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PSYCHOMEDIA
Tesi

Tesi di Laurea di Sara Ceccucci

La luce oltre la porta
Il Day Hospital Psichiatrico tra passato presente e futuro


Capitolo 1: L' evoluzione storica dell'atteggiamento nei confronti della follia



1.1 La teoria psichiatrica moderna

La teoria psichiatrica moderna nacque quando entrò in crisi l'interpretazione mistico religiosa della follia. La pratica dell'internamento,che iniziò in tutta Europa verso la metà del Seicento,riguardava : " sifilitici, dissoluti, dissipatori, omosessuali, bestemmiatori, alchimisti, libertini (...)". La forma di assistenza prestata tra il XVII e XVIII secolo, durante la rivoluzione scientifica mirava essenzialmente ad annullare gli ipotetici elementi fisici concreti di malattia del cervello e del midollo. Con l'avvento dell'illuminismo,i trattamenti psichiatrici vennero impostati sul presupposto che la follia fosse causata dalla perversione della volontà , non controllata dalla ragione e quindi oltre alle pratiche tradizionali come i salassi,le purghe, il digiuno , i bagni caldi o gelati si lavorava in modo da "ricostituire" nel paziente l'abitudine alla disciplina.. La metodologia con cui si lavorava era differente, e andava dall'insegnamento delle regole di convivenza,della socialità e della tolleranza reciproca ai semi-annegamenti in apposite vasche,le minacce con ferri roventi e l'esplosione improvvisa di polvere da sparo.
Nella miseria generale che caratterizzava l'epoca, i "pazzi" trovavano il loro posto, dal momento che in tale panorama di fame, sporcizia e malattia, il volto della follia poteva essere facilmente confuso con quello della miseria stessa. Con l'evolversi delle conoscenze dell'uomo, anche l'atteggiamento nei confronti della follia muta: inizia a farsi spazio l'idea che un "folle" non può essere ritenuto responsabile dei suoi atti ed essere segregato come un delinquente. Fu Philippe Pinel che alla fine del 700, propose l'abolizione delle catene degli alienati e la loro separazione dai delinquenti. I manicomi nacquero dunque da un gesto scientifico e umanitario insieme, ma nonostante fosse riconosciuta ai pazzi la loro malattia, continuarono a venire segregati in luoghi che non erano molto diversi dalle prigioni. La scienza medica continuava a non comprendere le origini della malattia mentale e rimaneva prigioniera del principio filosofico che considerava l'uomo scisso in 2 parti, lo spirito e la materia. Per oltre 150 anni le cure praticate nei manicomi consistevano in tecniche violente che dovevano servire a controllare e prevenire la pericolosità del folle o scuoterlo da una apatia totale. Docce fredde per impulsi aggressivi, camicie di forza che immobilizzavano gli agitati, bagni prolungati fino a 12 ore al giorno, per i quali i malati venivano bloccati in una vasca con la testa imprigionata in un collare di legno, tecniche di soffocamento come la "strozzina" che consisteva nel buttare sulla testa del malato un lenzuolo bagnato avvitandolo strettamente all'altezza del collo e provocando la perdita dei sensi, tecniche terrorizzanti per provocare stati di panico o reazioni apatiche come l'appendere il paziente con una corda e spaventarlo con il rumore di spari e fuochi di artificio, massaggi meccanici ed elettrici,manette di ferro e forme svariate di sonde per l'alimentazione forzata. Successivamente queste pratiche furono soppiantate dalle terapie di shock, come la malarioterapia, insulinoterapia o il più conosciuti elettroshock. Il manicomio è stato in grande sostanza una violenza continua ai danni dei malati, un'insieme di torture legalizzate e giustificate dalla terapia.
Un primo passo verso il cambiamento della concezione del malato psichiatrico e della terapia fu il cosidetto "trattamento morale" , alla base del lavoro di Pinel in Francia e Chiarurgi in Italia,noti per aver tolto le catene ai folli alla fine del '700.
In Inghilterra ,è appunto, tra il 700 e l' 800 che inizia a farsi sentire l'esigenza di porre fine alle metodiche psichiatriche sino a quel momento in auge e poggianti su una coercizione anche violenta. Uno dei tentativi di riforma più importanti è quello messo in atto da John Conolly, quasi parallelo a quello messo in atto da Benjamin Rush a Filadelfia. Di fatto i due, sono i primi ad aver applicato il principio della "non restituzione fisica"..."nel nome di un atteggiamento più umano e di una giustificata fiducia nell'autocontrollo comunitario dei ricoverati". L'esperienza condotta da Conolly ad Hanwel divenne un esempio storico di manicomio aperto,privo di qualsiasi sistema di contenzione fisica, anche per i pazienti più agitati. Il sistema di non restrizione ha un enorme significato storico,perché mostra ,per la prima volta,come sia possibile gestire i pazienti utilizzando :condizioni più confortevoli, il lavoro, lo svago , modificando l'atteggiamento del personale e integrando la struttura con la comunità esterna. Ricordando anche che nel 1839 ad Hanwell non esistevano gli psicofarmaci. Nella psichiatria inglese quasi un secolo dopo, lo psichiatra Maxwell Jones,dopo i due esperimenti di Northfield elabora il concetto di comunità terapeutica quale formula alternativa all'organizzazione totalizzante sino a quel momento utilizzata per affrontare la malattia psichica. Il medico non è più figura predominante del momento terapeutico,ma diviene importante ,per il recupero della salute mentale del malato, anche l'intervento del paziente stesso e del personale para-medico. Il gruppo diviene lo strumento dinamico in grado di superare la diade medico-paziente e assumono importanza elementi come: l'adesione volontaria alla vita comunitaria,il rispetto delle regole scritte e orali che caratterizzano la vita di gruppo e l'importanza dei rapporti interpersonale e di una interazione stimolanti


1.2 La psichiatria in Italia nel 900

Manicomio è una parola che comparve nel vocabolario italiano nel primo ventennio del XIX secolo, ciò significa che già prima della legge del 1904, che regolò la materia fino al 1978, esistevano i manicomi. Alla fine del 1800 in effetti, in Italia, esistono circa una quarantina di manicomi. La loro collocazione, il loro funzionamento e le modalità di accesso erano assai diverse e ciò soprattutto in funzione delle diverse storie dei singoli stati prima della unificazione di Italia.
