PM--> HOME PAGE --> NOVITÁ --> EDITORIA --> RIVISTE --> RECENSIONI

--> Psicoter. Sci. Um. --> 2000

Psicoterapia e Scienze Umane, 2000, XXXIII, 1

L'ideale dell'analista anonimo e il problema dell'autodisvelamento

Owen Renik

 
(Questo articolo è comparso col titolo "The ideal of the anonymous analyst and the problem of self-disclosure" su The Psychoanalytic Quarterly, 1993, 3: 466-495. Traduzione di Fabiano Bassi)

L'autore rivede in maniera critica il problema dell'autodisvelamento dell'analista, tenendone ben presenti gli effetti sull'indagine psicoanalitica  e mostrando come l'anonimato analitico sia volto a scopi relativi al modo in cui si giunge alla comprensione in analisi e in cui si ritiene che funzioni l'autorità all'interno della relazione. 
Esiste invece un certo numero di forme utili di autodisvelamento da parte dell'analista, finora ai margini di una teoria della tecnica che le scoraggia.
Generalmente vi è consenso sul ritenere che l'anonimità dell'analista , sia pure intesa oggi con minor rigore, faciliti il lavoro analitico, anche se si concorda sul fatto che in certi casi ( errore dell'analista, e con bambini, adolescenti, o pazienti particolarmente disturbati) traggono giovamento dall'ammissione esplicita dell'A stesso.Ma si tratta di un ideale fuorviante.
Alcuni concettualizzano il disvelamento come facente parte di qualcosa di diverso dal lavoro analitico in sé , come per stabilire l'alleanza terapeutica .
Il principio tecnico dell'anonimato analitico , favorente il lavoro analitico, mantiene in auge l'immagine dell'analista specchio riflettente, il che è impossibile, dato che ogni intervento o non intervento ne rivela qualcosa (vedi Chused, 1990; Greenberg, 1991).
Lo stesso deliberato silenzio dell'analista, spesso non nasconde, semplicemente altera il modo in cui la parte emotiva della sua personalità, i suoi valori personali, le sue costruzioni della realtà  si fanno sentire. Di conseguenza, la questione non è decidere cosa nascondere, ma "come gestire l'inevitabile condizione di un disvelamento costante" (ivi, p. 33),  del cui significato ci possiamo rendere conto solo a posteriori.Spesso, quelle che ci sembrano interpretazioni, sono solo disvelamenti
"Il riconoscimento del fatto che tutta l'attività analitica di un analista comporta una qualche forma di autodisvelamento ci obbliga a riconsiderare l'ideale dell'analista anonimo e a sviluppare nuove linee guida sul tipo di informazioni riguardanti l'analista che può essere utile comunicare al paziente" (ivi, p. 34).
Una particolare concettualizzazione della identificazione proiettiva, pur avendo avuto un effetto liberatorio sulla tecnica analitica, ha di fatto rafforzato l'ideale dell'analista anonimo.
Bollas (1987) afferma che, dato che il paziente ricrea la propria storia infantile nel transfert tanto perfettamente da costringere l'analista a fare in qualche modo altrettanto, non ne consegue un disvelamernto dannoso, in quanto il paziente è talmente potente nel determinare l'esperienza dell'analista che viene reso anonimo, semplice contenitore per il transfert,  "spazio potenziale" in cui il paziente può "rivivere la sua vita infantile come nuova" (Bollas, cit., p. 200). Ancora una volta però, seguendo la tradizione di Freud (1913), si constata che l'Inconscio di una persona reagisce all'inconscio di un'altra escludendo il conscio. Ma è possibile, ci si domanda , che l'analista, guardandosi dentro, scorga la ri-creazione della vita infantile del paziente e non le sue personali esperienze? Bollas ritiene che un analista ben analizzato possa permettersi di sperimentare regressivamente e di contenere il proprio controtransfert, creando con la propria neutralità una cornice in cui rieditare il transfert. Niente altro che il vecchio ideale dello specchio riflettente che però resta intatto, tuttavia con un maggior incoraggiamento alla libertà di espressione per l'analista  riguardo all'esplicitazione dei propri stati mentali, purchè possano essere controllati dalla modalità partecipativa del paziente alla situazione analitica, che non la considererà sul piano personale, ma semplice descrizione di un sè transferalmente introiettato dall'analista, ma non ancora totalmente elaborato .
