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Atti del 1°Congresso OPIFER

"Prospettive relazionali in psicoanalisi"


La psicoanalisi e i suoi risultati

Psicoanalisi e ricerca empirica

Emilio Fava



Il problema del rapporto tra psicoanalisi e ricerca empirica ha due principali dimensioni. La prima dimensione riguarda la contrapposizione tra il modello utilizzato dagli psicoanalisti per affermare l'efficacia dei loro trattamenti e quello che normalmente viene usato nella ricerca medica per valutare l'efficacia dei trattamenti. Le metodologie di ricerca attuali infatti prevedono una serie di procedure codificate e condivise (studi controllati) che hanno un elevato livello di affidabilità. La scarsità di studi di questo tipo, in ambito psicoanalitico, ha come effetto la progressiva esclusione dei trattamenti psicoanalitici dalle linee guida per il trattamento dei disturbi mentali (Fonagy, 1998). Sono prevedibili quindi difficoltà sul piano del riconoscimento dell'utilità dei trattamenti psicoanalitici a livello delle strutture pubbliche , delle società di assicurazioni che pagano i trattamenti, dell'opinione pubblica e dei media nonché problemi medico-legali, qualora risultasse che il paziente non è stato curato con metodi di riconosciuta efficacia.
La seconda dimensione del problema riguarda invece la possibilità, utilità e opportunità di applicare metodi di ricerca scientifici al materiale di cui si occupa la psicoanalisi, nella prospettiva di migliorare la qualità e l'efficacia dei trattamenti.
A questo livello dobbiamo distinguere tra la posizione di chi sottolinea la specificità della teoria e della tecnica psicoanalitica e dei suoi oggetti e la posizione di chi a priori respinge la possibilità che le interazioni tra terapeuta e paziente, i fenomeni transferali, i cambiamenti delle rappresentazioni e le trasformazioni dei processi mentali possano essere descritti in termini confrontabili e riproducibili.
La prima posizione non solo mi sembra condivisibile, ma è anche necessaria perché qualsiasi scienza deve definire i suoi specifici oggetti, distinti dagli oggetti di altre scienze. E l'oggetto della ricerca empirica in psicoanalisi non può essere che la psicoanalisi stessa, così come è praticata nella realtà. Non rispettare questo principio vuol dire occuparsi di qualcosa d'altro.
La seconda posizione riflette invece una questione aperta. Chiarito che lo sviluppo di conoscenza nel processo psicoanalitico reale non può che seguire le regole dello "junktim" freudiano (Freni, 1999), regole che sono una componente intrinseca di questo processo ,che senso può avere l'introduzione di un terzo punto di vista, quello del ricercatore ?
Vorrei introdurre questa questione con alcune osservazioni che Winnicott fece, recensendo un lavoro di Bowlby. Winnicot (1953) scrive: "Secondo lui (Bowlby) ci si deve sforzare di presentare gli argomenti psicologici in forma statistica, perché chi è abituato alle pubblicazioni scientifiche possa apprezzare le affermazioni di chi di noi ha una mentalità clinica, tuttavia le statistiche"..."non hanno alcun valore se non sono basate su dati indiscutibili, e in effetti questi sono i dati più difficili da raccogliere nella nostra professione". Per fare una ricerca non esclusivamente clinica "occorre raccogliere dati indiscutibili" e la difficoltà della raccolta di questi dati è conseguente alla "mancata condivisione di una chiara e univoca definizione dei concetti utilizzati".
Il passaggio obbligato sembra quindi quello di stabilire prioritariamente definizioni molto accurate dei concetti utilizzati, che specifichino quali operazioni e passaggi vadano compiuti per arrivare a ritrovare e isolare, in modo affidabile e riproducibile, gli osservabili che corrispondono ai concetti stessi. Sostanzialmente si tratta di applicare quello che E. Nagel ha suggerito nel corso di un famoso Convegno su "Psicanalisi e metodo scientifico", nel 1958 (Hook, 1959) . Nagel sostiene che non vi è nulla di non scientifico nel fatto che i fenomeni di cui si occupa la psicoanalisi non siano misurabili direttamente, se è possibile individuare indicatori che corrispondano a ciò che non è direttamente osservabile e a patto che si stabiliscano "norme di correlazione" costanti e condivise tra gli indicatori e i concetti teorici cui si riferiscono.
Il problema della psicoanalisi, dal punto di vista scientifico, secondo Nagel, stava nel fatto che non vi fosse accordo tra gli psicoanalisti sul significato degli eventi osservabili. Lo stesso evento clinico poteva essere interpretato in molti modi diversi da clinici esterni senza criteri a priori, condivisi, che definiscano la probabilità che una valutazione sia più affidabile di un'altra. Da qui anche l'impossibilità di verifiche che potessero portare alla confutazione o falsificazione di un'ipotesi.
La difficoltà di operare verifiche dall'esterno, renderebbe possibile, in questa prospettiva, un'unica forma di verifica, quella interna, secondo appunto la regola dello Juktim. Questo sembra essere in contraddizione, se vogliamo essere rigorosi, con la pratica della supervisione ,della discussione sui casi e in definitiva della ricerca concettuale: solo l'analista in fondo sarebbe pienamente legittimato nel valutare il proprio operato.
La definizione di misure operative presuppone invece non solo la chiarezza dei concetti teorici, ma anche un certo livello di consenso sul modo di considerarli e di valutarli nel materiale clinico. Il punto di vista della ricerca empirica è quello che individua la necessità di descrizioni il più possibile accurate ,in grado di garantire un confronto su termini osservabili, possibilmente in grado di consentire la formulazione e la verifica di ipotesi.
