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Psicoterapia e Scienze Umane, 1999, XXXII, 4

Modificazioni del setting e rifugi relazionali in psicoterapia psicoanalitica

Pier Luigi Rocco

 
Lo scritto riguarda modificazioni attuali della cornice terapeutica in psicoterapia psicoanalitica e loro implicazioni nello strutturare il rapporto col terapeuta; si pongono poi interrogativi sull'individuazione dei fattori terapeutici che inducono cambiamento nel paziente, col consentirgli di discriminare tra realtà esterna e proprio mondo interno.
Un primo fattore è costituito dall'incontro relazionale tra paziente e terapeuta, pregno di aspetti affettivi e genuinità, che successivamente darà luogo allo sviluppo del transfert. 
Secondo fattore è l'interpretazione, intesa come rendere cosciente il materiale inconscio nel senso di Strachey (interpretazione mutativa).
Sul quid che si verifica tra paziente e terapeuta, come è noto,  si sono avute varie teorizzazioni, tra le quali Rocco cita: la teoria del campo bipersonale (Baranger); la dinamica contenitore/contenuto (Bion); la teoria del depositario e del deposito (Bleger). Viene anche ricordato che, dopo le fondamentali osservazioni di Bion su reverie, contenimento e restituzione riguardo alla relazionalità, e quelle susseguenti di Brazelton, ultimamente Lichtenberg, Samerosff, Stern ed Emde si sono focalizzati, più che sulla teoria strutturale delle pulsioni, su quella degli affetti e sull'importanza della relazione, delle rappresentazioni interne e delle aspettative rispetto al mettersi in relazione con gli altri, sottolineando il ruolo dell'autoconsapevolezza degli stati interni per il riconoscimento di se stessi tra gli altri.
L'autore passa poi al punto centrale del suo lavoro, analizzando la struttura della relazione terapeutica nella situazione particolare delle psicoterapie psicoanalitiche con una seduta alla settimana.
Un concetto apparentemente condiviso recita che le psicoterapie monosettimanali non possano dirsi psicoanalitiche in quanto impossibilitate a lavorare sull'inconscio hic et nunc della relazione. La realtà attuale, invece, testimonia che una cospicua parte della richiesta di trattamento si indirizza verso una seduta alla settimana, per motivi vuoi di tempo vuoi economici. Occorre dunque capire -dice l'autore- cosa avviene in relazioni terapeutiche così strutturate e se esse possano essere considerate psicoanalitiche, dato che, a parte la frequenza settimanale, restano salve tutte le altre caratteristiche del modello psicoanalitico.
Vengono allora passate in rassegna alcune prese di posizione riguardanti questa variazione del setting.
Martha Harris (1971) sottolinea la preoccupazione del terapeuta per tale tipo di trattamenti, comparati con quelli a frequenza classica (tre o più sedute settimanali), segnalando iI pericolo di tendere a compensare con iperattività, con alto rischio di regressione e scissione, venendosi a creare un ristretto spazio mentale in cui si struttura un rapporto collusivo scisso e previlegiato col terapeuta.
O'Shaughnessy (1993) ha chiamato siffatti spazi "enclave"; la terapia viene trasformata cioè in un rifugio della mente senza sbocchi; il non riconoscere questa collusione può essere estremamente rischioso, essendo in atto un'dentificazione proiettiva del paziente sul terapeuta, della quale spesso il terapeuta non è cosciente.
Steiner (1997) parla di "rifugi della mente", cioè di spazi mentali in rapporto con relazioni d'oggetto arcaiche permanentemente interiorizzate, caratterizzate da meccanismi di difesa di negazione e proiezione, popolati da fantasie e idee scarsamente aderenti alla realtà, strutturati dal paziente onde evitare angoscia e vuoto esistenziale, con connotati psicotici in strutture psicotiche e più evoluti in strutture nevrotiche.
