegnare o il modellare. Questo avviene in un luogo protetto, in quanto l'arteterapista prepara i materiali e l'ambiente in modo da creare un clima di rilassamento e tranquillità per favorire la libertà di espressione non verbale, purché spontanea. In questo intervento che può essere individuale o di gruppo, è importante la relazione con il conduttore che crea il contesto relazionale adatto perché il paziente senta di potersi fidare e inizi il percorso espressivo, in un clima di non giudizio dove non vi sono aspettative improprie sul lavoro artistico che si viene realizzando. Attraverso il lavoro artistico avviene qualcosa di molto importante: la persona attua un riconoscimento di sé e della propria presenza in grado di lasciare una traccia. Inoltre nel momento in cui le sensazioni si traducono nell'oggetto artistico, avviene un processo di auto-comprensione più profonda.
Il riuscire a raffigurare immagini, sentimenti ed emozioni, esprimendoli simbolicamente in una forma visiva concreta, permette di poterli osservare come qualcosa di staccato da sé. Ecco allora che anche nelle immagini più cariche di sofferenza e di angoscia si crea uno spazio di comprensione ed elaborazione, che può essere d'aiuto all'individuo nella ricerca di nuove modalità di interazione tra il proprio mondo interno e il mondo relazionale esterno.

3.3. Arte e follia

L'arteterapia non produce Arte, ma trae un valore terapeutico dalla messa in atto di un processo creativo che consente di sperimentare una strutturazione delle funzioni dell'Io attraverso una regressione caotica che ripropone il caos pre-creativo. Nel prodotto si ricompongono le parti scisse e si va ad indurre un cambiamento, anche se non consapevole, nel senso di una migliore integrazione del Self che può corrispondere al miglioramento sintomatologico. Di certo attraverso l'espressione artistica e creativa i soggetti appartenenti al gruppo hanno potuto esprimere in piena libertà la loro personalità, le loro idee, i loro pensieri, in un ambiente che forse si è rivelato più confortevole, dato che ben tollera le stravaganze. Non a caso nella storia il parallelo arte-follia è sempre stato presente anche se non per forza indicativo; dai poeti maledetti all'Art-Brut c'è stata anche una ricerca dell'Arte nella Follia, talora avvalendosi anche di sostanze psicotrope volontariamente ingerite, per creare condizioni mentali oltre la coscienza e la vigilanza, per favorire immaginazione e fantasia insieme ad allucinazioni, ossessioni o deliri. Ma questi esperimenti non sembrano, per quanto interessanti, dimostrare una valida connessione tra Arte e Follia, né aver confermato che i talenti sono migliorati dalla Follia. Anche artisti mentalmente malati, che pur presentano talvolta caratteristiche di riconoscibilità pittorica di una psiche alterata nelle loro opere, non per ciò producono capolavori. In realtà il talento o la capacità artistica è una capacità rara che è indipendente dalla Follia, che può comunque coesistere senza perciò compromettere talento e potenzialità creative. Al di là della suggestione che può evocare la storia di grandi artisti, quali Van Gogh e Munch per l'evidente psicopatologia, spesso accertata e talvolta anche curata, più interessante è forse anche la documentata presenza di patologie organiche del SNC, quale il caso per esempio di Andy Warhol, esponente della tanto discussa Pop-Art, che era malato di Epilessia. La compromissione delle funzioni neuropsichiche non appare infatti interferire con il talento artistico: ricchezza rara di pochi, rispetto ai molti che siamo nel mondo. La cultura e le funzioni cognitive hanno dunque meno rilevanza di quanto si creda in relazione alla capacità o al successo nel comunicare l'emozione attraverso l'immagine immaginata, fenomeno mediato dal talento e da capacità innate che, quando giustamente valorizzate, consentono di acquisire ruoli di notevole rilevanza sociale. Infatti nel progetto "Il Faro di Anzio" è chiaro come attraverso la produzione artistica i soggetti del gruppo abbiano fatto emergere le parti più recondite del proprio Sé (Meoni, 1998).

