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JOURNAL OF PSYCHOTHERAPY INTEGRATION - VOL.9, N. 1 / 1999

Resistance as a problem for practice and theory

Paul Wachtel

Su un punto i terapeuti di ogni orientamento sono tendenzialmente d'accordo: "i modelli di comportamento che creano problemi al paziente nella sua vita di tutti i giorni gli creeranno problemi probabilmente anche nella relazione terapeutica; pertanto proprio le caratteristiche che abbiamo più interesse a scoprire sono quelle che più facilmente frustreranno i nostri sforzi". La differenza tra gli psicoanalisti e gli altri terapeuti sta essenzialmente nel fatto che i primi, a differenza degli altri, tendono a ritenere universale il processo della resistenza, e a considerare prioritario il lavoro su di essa. 

Per quanto le valutazioni tra terapeuti di diverso orientamento divergano sull'incidenza e l'importanza dei processi di resistenza (intesi come sopra, cioè come ripetizione e messa in atto nella relazione di terapia degli schemi di esperienza e comportamento che sono alla base dei problemi presentati), c'è un accordo generale, trasversale a tutte le scuole, sul fatto che gli ostacoli posti dai pazienti sulla strada della guarigione sono una notevole opportunità che il terapeuta può cogliere, sia per riconoscere in vivo gli schemi da correggere, sia per la possibilità di lavorare su di essi nelle condizioni privilegiate del laboratorio terapeutico.

Detto questo, l'attenzione si sposta sul "surplus" di resistenza, cioè su quella parte della resistenza che non dipende dallo sviluppo intrinseco del processo, che non è cioè una necessità propria della terapia, ma rappresenta piuttosto una reazione del paziente ad atteggiamenti troppo rigidi o meccanici o comunque errati del terapeuta. Il processo analitico stesso come originariamente inteso da Freud, ricorda Wachtel, tende a suscitare resistenze iatrogene, in quanto la terapia è fatta coincidere con la ricerca: se il paziente avverte che il terapeuta ha l'atteggiamento di uno scienziato che vuole fare delle scoperte, piuttosto che di una persona umanamente interessata a lui, è del tutto probabile che non collaborerà al successo delle fantasie scientifiche del suo analista. 

In generale, osserva Wachtel, quanto più puro è l'atteggiamento cognitivo del terapeuta (di orientamento sia psicoanalitico sia cognitivo), tanto meno utile sarà il suo lavoro per il paziente. Inversamente, diverse ricerche stabiliscono un legame preciso tra la qualità della relazione terapeutica e i cambiamenti che produce: le interpretazioni possono essere accurate e precise, la tecnica terapeutica eseguita in modo impeccabile, ma tutto questo non porterà a nulla se la qualità dell'alleanza terapeutica è insufficiente.

Ma quali sono le caratteristiche che la relazione terapeutica deve avere per ridurre al minimo le resistenze iatrogene, e al contrario attivare la volontà di collaborazione del paziente? La risposta di Wachtel è netta: è necessario abbandonare la visione classica, di origine freudiana, del paziente come bambino recalcitrante ad affrontare la realtà e avido di gratificazioni, a favore di una visione più benevola e più corrispondente al vero: quella di una persona che ha paura di ciò che può emergere se abbandona i suoi schemi comportamentali di riferimento. Una paura del tutto comprensibile e giustificata, se pensiamo al dolore e allo smarrimento che attende chiunque osi abbandonare la sicurezza degli schemi appresi. L'atteggiamento base del terapeuta, dunque, deve essere di validazione degli sforzi difensivi del paziente, nel momento stesso in cui lo aiuta a liberarsene. L'atteggiamento classico di lotta alla resistenza, invece, carico di rimprovero implicito, può più facilmente portare a un rinforzo della resistenza, che al suo abbandono.

Questo spostamento di enfasi, dalla lotta cognitiva contro le resistenze alla loro validazione come mezzi legittimi di protezione da sofferenze intollerabili, è del tutto condivisibile. C'è solo da chiedersi se questo spostamento dalla severità alla giustificazione non sia andato troppo in là. Se cioè dagli eccessi in senso "paterno" di Freud non si sia giunti a un certo eccesso in senso opposto, "materno". E se non convenga piuttosto cercare di avere entrambe le frecce a disposizione del proprio arco, pronti a dosare accoglimento materno e fermezza paterna nelle proporzioni richieste da ogni singola persona, in ogni momento del processo terapeutico.

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