Renik non concorda del tutto, segnalando il rischio di un uso meccanicistico, a volte magico, del concetto di identificazione proiettiva, in cui si confonde una fantasia di un membro della coppia analitica, o di entrambi, con una descrizione accurata degli avvenimenti, sconfessando in tal modo la soggettività delle percezioni dell'analista  e concedendogli un'autorità indebita in quanto osservatore. Il risvolto positivo è comunque per l'analista  la possibilità di scendere dal piedistallo delle teorie della tecnica per attingere una consapevolezza della fallibilità delle formulazioni e un rispetto per la privacy epistemologica dei  pazienti : "la cosa migliore sarebbe pur sempre quella di avere a disposizione una teoria della tecnica che non debba fare affidamento sulla modestia personale dei singoli analisti per evitare le sue implicazioni più disastrose". (ibid., p. 37).
Gli analisti nordamericani contrari all'autodisvelamento volontario dell'analista si fondano sulla distinzione tra realtà e fantasia. La mente, concettualizzata come nell'analogia di Arlow (1969), è una sorta di schermo su cui le immagini possono venire proiettate dall'interno e dall'esterno. Riducendo i contributi provenienti dall'esterno, se quindi l'analista rivela pochissimo di sè, si perverrà a un grado minimo di interferenza con le identificazioni che il paziente potrà fare con l'immaginario generato dall'interno; se il paziente riceve informazioni concernenti l'analista, le sperimenta come semplici registrazioni di dati sensoriali in arrivo, e sarà per lui difficile riconoscere le proprie fantasie transferali. 
Comunque,ogni incontro analitico offre al paziente una miriade di "realtà" riguardanti l'analista, sia che questi opti per il silenzio o per l'autodisvelamento. Spesso il silenzio dell'analista viene vissuto come un qualcosa di competitivo o sadico, o, al contrario, come un riflesso di devozione altruistica, conferma di speranze e desideri magici del paziente stesso, in un processo di inestricabili intrecci. 
Anzi, l'esperienza ci insegna che quando l'analista è costretto da particolari circostanze all'autodisvelamento, l'indagine analitica conseguente diviene estremamente produttiva (vedi Abend, 1986; Ganzarain, 1991), " e tra questi non includo tutta quella serie di scambi molto benefici dal punto di vista analitico, anche se totalmente anortodossi, di cui ci si racconta tra analisti in modo informale una che non arrivano mai a essere pubblicati perché non si conformano per nulla con la teoria esistente)"(ivi p 39).
Renik ritiene che la distinzione  realtà - fantasia vada rapportata al giudizio di ciascun individuo sulle sue diverse esperienze . Inoltre, l'ideale dell'anonimato dell'analista non ha mai ricevuto una critica esplicita all'interno dei circoli psicoanalitici. Ma, nel momento in cui dall'analista viene attribuita  importanza primaria all'aspetto curativo dell'interazione, e non al perseguimento dell'insight, non c'è più nessuna ragione per il suo anonimato, strategia volta ad ampliare l'indagine cosciente della vita mentale del paziente.
