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PSYCHOMEDIA
LIBRI - Recensioni e Presentazioni



Sergio Benvenuto
Dicerie e pettegolezzi. Perché crediamo in quello che ci raccontano

Bologna: Il Mulino 2000, Pp. 153, Lire 18.000

Recensione di Giovanna Leone



Il libro di Sergio Benvenuto fa parte dell'affascinante insieme di saggi in cui un aspetto insignificante, minuto, trascurabile della vita quotidiana viene guardato con la curiosità dell'entomologo: che riscopre, nel mondo dell'infinitamente piccolo, la grandezza dei processi naturali più potenti. Ed infatti, cos'è più potente della chiacchiera? Una forza che fa girare il mondo; un venticello che alla fine rimbomba come un colpo di cannone. Ma, si potrà obiettare, a furia di dare senso a ciò che è apparentemente insignificante, non si finirà per interpretare eccessivamente la realtà, per dare corpo a qualcosa che è poco più di niente? Non è un rischio da poco, se pensiamo che il nostro bisogno di trovare le cose più sensate di quanto non siano ci spinge a vedere animali e profili di montagne in quelle che sono in fin dei conti solo delle macchie colorate. Tuttavia, è proprio in questa proiezione di senso che la mente rivela più compiutamente se stessa e i suoi processi, come ci mostrano gli psicologi della Gestalt o gli interpreti del test di Rorschach.
E' questa una delle eredità più difficili e talvolta controproducenti che le teorie psicodinamiche ci hanno lasciato, e che mostra molte importanti tracce di sé anche in tante invenzioni e neologismi del linguaggio di senso comune.
In effetti uno dei danni iatrogeni più potenti delle psicoterapie basate sull'interpretazione, sullo svelamento, è proprio la creazione di un sospetto senza fine sui propri (ed altrui) processi interni: Dio mio, oggi mi sono svegliato e sono felice. Sarà proprio vero? O non starò nascondendo qualcosa a me stesso, con questa fuga nella salute? La volgarizzazione delle attività intepretative (intesa non solo come diffusione all'esterno di una ristretta comunità professionale, ma anche letteralmente, come produzione di pensiero più rozza e pragmaticamente controproducente) è una delle iatture della comunicazione odierna. Woody Allen ha saputo mostrare, con ironia ma anche con la giusta dose di compassione, l'angoscia un po' ridicola di pensieri che si avvitano su se stessi, servendosi del linguaggio psicodinamico come copertura dell'incapacità a decidere di sé e della propria vita: come nell'invenzione contenuta nel film Deconstructing Harry (Harry a pezzi), in cui il protagonista comincia ad apparire in modo sfuocato sullo schermo appena precipita nella ricorsività dei dubbi su di sé. Con consapevole autoironia Sergio Benvenuto si chiede più volte, nel corso del suo brillante saggio, se in fin dei conti non stia anch'egli entrando nel circuito infinito della diceria, se non stia producendo una diceria sulle dicerie. Non si tratta solo di un'elegante battuta di spirito. La diceria si caratterizza proprio per il suo approccio inverificato, e spesso intrinsecamente inverificabile, alla realtà. Non a caso l'introduzione al libro si apre con una citazione di Essere e tempo di Heidegger: "La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere. (...) diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto". Benvenuto riprende il solco di questo pensiero: la diceria si basa intrinsecamente su un'ambiguità, o meglio su un'indifferenza all'ambiguità, alla mancanza di rigore. E' un atteggiamento che ci appare naturale, banale, implicito nella complessità del reale e nell'urgenza di semplificarlo e di non farsene paralizzare. Non per niente, il pensiero scientifico si basa su un lungo apprendistato metodologico a sfuggire a queste scorciatoie semplificatorie, richiede un severo esercizio di auto (ed etero!)controllo, chiama le conoscenze discipline.
Ma la vita quotidiana non può reggere a questa tensione continua verso la lucidità. C'è bisogno di lasciarsi andare, di parlare tanto per parlare, di farsi portare dalla corrente del pensiero inverificato; la cui totale infondatezza rappresenta non un limite, ma un fascino.
Dicerie, pettegolezzi, chiacchiere: la ricerca psicologica e sociologica non poteva non essere colpita dalla pervasività e dalla forza di questo fenomeno; e durante la prima guerra mondiale la sensibilità di un grande storico, Marc Bloch, osservò con appassionata curiosità e profonda comprensione la fabbricazione di quelle false notizie che tanto caratterizzano il clima bellico. Ma, osserva Benvenuto, le nostre teorie tendono sempre a velare le ambiguità dei fenomeni, ce ne restituiscono un'immagine troppo unidimensionale. Ad esempio, appare molto brillante l'intuizione teorica di Allport e Postman che, alla fine degli anni '40, individuano alla base della diceria lo stesso meccanismo di distorsione della memoria già brillantemente simulato dai lavori di Bartlett del 1932: una sorta di telegrafo senza fili che, passando di bocca in bocca, distorce ed amplifica un contenuto originario che al termine di tutti questi passaggi appare sorprendentemente mutato e quasi irriconoscibile. Tuttavia, osserva Benvenuto, questa teoria ricerca ancora un nucleo di verità nella diceria, non può rassegnarsi all'idea della chiacchiera fine a se stessa.