Una condizione storica di rilievo spetta al manicomio di Firenze, diretto dal medico Vincenzo Chiarurgi. Manicomio questo, che fu regolato dal Granducato di Toscana con un apposito Decreto che nel 1841 istituì l'insegnamento ufficiale della psichiatria.
Anche Venezia incomincia intorno al 1904 ad istituire l'ospedale per infermi di mente di S. Servolo, con vicende alterne e indubbie finalità, tra cui quella di raccogliere "mozzi" per servire nelle navi, spedite colà ( nel manicomio) dal Magistrato della Sanità.
Analoghe esperienze furono poi attuato a Verona e a Reggio Emilia dove il manicomio aveva natura prettamente giudiziaria. La legge nasce esattamente il 14 febbraio. Non fu un parto facile: basti considerare che fu preceduta da ben sette progetti di legge. Si attribuisce al Ministro degli Interni Giolitti e al suo senso pratico, l'aver condotto in porto la legge: la ridusse a pochi articoli, in quanto legge quadro, e tolse, sulla scorta della passata esperienza, tutte quelle asperità che ne avrebbero ostacolato l'approvazione.
Le idee che ispirano la legge del 1904 sono talora espresse in modo esplicito, come nell'articolo dove l'alienato di mente è definito solo in base al suo comportamento pericoloso.
Il carcere e il manicomio sono coerentemente due modalità di difesa, dall' uomo delinquente e dall'uomo folle, in particolare dalla loro pericolosità. Il folle non è responsabile delle sue azione ( e dunque non punibile), ma perciò stesso non si può rispettarne la volontà quando si tratta di portarlo in manicomio: alla volontà del singolo deve imporsi quella della comunità. La follia, del resto, non poteva guarire, si poteva solo imbrigliare, contenere: questo il compito della psichiatria.
L'internamento manicomiale veniva ad atteggiarsi come una vera e propria misura di prevenzione di tipo poliziesco.
In particolare si tendeva a garantire una adeguata assistenza medica generale accompagnata dalla tutela della collettività, e in alcuni casi dello stesso malato, attraverso strumenti assai affini alla detenzione.
In questo contesto la legislazione psichiatrica italiana dell'epoca, peraltro adottata con notevole ritardo rispetto ad altri paesi europei, fu considerevolmente influenzata dalle esigenze dell'ordine e dell'intervento pubblico, che divennero la preoccupazione essenziale del legislatore, il quale considerava invero le finalità assistenziale come meramente accessorie. In altri termini la carenza di cure ( le grandi terapie di shock ­ insulino-shock terapia e elettroshock ­ sono degli anni trenta, mentre solo dopo un ventennio si affermerà la psico-farmacologia) e di protocolli idonei al trattamento delle psicosi, induceva il mondo medico e la società ( e con essa la legislazione pubblica) ad occuparsi degli effetti della malattia. Si può concludere che la legge del 1904 era fortemente influenzata dalla dottrina psichiatrica dell' epoca che aveva una visione del disturbo mentale nel senso organico della parola.
Gli anni che seguirono l'avvento della legge del 1904 e del successivo regolamento, videro sempre più affermarsi e radicalizzarsi la visione della psichiatria come fenomeno puramente biologico e quindi ancor più rafforzarsi il delineato processo di medicalizzazione naturalistica della psichiatria. Dagli anni '20 agli anni '40, l'intero mondo psichiatrico si trovò impegnato a ricercare quelle che si ritenevano essere le cause della malattia mentale, e, precisamente, cause fisiche e corporee, tralasciando di assumere in considerazione la valenza della relazione del paziente con i suoi simili e con il mondo reale.
Ne discese che, ancora come agli inizi del secolo, il rapporto interpersonale era ignorato ed inesplorato nella sua valenza terapeutiche, così come la riabilitazione psichiatrica ( ben diversa dalla cosiddetta ergoterapia manicomiale) era del tutto sconosciuta ed il malato sempre più un oggetto di custodia
Tale "stato di fatto" non venne in alcun modo modificato dal nuovo regime che si andava affermando in Italia: il Fascismo.
"Durante il Fascismo l'spetto repressivo della psichiatria e la sua funzione di controllo sociale si accentuarono, riportando in auge le concezioni lombrosiane, per sottolineare esclusivamente la dimensione anti-sociale dei pazienti e la necessità di misure difensive da parte dell'ordine costituito. Si recuperarono gli aspetti più deteriori del vecchio positivismo, privi però di ogni carica innovativa e talora paradossalmente connessi ad una matrice spiritualistica, adoperata in senso funzionale alla politica ideologica del Regime". E ancora: "Un lungo silenzio è calato sui manicomi dalla fine del XIX secolo fino alla seconda guerra mondiale. Tempo muto per milioni d'individui passati tra quelle mura, per milioni di non-vite pazienti e senza eco. In effetti, le preoccupazioni dei medici si erano spostate. Il dibattito sull'organizzazione amministrativa e legislativa per il controllo della follia presentava ormai solo un mediocre interesse: la macchina esisteva, e funzionava senza far rumore".
Le novità tuttavia non mancavano . La prima metà del secolo scorso è caratterizzata dalla comparsa delle shock-terapie, che portavano il paziente ad avere una crisi convulsiva artificiale. E' interessante notare come già nel 1917 Wagner Von Jauregg, a Vienna, metteva a punto la tecnica della malarioterapia, che consisteva nell'iniettare al malato i plasmodi malarici che provocavano eccessi febbrili. Nel 1932-33 facevano rispettivamente la loro comparsa l'insulina e il cardiazol; successivamente, nel 1938 Cerletti inventava l'elettroshock, che si diffondeva con estrema rapidità nelle case di cura di tutto il mondo, visto che il suo utilizzo non richiedeva costi elevati ed era molto facile da praticare. Questa invenzione rappresentava il primo contributo e riconoscimento in campo internazionale dell'Italia nella psichiatria contemporanea. A parte i dati statistici che documentano l'enorme crescita della popolazione dei manicomi che pare raggiunga il suo massimo intorno agli anni quaranta, la letteratura sulla psichiatria italiana nella prima metà degli anni venti risulta essere molto esigua.
Nel periodo fascista si raggiunse il massimo numero dei pazienti nei manicomi pubblici. Secondo Canosa il regime fascista rafforzò indirettamente le tendenze repressive della psichiatria.
