PM--> HOME PAGE --> NOVITÁ --> EDITORIA --> RIVISTE --> RECENSIONI
INTERAZIONI --> N. 1 - 2001

INTERAZIONI N. 1 - 2001
Editoriale

a cura di Antonino Brignone, Daniela Lucarelli, Gabriela Tavazza



Nel lavoro di riflessione all’interno del gruppo della redazione è emerso quanto dobbiamo confrontarci sempre più spesso, nel nostro lavoro clinico, con le nuove configurazioni familiari che sono venute a crearsi fra gli individui.
Questi cambiamenti, espressione non solo di modificazioni sociali, rimandano anche a nuovi possibili assetti interni e a nuovi legami?
In ogni caso, essi ci lasciano perlopiù disorientati, suggerendo l’idea di una mancanza di riferimenti sia teorici che interni adeguati, con i quali poterli guardare.
Il tema del mito ci si è presentato allora come una possibile via di avvicinamento e di pensabilità per la comprensione della natura e del significato di tali cambiamenti.
Il mito, infatti, è un modo di leggere la realtà legando tra loro alcuni fatti: una sua funzione è quella di legame, di costruzione di una configurazione comunicativa che serve a contenere le emozioni e i pensieri.
In questo numero l’Editoriale avrà la caratteristica di farsi portavoce di alcune riflessioni, suggestioni, interrogativi emersi dal dibattito tra i colleghi della redazione sulla funzione del mito, in un momento di cambiamenti epocali, sociali e individuali di così grande rilevanza.


Notazioni, domande e riflessioni liberamente tratti dal dibattito redazionale (Roma, 6 ottobre 2000)

Sono molti gli autori che considerano il mito un insieme di credenze condivise a livello inconscio: un sistema di spiegazioni non verbalizzato.
Per i Greci “Mitos” indica un fenomeno fiabesco, qualcosa di assolutamente lontano dalla realtà, che si contrappone a “Logos”, che rappresenta il pensiero razionale, logico.
Nel pensiero antropologico di Margaret Mead e di Malinosky troviamo che i miti sono funzionali al mantenimento delle regole su cui si basa l’organizzazione sociale. Per Levi-Strauss essi “costituiscono lo spazio mentale, contemporaneamente immaginario, logico e comportamentale”. Da quest’area antropologica di esplorazione del mito proviene, per così dire, l’articolo di Nathan presente in questo numero, che parlando dei djinns richiama contemporaneamente gli aspetti più profondi del nostro essere al cui contatto proviamo sentimenti di perturbante estraneità.
Nell’Enciclopedia Einaudi alla voce “Mito” (redatta da Caprittini e Ferraro) viene descritto un sistema simbolico di lettura della realtà: un codice che permette di produrre sapere dall’osservazione e dall’interpretazione del reale.
All’inizio degli anni ’80 Ferraro nel suo libro dal titolo Il linguaggio del mito, partendo dalla concezione strutturalista di Mistros, considera il mito come un codice all’interno di un gruppo, un linguaggio ed un sistema condiviso di lettura della realtà.
Per Bion i miti nascono per dare dei limiti, un’organizzazione ed una comprensione a quelli che sono i fondamenti della vita e delle relazioni per il perpetuarsi della specie: il non uccidere i figli, il divieto dell’incesto, il limite all’onnipotenza. Bion (1963) parla, ad esempio, del mito della conoscenza condivisa che si coagula intorno al mito dell’Eden e della torre di Babele. Il mito della conoscenza condivisa è la spinta che l’uomo ha per acquisire l’onniscienza e l’onnipotenza della divinità. In entrambi i miti la sete di conoscenza e la curiosità dell’uomo vengono punite; e Bion nota che sia la rinuncia alla madre concreta (mito di Edipo), sia la rinuncia alla fantasia onnipotente tipica delle prime fasi dello sviluppo, sono necessarie per lo stabilirsi di un’identità e per un armonico inserimento nel gruppo familiare e sociale.
Riportato al singolo soggetto il mito sarebbe incomprensibile, ma se lo consideriamo come declinazione relazionale dell’inconscio, possiamo considerarlo come una nozione del soggetto o un sistema di spiegazioni che egli dà di una certa situazione.
Il concetto di mito coincide, dunque, sia con l’idea di una forma sociale per comunicarsi alcuni nodi in forma visibile, sia con la nozione di attività inconscia. Nel primo significato è una macchina narrativa: Brunel dice, ad esempio, che quando spieghiamo una cosa in termini cognitivi stiamo cercando di imporre una gabbia, un ordine, al perturbante della natura, alla molteplicità delle cose. E aggiunge che “il narrare è un modo per condividere delle cose con il mondo”; e il mito per l’appunto utilizza immagini, introduce personaggi e ruoli, apre la via ad una narrazione attraverso la metafora.