Riguardo alla struttura della relazione, nelle sedute monosettimanali, a detta dell'autore,  viene affrontato "il problema della dimensione relazionale come luogo espressivo della realtà interna" (ivi, p.128). Diversamente dalla cadenza plurisettimanale, che produce nel paziente materiale riferibile al mondo interno, al transfert e ai nuclei psicopatologici, la cadenza monosettimanale, secondo l'autore, dà luogo ad esperienze discontinue di contatto e distacco, con difficoltà a tenere un filo conduttore. C'è inoltre il rischio che essa divenga il luogo della cronaca settimanale, col risultato che il terapeuta si ritrova ad essere troppo vigile, rinunciando a un tipo di attenzione liberamente fluttuante, e presumibilmente intervenendo direttivamente, il che dovrebbe avvenire solo preliminarmente, allo scopo di mostrare aI paziente le "regole del gioco".
Successivamente si viene a strutturarsi una situazione in cui lo spazio diventa un luogo della mente, ben differenziato dal mondo esterno, in cui è possibile il confronto con proprie parti infantili. La regressione è al servizio di una crescita e, per quanto sia più lento, in termini di tempo, l'accesso alle parti inconsce, comincia da acquisire particolare valore il tempo, sia quello della seduta, sia quello intercorrente tra le sedute stesse, come spazio in cui avvengono movimenti affettivi che il paziente può più attivamente elaborare; "la relazione con ilterapeuta assume la connotazione di un rifugio della mente, rifugio in cui è riconosciuto e valorizzato lo spazio del pensiero e lo spazio di separazione tra il. Sé e l'altro" ( ivi p129).
Tale spazio/rifugio permette lo sviluppo di una comunicazione terapeuta - paziente in un clima disteso, favorendo l'aumento della consapevolezza di sé e consentendo, in un clima protetto e condiviso, la riflessione su aree del Sé mai esplorate.
L'autore si chiede come si costituisca questo genere di relazione terapeutica in una terapia ad una seduta alla settimana. Ricorda che Stern, Sander e Nahum sottolineano il fatto fondamentale che l'uomo possiede una "conoscenza relazionale implicita", indipendentemente da fattori esterni, già evidente nel bambino in età preverbale. Una modalità innata di porsi in relazione, caratterizzata da aspettative, da anticipazioni e da rappresentazioni simboliche. Per primo Bowlby (1973) ha messo in luce nel piccolo bambino modelli preverbali innati di attaccamento e comunicazione cogli altri come capacità di riconoscere cosa l'altro si aspetta, cosa da lui ci si può attendere. Nell'adulto sopravvengono sovrastrutture e filtri ideativi e affettivi, conseguenza della propria storia personale.
Anche in una terapia monosettimanale, è possibile una relazione interattiva con mutua regolazione, dotata di requisiti spazio/temporali tali da poter costituire un ambito protetto in cui provare nuovi tipi di relazione. Naturalmente, da parte del terapeuta si richiede una spiccata sensibilità controtransferale, accanto al saper ben modulare la neutralità. L'uso del lettino , proprio come nelle terapie "classiche", appare importante per facilitare l'accesso alle realtà più arcaiche delle relazioni con gli oggetti interni, con ovvia esclusione di pazienti con struttura psicotica.
A proposito della neutralità del terapeuta, l'autore menziona Anna Alvarez (1983) che, in un lavoro sui problemi nell'uso del controtransfert nel trattamento di bambini, ne parla come di un delicato equilibrio emotivo in continuo riaggiustamento, sulla base di empatia e controtransfert.
Ciò appare più difficile quando il trattamento si svolge ad una seduta alla settimana, e forse la "classica" neutralità psicoanalitica è impraticabile o inopportuna. Di conseguenza, secondo l'autore la funzione del terapeuta, in un trattamento monosettimanale, dovrebbe essere quella di un Super-Io ausiliario, non veramente neutrale, facendo ben attenzione però a non appropriarsi delle funzioni dell'Io del paziente.
Rocco segnala che Betty Joseph (1975) avverte del rischio per il terapeuta di cecità analitica per una sua troppo intensa risposta emotiva. Al contrario, "la risposta affettiva (equilibrata) del terapeuta può essere... il momento di incontro che dà luogo ad un nuovo ambiente intersoggettivo" (ivi, p.131); momento altamente specifico in cui ambedue i membri dell'interazione contribuiscono a creare un quid unico e significativo, al di là di teoria e tecnica. 
L'incontro avviene tra due personalità e individualità, con mutuo riconoscimento cognitivo e affettivo, in una nuova diade  relazionale, ed è questo che potrebbe modificare la conoscenza relazionale.

