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PSYCHOMEDIA
LIBRI - Recensioni e Presentazioni



Anna Ferruta, Giovanni Foresti, Marta Vigorelli (a cura di)

Le Comunità Terapeutiche
Psicotici, borderline, adolescenti, minori

Cortina, 2012

Recensione di Gianluca Biggio


Recensione di Gianluca Biggio

(Pubblicato in Psicoterapia Psicoanalitica, 2013, vol.1)

Credo non sia casuale il fatto che questo libro sulle Comunità terapeutiche abbia la prefazione di due illustri figure; Robert Hinshelwood e di Marcel Sassolas.

Nel panorama ristretto della saggistica dedicata al tema delle Comunità Terapeutiche, questo libro, che accoglie una serie di autorevoli contributi italiani, appare come una sistematizzazione e un approfondimento insieme. Lo stesso Sassolas in una recente pubblicazione italiana che raccoglie preziose osservazioni maturate in anni di supervisioni (Corino, Sassolas, “Cura psichica e Comunità terapeutica” Borla, 2010), parla della frammentaria e complessa esperienza del lavoro delle CT.

A fronte di questa sua natura il movimento comunitario appare invece ricchissimo di riflessioni, convegni, formazione e supervisione degli operatori come accompagnamento di un agire che deve cimentarsi con la complessità e l’incertezza, in un ampio spettro problematico che procede dalla dimensione individuale a quella relazionale, organizzativa e anche manageriale. I problemi inerenti al cosa debba o possa fare una comunità terapeutica sono divenuti incalzanti, per l’evoluzione scientifica delle varie discipline alla base della tecnica del lavoro di comunità. L’evoluzione di specializzazioni e affinamenti concettuali che si confronta con la diminuzione delle risorse economiche producendo una turbolenta esigenza di sviluppo in una situazione di de-sviluppo. Ci troviamo quindi in una situazione molto impegnativa che può essere ansiogena come ricordano alcuni autori (Olivetti Manoukian, Mazzoli, D’Angella “Cose (mai) viste” 2003) che analizzano le rappresentazioni socionarrative di operatori sociali e comunitari, la loro sensazione di “ servizi assediati”, pressati tra idealità e urgenza. Penso anche al recente dibattito in rete “Tempi duri per le comunità terapeutiche” tra Pedriali, Perini e altri.

In questo scenario il libro a cura di Ferruta, Foresti, Vigorelli rappresenta un orientamento prezioso, che prende in considerazione il pluridimensionale lavoro delle Comunità.

L’introduzione al volume è particolarmente esplicativa ed è un’utilissima guida alla lettura del testo. Il libro nasce come sviluppo del testo pubblicato nel 1998, La Comunità terapeutica. Tra mito e realtà. Esso è testimone di un percorso di ricerca nato dopo il convegno internazionale tenutosi a Milano nel 1996 sul tema delle comunità terapeutiche, percorso proseguito con la fondazione dell’associazione Mito & Realtà che svolge attività di studio, ricerca e formazione sui modelli e le metodologie di cura utilizzate nelle comunità terapeutiche.

Nella premessa - prima di illustrare la struttura dei contenuti - gli autori mettono subito a fuoco un tema cruciale; l’esigenza di fare chiarezza sulla definizione stessa di CT. Dopo una forte crescita dovuta alla deospedalizzazione psichiatrica le comunità raccolgono una domanda in cui si sedimentano modalità eterogenee di risposta che vanno dalle residenze deposito a programmi intensivi di cura con una metodologia comunitaria. La valenza operativa oscilla tra l’accento sul contenimento abitativo e la attenzione al metodo terapeutico. Vengono messe lucidamente a fuoco una serie di criticità; la totalizzazione idealistica, l’invio burocratico, la indifferenziazione della tipologia dei pazienti, la inerzia stanziale, la rottura dei legami con l’eterno familiare e sociale, l’insostenibilità economico gestionale, lo stress degli operatori non adeguatamente sostenuti.