Qual è la funzione del mito nell’organizzazione inconscia familiare?

Il mito è l’elaborazione narrativa linguistica di un vissuto inconscio collettivo; ma nel momento in cui passiamo dalla concezione più arcaica del mito, al mito come organizzatore di inconscio familiare, operiamo un passaggio semantico importante. La tappa intermedia potrebbe consistere nel mito visto anche come organizzatore di un processo di negazione, di qualcosa che viene negato e rimane fuori del campo della coscienza. In tal caso prima c’è la dimensione inconscia collettiva che produce il mito poi, appena entrato nella dimensione familiare, il mito torna ad essere negato e reso inconscio o non elaborato, per lasciare spazio a un livello di consapevolezza che lo nega di nuovo.
Possiamo immaginare, come dice Levi-Strauss, l’esistenza di una matrice mitica originaria, che ha prodotto un mito che è una componente dell’inconscio gruppale e transgenerazionale. Se osserviamo i membri di una famiglia, ognuno avrà una sua personalizzazione del mito; la narrazione di esso viene cioè rideclinata in modo diverso dai diversi membri della famiglia.
Il mito sembra portare, dunque, una conoscenza trasformabile individualmente; mentre la dimensione patogenetica del mito coincide con quegli aspetti del mito che rimangono inconsci, che non diventano mai nozione del soggetto, e di cui l’individuo non diventa mai consapevole.
Oggi possiamo pensare all’esistenza nel mito di un versante costituito dalla componente inconscia transgenerazionale, e di un versante che è invece costituito dal narrato; nel mito sono infatti contenuti sia aspetti e valori trasmessi per via transgenerazionale, ma non pensati, sia aspetti di cui siamo consapevoli.
Il mito familiare è il prodotto dell’intersoggettività dei suoi membri e si sviluppa come una sorta d’ingranamento o di reazione chimica degli inconsci individuali: è un prodotto degli intertransfert, dell’intreccio transferale che si produce in una data situazione. Dal momento che nella famiglia i genitori sono portatori di miti familiari diversi, questo loro ingranamento dà origine ad un certo tipo di mitopoiesi capace di produrre nuove configurazioni mitologiche.
In questo numero, inoltre, Riccardo Romano sottolinea come il mito assolva ad importanti funzioni psichiche, tra cui quella di ponte fra l’individuo e la coppia e tra la coppia e il gruppo.
é importante anche sottolineare la differenza tra inter-soggettività e trans-sog-gettività. L’intersoggettività mantiene aperta la funzione mitopoietica, mentre nella trans-soggettività la produzione di miti si arena in una formazione che tende a bloc-carsi. Così come nel trans-generazionale c’è qualcosa che passa attraverso le genera-zioni senza essere elaborato, la trans-soggettività che prende il posto dell’inter-sog-gettività, continua a trasmettere questi oggetti senza che diventino elaborabili. In questo tipo di evoluzione il mito diventa saturo di significato: un elemento rigido che tende verso un’organizzazione ideologica o verso un delirio, mentre si blocca totalmente la capacità elaborativa del gruppo, come evidenzia Evelyn Granjon nel suo articolo: “Mitopoiesi e sofferenza familiare”.
Questa descrizione può essere, in qualche misura, valida anche nelle istituzioni, per spiegare il concetto di mito istituzionale. Nelle istituzioni può accadere infatti che mentre i singoli individui funzionano, si arresta l’attività del gruppo poiché nell’in-treccio relazionale inter-soggettivo si attiva una situazione inconscia bloccante, un nuovo mito paralizzante. Se vogliamo tradurre tutto ciò negli assunti di base di Bion, dovremmo pensare che un gruppo in assunto di base si muove nell’area trans-soggettiva, per cui dobbiamo operare a rendere il pensiero più fluido e più orientato in senso intersoggettivo, tentando di ripristinare l’attività mitopieitica del gruppo.


