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Atti del 1°Congresso OPIFER

"Prospettive relazionali in psicoanalisi"


Nuove letture del soggetto nell'ottica del concetto di relazione

L'incontro con l'altro nella psicologia di C.G. Jung

Giuseppe Maffei



Ritengo che per introdurre la problematica relativa all'incontro con l'altro, presente nell'opera di Jung, sia opportuno porre innanzitutto in luce alcune caratteristiche della sua vita psichica e della sua personalità così come esse ci appaiono a partire dalla lettura di quell'opera autobiografica straordinaria ma tutto sommato poco conosciuta che è "Ricordi sogni e riflessioni", pubblicata nel 1961.
Alcuni capitoli di questa autobiografia sono stati scritti dallo stesso Jung, altri sono stati invece ricavati da documenti rari e da
conversazioni con la sua collaboratrice Aniela Jaffé. Il primo capitolo inizia con un'affermazione molto pregnante e a partire dalla quale è possibile iniziare a riflettere.
"La mia vita, scrive Jung, è la storia di un'autorealizzazione dell'inconscio"
Questa frase, oggi che conosciamo l'autoregolazione dei fenomeni caotici e le teorie della complessità, appare ricca di risonanze e di impliciti possibili sviluppi teorici. Alcuni autori hanno del resto sostenuto che la teoria junghiana è particolarmente interesante proprio a causa delle sue somiglianze con la teoria della complessità ed hanno ritenuto che ciò cui Jung si è riferito quando ha parlato dell'autorealizzazione dell'inconscio sia proprio quel processo autoregolatore che oggi sappiamo determinare l'organizzazione dei fenomeni caotici. Secondo questo modo di pensare ciò che viene sperimentato come altro potrebbe essere considerato da questo punto di vista come provocante dei fenomeni caotici e questi sarebbero successivamente soggetti a un processo appunto autoregolatore. Si tratta di ipotesi molto interessanti ma che lascerei per il momento del tutto laterali, cercando invece di esplicitare nel miglior modo possibile, anche attraverso brevi citazioni, l'esperienza vissuta cui l'incipit di Jung fa riferimento.
"Tutto ciò che si trova nel profondo dell'inconscio, prosegue Jung, tende a manifestarsi al di fuori, e la personalità, a sua volta,
desidera evolversi oltre i suoi fattori inconsci che la condizionano, e sperimentare se stessa come totalità. Non posso usare un linguaggio scientifico per delineare il procedere di questo sviluppo in me stesso, perché non posso sperimentare me stesso come un problema scientifico.
Che cosa noi siamo per la nostra visione interiore, e che cosa l'uomosembra essere sub specie aeternitatis, può essere espresso solo con un mito. Il mito è più individuale, rappresenta la vita con più precisione della scienza"
Se facciamo attenzione ad alcune delle frasi usate, "autorealizzazione dell'inconscio", "procedere di uno sviluppo in sé stesso", "tendenza a manifestarsi al di fuori", queste mettono già in evidenza il fatto che Jung, nella sua vita psichica, dovette confrontarsi con la presenza al suo interno di un'alterità che si manifestava, potremmo dire, come provvista di una sua propria intenzionalità. Le espressioni ora usate mettono cioè in luce che molti dei contenuti psichici della vita psichica di Jung vennero da lui stesso avvertiti come provenienti da qualcosa che agiva al suo interno, che era diverso dalla sua coscienza e che si presentava come provvisto di una propria autonomia. In fondo, lo possiamo ricordare, la differenza teorica più profonda tra Jung e Freud (il primo Freud, quello che Jung ha conosciuto) consisté proprio nel fatto che Jung considerò l'inconscio come fonte primigenia, originaria della vita psichica, mentre Freud lo considerò invece come costituentesi intorno a un materiale psichico primariamente o secondariamente rimosso.
La tendenza a manifestarsi al di fuori dell'inconscio era per Jung una tendenza sorgiva, spontanea, per il primo Freud era invece concepita come legata a un ritorno del rimosso.
Per dare un'idea il più possibile precisa di questo continuo confronto della coscienza di Jung con un "altro" interno provvisto di un suo proprio potenziale di sviluppo citerò direttamente alcune sue frasi.