3.4. Gli archetipi e l'invisibile nell'arte di Klee

Troviamo riferimenti stimolanti negli scritti di Paul Klee (nota 9), che durante la sua attività artistica, si dedicò non solo alla pratica, ma anche allo studio teorico dell'arte, mettendolo poi per iscritto in svariate opere.
Klee, in una conferenza sull'arte moderna, a Jena nel gennaio del 1924, disse che l'artista è come un albero: le radici, che affondano nel terreno, costituiscono quella preistoria del visibile dalla quale affluiscono all'artista i succhi che ne penetrano la persona; l'artista è dunque il tronco, che trasmette nell'opera ciò che ha visto, mentre l'opera dell'artista è la chioma dell'albero. Di fatto l'artista, in quanto tronco, non fa altro che raccogliere e trasmettere ciò che viene dal profondo: né servo né padrone, egli è solo mediatore.
L'arte di Klee si evolve in una continua dialettica tra visibile e invisibile; in Teoria della forma e della figurazione, scrive: "L'arte non ripete cose visibili, ma rende visibile".
Come analizza Giuseppe Di Giacomo (nota 10) in Introduzione a Klee, è con questa affermazione che Klee supera il vecchio compito attribuito all'arte, quello della raffigurazione del visibile, e ne prefigura uno nuovo: rendere visibile la realtà non ancora tale.
Se l'informe (l'invisibile) si mostrasse, noi non potremmo vederlo, dal momento che possiamo vedere soltanto attraverso la forma, ossia il visibile; dunque la forma (il visibile) rivela l'informe in quanto nel mostrarlo lo vela. Di fatto l'invisibile può essere non visto, spiegato, bensì soltanto sentito, partecipato.
A mio parere risiede proprio in questa dialettica il soffio vitale emanato dal mosaico, oggetto di esame della mia trattazione.
Per Klee, si tratta di andare al "cuore della creazione", vale a dire raggiungere ciò che la forma ha occultato; per lui l'obiettivo dell'arte è di gettare un ponte dall'esteriorità all'interiorità, ciò che si è tentato di fare in questa sede, analizzando e interpretando la simbologia dei disegni che formano il mosaico.
Con queste parole, e attraverso questa linea di pensiero ci riagganceremo più tardi, nel momento della trattazione sulla simbologia dei disegni e la relativa connessione con la teoria degli archetipi di C.G. Jung.
Klee pensa che l'artista opera per far sopraggiungere un senso che lui stesso non ha concepito prima; l'artista apprende così qualcosa che non sapeva prima di aver terminato il suo compito. Per Klee il mondo in cui viviamo, nella sua forma presente, non è l'unico mondo possibile, e dunque egli contempla le cose che la natura gli pone sottocchio già formate con occhio penetrante, e quanto più a fondo penetra, tanto più facilmente gli riesce di spostare il punto di vista dall'oggi all'ieri; tanto più gli si imprime nella mente, al posto di un'immagine naturale definita, l'unica, essenziale immagine, quella della creazione come genesi. Egli si permette allora anche il pensiero che la creazione oggi non possa dirsi ancora conclusa, e con ciò prolunga quell'atto creativo dal passato al futuro, conferendo durata alla genesi. Per l'artista questa mobilità lungo le vie naturali della creazione è un'ottima scuola formativa, dal momento che attraverso tale mobilità egli può risalire dal modello all'archetipo. Da questo punto di vista saranno considerati eletti quegli artisti che oggi si spingono in prossimità di quel fondo segreto ove la legge primordiale alimenta ogni processo vivente nel fondo primordiale della creazione, dove è custodita la chiave segreta del tutto. (Di Giacomo, 2003).
In conseguenza di ciò, è ipotizzabile spiegarsi proprio sulla base delle nozioni apprese da Klee, perché "Il Faro di Anzio" è stato dalla critica giudicato non solo come un'esperienza riabilitativa, ma soprattutto un'opera d'arte, nonostante il linguaggio naif, per questo emergere di contenuti archetipici che ha caratterizzato il mosaico stesso.