Eppure, malgrado questi vantaggi, gli analisti tendono a rimanere nell'anonimato; il fenomeno è legato all'idealizzazione dell'analista stesso, col perpetuarsi dell'illusione (condivisa con collusione) della possibilità dell'anonimato, una sorta di folie-à-deux, un " Mito del paziente ingenuo" (Hoffman, 1983). E l'analista? La finzione dell'anonimato diviene un travestimento idealizzante indossato dall'analista  quando vuole presentarsi come un osservatore autorevolmente obiettivo, capace di trascendere la propria soggettività nella situazione di trattamento. La sua convinzione di essere in grado di giungere a una obiettività autorevole, anche di grado relativo, costituisce un elemento molto potente di autoidealizzazione: ed è proprio a questa idealizzazione che anche il paziente viene incoraggiato a prendere parte, negandogli ogni possibilità autonoma di percepire la realtà, se l'analista intrude. Invece, l'analista dovrebbe considerare le proprie costruzioni della realtà come suo punto di vista personale, da offrire alla considerazione del paziente, come mostrato da Winnicott, il quale, quando faceva un'interpretazione, la trattava come "oggetti soggettivi posti tra l'analista e il paziente".
Se no, si perviene all'idealizzazione : ma forse, suggerisce Renik, questo è appunto il risultato che si vuole ottenere a cominciare da Freud, che fomentava l'idealizzazione dell'analista come strumento al servizio del trattamento, favorendo il classico "transfert positivo irreprensibile" per superare le resistenze. forse per una necessità di conservare un'identità distinta alla psicoanalisi rispetto ad altre forme di terapia. Probabbilmente per questo negli anni si è sviluppata una teoria sempre più sofisticata dell'analisi del transfert. il che, paradossalmente, ha permesso il sorgere di una visione opposta.
E' indubbio che l'idealizzazione dell'analista sia utile, anzi necessaria perchè si verifichino altre importanti fasi dell'analisi, purché sorga spontaneamente, e non sia manipolatoriamente indotta dall'analista stesso, sovente allo scopo di difendersi dalle angosce di un rapporto interpersonale.
Negli ultimi dieci anni si è sviluppata una teoria della tecnica basata su una concezione intersoggettiva della situazione analitica, in cui l'anonimato analitico e la conseguente idealizzazione sono stati considerati un mito .
Hoffman (1983) parla dell'importanza del riconoscere la personalità dell'analista espressa in termini comportamentali nell' hic et nunc., definendo il transfert come un bisogno del paziente, per qualche motivazione inconscia, di prestare attenzione solo a una interpretazione plausibile tra le tante della condotta dell'analista. Quindi, niente anonimità, che favorisce l'idealizzazione dell'analista come autorità, anzi, il paziente viene riconosciuto come interprete legittimo dell'esperienza dell'analista quanto questi della sua (vedi Aron, 1991), sicché anche le espressioni della soggettività dell'analista diventano argomento di discussione . ma , mentre si favorisce da parte del paziente l'esplicitazione e la messa in luce di eventuali conflitti dell'analista da lui notati, non si raccomanda la comunicazione esplicita da parte dell'analista della propria soggettività (v. Greenberg, 1991).Manca tuttavia una concettualizzazione sistematica sull'autodisvelamento.
Anche se, a detta di Renik, il principio categorico dell'anonimato analitico non è valido, non è stato ancora messo a punto un criterio utile al proposito.Uno potrebbe essere quello dell'autodisvelamento finalizzato all'autospiegazione dei propri punti di vista coscienti su scopi e metodi, per rendere disponibile il proprio pensiero al paziente, e non risultare ambigui: " Non sapere quale sia la costruzione della realtà dell'analista non aiuta certo il paziente a identificare la propria e a riflettervi sopra. Tutt'al contrario, una tale situazione interferisce col compito del paziente e lo distrae, invitandolo implicitamente a cercare di indovinare che cos'ha in testa l'analista... in netto contrasto con l'idea di base che lo sforzo dell'analista di rimanere anonimo possa consentire al paziente una maggiore libertà di associare, di fatto, secondo la mia esperienza, risulta vero esattamente il contrario. " (ivi, p. 47 ). Ciò colloca l'analista al centro della scena, in un ruolo coercitivo. Invece, è auspicabile che, nel corso del trattamento, paziente e analista possano compiere un'indagine congiunta, grazie alla comunicazione da parte dell'analista dei propri pensieri pensati, e della sua comprensione della propria partecipazione al lavoro comune.