"... c'era sempre, nel mio intimo, scrive, la sensazione della presenza di qualche cosa di diverso da me stesso: come un soffio che
spirasse dal grande mondo delle stelle e dallo spazio infinito, o come uno spirito invisibile -lo spirito di qualcuno scomparso da molto tempo, eppure eternamente presente, fin nel lontano futuro. Pensieri di tale sorta erano circondati da un'aureola luminosa" (p. 86).
Oppure: "Perché Dio era evidente per me? Perché questi filosofi pretendevano che Dio fosse un'idea, una specie di arbitraria supposizione che essi potevano generare o no, quando era così chiaro che Egli esiste, evidente quanto un mattone che ci cade in testa?" (p. 82).
O anche: "... quando mi inculcavano i precetti religiosi e mi dicevano "Questo è bello, e questo è buono", solevo pensare tra me: "Si, ma c'è qualche altra cosa, una cosa assai segreta di cui nessuno sa niente"" (p. 41).
E infine: "Posso farmi ingannare per un pezzo, quando non voglio riconoscere qualcosa, eppure in fondo so benissimo come le cose stiano realmente. A tal riguardo sono un po' come un cane: gli si possono giocare dei tiri, ma alla fine il suo fiuto non l'inganna. Questo "intuito" dipende dall'istinto o da una "participation mystique" con gli altri, come se l'"occhio interiore" vedesse con un atto di percezione impersonale" (p. 70).
Sono citazioni, queste, che potrebbero essere moltiplicate. E in tutte ritroveremmo la presenza, all'interno, di qualcosa di inquietante, potente e sostanzialmente misterioso. Di fronte alla potenza di questi contenuti psichici "altri" Jung avrebbe potuto reagire come molte persone fanno, avrebbe potuto tentare di considerarli soltanto come frutto di un'eccessiva fantasia oppure cercare di rimuoverli o di negarli. Avrebbe potuto anche esserne sopraffatto, avrebbe potuto cioè arrendersi a un'efflorescenza di intuizioni e di fantasmi provenienti da una zona di sé misteriosa e selvaggia. Secondo quanto racconta in "Ricordi sogni rilessioni" egli scelse invece o, per meglio dire, fu necessitato a scegliere la via del confronto. Scelse cioè di prenderli sul serio e di provare a capirne il significato. E attraverso questa scelta giunse così a scoprire che questo "altro" interno, che questi contenuti psichici oltre che inquietanti e terrifici potevano essere anche portatori di soluzioni e di crescita psichica. Lo si vede bene questo movimento in un'altra opera straordinaria e poco conosciuta di Jung, i "Septem sermones ad mortuos" un breve scritto visionario scritto nel 1916 e di cui, in "Ricordi sogni riflessioni" è descritta la genesi. Jung si trovava, ci dice, in un momento critico del suo sviluppo. La rottura con Freud lo aveva lasciato solo con se stesso e Jung temeva di non essere capace di uscire dalla situazione di sofferenza psichica e di disorientamento in cui si trovava. Temeva di essere sopraffatto.
"Ero inerme, scrive, di fronte a un mondo estraneo, dove tutto appariva difficile e incomprensibile. Vivevo in uno stato di continua tensione, e spesso mi sentivo come se mi cadessero addosso enormi macigni.
Le tempeste si susseguivano, e che potessi sopportarle, era solo questione di forza bruta. Per altri hanno rappresentato la rovina:
così per Nietzsche, Hölderlin, e molti altri. Ma in me c'era una forza demoniaca, e mi convinsi fin da principio di dover cercare a ogni costo il significato di ciò che sperimentavo in queste fantasie" (p. 204).
"Finché riuscivo a tradurre le emozioni in immagini, e cioè a trovare le immagini che in esse si nascondevano, mi sentivo interiormente calmo e rassicurato.
Se mi fossi fermato alle emozioni, allora forse sareistato distrutto dai contenuti dell'inconscio" (p. 205).
"Per poter cogliere le fantasie che mi sollecitavano dal "sottosuolo", dovevo, per così dire, sprofondarmi in esse: cosa che provocava in me non solo una violenta opposizione, ma una vera paura. Temevo di perdere il controllo di me stesso e di divenire preda dell'inconscio, e, quale psichiatra, sapevo fin troppo bene che cosa ciò volesse dire" (p. 206).