Questo processo : definizione chiara di un concetto, individuazione di strumenti di misurazione, valutazione della validità e della sensibilità dello strumento, applicazione al materiale clinico per verificare ipotesi, è stato ed utilizzato intorno a numerosi concetti considerati fondamentali nel processo psicoanalitico come il transfert, l'alleanza terapeutica, il controtransfert, i meccanismi di difesa, le relazioni interpersonali tra terapeuta e paziente, i processi mentali e le funzioni riflessive.
Va comunque sottolineato che la trasformazione che si realizza in studi di questo tipo operazionalizzando i concetti naturalmente insaturi della psicoanalisi, è deformante. L'indicatore non può coincidere con ciò che è indicato, nello stesso senso un punto sul radar "indica" ma non "è" l'aereo che sta arrivando.
Se i ricercatori perdono di vista questo aspetto del problema viene perso il contatto col la ricerca clinica e con il corpus centrale delle conoscenze psicoanalitiche. Se gli indicatori diventano a loro volta concetti si fonda una nuova teoria e una nuova tecnica, derivate dalla psicoanalisi ma distinte da essa. Se invece gli indicatori mantengono il loro statuto epistemologico possono forse contribuire ad arricchire e a specificare le nostre conoscenze. In questa prospettiva il tema relazionale conflittuale centrale (CCRT) è considerato l'indicatore più affidabile attualmente disponibile rispetto ai processi transferali, ma non coincide con i fenomeni trasferali stessi. La scala dell'accuratezza delle interpretazioni è un buon indicatore della capacità del terapeuta di comprendere il paziente ed è correlata a esiti positivi, ma non misura tutti gli aspetti che rendono efficace un'interpretazione e quindi non può essere considerata una guida adeguata e sufficiente per la clinica. In pratica al momento di trarre delle conclusioni dai dati della ricerca dobbiamo compiere un operazione inversa a quella che ha portato a costruire gli strumenti di misurazione.
Mi sembra che questo stesso ordine di problemi venga affrontato con particolare accuratezza da A.U. Dreher (2000) nel suo libro "Foundations for conceptual research in psychoanalysis. Anna Dreher affronta, tra l'altro, il problema del rapporto tra ricerca empirica e ricerca concettuale attribuendo alla ricerca concettuale il duplice obbiettivo di definire con chiarezza i concetti psicoanalitici e di "ampliarne le basi probatorie empiriche clinicamente orientate ".
In questo lavoro inoltre Dreher non si pone solo dal punto di vista della riflessione sui fondamenti epistemologici e storici della ricerca in psicoanalisi, ma prefigura la questione fondamentale della relazione tra ricerca concettuale ed empirica e prassi terapeutica, cioè del rapporto tra teoria e competenza dell'analista. Il termine competenza, proposto da G. Giaconia (1998) , indica l'insieme di componenti che rendono lo psicoanalista in grado di affrontare i propri compiti. Uno degli aspetti della competenza dell'analista è la sua base teorica. La teoria dell'analista si basa sulla teoria viva appresa nell'analisi personale, dall'insieme di conoscenze teoriche scelte come riferimento e dalla disponibilità alle trasformazioni che si operano nella relazione con il paziente. La funzione specifica della teoria così intesa è -secondo Giaconia- quella di permettere la trasformazione di un'emozione dell'analista in una interpretazione. Il concetto di competenza ci permette di prefigurare dei modelli di ricerca che indaghino sul ruolo delle acquisizioni della ricerca concettuale ed empirica rispetto allo sviluppo delle capacità del terapeuta.
Questa riflessione potrebbe essere più fruttuosa se orientata non a definire l'identità dello psicoanalista, ma le condizioni che aumentano la sua possibilità di operare
trasformazioni terapeuticamente efficaci. In fondo mi sembra questa la questione centrale: la ricerca empirica, in psicoterapia, è in grado di fornire dei contributi utili a migliorare la qualità dei nostri trattamenti? Mi rendo conto che si pone già un primo problema relativo ai termini che ho usato "qualità" e "trattamento".
Il termine "trattamento " presuppone una concezione della psicoanalisi e delle psicoterapie derivate come atto terapeutico, cioè come metodo di cura, e in questo contesto il termine "qualità" va inteso come sinonimo di efficacia, efficienza e gradimento o soddisfazione del paziente.
Vi sono altri punti di vista , rispetto a quello che può essere il senso di un trattamento psicoanalitico, altrettanto rispettabili, però credo che sia necessario operare una scelta di campo se non si vuole oscillare un po' opportunisticamente da una concezione all'altra a secondo delle convenienze.
Considerare la psicoanalisi dal punto di vista del "metodo di cura" implica porsi il problema dell'efficacia e delle indicazioni comparative di trattamento e subordina la teoria della tecnica ai risultati ottenuti.
Non vi sono ancora dati definitivi rispetto ad una maggiore efficacia reale dei metodi di trattamento influenzati dalla ricerca empirica, rispetto ai metodi tradizionali di apprendimento. Per ora possiamo affrontare il problema del senso della ricerca empirica attraverso una esposizione delle linee di ricerca attualmente in corso, nella prospettiva di valutare il loro possibile impatto sulla competenza dei terapeuti nel duplice senso dell'effetto dell'acquisizione dei risultati della ricerca e di apprendimento di metodi derivati dalla ricerca stessa.