Considerazioni analoghe possono essere formulate nel caso delle recenti teorie sociologiche che vedono le dicerie come una sorta di contagio, un virus di cui gli individui non sarebbero tanto i creatori quanto i semplici portatori. Una teoria affascinante, ma che cerca ancora una volta di descrivere la società come un immenso organismo, un corpo che può contagiarsi e ammalare: un esempio perfetto di quella che Morin denomina efficacemente "sociologia clinica". Al di là della vocazione dei ricercatori di trovare cause semplici ed eleganti ai fenomeni, di aspettarsi coerenza e prevedibilità, le cose stanno in modo più complesso ed ambiguo. Le persone cercano non solo di modificare gli stimoli in modo che siano più coerenti con le loro aspettative culturali, come negli studi classici di Bartlett sulla convenzionalizzazione; perché c'è bisogno anche di sorpresa, di inaspettatezza, e non solo di familiarità. Le società, anche se la metafora è affascinante, non sono degli immensi corpi, più o meno malati. Le dicerie non sono solo distorsioni basate su un nucleo di realtà: perché spesso si basano sul nulla, oppure esprimono in modo velato delle verità che "i poteri" tentano di nascondere (vox populi, vox Dei). Per capire questo fenomeno bisogna coglierne in primo luogo l'intrinseca ambiguità, duplicità: le dicerie allarmano, hanno spesso un contenuto orrido, terrorizzante, ma talvolta sono fatte a fin di bene, come l'eterna raccolta di carta argentata per il famoso cane guida dei ciechi. Le dicerie mettono in guardia da un pericolo (attenzione ai pedofili di internet!) ma spesso esprimono confusamente un bisogno o una paura che non possono essere espressi altrimenti (ad esempio, la paura di curarci poco dei nostri figli, per mancanza di attenzione o per egoismo). In sintesi, nelle ipotesi di Benvenuto le dicerie hanno modo di raccontarci tutto quello di cui sono un eco: come, nelle mani di un bravo archeologo, un deposito di spazzatura può dirci talvolta di più su una civiltà scomparsa del ritrovamento di una biblioteca. Qual è infatti la caratteristica intrinseca della diceria? Non la mancata verifica (che caratterizza la gran parte delle nostre informazioni sul mondo) quanto il nostro atteggiamento poco vigile su di essa. La diceria ci trasporta senza che noi le opponiamo una resistenza critica: perché? Qui l'ipotesi conclusiva di Benvenuto si fa particolarmente acuta, perde il tono un po' scanzonato che aveva reso così godibile tutto il saggio, prende un andamento più pessimistico. Essere preda delle dicerie, come ognuno di noi in realtà è, assomiglia ad aggirarsi in quelle immense periferie urbane che le parole e le immagini di Pasolini hanno così bene rappresentato: una palude senza fine, che intrappola il viaggiatore in un vagabondaggio inutile. E' l'immagine di Pentesilea, immensa periferia senza centro descritta da Calvino nelle Città invisibili, che Benvenuto sceglie come simbolo della rete comunicativa manifestata dalle dicerie. Nessuno può sfuggire, è la malinconica conclusione del saggio, la città acefala e senza confini ci tiene, inutilmente ci aggiriamo in cerca dell'uscita. Come si vede, una conclusione che torna all'aristocratico disprezzo di Heidegger per la doxa, la chiacchiera che trionfa sulla conoscenza riflessiva. Tuttavia, esiste un'altra traccia interpretativa meno malinconica proposta da questo saggio, così denso da rifuggire da ogni semplificazione eccessiva e soprattutto da ogni disprezzo per il fenomeno della diceria. Riguarda le origini etimologiche della parola pettegolezzo, che in molte lingue richiamano il cerchio delle donne riunite per assecondare il ciclo della riproduzione vitale: le comari, le madrine di battesimo, le protagoniste della vita domestica. Perché questo richiamo alle figure femminili, all'intimità domestica? Forse perché queste persone offrono continuamente un controcanto allo svolgersi della vita privata, una protezione e un sostegno ai discorsi familiari. La rete comunicativa alla base delle dicerie non è soltanto elaborazione incontrollata, "chiacchiera" nel senso di Heidegger; ma è anche quella "base comunicativa vibrante" che ha tanta parte nell'evoluzione del pensiero, di cui parla Hannah Arendt. Tra le molte tracce di riflessione offerte dal libro di Sergio Benvenuto mi piace concludere con quest'ultimo riferimento, non solo per riflettere in modo critico sulla lezione di Heidegger che ispira fortemente il saggio -- che pure tanto se ne differenzia -- ma anche perché questa riflessione riecheggia la voce di una donna.


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