Fin qui lo scritto di Rocco: non intendo entrare nel merito delle sue considerazioni riguardanti quanto avviene dinamicamente in un trattamento a cadenza monosettimanale, accennando solo al fatto che, a mio parere,  molto dipende dal terapeuta, dalla sua capacità di creare una sorta di "rete" che funga da contenitore e dia continuità alle sedute.
Piuttosto, lo scritto offre lo spunto per una serie di osservazioni a latere, che potrebbero essere utili ai colleghi più giovani, e forse ignari delle vicende storiche che ha attraversato non solo la storia della psicoanalisi, ma anche della psicoanalisi in Italia.
E' ormai incontrovertibile che la realtà socio-economica in cui ci troviamo ad operare come terapeuti sia ben diversa da quella che poteva essere fino a pochi anni fa, quando richiesta e offerta analitica generalmente rientravano nei canoni per così dire "classici" del trattamento, connotato da un setting tanto sperimentato quanto ormai "canonico" e, quindi, per definizione intoccabile e indiscutibile, quello che imponeva un minimo di tre (meglio quattro) sedute settimanali perché si potesse parlare di analisi.
Poiché nel lavoro di Pier Luigi Rocco si parla di rischio di clandestinità, tanto più grave in quanto ostacolo ad una serena elaborazione della grossa mole di lavoro costituita dai numerosi trattamenti di psicoterapia psicoanalitica con sedute a cadenza monosettimanale, non sarà inopportuno un ulteriore momento di informazione e di riflessione.
Uno dei "cardini" dell'analisi, costituito da un ben preciso ed indiscutibile numero di sedute settimanali, è stato messo in forse da anni da parte di una significativa fascia di analisti seri, meno dipendenti da quelle che sono le parti formali dall'ortodossia.
Già da tempo il discorso relativo ad "analisi o non analisi" in rapporto al numero delle sedute, come pure quello di "lettino o non lettino" è apparso superato ai più liberi mentalmente (non a tutti, però, ed è per questo che non sarà inutile riprendere l'argomento, anche perché si ha l'impressione che il discorso di Rocco si muova ancora con un certo impaccio al riguardo).
Indubbiamente, discorsi legati ad interessi associazionistici (di potere, quindi, e/o economici, come ad esempio quello che si riferisce alle Assicurazioni e ai loro criteri costrittivi di valutazione e pagamento delle sedute), soprattutto nei paesi dell'area anglosassone, hanno contribuito non poco a rendere meno chiara la dibattuta questione, mantenendo una comoda ambiguità di fondo, al servizio di una tanto rigida, quanto monopolistica gestione della psicoanalisi.
I veri punti fermi, al di là di certi aspetti del setting, importante certo, ma non così restrittivamente, mi pare restino quelli relativi alla teoria e alla tecnica psicoanalitiche, le sole atte a garantire lo svolgimento di un corretto lavoro analitico.
Vorrei in chiusura arricchire queste brevi osservazioni rileggendo con voi per sommi capi un intervento a due voci, Galli e Rigon, del 1988, intitolato: "Dall'interpretazione al setting: I fattori terapeutici in psicoanalisi" (Caserta, Centro Praxis). Già all'epoca, gli AA stigmatizzavano come "ozioso"il dibattito italiano sul "setting nei pubblici servizi" e sottolineavano le teoriche e cliniche questioni di lana caprina riguardanti la "psicoanaliticità" riguardo al numero di sedute settimanali effettuate, ricordando che la caratteristica distintiva della psicoanalisi era da sempre stata considerata, a partire dallo stesso Freud,  l'interpretazione, fattore terapeutico per eccellenza,  nonché procedura metodologicamente fondante della psicoanalisi. Si osservava poi che Freud non aveva mai dedicato una riflessione particolare alla situazione analitica (il termine setting fu introdotto nel 1950 da Macalpine), per lui semplice insieme di condizioni fattuali atte a permettere lo svolgimento del trattamento. Nei suoi scritti sulla tecnica, infatti, Freud indica nell'attaccamento del paziente al terapeuta e nella presa di coscienza cognitiva della propria emozionalità i fattori  terapeutici in psicoanalisi. Il resto è dogma. 