Linee di ricerca:

Studi che sviluppano misure operative dei principali concetti psicoanalitici e li applicano al materiale clinico. Studi psicometrici e di validazione.

Studi che confermano le asserzioni dei clinici e confutano sperimentalmente le critiche alla psicoanalisi, (senza dire nulla di nuovo).

Studi che evidenziano gli errori e le inadeguatezze possibili durante i trattamenti.

Studi che aprono nuove prospettive e/o chiariscono controversie storiche e conflitti tra scuole.

Studi che affrontano il problema delle indicazioni rispetto ad altre forme di terapia in rapporto alla quantità e qualità dei risultati, alla durata dei trattamenti e alle differenze tra i pazienti. Studi di efficacia e di efficacia reale (effectiveness).

Considerei qui, per affinità, anche il problema dei contributi delle altre scienze alla psicoanalisi (cfr. le osservazioni di D.De Robertis sulla situazione di isolamento della psicoanalisi rispetto ai contributi delle altre scienze.)

Un esempio di studi del secondo tipo è la confutazione sperimentale da parte di Luborskj delle tesi di Gruenbaum sul carattere indotto e artificiale di alcuni fenomeni che vengono descritti in analisi. Luborskj ha sviluppato un metodo affidabile per valutare i fenomeni transferali, secondo il paradigma freudiano: il metodo CCRT o del Tema Conflittuale Relazionale Centrale. Le corrispondenze sperimentali tra concetto e indicatore osservabile sono elevate ed è possibile concludere che il CCRT è un buon indicatore dei fenomeni transferali. Il transfert è inteso come modello relazionale disadattativo che si attiva nelle relazioni significative a partire dalle relazioni precoci, è preesistente al trattamento psicoanalitico, si manifesta intensamente durante il trattamento e si modifica nei trattamenti riusciti, riducendo la propria pervasività. Le rappresentazioni, preesistenti, del sé e degli altri si modificano nel corso dei trattamenti riusciti. Luborskj ha dimostrato che i modelli transferali - raccolti in forma CCRT- non sono indotti dal trattamento,come ipotizzato da da Gruenbaum, ma preesistono ad esso (Barber 1995, Andersen e Baum 1994).

