Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI ) di Hathaway
e McKinley è uno dei test psicodiagnostici più usati al mondo,
compresa l’Italia, nonostante abbia più di 50 anni di vita. Circa
10 anni fa James Butcher e colleghi hanno pubblicato la seconda edizione
rivista del questionario, con l’aggiornamento dei contenuti degli items,
l’introduzione di nuove scale complementari e di contenuto e l’aggiornamento
del campione normativo di riferimento (MMPI-2). Come sanno coloro che usano
nella pratica clinica il MMPI, vi sono più modi per interpretare
un profilo MMPI. Uno dei più diffusi, suggerito anche dai manuali
del test, è di interpretare il codetype, ossia la combinazione di
più scale cliniche che hanno maggiore elevazione di punti T rispetto
alle restanti scale di base. Il metodo interpretativo dei codetypes fu
introdotto da Halbower nel 1955 che iniziò a classificare i profili
dei pazienti ambulatoriali afferenti al Department of Veterans Affairs
(VA). Lo scopo era quello di aumentare l’omogeneità dell’interpretazione.
In sintesi: protocolli con elevazione delle Scale 2-3 hanno un profilo
psicologico diverso e omogeneo che non viene individuato interpretando
per sommazione la Scala 2 e la Scala 3 separatamente?
Gli autori dello studio qui presentato (diviso in due articoli) hanno
accuratamente rivisto la letteratura sui codetypes (o, come più
descrittivamente li chiamano, high-point code system) per valutare se il
largo uso clinico dei codetypes è giustificato in base all’evidenza
empirica. Nella prima parte, sono stati selezionati 10 studi empirici che,
per il loro disegno di studio, sono maggiormente coerenti con l’obiettivo
di individuare un metodo interpretativo esauriente e clinicamente utile
(profili classificati in base alla combinazione delle più elevate
scale cliniche, individuazione chiara dei predittori ossia dei criteri
di validazione esterna, indagine su più codetypes, indagine svolta
su più campioni psichiatrici). I 10 studi selezionati vanno dal
primo libro pubblicato sui codetypes (di Marks e Seeman, del 1963) all’ultimo
sul MMPI-2 (di Graham, Ben Porath e McNulty, del 1999). Questi lavori hanno
prodotto una mole di dati su 8.614 pazienti psichiatrici con correlazioni
studiate fra 172 combinazioni di scale e 3.900 criteri esterni. Il confronto
descrittivo fra questi studi è praticamente impossibile a causa
dell’estrema eterogeneità dei criteri di studio, soprattutto per
quel che riguarda il modo di selezionare i codetypes. Ad esempio, alcuni
autori hanno considerato codetype le scale cliniche con T>70, altri le
scale che risultano avere i maggiori punteggi T rispetto alle altre scale
indipendentemente dal valore assoluto di T o della distanza di T dalle
altre scale con punteggio inferiore, altri ancora le scale con almeno 5
punti T superiori alle altre scale. Ne risulta un dato paradossale: gli
autori (e gli psicologi nella loro pratica clinica) adottano strategie
differenti per individuare i codetypes i quali invece sono stati adottati
proprio con lo scopo di migliorare l’omogeneità di interpretazione
dei profili MMPI.
La seconda parte del lavoro di McGrath e Ingersoll esamina i risultati
dei 10 lavori selezionati con una metodologia quantitativa, confrontando
le medie dell’ampiezza dell’effetto (mean effect size) dei 10 studi con
la procedura statistica meta-analitica. L’effect size è una procedura
statistica che riflette la forza di una relazione, ossia individua un coefficiente
medio di correlazione fra il codetype e il criterio esterno di confronto.
Esaminando ciascuno studio, la mean effect size risulta bassissima, generalmente
inferiore a 0.10. McGrath e Ingersoll hanno confrontato i risultati dei
singoli studi aggregandoli per variabili di possibile moderazione della
forza della correlazione. Sono stati così confrontati studi su adolescenti
vs adulti, pazienti psichiatrici ambulatoriali vs ricoverati, tipi di dati
(criterio esterno fornito dalle valutazioni dello staff psichiatrico, dalle
cartelle cliniche, da questionari auto-somministrati), MMPI vs MMPI-2,
selezione dei codetypes più restrittiva vs meno restrittiva. La
media generale dei coefficienti di correlazione risulta anche in questo
caso molto bassa, da r=0.59 a r=0.71, che spiega meno dell’1% della varianza
delle variabili di criterio.
Le conclusioni del complesso e ragionato studio di McGrath e Ingersoll
sui codetypes del MMPI sono poco incoraggianti. Benché sia un criterio
molto usato nella pratica clinica, e che quasi certamente continuerà
ad esserlo, il metodo dei codetypes non è il sistema migliore per
interpretare un profilo MMPI. Il principio del sistema dei codetypes è
corretto e coerente (interpretazione dei profili per uniformità
dei tratti psicologici) ma l’evidenza empirica finora accumulata suggerisce
che è più fondato il metodo semplice della combinazione lineare
delle singole scale più elevate, incluse quelle di contenuto. Gli
autori si chiedono infine come mai gli psicologi clinici si sono così
fidati dei codetypes finora. I principali motivi sono due. Il primo è
che i manuali MMPI continuano a fornire indicazioni in questo senso, ingenerando
un elevato senso di fiducia nel clinico per autorità verso gli autori.
Il secondo è che spesso viene mal interpretato il concetto di significatività
statistica degli studi empirici. La significatività statistica è
funzione di molti fattori, compresi il livello alfa (il valore della p
che si è deciso di accettare – usualmente 0.05 o 0.01 – per cui
si rischia di rifiutare l’ipotesi nulla quando è invece vera), il
livello beta (relativo alla potenza dello studio, ossia all’ampiezza del
campione in rapporto al numero di variabili studiate per cui si rischia
di accettare l’ipotesi alternativa quando invece è falsa) e l’effect
size (di cui abbiamo parlato prima). Gli studi empirici con il MMPI sono
in genere effettuati su un ampio numero di soggetti, per cui spesso si
trovano risultati significativi di correlazione fra le scale MMPI e il
criterio esterno, anche se in realtà l’effect size è basso.
Questo risultato viene interpretato come clinicamente significativo, confondendo
i due concetti di significatività (clinico e statistico). Ne deriva
che l’assunzione di significatività per le i codetypes MMPI deve
essere considerata in modo molto più critico da parte dello psicologo
clinico. Considerato l’ampio uso del MMPI anche fra gli psicologi italiani,
ed anche nella pratica psicologica forense, il monito dei due autori americani
è da tenere in grande considerazione.
Robert E. McGrath
School of Psychology
Fairleigh Dickinson University
Teaneck, NJ 07666, USA
Email: mcgrath@alpha.fdu.edu |