La crescita del numero degli internati per quanto riguarda il periodo degli anni '20-'30, va considerata anche tenendo presente lo stato economico dell'Italia. Infatti, il quadro sociale da cui sorge la psichiatria italiana non è molto favorevole.
Durante gli anni della guerra 1942-1945, il numero dei pazienti presenti negli istituti calava drasticamente perché diventati le vittime della scarsità dei viveri e della tubercolosi e in più a tutto questo si aggiungeva il numero delle vittime cadute in guerra. Nel decennio 1930-1940 la mortalità era del 6%, negli anni 1942-1945 essa cresceva al 14%.
Secondo Ugonotti, nel 1949 si trovavano nelle complessive province italiane 62 istituti pubblici, di cui 33 nel Nord, 14 nel Centro e 15 nel Sud. Circa venti di questi istituti erano stati fondati tra il 1900 e il 1940; molti altri erano stati ristrutturati. Il numero dei pazienti iniziava nuovamente a crescere, una tendenza che si fermò poi a metà degli anni settanta.
A parte i trattamenti shock generalmente diffusi, dal punto di vista del trattamento terapeutico erano ormai noti anche gli interventi psicochirurgici che però erano esposti a pesanti critiche. Infatti, negli anni 1950 iniziava nella psichiatria italiana l'era psicofarmacologica.
Se all'introduzione dei neurolettici si erano voluti attribuire due obiettivi, quello di ridurre il più in fretta possibile la sintomatologia psicotica e quello di creare rapidamente uno stato mentale soddisfacente per il reinserimento sociale, i risultati erano subito apparsi alquanto distanti dalle speranze: infatti se sul primo terreno dei risultati sono stati indubbiamente conseguiti, anche se non da rimarcare con accenti trionfalistici (.....), sul secondo l'unica conseguenza certa del loro impiego è stata la riduzione della durata dei soggiorni in ospedale psichiatrico, per il resto la curva della popolazione psichiatrica continuava a salire".
Ciò nonostante "E' innegabile però che allo stato attuale delle nostre conoscenze e specie nella fase acuta del disturbo gli psicofarmaci sono di indubbia utilità, e che negli anni '60 abbiamo contribuito a ridurre la durata del ricovero, favorendo le successive esperienze di trasformazione manicomiale".
Per dar conto dell'arretratezza e del ritardo organizzativo dell'Italia è sufficiente pensare che in Inghilterra era stata già emanata, nel 1959, la Mental Act, in Francia c'era stato il decreto sulla settorializzazione nel 1960 e negli USA nel 1963 era stato emanato il Kennedy Act con cui si erano istituiti i Mental Health Centers. Questo era dovuto alla pesante repressione ideologica attuata durante il Regime Fascista, che si protrae nell'Italia del dopoguerra.


1.3 La situazione italiana tra gli anni '60 e '70

Negli anni tra il '50 e il '60, ad opera degli psichiatri più illuminati, si cerca di aprire la strada a orientamenti più moderni, dalla psicoanalisi alla antropologia culturale, alla fenomenologia.
"Gli anni '50 hanno visto lo sforzo disordinato ma costante degli psichiatri italiani per rimontare, il distacco culturale e tecnico che li separava dal resto della cultura europea ed americana. Il prevalere dell'idealismo in filosofia e del positivismo in medicina e nelle scienze dell'era prefascista era proseguito e si era accentuato durante il Fascismo. La collusione ideologica degli atteggiamenti prevalenti nel pensiero ufficiale cattolico con la reazione politica e culturale continuò anche negli anni successivi alla seconda guerra mondiale ed alla Resistenza e contribuì, non poco, a mantenere la situazione generalmente arretrata. Nel loro sforzo di rimontare il distacco culturale che li separa dagli ambienti scientifici degli altri paesi gli psichiatri italiani finiscono con il recuperare non solo ciò che è ancora vivo ed attuale, ma anche cose già superate: psicoanalisi, antropologia culturale, analisi del linguaggio, psicopatologia dell'espressione, e mentre si diffonde in Italia l'uso di classe della psicoanalisi pratica, in altre parti del mondo la psicoanalisi già salta fuori dal divano e tenta la via delle istituzioni". L'insoddisfazione degli operatori cresce in proporzione alle profonde trasformazioni dello scenario politico culturale. "La crisi e l'opposizione salgono in Italia dalle sacche di più acuta arretratezza di un sistema segnato, e non solo in campo psichiatrico, da gravi carenze e ritardi, nella gestione amministrativa, nello sviluppo culturale, nella organizzazione dei servizi. Il movimento di psichiatria alternativa si intreccia così con il movimento della classe operaia e diventa così fortemente politicizzato rispetto ad altri paesi La critica contro il carattere segregante dell'istituzione manicomiale si dilata rapidamente, soprattutto dopo la contestazione del '68-'69, a una critica contro la funzione repressiva di tutte le istituzioni borghesi e contro i meccanismi di emarginazione della società divisa in classi; le lotte dei tecnici della psichiatria superano i confini del settore specifico per collegarsi a quelle del movimento operaio per una gestione diversa della salute. Anche l'opinione pubblica, attraverso stampa, televisione e radio, cominciava ad appassionarsi al tema psichiatrico, contribuendo così al fervido dibattito in corso. Le fotografie d'arte, il cinema e l'arte figurativa si cimentava con forza su tale argomento e vennero prodotte opere di valore come, ad esempio, il lavoro fotografico di Luciano d'Alessandro del 1969, che conduce un fotoreportage sull'istituzione totale.
Questo processo di modernizzazione non si svolse nell'Università, ma soprattutto al di fuori dell'istituzione, attraverso la formazione di gruppi informali. Notevolmente attivi furono il Gruppo Milanese di P:F: Galli, il gruppo dell'Ospedale psichiatrico d Novare di G:F: Morselli e il gruppo di F. Basaglia presso l'ospedale psichiatrico di Gorizia.
Vi era in Italia un grosso fiorire, quasi tutto extra-universitario, di gruppi spontanei, di nuove associazioni e di iniziative dell'industria culturale. "la costituzione di gruppi extra-universitari di operatori negli 1955-1968 e la loro netta prevalenza scientifica, culturale, editoriale è sintomo chiaro del limite grave dell'Università e del suo completo trovarsi fuori gioco nel processo di modernizzazione e nel rapido allargamento di orizzonte che in quel periodo si era determinato. Mentre l'editoria psichiatrica italiana non solo è in un momento di espansione, ma anche di forte avanzamento nei contenuti nuovi, le riviste scientifiche psichiatriche che rispecchiano direttamente l'orientamento dominante dell'ambiente universitario sembrano continuare sulla scia del precedente decennio".