Gli studi con il metodo CCRT ( trascuro quelli psicometrici) stanno mostrando la sostanziale validità del modello freudiano del transfert e l'importanza del suo riconoscimento da parte dell'analista all'interno dei trattamenti riusciti. Infatti vi è una correlazione tra riuscita di un trattamento e capacità del terapeuta di riconoscere le componenti dei modelli relazionali che compaiono nelle narrative del paziente.
Un'altra dimensione del processo psicoanalitico che gli studi empirici hanno messo in risalto, ancora una volta sulla base della correlazione con il buon esito del trattamento, è il concetto di alleanza terapeutica. Dimensione, questa, che ci sembra trascurata negli studi clinici. Il concetto di alleanza terapeutica è stato sviluppato, in ambito clinico da Zetzel nel 1956. Ella sostenne che in un'analisi riuscita il paziente oscilla tra periodi nei quali la relazione è dominata dal transfert e in periodi in cui la relazione è dominata dall'alleanza di lavoro. La componente non nevrotica della relazione terapeuta-paziente permette al paziente di usare l'interpretazione per operare delle distinzioni tra ciò che rimane delle passate relazioni e la relazione reale e attuale tra lui e il terapeuta. Distinguere, direbbe E. Codignola, tra il vero e il falso. Greenson sviluppò in modo più chiaro la dimensione di "lavoro" dell'alleanza terapeutica sottolineando la funzione di un'intenzionalità consapevole nella direzione del cambiamento e di una condivisione almeno parziale del modello di lavoro proposto dall'analista.
In tutta un'altra linea di pensiero - Greenacre (1968), per esempio - il termine transfert definisce l'intera relazione tra paziente e terapeuta, superando qualsiasi distinzione tra alleanza e transfert. L'alleanza non è necessaria in un trattamento psicoterapico e tanto meno sono necessari interventi all'interno o all'esterno del trattamento che la sostengano. Brenner (1979) e Curtis (1979) pensano che un costrutto come quello dell'alleanza terapeutica possa essere deviante, in particolare rispetto alla analisi di resistenze celate sotto aspetti collaborativi, razionali e di identificazione con l'analista.
La questione della indipendenza tra interpretazione e alleanza terapeutica come fattori terapeutici distinti, che naturalmente contribuiscono nel loro insieme alla riuscita del trattamento, ha assunto una notevole importanza dopo che studi empirici sembrano mostrare che le dimensioni dell'alleanza e dell'interpretazione sembrano non interagire, ma funzionare indipendentemente, appunto come fattori terapeutici distinti (Svartberg e Stiles 1994).
Contemporaneamente altre ricerche hanno messo in evidenza il valore predittivo del costituirsi dell'alleanza di lavoro sin dalle prime fasi del trattamento.( Luborskj, Dazord e Gerin,.,Orlinskj, Horvath).
Fava et al.(2000) e Lingiardi (1999) in Italia hanno valutato le correlazioni tra alleanza terapeutica e le interruzioni precoci e non concordate del trattamento.
La ricerca empirica suggerirebbe quindi un'attenzione particolare allo sviluppo e al sostegno nelle terapie di alcuni aspetti della relazione terapeuta-paziente non iscrivibili al campo del transfert né al campo della relazione reale tout court ma focalizzati sulla capacità del paziente e del terapeuta a collaborare tra di loro su obiettivi condivisi.
A questo proposito vorrei aprire una parentesi clinica relativa alle mie esperienze di rianalisi o nel contesto di colloqui con pazienti provenienti da trattamenti non riusciti.
In questi casi i pazienti spesso non sanno rispondere a domande del tipo: che cosa è emerso dalla sua precedente analisi? Cosa ha compreso di sé, quali problemi?
Ciò mi sembra indicativo di un ruolo passivo che ricorda quel famoso caso descritto da Greenson (1965) in cui il paziente richiesto di dire il proprio nome risponde Raskolnikov, avendo inteso, per tutto il trattamento precedente, infelicemente concluso, che il suo compito era solo quello di produrre libere associazioni.
Quest'ultima osservazione ci rimanda a quella che ritengo una delle principali punti di interesse della ricerca empirica cioè le ricerche sugli "errori" dei terapeuti.
Ho sempre avuto l'impressione che sia sottovalutato il problema del livello medio dei trattamenti che vengono erogati e degli errori compiuti dai terapeuti mentre venga grandemente sopravvalutato il potere terapeutico di modeste ridefinizioni teoriche. Mentre ci perdiamo nella contemplazione di affascinanti aurore teoriche, siamo sicuri di non inciampare in errori relativamente banali e "datati", ma a cui non porgiamo sufficiente attenzione?