Ma quanto è inconscio e quanto è conscio un mito?

Come è stato in precedenza accennato il mito ha una sua forma basata sul dare indicazioni, tramandare esperienze e organizzare pulsioni.
Il mito di fondazione della psicoanalisi rimane il mito di Edipo che è un mito preconscio-inconscio, da Freud indicato come organizzatore centrale della vita mentale individuale; ma in questo stesso mito si riconoscono numerosi vertici di lettura. In questo mito non ci sono solo l’incesto o l’uccisione del padre, ci sono elementi appartenenti alla storia di Laio come il fratricidio e il tentato figlicidio. Ci sono la famiglia di Tebe e quella di Corinto (come evidenziato da Fornari), c’è l’Oracolo di Delfi e c’è la storia dei figli e delle figlie di Edipo. Il mito di Edipo ha una grande complessità ed è un mito che può aiutarci a comprendere molte organizzazioni inconsce della vita mentale familiare.
Il portato di un mito consiste non solo nella sua prescrittività, ma anche nel fatto che alcune sue componenti rimangono inconsce e non possono essere narrate. Il mito è inconscio nel senso che ha un’origine inconscia, ma attraverso l’elaborazione prodotta dall’attività mitopoietica della famiglia assume una forma narrata; questa elaborazione si colloca ad un livello preconscio e consente di trasmettere il contenuto inconscio, in modo rimaneggiato.
Il mito riconosce pertanto un fantasma organizzatore inconscio e tutte le variazioni che nascono attraverso le nuove elaborazioni e narrazioni del mito, prodotte dalla mitopoiesi familiare; ciascun genitore portando nella famiglia le proprie variazioni del mito edipico mette cioè in moto un nuovo funzionamento mitopoietico nella famiglia, che fornisce nuove varianti e nuove declinazioni del mito. Le elaborazioni di ciascun contesto o di ciascuna famiglia, si costituiscono come nuovi sviluppi del mito, ma talvolta prefigurano un irrigidimento di certi aspetti del mito stesso.
Quando ad esempio l’esistenza di contenuti inconsci troppo traumatici o non elaborabili interrompe la possibilità di lavoro mentale familiare, il mito si irrigidisce e diventa fisso e non trasformabile; talvolta è il mito stesso ad essere l’organizzatore inconscio del processo di negazione, producendo qualcosa che si oppone alla normale dimensione mitopoietica nella famiglia. In questo numero Alberto Eiguer nel suo articolo: “I miti familiari alla prova dei tempi moderni” ribadisce l’importanza dei miti familiari e la necessità di una attenzione clinica nell’avvicinarli.
A volte si può affermare un’elaborazione narrativa transgenerazionale che in realtà origina da una mancata elaborazione, o da una negazione, o ancora da una scissione di un evento traumatico; in questo caso siamo davanti a un mito che contiene il negativo. Il mito conscio familiare fa pensare in taluni casi ad un sistema di pensiero organizzato e chiuso, che è stato costruito come fosse un fattore evolutivo, ma in realtà è il prodotto di una sclerotizzazione della capacità mitopoietica e mitosimbolica. In questi casi il mito narrato diventa progressivamente un’ideologia o un delirio.


In che modo il mito può assolvere a una funzione strutturante, di contenimento, di trasformazione oppure a una funzione difensiva o di attivazione di patologie?