Il movimento fenomenologico e antrofenomenologico era rigoglioso, la psichiatria italiana era percorsa, come del resto in tutto il mondo, da influenze significative, come, ad esempio, le discipline psicologiche, le teorie dell'informazione, l'analisi del linguaggio, la linguistica, la semeiotica ecc. e cominciava a vivere il periodo della modernizzazione che, anche se iniziata in ritardo rispetto al mondo occidentale, si accelerava in modo sempre più rapido e vorticoso. Inoltre, all'interesse per la trasformazione, per la comunità terapeutica, la liberalizzazione e la democratizzazione, si affiancavano le analisi delle istituzioni totali, che mettevano in evidenza la loro distruttività sotto tutti i punti di vista, in consonanza con le analisi di Goffman. Cooper e Laing che diventarono, nelle seconda metà degli anni '60, gli autori più letti in Italia nell'ambito del tema. E' proprio in questi anni che Basagli pubblicò le sue due opere maggiori, Che cos'è la psichiatria (1967), L'istituzione negata (1967), che possiamo considerare come i testi di base per la psichiatria alternativa italiana.
Da una panoramica complessiva di questi scritti si nota come la politicizzazione dei suoi protagonisti, cioè l'estrema consapevolezza di come "le cause della malattia mentale, essendo di natura esclusivamente sociale, vadano combattute sul loro terreno (la società civile), usando i mezzi e le strategie maggiormente adottati ad incidere su tale terreno, che si identificano ed esauriscono appunto nella militanza politica".
Appare chiaro sin da subito che il superamento della realtà istituzionale non poteva avvenire senza l'appoggio e l'intervento delle forze politiche e sociali e questo spiega la saldatura avvenuta alla fine degli anni sessanta tra i gruppi antipsichiatrici italiani, il movimento studentesco del 1968 e il movimento operaio". Nel 1968 gli operai conducono battaglie il cui obiettivo principale è la lotta contro la nocività delle fabbriche la gestione privatistica del problema della salute. La fabbrica si presentava come perno dell'ordine sociale capitalistico e per questo divenne il simbolo del movimento rivoluzionario.
Ci troviamo in un momento storico in cui il rapporto tra politica e scienza è molto controverso, infatti si denunciava la "non neutralità della scienza" ed è interessante notare come tale critica si prestasse ad un'estremizzazione di tipo ideologico, tant'è che si arrivò ad identificare la scienza con gli interessi della classe dominante.
Queste critiche riproponevano, nei fatti, ideologie che trovavano origine in teorie filosofiche e di stampo idealista; così, infatti, come per Karl Marx la storia era la storia della lotta di classe, per uno psichiatra di orientamento marxista la storia del malato era una storia di oppressione.
Secondo questa visione bisognava liberare il malato dallo stato di segregazione e di isolamento in cui si trovava e restituirgli la libertà, e si riteneva necessario mantellare l'istituzione manicomiale che, con la sua pratica di violenza o di oppressione, non faceva altro che rispondere alle esigenze dell'ideologia borghese.
Questi erano i motivi che portarono gli psichiatri alternativi italiani a condurre una dura lotta contro il manicomio.
A questo punto, però, è necessario operare una distinzione tra "la lotta al manicomio" e "la lotta al manicomialismo".
Schematizzando il nostro discorso possiamo affermare che la prima, aveva come obiettivo la messa in crisi della struttura ospedaliera e cioè una progressiva dimissione dei degenti, chiusura dei reparti e ricerca di soluzioni alternative, la seconda invece, lottava per l'abbattimento della pratica e della cultura manicomiale, ed è proprio questa lotta che gli psichiatri alternativi volevano portare avanti.
Tutte queste critiche alla psichiatria tradizionale avevano portato gli antipsichiatri a lottare per fondare istituzioni alternative sul territorio contrapposte all'istituto manicomiale. Le prime si svilupparono a Gorizia, nel 1961, ad opera di Franco Basaglia, e poi a Perugina, nel 1965, grazie a Carlo Monti che inizia un processo di trasformazione dell'Ospedale Psichiatrico, e a Napoli, nel 1968, dove Sergio Piro lotta per trasformare l'Ospedale Psichiatrico Mater domini.
Si ricorda inoltre che nel 1968, grazie alla decisiva spinti politica delle lotte operaie, divenne forte la tendenza ad uscire dall'istituzione psichiatrica e a cercare una modalità d'intervento più complesso e più globale; è così che in provincia di Perugina nel 1968, sorgeva una dei primi Centri di Igiene Mentale (CIM) italiani. Questa realizzazione fu possibile grazie ad una disposizione della legge Mariotti del 1968, nota come legge 431, il cui intento riformistico si articola nei seguenti punti principali:
a) riduce le dimensione degli Ospedali Psichiatrici stabilendo regole e delimitazioni ben definite: un massimo di 600 posti letto per OP, con divisioni dotate di un numero massimo di 125 posti letto;
b) propone la istituzione di divisioni in psichiatria all'interno degli Ospedali Generali;
c) sancisce un rapporto numerico tra personale di cura e ricoverati: il rapporto non deve essere inferiore a 1 operatore ogni 4 pazienti ricoverati;
d) suggerisce un più specifico intervento psicologico e psicosociale a favore degli assistiti ricoverati negli Ospedali Psichiatrici;
e) introduce il principio del ricovero volontario come elemento che può rafforzare la qualità della osservazione diagnostica e dell'intervento terapeutico nell'Ospedale Psichiatrico;
f) determina finalmente l'abolizione della registrazione dell'assistito ricoverato in Ospedale Psichiatrico nel casellario giudiziario;
g) dispone la istituzione di Centri di Igiene Mentale (CIM) strutture ambulatoriali finalizzate allo scopo di offrire un supporto terapeutico e sociale a quegli assistiti dimessi dall'Ospedale Psichiatrico e rientrati nel territorio di origine.
La legge Mariotti inseriva la psichiatria nel Sistema Sanitario, anche se le modifiche da essa apportate non avevano intaccato i meccanismi istituzionali; comunque sia, tale legge rappresentò un collegamento fondamentale tra le prime esperienze antistituzionali e le lotte operaie e sindacali.