Se come abbiamo visto la corrispondenza tematica tra gli interventi del terapeuta e i temi conflittuali relazionali centrali del paziente che compaiono nelle sue narrazioni, non è condizione sufficiente per definire, sul piano clinico, l'adeguatezza delle interpretazioni, il mancato riconoscimento tematico si correla in modo statisticamente significativo con esiti peggiori e drop out. Essa è quantomeno un indicatore di qualcosa che non funziona negli orientamenti interpretativi del terapeuta.
Dal punto di vista della ricerca empirica l'alleanza terapeutica e il riconoscimento dei modelli interpersonali del paziente, colti in una cornice transferale nel senso freudiano, sembrano costituire una base non rinunciabile in rapporto all'efficacia dei trattamenti.
L'interesse dei teorici e dei clinici negli ultimi tempi si è spostato sulla relazione reale tra terapeuta e paziente, nella prospettiva intersoggettiva, non più in una prospettiva intrapsichica.
Le risposte e gli stili interpersonali di paziente e terapeuta sono state studiate con diversi strumenti, in particolare con il metodo SASB di L. Benjamin e W.Henry, che si fonda sul modello interpersonale e che permette una valutazione affidabile, momento per momento, della relazione tra terapeuta e paziente. Potremmo dire che SABS sta alla prospettiva intersoggettiva come CCRT sta alla prospettiva intrapsichica.
La riuscita del trattamento è apparsa correlata alla capacità del terapeuta di mantenere un assetto relazionale coerente e complementare a quello del paziente su un versante che va da un controllo affettuoso, ad un "dare autonomia" a seconda dei bisogni del paziente in quel momento. Non sempre nella pratica questo si verifica, non è infrequente osservare, nei trattamenti meno riusciti, atteggiamenti relazionali del terapeuta non complementari o contradditori, cioè di tipo complesso.
Ad esempio comunicazioni - nel senso ampio del termine - che contengono atteggiamenti di controllo sadico o un disinteresse distanziante insieme ad atteggiamenti relazionalmente più adeguati.
Anche a questo livello il problema dell'adesione teorica ad un modello non va confuso con la capacità di operare coerentemente con il modello stesso, cosa che probabilmente presuppone un tipo di investimento differente e un diverso tipo di funzionamento mentale da parte del terapeuta.
Le prospettive future che io vedo riguardano la possibilità di studiare il peso reciproco e l'interdipendenza dell'intervento interpretativo, "corretto", rispetto allo sviluppo di una "adeguata" relazione reale con il paziente, in una prospettiva che tenga conto, sulla base dei risultati delle ricerche, sia della prospettiva intrapsichica che di quella intersoggettiva.
Il cenno fatto precedentemente all'assetto mentale del terapeuta ripropone il tema del controtransfert
La valutazione del controtransfert: sulla base di idee di Heimann, Peterfreund, Kerberg, e soprattutto Racker, è stato costruito un modello di ricerca alla valutazione dei fenomeni controtransferali (CRS.Countertransference Rating System).
Il sistema riprende la distinzione operata da Racker che differenzia tre specifici livelli di complessità con cui si esprime il controtransfert: pensieri controtransferali, posizioni controtransferali e dinamica transfert- controtransfert. Tutti e tre i livelli possono esprimersi in una o più dimensioni, chiamati stati controtransferali: oggettivo-razionale, reattivo o riflessivo.
La dimensione reattiva corrisponde alla partecipazione inconsapevole e inconscia al processo. Le altre due posizioni implicano gradi diversi di partecipazione emotiva e di consapevolezza, Tra le applicazioni di questo modello vi sono studi sull'influenza dell'orientamento teorico e dell'esperienza sulla gestione del controtransfert.
Psicoterapeuti cognitivisti, per esempio, tendono a muoversi nella dimensione oggettiva-razionale, mentre gli psicoanalisti nella dimensione riflessiva, ma anche più facilmente in quella reattiva. Bouchard e Normandin (1993) nei loro studi sul controtransfert hanno individuato livelli insolitamente elevati di controtranfert reattivo (controagiti) da parte di psicoanalisti esperti, rispetto a quello di colleghi più giovani.
Infine vorrei citare - ma solo per completezza per non appesantire la relazione- il modello di analisi delle funzioni del pensiero proposto da Howard e Miriam Steele, Mary Target e Peter Fonagy , a partire dal concetto di "funzioni riflessive" che si riferisce a quei processi psicologici sottostanti la capacità di mentalizzare. Questa linea di ricerca risente delle influenze della psicologia cognitiva e dello sviluppo, ma anche del pensiero di M.Klein e soprattutto di W. Bion. E gli studi sui meccanismi di difesa (Perry)
Ho tentato di dare un'idea generale, anche se approssimativa delle linee di sviluppo della ricerca empirica. Vorrei chiarire che non ritengo definitivi i risultati esposti, gli studi clinici sono ancora pochi e vanno replicati: c'è molto lavoro ancora da fare .

Bibliografia

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