[L'articolo è una discussione dei contributi di Rizzuto, Feldman,
Levine e Lichtemberg pubblicati in questo numero della rivista].
Sebbene in ognuno degli articoli si rifletta in qualche misura il cambiamento
di prospettiva nel clima psicoanalitico attuale - per cui, come minimo,
paziente e analista sono considerati osservatori partecipanti di un campo
intersoggettivo e interpersonale e ognuno degli autori rivela in
modo routinario i propri sentimenti e pensieri, utilizzandoli per comprendere
ciò che accade nel processo analitico - non è possibile scorgere
chiare linee di convergenza o di divergenza in questo gruppo di quattro
articoli. Uno sfondo comune potrebbe essere rappresentato da almeno due
importanti questioni: (i) è possibile definire un gruppo di pazienti
che creano particolari problemi a causa della loro compiacenza nei confronti
dell'analista, del processo analitico, del setting o della regola di base?
e (ii) la compiacenza è un aspetto inevitabile o, addirittura, necessario
all'analisi?
Rizzuto e Feldman si concentrano soprattutto sulla prima domanda, ma
i loro contributi sembrano poco comparabili poiché solo la prima
si pone il compito di coprire l'argomento in maniera sistematica. Feldman,
invece, sembra avere uno scopo più modesto: egli cerca di sottolineare
una specifica costellazione transferale in cui la compiacenza gioca un
ruolo chiave ed è alla base di particolari difficoltà per
l'analista. La seconda domanda è, d'altro canto, al centro della
riflessione di Levine e Lichtemberg. Diversamente da Rizzuto e Feldman
- i cui contributi potrebbero essere stati scritti in un'epoca precedente
la svolta intersoggettiva - Levine e Lichtemberg si situano esplicitamente
nel campo intersoggettivo. Pur affrontando il tema da angolature differenti,
entrambi ritengono che il controtransfert sia sempre attivo e che desideri,
bisogni, ansietà e modi di comprendere dell'analista facciano emergere
inevitabilmente la compiacenza del paziente.
Passando a un'analisi più dettagliata dei quattro contributi,
Rizzuto ricorda come il paziente non debba compiacere solo l'analista.
Egli deve in qualche misura "compiacere" anche i propri bisogni di crescita
e i propri desideri che lo spingono a diventare ciò che egli è;
inoltre deve in una qualche misura "compiacere" la regola fondamentale.
Il paziente si trova quindi in una situazione piuttosto complessa, poiché
dovrà compiacere l'analista per diventare ciò che egli realmente
è, e questa relazione è simile a quella con la cosiddetta
madre ambientale che fornisce, o dovrebbe fornire, spazio di gioco e di
crescita: il bambino, attraverso una complessa relazione con la madre ambientale,
riesce a compiacere le proprie spinte evolutive attraverso la compiacenza
alla propria madre ambientale. Se tutto procede regolarmente, e il controtransfert
non intrude in questa rappresentazione ideale, il paziente è in
sintonia sia con la propria spinta naturale a evolversi sia con la richiesta
dell'analista e far emergere questa spinta naturale. In altri termini c'è
una serie di domande che l'analista deve continuamente porsi: chi o che
cosa il paziente sta compiacendo? l'analista come figura transferale o
il suo controtransfert? l'analista come levatrice o facilitatore del processo?
ecc. Da questo punto di vista la chiave per comprendere l'articolo di Rizzuto
è la sua completa devozione a ciò che essa definisce la spontaneità
e autonomia del paziente. Nella parte teorica del suo articolo l'autrice
descrive le vicissitudini evolutive della dialettica tra spontaneità/autonomia
e compiacenza e come conflitti interpersonali, insorti in vari stadi evolutivi,
vengano internalizzati e riattualizzati nel transfert dando luogo a quella
dialettica cui si faceva cenno. Nella presentazione del proprio materiale
clinico, invece, l'autrice mostra tre casi in cui questa dialettica non
riesce a instaurarsi precisamente a causa di un problema che sottrae la
compiacenza a questo gioco dinamico e la trasforma in una resistenza inconscia
cronica e pervasiva collegata a disturbi precoci delle relazioni oggettuali,
della simbolizzazione verbale e dell'internalizzazione (caso n. 1), al
tentativo di evitare un trauma psichico massivo (caso n. 2) o alla paura
dell'annichilazione (caso n. 3). In tutti e tre questi casi i pazienti
compiacciono l'analista nel senso che fingono solamente di svolgere lavoro
analitico, mentre - in realtà - gestiscono un problema di sviluppo
o si difendono da angosce soverchianti. I sentimenti di rabbia, esclusione,
impotenza, ecc. che questo atteggiamento genera nell'analista vengono visti
da una posizione teorica classica con una particolare enfasi su teorie
evolutive e su un approccio winnicottiano. Ciò significa che il
controtransfert dell'analista non è da intendersi all'interno di
un campo intersoggettvo (l'analista non deve prendere il comportamento
del paziente come rivolto in nessun modo alla propria persona), poiché
questo campo deve ancora svilupparsi. I sentimenti controtransferali di
fronte alla compiacenza del paziente sono - di fatto - sentimenti che l'analista
prova per l'incapacità del paziente a vedere l'analista come una
persona reale, poiché egli stesso non è ancora "una persona
reale". In questi casi l'analista deve essere gentile e compassionevole
(seppure dolcemente confrontativo) e non richiedere che il paziente abbandono
troppo precocemente le proprie difese.