Nella condivisione del mito sono compresi aspetti dell’identità del soggetto o del gruppo familiare. Nel mito c’è qualcosa che riguarda l’identità del soggetto e sono gli aspetti idealizzati quelli che rischiano di diventare più rigidi.
Affinché un racconto familiare del tipo: “il nonno era un grande cacciatore” si trasfor--mi in un mito patologico occorre che il ruolo di “grande cacciatore” diventi l’iden--tità familiare fondamentale. L’identità trasmessa per via transgenerazionale prende il posto di una possibilità di identità diversa. Il mito diventa strutturalmente rigido perché il non elaborato collettivo si presentifica in un ruolo.
In origine il mito è condiviso; la dimensione della condivisione implicita inconscia che chiamiamo mitica, lo è nella misura in cui il singolo può abbandonare la condivisione portando avanti delle dimensioni individuali; a questo punto c’è la possibilità di mettere in discussione il mito. Se nel mito del “nonno grande cacciatore” è la “grandezza” che diventa la componente mitica, questa si può rappresentare in varie forme individuali, tra cui è contemplata anche la possibilità individuale di sottrarsene facendo una “vita non grande”. La rigidità del mito comporta invece la conseguenza che se non si raggiunge una qualche grandezza comparabile a quella del nonno, emerge un vissuto di fallimento e ciascun membro della famiglia avrà il problema di questo nonno che gli sta sulla testa, a volte senza nemmeno poterne essere consapevoli.
Ogni famiglia ha un mito che entra nella dimensione inconscia individuale e appartiene sia alla parte dicibile, sia a una parte indicibile del mito.
Se un mito familiare viene assunto come elemento organizzatore del funzionamento psichico familiare diventa un enorme ideale dell’Io che, in condizioni normali, fornisce al singolo la possibilità di una rielaborazione individuale, che accompagna la crescita.
Quando il mito familiare, che culturalmente costituisce una narrazione, impedisce che la persona si differenzi dal magma familiare, esso dà origine ad un sintomo come espressione della sua rigidità: quando il mito diventa troppo rigido non può più essere motore di trasformazioni.
Gérard Decherf affronta, in questo numero, la problematica adolescenziale osservando come, nel gruppo di adolescenti, il mito della “fratria ideale unita” serva da ponte fra il mito di una matrice familiare idealizzata che è imprigionante ed i miti legati alle angosce esistenziali di separazione.
L’elemento bloccante del mito costringe l’individuo in una situazione che può divenire patologica, e che si può manifestare come presenza di una regola inconscia in base alla quale, ad esempio, “nessuno potrà diventare grande come il nonno” o, al contrario, come una indicazione tassativa per cui: “se non diventi un musicista di successo come lo zio sei un fallito”. In questi casi il racconto mitico tende ad occupare il posto della differenza fra le generazioni e tra i singoli individui, funzionando come un legame alternativo che produce in realtà un attacco al pensiero.
Esistono dunque miti familiari non rigidi e miti rigidi; miti che favoriscono l’identificazione o che la impediscono; miti in cui viene potenziata la soggettività individuale e miti in cui viene bloccata.
In alcuni casi il mito sembra avere anche una funzione difensiva: ha il compito di costruire o di organizzare una difesa nei confronti di un trauma non detto, non elaborato o non elaborabile; non iscritto e non inscrivibile nella consapevolezza. Quando esiste un contenuto che non è inscrivibile nella consapevolezza da esso può nascere una somatizzazione, ma non nasce un mito familiare come narrazione.
Talvolta nella famiglia è mancato qualcosa che consentisse al mito di divenire un racconto mitico con una valenza positiva, o magari la famiglia ha avuto questa possibilità ma non è ugualmente riuscita a patteggiare con l’evento traumatico, e di conseguenza i suoi componenti somatizzano o agiscono o vanno verso la psicosi. Ma come descrivere questa mancanza? Come una sorta di patologia della trasmissione psichica? Come se venisse a mancare l’anello di una catena che fa venir meno la funzione mitopoietica della famiglia?
Si potrebbe trattare della mancata elaborazione di un lutto che rende inaccessibili, distrutti o inadeguati i contenuti di pensiero che rappresentano il mito. Le tracce e i residui di questo passato traumatico danneggiano sia la psiche individuale, sia l’ancoraggio mitico, ma senza questo ancoraggio mitico siamo di fronte ad un buco del mito.
Appaiono dunque descrivibili due estremi della patologia del mito familiare: ad un estremo troviamo le famiglie che non accettano di cambiare il proprio mito diventato rigido e imprigionante; all’altro estremo le famiglie che perdono totalmente il proprio ancoraggio mitico e magari lo sostituiscono con miti provenienti dal sociale. Non è infrequente il caso di famiglie che assumono miti sociali al posto dei miti personali. Roberto Losso, ad esempio, nel suo articolo, evidenzia situazioni di famiglie “auto-ge-nerate”, che rifiutano qualunque collegamento con i miti familiari e in qualche modo si “rifondano”, con grande fragilità ed una vita molto precaria.
Nella psicoterapia psicoanalitica familiare l’introduzione delle elaborazioni transferali potrebbe corrispondere al tentativo di operare in direzione della trasformazione di miti troppo rigidi, o al tentativo di costruire un nuovo mito per riempire questi vuoti: la costruzione mitica diventa allora il tentativo di stabilire dei legami con qualcosa che sta accadendo.