Queste criticità sono affrontate nel libro attraverso una strutturazione dei contenuti composta di quattro parti; la prima affronta i percorsi terapeutici specifici per tipologia di ospiti, la seconda affronta il tema dell’organizzazione clinica, la terza approfondisce la specificità della formazione del terapeuta/operatore di comunità, mentre la quarta è dedicata al tema della ricerca e degli strumenti di valutazione. E’difficile nello spazio che abbiamo, dare atto della ricchezza di stimoli che provengono dal libro. Mi soffermerò su alcune parti scusandomi con gli autori che non possono essere singolarmente commentati come meriterebbero.

Nei tre capitoli introduttivi il libro inizia con una fondamentale rassegna storica - a cura di Ferruta, Foresti e Vigorelli - dell’esperienza comunitaria. Prosegue poi nella analisi delle psicopatologie affrontate attraverso la CT e una analisi dei fattori terapeutici diretti e indiretti delle strutture comunitarie. Analizzare le origini del movimento comunitario permette di avvicinarsi a quello che Hinshelwood nella prefazione definisce il mito della comunità, ovvero la struttura gruppale che viene creata per contenere la sofferenza psichica e per aprirne una possibilità di trasformazione. In questo capitolo di apertura vengono vividamente descritte e analizzate le storiche esperienze comunitarie di area inglese, francese e statunitense. La rassegna è avvicente e mette in luce con grande sintesi le essenzialità di tante esperienze; la fondazione, il ruolo dei personaggi carismatici, i modelli teorici e quelli operativi, l’eredità e l’influenza che ogni esperienza ha avuto nel movimento comunitario. Sarebbe in questa sede inopportuno ripercorrere tutte le esperienze descritte, anche se potrebbe sorgere la tentazione di fronte a una tale chiarezza documentativa.

Per l’area inglese sono descritti il primo e il secondo esperimento di Northfield che riportano a Bion e Foulkes, Main, Jones e altri ancora. Sul fronte di guerra, con i soldati, come ricordano Hinshelwood e Bridger, nasce il primo esperimento di terapia di gruppo e successivamente di comunità terapeutica. La potenza terapeutica del gruppo scoperta sul fronte viene incanalata in diversi modelli teorico operativi nelle esperienze modello che seguiranno; Cassel Hospital e Henderson Hospital. Il primo - con Main - avvia un modello sistemico psicoanalitico mentre il secondo - con Jones - un modello psicosociale basato sull’assetto democratico ed egualitario della comunità.

Per l’area statunitense vengono descritti i modelli del laboratorio di ricerca di Chestnut Lodge, la Menninger Clinic e l’esperienza di Austen Riggs. Il modello Chestnut Lodge con Bullard già dal 1933 cerca di avviare un progetto di ospedale psichiatrico psicoanalitico attraverso la presa in carico individualizzata con due figure separate per la psicoterapia e la cura farmacologica. E’ in questa struttura che Stanton e Schwartz elaborano le ipotesi sui meccanismo del Mirror Image Structure, ovvero della corrispondenza isomorfica tra psicopatologie dei pazienti e dinamiche patologiche organizzative e di gruppo. Sempre il Chestnut Lodge ospiterà negli anni Settanta l’approccio integrato alla psicosi di Pao.

La Menninger Clinic, ha elaborato nel corso degli anni avanzatissimi programmi di intervento basati su un modello biopsicosociale della psicopatologia e un approccio centrato sul paziente nel suo ambiente di vita. Presso la Menninger hanno operato Gabbard, che ha studiato l’efficacia della psicoanalisi nelle patologie gravi, Kernberg che ha elaborato una concezione integrata innovativa su individui gruppi e organizzazioni e sulla leadership istituzionale. Attualmente Fonagy dirige il centro della Famiglia e del Bambino che svolge ricerca sullo sviluppo psicologico infantile.