Nel 1973 si assisteva alla nascita della Psichiatria democratica che comprendeva numerosi medici, come Basaglia, Pirella, Schittar, Casagrande e tanti altri. Questo movimento svolse un'attività di sensibilizzazione e d'informazione coinvolgendo operatori, studenti ed amministratori, che uniti nella lotta all'esclusione e, di conseguenza, alle Strutture segreganti, auspicavano una nuova politica sanitaria psichiatrica. Il documento programmatico di PD
Così recita:
"Il gruppo di Psichiatria Democratica si propone quindi di :
1) Continuare la lotta all'esclusione, analizzandone e denunciandone le matrici negli aspetti strutturali (rapporti sociale di produzione) e sovrastrutturali (norme e valori) della nostra società: Questa lotta può essere condotta solo collegandosi con tutte le forze ai movimenti che, condividendo tale analisi, agiscono concretamente per la trasformazione di questo assetto sociale.
2) Continuare la lotta al "manicomio" come luogo dove l'esclusione trova la sua espressione paradigmatica più evidente e violenta, rappresentando insieme la garanzia di concretezza al riprodursi dei meccanismi di emarginazione sociale
3) Sottolineare i pericoli del riprodursi dei meccanismi istituzionali escludenti anche nelle Strutture psichiatriche extramanicomiali di qualunque tipo. Qualsiasi struttura alternativa si configura infatti a immagine e somiglianza dell'organizzazione istituzionale (il manicomio) che continua ad esistere in modo dominante alle su spalle...."
Dalle suddette proposte si può notare come gli psichiatri democratici "esprimano l'esigenza di un'organizzazione che consenta il confronto, che dia voce alle esperienze locali e che divenga interlocutore unitario delle forze politiche e delle istituzioni. L'identità del gruppo nascente di operatori democratici non è riconducibile a quella di un gruppo politico, ma assume la figura di collegamento tra tecnici che, attraverso la pratica, propone un terreno di confronto politico, un luogo di verifica per le istanze politiche di cambiamento non solo del sistema sanitario, né tanto meno di quello specifico psichiatrico di cui pure si occupa. La politicità dell'agire del movimento consiste, dunque, nella creazione di situazioni alternative su cui si misuri un reale schieramento di classe, ricercando un giusto equilibrio tra l'impegno per la lotta allo specifico manicomiale evitando il riassorbimento come atto tecnico dell'atto politico di rottura della continuità manicomiale".
Quindi, l'obiettivo di tale movimento resta la lotta al manicomio tentando di convogliare le proprie forze verso la costruzione di servizi territoriali alternativi all'istituzione manicomiale. Questa alleanza tra i vari settori contribuirà più tardi all'emanazione della legge 180, che come vedremo rivoluzionerà il sistema psichiatrico vigente.
In questo scenario politico culturale, ormai in profonda trasformazione, l'esperienza di Franco Basaglia a Gorizia nel 1962 assume un significato importante.
Assistente nella clinica delle malattie nervose e mentali dell'Università di Padova, fu trasferito, praticamente contro la sua volontà (in verità egli aspirava alla cattedra) dal prof. Belloni, a dirigere il manicomio di Gorizia.
Caparbiamente, decise di farne una esperienza pilota: egli si considerava ed era un outsider e Gorizia assunse subito una coloritura originale che la distinse marcatamente rispetto alle altre esperienze europee dello stesso tipo.
Le teorizzazioni a cui Basaglia fa riferimento sono quelle democratiche di Maxwell Jones, fondatore della comunità terapeutica, e quelle del movimento antipsichiatrico inglese, ma soprattutto egli rivolge una particolare attenzione all'esperienza di John Conolly che, come già visto in precedenza nel 1839, riprendendo il concetto di trattamento morale di Pinel, denunciava lo stato di isolamento dei malati e li liberava dai mezzi di contenzione. Queste pratiche verranno attuate più di un secolo dopo a Gorizia apportandovi ovviamente delle innovazioni.
Basaglia è uno dei primi psichiatri che inizia la lotta contro l'istituzione manicomiale e soprattutto è colui che denuncia la non neutralità della scienza psichiatrica, sostenendo che la psichiatria, con i suoi metodi d'internamento, non fa altro che riprodurre il sistema sociale esistente, basato sull'esclusione dei più deboli e di tutti quelli che non sono produttivi.
Ciò significa che non è l'ideologia medica a stabilire o indurre l'uno o l'altro tipo d'approccio, quanto piuttosto il sistema socio-economico che ne determina le modalità a livelli diversi.
Partendo da questa visione della psichiatria, porta avanti soprattutto una lotta politica volta a mettere in discussione il sistema psichiatrico; l'esperienza di Gorizia, pertanto, costituisce una possibilità per trasformare la struttura manicomiale tradizionale in un modello comunitario.
La comunità terapeutica viene descritta da Basaglia, non come "un agglomerato", ma come una struttura che consente il movimento di dinamiche interpersonale partendo dalle esigenze del malato e costruendo quella atmosfera terapeutica che si origina da un rapporto interumano reciproco tra i componenti della comunità. I degenti abitano l'ospedale, lo vivono come una casa propria, i rapporti con i medici e gli infermieri sono divenuti umani e chiari e, nelle numerose occasioni di confronto collettivo, si va sviluppando una solidarietà sempre più stretta.
Basaglia è convinto che per superare la mentalità basilare bisogna operare un'innovazione che sia in grado di confrontarsi e di rapportarsi con il contesto sociale in cui si vuole agire. Egli denuncia con veemenza il sistema sociale che, con la scusa della pericolosità sociale del malato di mente, vuole giustificare l'isolamento e la violenza subiti da quest' ultimo nell'istituzione psichiatrica, e nello stesso tempo tutela i propri interessi di società dei sani che si difende dalla pazzia relegando i folli nel manicomio. Rivolge pertanto un'aspra critica alla legge del 1904; il giudizio più severo è senz'altro rivolto al ricovero coatto, che veniva effettuato sotto ordinanza della Pubblica Sicurezza quando si riteneva la persona pericolosa per sé e per gli altri, senza che il malato potesse avere alcuna possibilità di replica.
Egli riteneva che una possibile riabilitazione del malato fosse possibile solo se si partiva dall'idea che il malato mentale è prima di tutto un uomo senza diritti, che viene escluso da una società intenta a nascondere le proprie contraddizioni.