Qual è il destino dei miti familiari in un periodo di rapidi cambiamenti sociali e culturali e di loro influenza sui processi psichici della famiglia?

In un’epoca di grandi cambiamenti come quella che stiamo vivendo, può essere che il bisogno mitopoietico aumenti proprio per riuscire ad integrare tutti questi cambiamenti.
Non è detto però che fin che c’è il mito tutto vada bene: è vero che il mito deve esserci, ma a volte il mito, piuttosto che una pelle protettiva e contenitiva, diventa una corazza che impedisce il processo trasformativo.
Così nell’emigrazione il mantenimento della condizione mitica coincide in qualche misura con il mantenimento dell’identità. Il mito diventa interconnesso con la tematica dell’identità e il permanere della famiglia nel mito consente il mantenimento della sua identità. In questo senso il mito familiare collega l’identità all’appartenenza. In casi come questo la trasformazione del mito lo rende più elastico e consente di acquisire un’identità nuova più adeguata alla nuova situazione.
I grandi cambiamenti sociali in atto nella nostra epoca possono andare a intaccare il funzionamento dell’inconscio condiviso e della funzione mitopoietica, nel senso di imporre nuove credenze, nuovi valori e rappresentazioni.
La famiglia ha ancora bisogno dei miti familiari, ma non è detto che riesca ancora a produrli, e la difficoltà a produrre miti si potrebbe riflettere sull’aumento della frammentazione sociale. Si ha l’impressione che nelle famiglie allargate la componente mitica sia ancora presente, a volte in modo massiccio, mentre nella famiglia mononucleare si riconosce un minore uso del mito familiare, come se quest’ultima sia piuttosto portatrice del desiderio di rompere o perdere il contatto con i miti familiari precedenti.
In queste famiglie i miti non sono più prodotti dalla famiglia stessa, ma assunti dal sociale, ad esempio dalla televisione o dalla rete; la famiglia che non riesce più a produrre i suoi miti deve ricorrere a miti sociali sostitutivi, perdendo le sue caratteristiche peculiari e rendendo, così, maggiormente precario il mantenimento dell’identità familiare. Così, nel suo articolo, Cristiane Joubert evidenzia come, attualmente, il mito dell’individualismo sia rivelatore di una ricerca narcisistica sfrenata, in presenza di una famiglia destrutturata, che lascia i suoi membri alienati gli uni dagli altri, soli nelle loro angosce di abbandono.


PM--> HOME PAGE --> NOVITÁ --> EDITORIA --> RIVISTE --> RECENSIONI
INTERAZIONI --> N. 1 - 2001