La tesi presentata da Feldman nel proprio articolo sostiene
che ci sia una categoria di pazienti analitici che usano la compiacenza
nei confronti dell'analista per evitare sentimenti di separazione e differenza,
con i correlati vissuti di panico, invidia, odio e le interazioni sadomasochistiche
che possono conseguirne. Dalla prospettiva inversa, l'analista può
compiacere con la fantasia inconscia di questi pazienti che l'esperienza
di separazione deve essere evitata. Tali costellazioni di rapporto, volte
a evitare la separazione anche nella relazione analitica, danno luogo a
impasse e vicoli ciechi. I pazienti descritti da Feldman, in altri termini,
sembrano presentare l'altra faccia della medaglia rispetto a quelli descritti
da Rizzuto. In un caso si sottolinea la necessità di una vita in
cui possa esserci la piena espressione di sé (Rizzuto), sebbene
ciò possa essere fonte di profonde angosce; nell'altro si sottolinea
la necessità di un ingaggio autentico con i propri oggetti e, così,
la necessità dell'esperienza della separatezza (Feldman), anche
in questo caso fonte di ansie non facilmente affrontabili. Non è
strano, se vediamo le cosa dal punto di vista delle teorie presentate,
notare che - sebbene entrambi gli autori situino il problema della compiacenza
"la fuori", nel paziente e non nella relazione con l'analista - Rizzuto,
nel suo materiale clinico, non descriva scenari interattivi, mentre lo
fa Feldman, che è un kleiniano contemporaneo.
L'articolo di Levine si discosta completamente da quelli di
Rizzuto e Feldman, poiché egli non è interessato a descrivere
un particolare gruppo di pazienti o un particolare problema clinico. La
sua posizione riguarda piuttosto il processo generale dell'analisi. Egli
affronta il problema per cui, nel campo intersoggettivo, anche un analista
sufficientemente buono non può evitare di esercitare qualche pressione
sul paziente. Si determina così il paradosso di analisi che utilizzano
la tecnica classica a beneficio del paziente e, al tempo stesso, esercitano
su di lui una pressione proveniente da azioni dell'analista soggettivamente
motivate. Non solo - secondo l'autore - tutto ciò è inevitabile,
ma è anche necessario e, anche se non sempre, positivo. Secondo
Levine l'analista non dovrebbe essere nella posizione di chi cerca di convogliare
la verità al paziente, bensì in quella di chi offre una possibile
versione della verità (le sue impressioni e convinzioni soggettive)
che il paziente può accettare, rifiutare, espandere, revisionare,
ecc. Da questo punto di vista l'analisi è un reciproco tentativo
di esercitare la propria influenza soggettiva sull'altro. A questa pressione
costante il paziente (come pure l'analista) non può non rispondere
che con compiacenza, avversatività, critica, ecc., co-creando il
campo intersoggettivo dell'analisi. Questo gioco di reciproche influenze
e compiacenze non può quindi essere evitato, ma si può solo
cercare di interpretarlo con la chiara consapevolezza che anche l'interpretazione
mette in campo un ulteriore elemento soggettivo di suggestione/compiacenza
(o critica, avversatività, ecc.). Fogel, pur ammettendo che il campo
intersoggettivo dell'analisi sia una creazione comune di paziente e analista,
trova che la posizione estrema di Levine sia non condivisibile e che si
possa immaginare qualche intervento dell'analista che non eserciti una
pressione di tipo soggettivo sul paziente. La giustificazione teorica che
permette di considerare contemporaneamente l'esistenza di un campo intersoggettvo
cocreato e di interventi che non siano il risultato della posizione soggettiva
dell'analista, si può trovare se si ammette che il "motore" del
lavoro analitico non sia il transfert positivo irreprensibile, ma la funzione
di holding o di contenimento del processo analitico. Da questa prospettiva
la forza motivazionale non si trova più là fuori nel paziente
bensì nel campo intersoggettivo che è co-creato da contenitore
e contenuto.
Il contributo di Lichtemberg, infine, sembra avere aspetti in
comune con Levine e con Rizzuto. D'accordo con il primo, Lichtemberg ritiene
che il controtransfert o l'ideologia dell'analista possono influenzare
il paziente, il quale, a sua volta, può essere fin troppo desideroso
di compiacere. Più in sintonia con la Rizzuto sembra essere, inoltre,
l'opinione che ci siano varietà di compiacenza necessarie e utili.
In effetti, secondo la posizione teorica di Lichtemberg - per cui paziente
e analista si trovano costantemente in un sistema motivazionale specifico
- la possibilità di cooperare al processo analitico prevede un certo
grado di reciproca compiacenza tra i membri della coppia analitica.
Gerald I. Fogel, M.D.
2250 NW Flanders
Portland, OR 97210
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