E infine il momento più duro: "La domenica, verso le cinque del pomeriggio, il campanello del portone di casa si mise a suonare pazzamente. Era un giorno chiaro d'estate, e le due domestiche stavano in cucina, da dove si poteva vedere tutta la piazza antistante la casa. Io stavo seduto non lontano dal campanello, e non solo l'avevo sentito suonare, ma l'avevo visto muovere. Tutti corsero immediatamente alla porta per vedere chi fosse, ma non si vide nessuno. Ci limitammo a guardarci in faccia: l'atmosfera era greve! Allora capii che doveva accadere qualcosa. Tutta la casa era come abitata di una folla di gente, come se fosse stipata di spiriti. Si affollavano fin sotto la porta, e si aveva la sensazione di poter respirare a fatica. Ero naturalmente tormentato dalla domanda: "Per amor di Dio, di che mai si tratta?" Allora in coro gridarono: "Ritorniamo da Gerusalemme, dove non abbiamo trovato ciò che cercavamo".
Queste parole corrispondono alle prime righe dei Septem Sermones ad Mortuos" (pp. 218-9).
Jung scrive allora, in pochi giorni, i "Septem sermones" e dà voce, in questa scrittura, a questi "spiriti". Appunto né li rimuove né se ne lascia sopraffare; dà invece loro una voce. Si confronta, possiamo dire, con il suo immaginario. E quello che gli "spiriti" portano da Gerusalemme è una per lui nuova verità psicologica, una verità che esprime in termini gnostici: la creatura è radicalmente diversa dal Pleroma. Pleroma e creatura sono termini che Jung media appunto dalla gnosi in cui Pleroma indica, molto sinteticamente, un universo di perfezione e di pienezza. La novità che gli spiriti portano da Gerusalemme consiste quindi nell'affermazione che l'essere individuale, la creatura ha un suo valore indipendente da quello della perfezione e della pienezza dell'universo. Credo che per ben comprendere questo messaggio degli spiriti occorra tradurre quanto ora detto in termini cui siamo maggiormente abituati, pensare cioè all'esperienza che noi talora facciamo durante l'analisi di persone per le quali la vita soggettiva e l'individualità hanno pochissima importanza, di persone che sono abitate da un ideale talmente grandioso di perfezione che, a suo confronto, la propria singolarità, la propria possibile piccola vita non possono essere pensate come provviste di un qualche valore. A un certo punto, talora, queste persone che grosso modo possono esere dette narcisistiche, riescono a scoprire che hanno valore, che possono essere amate, ma non a causa della loro grandiosità, a causa invece anche di loro caratteristche individuali e di loro difetti. Non è vero che conta solo la loro immagine ideale, quello che conta è proprio, invece, ciò che loro sono. Per capire il passaggio che Jung descrive indipendentemente dal linguaggio gnostico, possiamo riferirci così a quelle poche o tante volte in cui abbiamo assistito, in modo emozionale, alla nascita di un vero sé a partire da un falso sé. Si tratta di momenti o di periodi molto emozionanti: al di sotto della grandiosità dei suoi rivestimenti appare un piccolo essere umano, una piccola creatura, piccola ma ricca di significato umano.
Lasciamo per ora l'esperienza psicologica di Jung e veniamo alle sue teorie.
Va innanzitutto detto che una delle idee forti di Jung consisté nel ritenere che le teorie psicologiche riflettono sempre, in qualche modo, i problemi di coloro che creano le stesse teorizzazioni. I risultati dell'osservazione rivelano sempre anche il punto di vista
dell'osservatore. Dati osservativi veri e propri, puri, non esistono.