L’esperienza di Austen Riggs è staa diretta per molti anni dallo psichiatra e psicoanalista Shapiro con un modello operativo basato su una psicoterapia psicodinamica intensiva e riflessione gruppale basata sul concetto di vita esaminta (examinated living) in vari gruppi collegati nella vita comunitaria. Anche in Austen Riggs vengono sviluppate metodologie di valutazione.

L’area francese si sviluppa nella cornice della psichiatria francese dagli anni Sessanta in poi facendo riferimento principalmente a due noti psicoanalisti Paul Racamier e Marcel Sassolas. L’esperienza francese ha radici profonde nella psicoterapia istituzionale (Toquelles, Oury) che già negli anni quaranta aveva prodotto un dibattito e fermento. Nella sua storica pubblicazione (1970) Racamier pone il problema di una utilizzazione della psicoanalisi “senza il divano”, della sua possibilità di creare per la psicosi uno “spazio terzo” nel campo somatopsico soiale della istituzione attraverso oggetti e azioni parlanti. Sassolas sottolinea due pericoli per la effettiva funzione terapeutica della comunità; il pericolo di una concretizzazione, implicito in una adesione difensiva del modello medico e quello di una permeabilità psicopatologica del gruppo curante. Nella comunità di Villeurbanne solo pazienti i residenti hanno la chiave della casa e della propria stanza. Il conflitto tra appartenenza e autonomia viene elaborato attraverso un insieme di regole comunitarie.

Il quadro storico disegna subito con chiarezza gli elementi sui cui si sviluppa la architettura del volume. La ricchezza del contributo è notevole ma comunque alcune questioni emergenti sono evidenziate dagli stessi autori;

  1. Il paradosso dei leaderless groups, ovvero la leadership deve essere esercitata attraverso la sua assenza permettendo ai gruppi di trovare proprie regole e senso comunitario

  2. Consapevolezza lutto originario e la seduzione narcisistica (secondo Racamier) come premessa al lavoro comunitario

  3. L’integrazione di lavoro riabilitativo e psicoterapeutico (l’insegnamento statunitense) attraverso una struttura organizzativa continuamente ripensata,riorganizzata e supervisionata (culture of inquiry dalla esperienza inglese).

La prima parte del libro procede poi attraverso approfondimenti preziosi che riguardano le specificità dei diversi percorsi terapeutici; soggetti psicotici, soggetti bordeline (doppia diagnosi e antisociali), adolescenti e minori. Per ognuna di questi raggruppamenti sono riportate riflessioni teoriche ed esperienze di lavoro significative di psicoanalisti, psicoterapeuti e operatori. I temi sono sviscerati in lavoro poderoso. Il tema del delirio come esito di una frattura incontenibile per il singolo. Il singolo viene condotto ad un lavoro di elaborazione attraverso sequenze gruppali e istituzionali organizzate e intimamente organizzanti. La motivazione, l’ambientamento, l’affidamento, l’individuazione e l’autonomia sono esempi di un percorso proposto dalla comunità.

“Il soggetto deve capire quali meccanismi psichici per lui dannosi la comunità si propone di cambiare” afferma Correale nel suo contributo sulle comunità per soggetti psicotici. La comprensione inoltre deve essere psichica innanzi tutto, prima che sociale o pedagogica. Ogni comunità inoltre dovrebbe ricercare continuamente le proprie sequenze a seconda della tipologia degli ospiti, mettere a fuoco un pensiero sui propri fattori terapeutici strutturali, sulle proprie azioni parlanti.

La seconda parte del libro ritorna sull’organizzazione clinica e ma anche sulla clinica della organizzazione. La gestione della leadership, del rapporto con la famiglia o l’ambiente, del distacco sono punti cruciali per l’efficacia dei programmi. Il tema della leadership in particolare viene approfondito da Ferruta e Perini da due vertici suggestivi. Ferruta sottolinea le funzioni di holding e di contenitore rifacendosi ai concetti di Winnicott e Bion; un leader che voglia svolgere una funzione clinica deve promuovere dinamicamente il contenimento e la holding, evitando la reificazione burocratica, la cristallizzazione abitudinaria ( pericolo su cui convergono tutti gli autori).