I legami tra setting e interpretazione sono dunque di ordine "logico-strutturale", non banalmente circostanziale, come chiaramente indicava Codignola nel saggio Il vero e il falso (1977), tentativo forte di cogliere i nessi tra teoria e prassi nella concretezza dell'agire psicoanalitico.
Solo la persistenza, strenuamente difesa dalle varie Società, di una teoria rigida e chiusa, rende ragione , dal punto di vista storico, di una trasmissione ormai dogmatica di concetti al posto dell'apertura vivificante e progressiva della ricerca, pena la scomunica e l'esclusione dalla comunità degli psicoterapeuti psicoanalisti. Gli AA citano come esempio illuminante l'esperienza dei diversi psicoanalisti alle prese con analisi infantili, in cui si è dovuto inventare un setting, al di là di quanto indicato da Freud, arrivando a prassi differenti, a seconda appunto dei vari terapeuti, riguardo la cadenza delle sedute, l'ambizione sugli obiettivi, la regola fondamentale e la neutralità. 
La  reazione della psicoanalisi ufficiale, sottolineano Galli e Rigon, è però sempre stata quella di bollare come non "psicoanalisi" tali trattamenti, denominandoli ad esempio "psicoterapia psicoanalitica" o "psicoterapia ad orientamento psicoanalitico" (per inciso, ricordo qui con una certa emozione quelli di noi, freschi di analisi o appena entrativi, che cominciavano ad avere pazienti in trattamento alla fine degli anni '60, non poco imbarazzati quando dovevano definire se stessi e il proprio lavoro, chiedere con una certa apprensione lumi ai loro supervisori. La situazione si complicava nel caso di terapeuti non medici).
Commentano gli AA: "E' questo un esempio  di come una impostazione astratta riguardo al setting, quella stessa criticata da Codignola, possa condurre ad una chiusura verso la realtà clinica che comporta un impoverimento della teoria" (ibid., p. 61).
"Di fatto - proseguono - è stato tramandato come derivato dalla teoria il sistema di consenso di un gruppo sociale: pertanto, la dizione "tecnica classica" esprime soltanto l'indice di credibilità che quel determinato gruppo sociale è riuscito ad ottenere quale risultante di fattori che poco hanno a che fare con la validità del sistema teorico" (ibid, p. 64). Infatti, quando si sono accantonati certi concetti considerati superati a favore di altri, non vi è stata però alcuna variazione della relazione acritica e improntata a dogmatismo con la proposizione teorica. La relativizzazione del concetto forte di interpretazione ha causato uno spostamento a favore di quello ben più debole di setting, usato quindi in sua vece per definire il metodo, e connotare gli "addetti ai lavori". Ma, "anche se le 'verità' cambiano, difficilmente entra in crisi il rapporto con la 'verità' degli psicoanalisti: l'istituzione assicura la persistenza della possibilità di sicurezza dogmatica" (ibid, p. 65).
Tutto questo veniva detto nel 1988. A volte, però, sembra necessario ripeterlo, comunque non dimenticarlo.

Bibliografia aggiuntiva del recensore 
Galli P.F. & Rigon G. (1988). Dall'interpretazione al setting: I fattori terapeutici in psicoanalisi. Centro Praxis, Caserta.

Indirizzo dell'Autore: Via Mercatovecchio 28, 33100 Udine

 

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