L'ergoterapia, metodo terapeutico consistente nel prescrivere un'adeguata attività lavorativa, diventa fondamentale nella comunità perché stimola i malati apatici e abulici, e il lavoro non ha valore riempitivo per far trascorrere la giornata, bensì prettamente terapeutico.


1.4 La legge 180

Come abbiamo visto precedentemente, la questione psichiatrica divenne ben presto non più un problema esclusivo dei medici, ma una tematica che coinvolge l'intero mondo socio-politico. Era sempre più forte la tendenza ad inserire lo specifico psichiatrico all'interno del movimento che lottava per una trasformazione democratica e socialista della società italiana.
Si pensava che, attraverso la partecipazione democratica, si potesse mettere in crisi il potere del tecnico, che da solo non poteva modificare la realtà individuale e sociale. Ed è proprio in questo clima che il movimento anti-istituzionale offriva il terreno di partenza per mettere in discussione tutti gli assetti del potere, introducendo nella psichiatria la dimensione politica e nella politica la questione psichiatrica.
Questa maggiore disponibilità delle forze politiche la possiamo far risalire sia all'effettiva necessità di trovare delle soluzioni tecnico-politiche al problema manicomiale, sia ad un preciso momento storico in cui si cercano soluzioni per evitare un referendum popolare.
Pertanto, tutti i partiti che desideravano cambiare la situazione del manicomio, pur avendo delle divergenze tra loro, nella sostanza concordarono nel presentare una proposta comune. Si può quindi avanzare l'ipotesi che l'emanazione della legge 180 sia stata un prodotto del "compromesso storico", cioè sia nata in un clima di collaborazione tra i maggiori partiti, tant'è che il problema della riforma psichiatrica insieme a quello della Riforma Nazionale Sanitaria veniva ad assumere dimensioni spiccatamente politiche diventando, in questo modo, uno degli argomenti più accesi della polemica tra i partiti.
In questo clima, inoltre, era forte la convinzione che l'abrogazione della vecchia legge manicomiale sarebbe stata politicamente qualificata solo se fosse stata inserita in una riforma generale dell'assistenza sociale e sanitaria, richiedendo, in tal modo, l'unione di svariate forze politiche.
In sostanza sia i politici, sia gli addetti al settore, erano convinti che l'Italia si trovasse in una situazione sociale e politica ormai matura per affrontare un cambiamento in campo psichiatrico, e non solo; tutti concordavano nel ritenere che fosse giunto il momento in cui era necessario superarare quella assistenza adeguata ad un caritativa che aveva caratterizzato un lungo tempo il nostro paese e adottare un'assistenza adeguata ad un'economia e ad una logica di tipo industriale. Fu così che il tema psichiatrico cominciò a catturare l'interesse delle forze politiche, tanto che queste furono per diverso tempo impegnate a presentare progetti e proposte di riforma sanitaria; infatti già prima dell'emanazione della legge 180 numerosi erano stati progetti di legge presentati.
Tutti i partiti riconoscevano l'urgenza del problema e, ad accelerare le vicende legislative, intervenne la raccolta di firme promossa da Partito Radicale, per ottenere un referendum popolare per l'abolizione della legge ormai obsolete del 1904.
Avendo avuto questa iniziativa molto successo, il Parlamento, per evitare di lasciare il Paese senza legge, il 13 maggio 1978, in maniera abbastanza repentina, approva la legge n.180 intitolata: Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, facendola poi riassorbire, senza significative differenze, nella legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale n.833 dello stesso anno.
Passando poi agli aspetti giuridici della legge. 180 è noto che essa, conosciuta da molti come legge Basaglia, veniva emanata in un momento in cui le esperienze e i principi etico-politici erano così superati che diventava sempre più necessario ed urgente rompere con la vecchia legislazione del 1904. La nuova legge stravolgeva totalmente il modo di impostare l'assistenza psichiatrica e sanciva il definitivo abbandono del concetto di istituto manicomiale, inteso come struttura di separazione e di segregazione dal contesto sociale, privilegiando il momento preventivo di recupero e il reinserimento sociale del malato.
L'istituzione nosocomiale, perno del precedente sistema, veniva sostituita con una serie di Strutture diffuse nel territorio, coinvolgendo lo Stato, le Regioni e i Comuni; il concetto di territorialità diventava così la guida di questo processo innovativo e fondava un nuovo paradigma sociale e politico della psichiatria.
Questa idea del servizio legato al territorio non era poi così nuova, in quanto già nel 1968 con legge Mariotti si erano istituiti alcuni Centri di Igiene Mentale (CIM) i quali dovevano essere collocati al di fuori dell'ospedale psichiatrico con l'obiettivo di garantire l'assistenza psichiatrica in un determinato bacino di utenza territoriale; solo con l'emanazione della 180 comunque sarà sancita la chiusura dei manicomi.
Tale legge confluì sostanzialmente immutata dopo pochi mesi nella successiva e più ampia legge 833/78 (art. 33,34,35,64) riguardante l'istituzione del Servizio Sanitario Nazionale.
Va evidenziato che tanto la vecchia legge (1804) era custodialistica, quanto la nuova e acustodialistica.
La vecchia legislazione infatti era ispirata a principi di autoritarismo e controllo mentre la nuova è liberale e non autoritaria.
In più l'attuale legislazione non tratta più la malattia psichica come "argomento a parte" ma la inserisce come parte integrante del Servizio Sanitario Nazionale.
Sul punto appare infatti fondamentale il regime del TSO che viene previsto dalla legge per qualsiasi causa sanitaria (malattie infettive etc.). La norma infatti prevede che possano essere disposti dall'autorità sanitaria accertamenti e trattamenti obbligatori nel rispetto della dignità della persona.
Gli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori sono disposti dal Sindaco quale autorità sanitaria locale su proposta motivata di un medico.
L'art. 34 della legge si occupa poi in modo specifico del TSO per malattie mentali.
A tal proposito la legge stabilisce:
l'art. 2 (art. 34 legge 833/78) tratta specificatamente degli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per malattie mentali. A questo riguardo la legge stabilisce che ".... la proposta di trattamento sanitario obbligatorio può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengono accettati dall'infermo e se non vi sono le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestivamente idonee misure sanitarie extra ospedaliere". Si stabilisce poi che la proposta medica motivata deve essere convalidata da parte di un medico della struttura Sanitaria Pubblica ( nella legge 833/78 questo particolare è modificato indicando la necessità di una convalida da parte di un medico della Unità Sanitaria Locale).