Renik passa poi a trattare  "come decidere di autodisvelarsi" . Partendo dalla premessa che "analista e paziente sono egualmente soggettivi e sono entrambi responsabili del pieno disvelamento dei loro pensieri, per come essi li ritengono rilevanti rispetto alla realtà dello sforzo psicoanalitico" (ivi, p. 50), chiarifica che gli scopi dei due componenti della coppia analitica sono diversi: il paziente comunica la propria realtà per aumentare la consapevolezza di se stesso, mentre l'analista lo fa per aumentare la consapevolezza di sé dell'altro .Di conseguenza, per il paziente l'autodisvelamento consiste nel tentativo di associare liberamente, per l'analista è deliberatamente selettivo. La differenza sta  nel secondo quale principio: " Anche quando l'obiettivo rimane quello della sola analisi del paziente, ci sono molti gradi diversi di utilità in cui l'autodisvelamento da parte dell'analista può essere compiuto. " (ivi, p. 51).
Il paziente, sostiene Renik, collabora all'autodisvelamento dell'analista, segnalandogli tutta una serie di cose che altrimenti tenderebbero a sfuggirgli. Prudentemente, però, nella conclusione, l'A ammette che i suoi esempi non costituiscono prove, avendo solo significato illustrativo, aperti a qualsiasi critica. 
Col proposito che la teoria sia funzionale al trovare la tecnica migliore , propone un punto di vista nuovo per la comprensione dell'ideale tradizionale dell'analista anonimo, descrivendo alcuni altri modi in cui l'approccio al problema dell'autodisvelamento può guidare l'attività clinica.Ad esempio, casi in cui in passato l'analista si sarebbe sentito investito in prima persona riguardo ad una scelta tecnica, divengono occasione per un suo disvelamento al paziente e per una indagine a due, che comprende  anche a proprie speculazioni, obiettivi e preoccupazioni, dato che l'analisi è un vero rapporto di collaborazione tra pari. "A mio parere, ogni qualvolta l'analista tiene per sé i propri obiettivi, metodi o assunti, egli finisce per privilegiare il suo punto di vista e per coltivare un'immagine idealizzata di sé in quanto figura superiore da parte del paziente." (ibid., p. 55 ).
Renik non esita ad affermare che "quando si trova di fronte a un dilemma clinico, l'analista dovrebbe sentirsi pronto a consultare il proprio paziente né più né meno di quanto si sente pronto a consultare un collega. Condividere il dilemma con il paziente consente di riconoscere in modo esplicito il vero stato delle cose, che è il modo in cui ciascuna coppia analitica arriva a negoziare il proprio stile di lavoro" (ibidem).
Cita Adler (1994), che si riferisce a pazienti borderline, considerando la modificazione tecnica da lui descritta applicabile a tutti i tipi di pazienti; il presupposto è che si tratti di giudizi soggettivi  dell'analista, non di promanazioni da un'autorità.
C'è però un'etica dell'autodisvelamento: il paziente non rivelerà cosa pensa veramente, se l'analista non farà altrettanto, cosa assai importante per Renik, il cui assunto di base è che i benefici terapeutici risultano più estesi e duraturi se fondati sull'espansione dell'autoconsapevolezza del paziente. Renik non si nasconde che rimangono aperte moltissime questioni sul ruolo dell'"insight" e sulla decisione dell'analista riguardo a come gestire il proprio autodisvelamento, forzatamnte informata dalla personale teoria su come l'analisi funziona. 
A suo parere, è comunque opportuno che l'esperienza terapeutica venga esaminata in modo cosciente, qualunque siano le teorie cui si informa , ricorrendo comunque alla necessaria cautela prima di apportare modifiche.Ad ogni modo, l'A non ha dubbi che l'ideale dell'analista anonimo vada liquidato, anche se permane il problema di come presentare i nostri pensieri ai nostri pazienti. 