3.5. Valenza terapeutica della tecnica musiva

Di certo in molti ci siamo posti la domanda del perché è stato utilizzato il mosaico per la realizzazione dell'opera piuttosto che, per esempio, l'esecuzione di una tela con acquarello o colori ad olio, che sarebbe stata più alla portata di tutti, anche dei dilettanti in campo artistico; perché dunque proprio il mosaico che per la sua costruzione ha bisogno di conoscenze specifiche, di particolari abilità nella ricerca dei materiali più idonei, di capacità nel taglio e nella giustapposizione delle piccole tessere colorate e di un'infinita pazienza?
La scelta ha una sua motivazione: il mosaico si è rivelato un facilitatore dei processi di integrazione del Sé per lo speciale ritmo creativo che impone; il tempo necessario per la sua realizzazione è appropriato al tempo che le emozioni più profonde richiedono per essere comprese ed è così che, inavvertitamente, attraverso l'imperfetto processo di assemblamento delle tessere, si delineano le identità personali. é stato osservato che, assorbite dalla manualità e, dalla mano alla parola, le comunicazioni vanno a riempire le pause dell'azione e del pensiero intorno ad un tavolo di mosaico. I piccoli spazi tra una tessera e l'altra, più o meno evidenti, ma sempre imperfetti, significano che è possibile aprire al cambiamento e che c'è un tempo futuro, ed è così che il mosaico può assumere valenza terapeutica per i grandi drammi che, nella dimensione intrapsichica, sono tendenzialmente sofferti in speciale solitudine atemporale e senza futuro soprattutto da tutti coloro che soffrono di disturbi psichici (Meoni, 1998).
E ancora, è di per sé affascinante e stimolante l'idea di produrre una immagine finita con pezzetti di qualcosa che nulla hanno a che fare con l'immagine stessa, anche e sopratutto a livello inconscio. In fondo è ridurre a dimensione umana il grande quadro universale, è pescare nell'archetipo, nel bagaglio culturale del nostro DNA.
Infatti, possiamo considerare le tessere di un mosaico la proiezione di noi stessi; in fondo anche noi siamo composti da parti piccolissime che nulla hanno apparentemente a che vedere con la figura che realizzano e che rappresentiamo.
Il mosaico così diventa la nostra trasposizione inconscia, o meglio, il mosaico è noi stessi, come noi siamo una minuscola tessera della società, come questa lo è del mondo e quest'ultimo dell'Universo. Insomma, l'opera musiva è, nel campo artistico, la rappresentazione più aderente di noi stessi, a ciò che siamo intimamente, infinitesima tessera dell'immenso mosaico universale.
Il mosaico va "creato" pezzetto dopo pezzetto, tessera dopo tessera; ed è come ricostruire se stessi, assumendo una nuova forma, più bella, nella quale specchiarsi.
Anche pescare nel nostro bagaglio culturale o sapienzale è mettere insieme tessere, pezzetti di infinite informazioni raccolte nel tempo universale e celate a disposizione di chi sa e può farne uso.
La manipolazione della materia, sia che sia presente in natura come pietre, minerali, madreperle e resine o che sia una produzione sintetica di paste, smalti, gessi o ceramiche, è la dominante essenziale del mosaico.
A questo proposito il gruppo preso in esame ha sorpreso il personale d'assistenza per la costanza e il ritmo mantenuto nelle operazioni necessarie ad incollare le tessere, predisposizione che non era attesa a tener conto dell'angoscia psicotica.
Altro elemento da sottolineare, caratteristico del mosaico, è il lungo tempo necessario all'esecuzione e successivamente al completamento dell'opera attraverso il "metodo indiretto" che richiede la gettata di cemento sul retro del mosaico, che una volta essiccata, si gira, si lava e infine si può guardare il proprio lavoro.
Momenti questi pieni di trepidazione per gli artisti che dopo un lungo percorso svolto insieme ne vedono finalmente il risultato, contrassegnato dall'espressione in piena libertà dei loro processi creativi e generato non da un'unica mente ma dalla loro associazione e compenetrazione.
Questo è l'aspetto più singolare del lavoro creativo in gruppo, contraddistinto dall'assenza del narcisismo individuale che caratterizza in genere l'arte e anche dall'abbattimento di un altro narcisismo, quello delle leadership sanitarie e assistenziali che ha permesso anche e soprattutto ai partecipanti svantaggiati di esprimersi liberamente. Le dinamiche di gruppo, in questo lavoro, hanno presentato un'inusitata coesione e coerenza, mai turbata da quei contenuti profondi che hanno trovato espressione nella composizione figurativa marcatamente mito-poietica.
Oltretutto si può sottolineare l'interscambiabilità tra l'idea della frammentazione del mosaico nelle sue migliaia di tessere, con la frammentazione del pensiero tipica degli psicotici.
Evidentemente per i pazienti ha giocato un ruolo decisivo l'opportunità di lavorare ad un prodotto creativo che implicava in primis il distruggere la materia, frammentandola in una moltitudine di pezzi, e poi il ricomporla a proprio piacimento secondo le loro volontà. Il mandare in pezzi il materiale e poi l'assemblare nuovamente i frammenti, può essere stato d'aiuto per visualizzare con occhi estranei ed esterni i loro processi interni di pensiero, e quindi può aver fornito lo stimolo o lo strumento per renderli più consapevoli.


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