Perini definisce la CT come “Un fenomeno socio-tecnico decisamente ambiguo e insaturo, che non si lascia agevolmente afferrare da una definizione né ordinare da regole… fatto di atmosfere e trame emozionali, di conquiste soggettive e sempre precarie…”. Nella dialettica tra azione riflessione (culture of inquiry di Hinshelwood e Norton) si dipana il nodo del rapporto tra missione terapeutica e le difese sociali, tema che ha caratterizzato i contributi psicoanilitici del modello Human Relations del Tavistock Institute. Il leader ha l’oneroso compito guidare/senza guidare la struttura elaborando le ansie del gruppo degli operatori, ma anche le proprie.

La terza parte del libro è dedicata al tema della supervisione e della formazione per terapeuti/operatori di comunità. Il primo capitolo - a cura di Ferruta e Vigorelli - analizza il tema in varie dimensioni tra loro interconnesse. La prima potrebbe essere definita come la ricerca di una metafora olistica di una formazione complessa ( “coltivatori della vita psichica…” “ l’orchestra” secondo Racamier o di un quadro o brano musicale a più strati, secondo Kennard) in una struttura che propone ai pazienti di consolidare il Sé danneggiato. La seconda dimensione è quella della manutenzione continua ed esperienziale del gruppo di lavoro (riunioni, micro riunioni, comunicazioni informali, supervisioni). La terza è quella di definire un percorso formativo specifico per gli operatori (formazione personale, apprendere dall’esperienza, conoscenze teoriche e tecniche). La quarta dimensione è dedicata al tema della supervisione – in accordo con Hinshelwood e altri - come necessità permanente di reverie da parte della leadership direzionale, al fine di contenere ed elaborare le ansie del gruppo, alimentate dal un lavoro a rischio di contagio psichico e dall’ansia di un compito inafferrabile.

Il contributo di Foresti pone una serie di chiarificanti definizioni del generico termine di “supervisione istituzionale” definendo le più importanti tipologie di intervento in funzione del task di lavoro e del metodo utilizzato (la conference clinica, la consulenza al ruolo, il social dreaming, consulenze per lo sviluppo organizzativo, le group relation conferences). Viene sviluppato, a partire dalla gestione delle crisi, il concetto di “contenitore istituzionale”, un apparato gruppale elaborativo che si può creare perseguendo nella formazione tre dimensioni; funzione analitica della mente, il riconoscimento degli assunti di base e il visioning clinico.

La quarta ed ultima parte è dedicata agli strumenti di valutazione e ricerca. Questa sezione ha il pregio di trattare chiaramente un tema spinoso. Significativo è l’incipit del capitolo- a cura di Vigorelli e altri- sul panorama degli studi internazionali, ovvero: “L’epoca della autovalutazione delle esperienze psichiatriche è definitivamente tramontata”. Il tema è spinoso per molti ma si è consolidato a livello internazionale per vari motivi; la fine della fase pionieristica e ideale delle comunità, il cambiamento del wellfare e la conseguente attenzione ai costi ( vedi la chiusura di alcune pur prestigiose comunità nel mondo anglosassone), ma anche il progredire delle metodologie di ricerca su esiti e processi psicoterapeutici, la necessità di certificazione delle buone prassi, anche il desiderio di promozione della qualità terapeutica da parte di molti.

Il tema diviene allora quello di raccogliere la sfida della valutazione con adeguati strumenti che non appesantiscano la delicata dinamicità di queste strutture. La valutazione quindi come estensione scientificamente formalizzata della culture of inquiry.

Concluderei la mia presentazione sicuramente inadeguata a illustrare tute le qualità di questo manuale, trattato per l’orientamento degli operatori, dicendo che esso ha anche il pregio di rappresentare a livello internazionale le esperienze e le riflessioni della realtà italiana.



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