Alcune personali considerazioni
La critica di Renik a quella che lui considera una inopportuna idealizzazione freudiana dell'analista , quale strumento al servizio del trattamento, viene a toccare  il concetto di "transfert positivo irreprensibile", che secondo l'A sarebbe volto al superamento delle resistenze. oltre che motivato da necessità di conservare alla psicoanalisi identità distinta in rapporto ad altre forme di terapia.
In tal modo Renik fa lapidariamente piazza pulita del fondamentale concetto di irriducibilità ( intendo qui riferirmi a quel qualcosa di originario che deve restare inviolato, proprio come, quando una piantina comincia a germogliare, il metterne a nudo le radici che stanno appena spuntando dal seme ne produrrebbe sicura morte, o comunque verrebbe pericolosamente ad interferire col suo sviluppo).
Quando Freud parla di transfert positivo irreprensibile, intende qualcosa che non si deve in nessun modo toccare, pena la distruzione del rapporto. Lo stesso concetto ritroviamo poi in Winnicot, quando parla del vero Sé , che non va toccato; o in Bowlby, che parla di attaccamento originario, da non toccare, un nucleo originario di rapporto che non va assolutamente invaso.
E' pur vero che si tratta di un concetto fondante del metodo psicoanalitico, ma non è stato certamente postulato, come sostiene Renik,  per difendere la specificità della psicoanalisi rispetto ad altre forme di terapia. E' stato invece individuato come la via per evitare pericolose o anche solo inopportune intrusioni, da parte dell'analista, in un processo in corso, in cui il movimento emotivo, vero motore del processo stesso, scorre per sua propria energia come l'acqua di un ruscello trova naturalmente il suo corso, e naturalmente si scava il letto, scegliendo  i percorsi in cui il flusso dello scorrere sia meno impedito da ostacoli. Le intrusioni dell'analista, un entrare in un'eventuale area conflittuale, un puntualizzare qualcosa che sta avvenendo, nel migliore dei casi soste inutili, potrebbero invece provocare innaturali deviazioni, o portare alla strutturazione di un letto artificiale, o deviare irrimediabilmente un corso naturale.
In questa prospettiva, si comprende come il concetto di neutralità, qui così bizantinamente discusso, coincida con quello di neutralizzazzione, continuo , faticoso, umile ed oscuro lavorìo da parte dell'analista per portare equilibrio nel conflitto, con l'operare per una continua integrazione, lasciando che il Sé del paziente cresca in un silenzio gravido di umori, come l'umido clima di una fertile serra.Altro che idealizzazzione! 
Non regge quindi l'ipotesi di Renik secondo cui, nel momento in cui dall'analista viene attribuita  importanza primaria all'aspetto curativo dell'interazione, e non al perseguimento dell'insight, non c'è più nessuna ragione per il suo anonimato, anzi, è vero esattamente il contrario.
Rosenfeld nel 1987 scrive: "...l'analista deve imparare a contenere i sentimenti che il paziente suscita in lui, per un arco di tempo considerevole, prima di poterglieli interpretare. Tale contenimento non deve essere confuso con l'inazione. L'analista deve sempre identificare le proiezioni del paziente e verbalizzarle a se stesso il più rapidamente possibile" (Rosenfeld, 1989, p. 27 ), in caso contrario non potrà veramente comprendere quanto il paziente gli sta comunicando, né scegliere a ragion veduta il momento e l'oggetto dell'interpretazione.Da notare che Rosenfeld sta parlando di psicotici, quindi di quel tipo di pazienti che maggiormente, con unanime consenso, ha bisogno della massima apertura su un piano di realtà da parte dell'analista.
Il discorso ovviamente non tocca quello che è ormai unanimemente considerato l'altissimo " valore d'uso" della risposta controtransferale dell'analista, secondo membro della coppia analitica.
