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JOURNAL OF PSYCHOTHERAPY INTEGRATION - VOL.9, N. 3 / 1999

An Outsider's Perspective on Psychotherapy Integration 

Neil S. Jacobson

L'articolo riproduce la "conferenza magistrale" tenuta al Congresso SEPI di Toronto, nel 1997. Il discorso, tenuto nello stile paradossale caro a Jacobson, si compone di due parti. La prima satirica, paradossale e provocatoria, la seconda contenente una proposta innovativa e di grande interesse. Nella prima prende bonariamente in giro l'atteggiamento genericamente fiducioso sulla bontà della psicoterapia in generale e dell'integrazione in particolare, che è abbastanza facile incontrare nei congressi SEPI. Su entrambe le cose Jacobson si dichiara scettico. Intanto, dice, non ho ancora capito che cosa sia l'integrazione psicoterapeutica, benché decine di colleghi abbiano provato a spiegarmela; in secondo luogo non è tanto importante stabilire se due teorie sono o non sono compatibili, quanto capire se la loro combinazione dà risultati migliori delle terapie di origine. E questo, osserva Jacobson, non mi sembra che sia mai stato dimostrato. Ma poi, di che cosa stiamo parlando? Di psicoterapia? Quale psicoterapia? Quella delle sperimentazioni cliniche controllate, basate su trattamenti manualizzati, o quella vera, di tutti giorni, del terapeuta che sta "in trincea"? Rischiamo di fare molta confusione se non ci chiariamo le idee su queste cose fondamentali.

Quasi tutta la ricerca è fatta su protocolli di trattamento che vengono rispettati nelle condizioni della ricerca, ma non nella vita reale. E' probabile, osserva Jacobson, che tutta questa ricerca sia sostanzialmente irrilevante per la pratica clinica. Se poi l'integrazione dovesse significare mettere assieme queste entità artificiali, che nessuno utilizza come tali nella realtà, sarebbe meglio lasciar perdere. Meglio poche cose semplici e chiare, almeno finché non capiremo meglio che cosa succede realmente nella pratica clinica. E come facciamo a capirlo? Osservando quello che i terapeuti fanno, naturalmente. Ma quello che fanno "in trincea", nel loro contesto naturale, non nelle condizioni artefatte delle sperimentazioni randomizzate. 

Se cominciassimo a osservare veramente il fenomeno della psicoterapia, come viene naturalmente praticata ogni giorno, scopriremmo probabilmente che qui avviene spontaneamente un certo tipo di integrazione, che non è quello dei teorici dell'integrazione, ma quello che avviene grazie al fatto che giorno dopo giorno i clienti plasmano i loro terapeuti rinforzando certi comportamenti e punendone altri. A patto, naturalmente, che il terapeuta accetti di farsi plasmare, che sia ciò disposto a modificare il proprio modo di lavorare in funzione dei risultati (cosa che, poco o tanto, ogni terapeuta di trincea fa). Ci sono purtroppo anche terapeuti che non sono rinforzati dai risultati, ma dal restare tenacemente attaccati al loro paradigma indipendentemente dai risultati: ma questo non produce altro, ovviamente, che cattiva terapia.

In conclusione, afferma Jacobson, l'integrazione dovrebbe essere qualcosa di diverso dal combinare trattamenti nello loro forme protocollari nel tentativo di fare qualcosa di meglio. L'integrazione è piuttosto la trasformazione che avviene sul campo, prodotta dallo sforzo e dalla necessità costanti di ottenere il risultato migliore. Ma per saperne qualcosa, dobbiamo studiare la psicoterapia sul campo, o "in trincea", non in laboratorio. Dobbiamo capire come, nel loro contesto naturale, i terapeuti e i pazienti si modificano reciprocamente. Dobbiamo stabilire relazioni funzionali tra le cose che il terapeuta fa e quelle che fa il paziente. Ho paura, aggiunge Jacobson, che scopriremmo che troppo pochi dei nostri colleghi sono sufficientemente rinforzati dai risultati. Troppi ancora lavorano per sentirsi dire che sono meravigliosi, o per confermare le loro particolari ideologie. Ma questa è la direzione in cui dovremo muoverci se vorremo occuparci di integrazione, quella vera.

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