Vengono poi stabilite una serie di garanzie circa i diritti del cittadino.
Così il provvedimento del Sindaco di TSO deve essere notificato entro 48 ore al Giudice Tutelare nella cui Circoscrizione rientra il Comune.
Questi, entro 48 ore, convalida o no il provvedimento, dandone comunicazione al Sindaco. Se non v'è convalida il Sindaco deve immediatamente interrompere il TSO in condizioni di degenza ospedaliera. Viene stabilito anche che la durata di un TSO per malattia mentale è di sette giorni. Nel caso vi sia necessità di prolungare il TSO, il medico responsabile del servizio ove è ricoverato il paziente, propone al Giudice Tutelare prolungamento, indicando la ulteriore durata presumibilmente del trattamento stesso (art. 3 legge 180/78 ed art. 35 della legge 833/78).
Vengono inoltre istituiti i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC).
Nella legge 833/78, questi SPDC sono nominati al quinto comma dell'art. 34, con alcune lievi varianti rispetto alla legge 180/78. Si ribadisce che il SPDC fa parte integrante, pur inserito dentro all'Ospedale Generale, delle Strutture Dipartimentali per la Salute Mentale prevalentemente extraospedaliere al "fine di garantire la continuità terapeutica". Nello stesso comma si afferma però che i SPDC sono "dotati di posti letto nel numero fissato dal piano sanitario regionale".
L'art. 7 è dedicato al "trasferimento alle Regioni delle funzioni in materia di assistenza ospedaliera psichiatrica", funzioni che fino ad allora erano di pertinenza delle Amministrazioni Provinciali.
Da sottolineare in questo articolo la disposizione al sesto comma che dice: "E' in ogni caso vietato: costruire nuovi ospedali psichiatrici, utilizzare quelli attualmente esistenti come divisioni specialistiche psichiatriche di Ospedali Generali, istituire negli Ospedali Generali divisioni o sezioni psichiatriche e utilizzare come tali, divisioni o sezioni neurologiche o neuropsichiatriche".
Nell'art. 8, al quinto comma, si autorizzavano nuovi ricoveri negli Ospedali Psichiatrici "esclusivamente (per) coloro che vi sono stati ricoverai anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge e che necessitano di trattamento psichiatrico in condizioni di degenza ospedaliera".
Da quanto esposto emerge che la vera novità della legge sta ne fatto che il ricovero contro la volontà della persona è qualcosa di eccezionale. Il ricovero contro la volontà della persona è qualcosa di eccezionale. Il ricovero coatto è visto come segregante ed isolante per cui la durata previsto è minima ed è solo di 7 giorni, che anche se prorogabili, dal medico non tolgono all'istituto il carattere di eccezionalità.
L'altro punto qualificante della norma è la scomparsa di ogni accenno alla pericolosità per sé o per gli altri.
Il TSO avviene per la mera esistenza di alterazioni psichiche di tale gravità di richiedere un trattamento urgente e per il rifiuto del paziente di sottoporsi volontariamente alle cure.
Esposti i punti principali e più caratterizzanti, bisogna ricordare che la legge 180 è stata varata come una legge transitoria, di cui era previsto il riassorbimento nella legge di istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. Ciò può spiegare la frettolosità con cui è stata introdotta, sotto la spinta del referendum popolare. Questa circostanza spiegò i suoi effetti anche, nei riguardi degli Ospedali Psichiatrici, infatti l'assenza di norme transitorie, usuali in leggi di questo tipo, necessarie per consentire un graduale passaggio dalla vecchia disciplina alla nuova, ha reso ad esempio inagibile il ricovero in Ospedale psichiatrico un minuto dopo l'entrata in vigore della legge. Specie nelle grandi città, essendo ancora i Servizi speciali di Diagnosi e Cura sulla carta, si sono verificati spesso episodi incresciosi.
Del resto, tutta la parte organizzativa, prevista o sottintesa dalla legge, non poteva che essere attuata gradualmente, con l'istituzione completa del Servizio Sanitario Nazionale e soprattutto con il pieno funzionamento delle Unità Sanitarie Locali (USL).
E' opportuno sottolineare che la 180 va vista all'interno della trasformazione complessiva dell'organizzazione socio-sanitaria, all'interno della quale soltanto, potrà realmente e pienamente esprimere la carica di innovazioni che contiene. I nuovi principi della legge possono essere realizzati solo all'interno della Riforma Sanitaria che è la cornice, il quadro di riferimento indispensabile perché la legge di riforma sull'assistenza psichiatrica possa vivere e sostanziarsi di contenuti realmente innovativi".
La legge 180, come sinteticamente dianzi riassunta, che ebbe un importante impatto anche sul conteso socio-sanitario. Essa, infatti, non solo rompeva con la vecchia legislazione, ma mutava totalmente le strategie d'intervento nei confronti della malattia mentale: questa diventava un disturbo da affrontare, assieme a tutti gli altri aspetti sanitari, in Strutture pubbliche decentrate nel territorio.
Questo cambiamento ha fatto sì che il problema psichiatrico non fosse più isolato all'interno dell'istituzione manicomiale, ma venisse inglobato in una realtà sociale molto più ampia e variegata, con la conseguenza di coinvolgere sempre più la società e la famiglia nella gestione del malato psichico.
Con l'assistenza psichiatrica territoriale cambiava anche il tipo di domanda sociale, per cui la richiesta non era più quella di mettere il paziente in manicomio, ma quella di assisterlo nel suo contesto di vita: "L'intervento si rivolge, per tanto, non solo al malato, tra salute e malattia, tra normalità e diversità. Il concetto d'intermedio, e pertanto l'operatività intermedia, si definisce progressivamente non tanto nei luoghi dell'intervento ( le Strutture intermedie) quanto soprattutto nella cultura e nelle pratiche assistenziali e terapeutico-riabilitative".
Ma nonostante queste innovazioni, non mancarono numerosi problemi dal punto di vista sia sociale sia sanitario in quanto. Come vedremo, alcune lacune non di poco conto della legge 180, fecero sì che il malato si trovasse da solo o avesse poche Strutture a cui rivolgersi; tanto è vero che una delle maggiori critiche che viene rivolta alla legge è proprio quella di non aver predisposto adeguatamente il "dopo chiusura", di non aver fornito precise indicazioni operative, di non aver precisato modi e tempi, di non aver previsto sanzioni per gli inadempimenti.