La scuola interpersonale americana, partendo da H.S. Sullivan, e poi F. Fromm Reichmann, Winnicott, Balint, Greenson, Gitelson e Gill, per non dimenticare il capostipite stesso della valorizzazione degli affetti dell'analista, Ferenczi ( non va sottovalutato il fatto che la scuola inglese della relazione d'oggetto prenderà le mosse dalla Klein, da lui analizzata), hanno evidenziato con enfasi quanto il controtransfert dell'analista fornisca indici imprescindibili sull'andamento stesso del processo analitico.
Ma questo non significa certo che il controtransfert, come regola generale, vada esplicitato dall'analista.E' piuttosto qualcosa che gli serve per capire compiutamente quanto sta avvenendo nel rapporto, non già per coinvolgervisi in prima persona, bensì per fare il punto , spesse volte solo nella propria mente, di quanto sta avvenendo.
Fatte salve le debite eccezioni ( ci sono particolari momenti dell'analisi in cui è utile, o in certi casi indispensabile, che l'analista riveli sé stesso ), compito precipuo dell'analista è deconflittualizzare ( la neutralizzazione di cui si diceva prima ) il rapporto, non conflittualizzarlo, esplicitando al paziente il proprio controtransfert.
Possiamo qui richiamare il concetto bioniano di "visione binoculare", sottolinea la necessità, per l'analista immerso nell'interazione, di identificarsi con ruoli diversi , essendo in contatto con parti diverse della propria personalità, permettendogli in tal modo di stare contemporaneamente dentro e fuori al rapporto.Ma Bion parla poi di reverie e di contenimento, non di scendere in prima persona nell'arena esplicitando il proprio controtransfert.
Questo stare in un certo senso "fuori dall'arena"  richiama il consiglio di Morgenthaler, quando enumera gli strumenti dell'analista atti a tenere sotto controllo le tendenze conflittuali che si riattivano nel rapporto analitico col paziente.In particolare, penso alla riflessione durante il lavoro anlitico, "al servizio del mantenimento delle ...proprie funzioni dell'Io deconflittualizzate" (Morgenthaler, p.. 31) .
Il silenzio dell'analista quindi, il non disvelamento controtransferale, non sono al servizio dell'idealizzazione dell'analista stesso, come reiteratamente afferma Raker.L'analista è ben presente, nella sua piena umanità, nel rapporto:come dice Buber, "Chi dice "Tu"...sta nella relazione" (Buber, p. 6); e aggiunge:" Il mondo come esperienza appartiene alla parola- base Io-Esso. La parola base Io-Tu produce il mondo della relazione" (ibid., p. 7 ).
La stessa Deseinsanalyse di Binswanger suggerisce all'analista fenomenologicamente orientato di lasciare che la presenza del paziente si esprima direttamente di per se stessa, senza intervenire sulla presenza dell'altro, o manifestarsi tramite uno schema concettuale, ma cercando invece di discernere il significato propriamente umano che le manifestazioni del paziente esprimono.  Egli è conscio del fatto che  "l'oggettualità fisica e psichica dell'uomo non rappresenta completamente l'essenza dell'uomo (Sichel, 1982, p. 48). In particolare, "La posizione del fenomenologo è quella di colui che lasciando esprimere l'altro nello stesso tempo lo interroga con ciò che da lui si esprime.In questo si costituisce la base su cui soltanto può rendersi attuabile una psicoterapia: l'incontro" (ibid, p. 51).

Bibliografia aggiuntiva del recensore

BION W.R. (1961), Esperienze nei gruppi, Armando. Roma, 1971.
BUBER M. (1923), L'Io e il Tu, IRSeF, Pavia, 1991.
MORGENTHALER F. (1978), Tecnica: dialettica della prassi psicoanalitica, Boringhieri, Torino
ROSENFELD H. (1987), Impasse and Interpretation,Tavistock Publications, London New York (tr. it.: Cominicazione e interpretazione, Bollati Boringhieri, Torino, 1989).
SICHEL A. (1982), "Fenomenologia e psicoterapia", Psicoterapia e scienze umane, 4, 47-58. 

Owen Renik, 244 Myrtle Street, San Francisco, CA 94109, USA

 

PM--> HOME PAGE --> NOVITÁ --> EDITORIA --> RIVISTE --> RECENSIONI

--> Psicoter. Sci. Um. --> 2000