Un limite della legge è proprio quello di essere "legge quadro" non fornisce cioè precise indicazioni operative, demandando a sua applicazione alle Regioni ed alle USL, senza precisare modi e tempi, ma principalmente senza prevedere sanzioni per gli inadempienti.
Tale limite ha prodotto due gravi conseguenze che spesso si sono intrecciate e rinforzate vicendevolmente. La prima è quella della non applicazione o parziale applicazione, cioè l'aspetto quantitativo del problema. La seconda conseguenza è quella dell'applicazione difforme dai principi ispiratori della legge, cioè l'aspetto qualitativo del problema.
Abbiamo visto come la legge demandava alle Regioni l'obbligo di legiferare secondo le indicazioni della 180.
Tutte le Regioni legiferarono, come la legge prevedeva, e forse più di quanto fosse necessario, ma paradossalmente non applicarono le leggi da loro stesse emanate.
La legge è stato detto, è stata applicata a "macchia di leopardo", la situazione dei servizi psichiatrici cioè si inseriva in un quadro di eterogeneità e complessità che addirittura cambiava non solo da regione a regione, ma perfino da città a città. Infatti per quanto riguardava il numero dei servizi di Diagnosi e Cura e il numero servizi territoriali si rilevava una forte spaccatura tra il Nord e il Sud. Al Nord, ad esempio, nel 1978 si trovavano 78 SPDC contro gli 85 del meridione.
Dati che ci possono essere utili per capire quanto la situazione fosse notevolmente diversificata.
Questa mancanza ha lasciato molti ex pazienti degli OO.PP. in una situazione piuttosto drammatica: accadeva spesso che questi, una volta dimessi, non sapessero a chi rivolgersi per avere un'adeguata assistenza medica. Anche il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, l'unica struttura di tipo ospedaliero prevista dalla legge, si trovava ad agire in un vuoto di servizi territoriali senza il supporto di nessun tipo di struttura che agisse da filtro per le entrate, e senza nessun tipo di assistenza che potesse costituire un appoggio per i pazienti dimessi. Già dalla prima ricerca condotta dal CNR, promossa dal Ministero della Salute (1979) e da una ricerca del Censis (1984) emergeva che non era possibile avere un disegno omogeneo dell'assistenza psichiatrica.
L'unico effetto evidente della riforma sanitaria rimanevano le dimissioni dei pazienti rese possibili, da una parte, dall'uso di psicofarmaci e, dall'altra, dal diffondersi delle esperienze alternative all'ospedale psichiatrico.
E' interessante notare come ad una diminuzione di ricoveri psicofarmaci facesse seguito un aumento dei ricoveri nelle cliniche private: infatti se nel 1977 il privato costituiva il 34% dell'assistenza psichiatrica, nel 1986 esso era salito al 56%.
Il quadro generale dell'assistenza psichiatrica intorno alla fine degli anni '80 appare piuttosto deludente, è proprio in questo contesto così complesso che cominciano a formarsi le prime associazioni familiari dei malati mentali, con lo scopo di sensibilizzare l'opinione pubblica, diffondere maggiori notizie sui malati, sollecitare un maggior impegno politico e, soprattutto, denunciare la demagogia della legge, sostenendo che la promulgazione della 180 sia avvenuta in maniera così repentina da non aver affatto considerando la famiglia. Esse pertanto chiedono: l'attivazione dei centri diversificati in grado di offrire un'adeguata assistenza al malato, l'impiego di personale altamente qualificato ed infine si battono affinché venga ripresa la ricerca scientifica in campo psichiatrico.
Alcune associazioni sostengono che "la legge 180 non risponde alle reali necessità dei malati di mente e delle loro famiglie.
Nella legge mancano le norme applicative ed indicative concrete riguardo alle nuove Strutture da realizzare, alla dotazione del personale, ai parametri da considerare per adottare gli interventi alle varie realtà territoriali e al reperimento dei fondi per l'attuazione della riforma.
L'errore principale, sostengono sempre le associazioni, è stato quello di voler negare e minimizzare l'esistenza della malattia mentale, poiché nel momento in cui la causa della malattia mentale, poiché nel momento in cui la causa della malattia viene identificata come semplice frutto di una società capitalistica, la psichiatria diventa una scienza troppo politicizzata; dicendo questo, esse tuttavia non auspicano un ritorno al vecchio manicomio, ma sostengono che è necessario combattere tenendo presente la situazione reale dei malati mentali e delle loro famiglie. Queste ultime ritengono che il passaggio all'assistenza territoriale abbia portato:
1) una privatizzazione selvaggia del settore;
2) l'inesistenza delle Strutture assistenziali;
3) il disinteresse dell'opinione pubblica tranne che per i fatti di sangue;
4) il disinteresse per l'intervento sanitario a lungo termine.
Come si può notare, la legge pur avendo determinato dei cambiamenti, già dai primi anni della sua applicazione cominciava ad essere oggetto di aspre critiche: molti lamentavano una mancanza di fondi che, insieme alla mancanza di iniziative di coordinamento e di indirizzo nazionale rispetto ai provvedimenti legislativi regionale, aveva dato luogo ad una apllicazione spesso incoerente e disomogenea nei vari contesti della realtà nazionale. Emergeva prepotentemente quindi l'esigenza di riorganizzare a livello nazionale l'intero sistema psichiatrico definendone gli standard e i parametri.
Si comincia ad individuare la soluzione nel Piano Sanitario Nazionale.
Nel 1988 venne presentato il Piano Sanitario Nazionale che al suo interno conteneva il "Progetto Obiettivo per la Tutela della Salute Mentale P.O.".
Successivamente, le associazioni più significative degli operatori psichiatrici, elaborarono uno schema di nuovo Progetto Obiettivo nel quale vennero invidiate 4 questioni fondamentali:
1. La costruzione in tutte le USL, di una rete di servizi psichiatrici quantitativamente e qualitativamente adeguata
2. L'attribuzione di una organizzazione dipartimentale alle Strutture e servizi psichiatrici della USL
3. La promozione di una formazione professionale degli operatori del settore diversificandone le competenze professionali
4. Il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici


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