Coerentemente a questa concezione di Jung si può così ragionevolmente sostenere che tutta la sua opera contenga un continuo riferimento al suo problema centrale, il continuo presentarsi alla sua coscienza del suo inconscio. Voglio dire che la sua teorizzazione può essere anche considerata come quella di un uomo che ha osservato la psiche dal punto di vista di chi ha dovuto confrontarsi personalmente, in tutta la sua esistenza, con un'alterità interna che tende a manifestarsi e che appare provvista di una sua potenziale capacità di sviluppo autonomo. I suoi studi relativi allo gnosticismo, alla simbologia alchemica, alla simbologia delle religioni orientali e del cristianesimo sono stati psicologicamente motivati, credo, da un tentativo di conoscere e di comprendere tutti quei fenomeni psichici che dimostravano la presenza di un processo autonomo di sviluppo anche al di fuori di sé. La grandissima erudizione di Jung, il suo avere spaziato in tanti campi del sapere hanno avuto una molla in questa urgenza determinata dal presentarsi alla sua coscienza di contenuti psichici imprevisti e inquietanti. Lo studio dell'evoluzione dell'immaginario altrui, personale e collettivo, gli permetteva di conoscere sempre di più l'esistenza e le modalità di questo processo.
Jung giunse così a parlare di un processo di individuazione e a ritenere che questo fosse particolarmente caratterizzato dal possedere una mèta, rappresentata, questa, dalla costituzione di un Sé concepito sia come totalità (un'estensione che comprende il conscio e l'inconscio) sia come centro della stessa totalità. Il Sé sarebbe il centro di questa totalità, come l'io sarebbe il centro della coscienza. Tendere a uno sviluppo del proprio Sé non vorrebbe naturalmente dire tendere a un semplice egocentrismo.
"... il Sé, dice Jung, racchiude in sé infinitamente di più che un Io soltanto. ...: esso è l'altro o gli altri esattamente come l'Io.
L'individuazione non esclude ma include il mondo" (Jung 1947/54, p. 243).
Laddove sia possibile il raggiungimento di questa mèta, la psiche
umana, riconoscendo di non essere fondata solo su di sé, ma di essere frutto di un processo, di un movimento che la trascende, raggiungerebbe così il suo massimo sviluppo. Questa concezione junghiana del Sé è una concezione difficile. La parola "sé" ha poi del resto un alone semantico tanto vasto da renderne l'uso origine di molti malintesi.
Ritengo che per ben comprendere la specificità del Sé junghiano si possa porre come particolarmente significativa l'affermazione di Jung che l'uomo che ha raggiunto questa mèta (mèta difficilmente raggiungibile) giunge a sperimentarsi e a conoscersi sub specie aeternitatis. Cosa significa? Credo che Jung voglia dire che al punto finale del suo sviluppo psichico l'uomo può raggiungere la possibilità di uno sguardo che gli permette di vedere se stesso, gli altri e il mondo con una certa oggettività, di vedere con chiarezza che ciò che esiste è qualcosa di non conosciuto, pertanto anche un vuoto, di cui ogni esistenza personale individuata è da un lato la realizzazione e dall'altra un epifenomeno.
In una delle frasi citate all'inizio, Jung ha parlato di un occhio interiore che potrebbe vedere con un atto di percezione impersonale.
"La cosiddetta "fine" è il confronto dell'io con il "vuoto" del centro. Qui è raggiunto il limite della possibile esperienza; l'io come punto di riferimento cognitivo si dissolve" (1975, p. 259).
"La vita mi ha sempre fatto pensare a una pianta che vive del suo
rizoma. Ciò che appare alla superficie della terra dura solo un'estate, e poi appassisce, apparizione effimera. Quando riflettiamo sull'incessante sorgere e decadere della vita e delle civiltà, non possiamo sottrarci a un'impressione di assoluta nullità: ma io non ho perduto il senso che qualcosa vive e dura oltre questo eterno fluire.
Quello che noi vediamo è il fiore, che passa: ma il rizoma perdura" (1961, p. 22).
Ciò che Jung chiama Sé, o per meglio dire, l'esperienza che l'uomo può avere del Sé risulterebbe pertanto avere a che fare, specie per il riferimento al vuoto, con l'indicibile esperienza mistica. Ma questo discorso sulla mistica ci porterebbe troppo lontano.
Prima di procedere verso il significato, nella psicologia analitica,
dell'incontro con gli altri, tema più specifico di questo intervento, è interessante e utile interrogarsi, facendo riferimento a "Sogni ricordi riflessioni", su quale chiave di lettura possa fare comprendere i motivi per cui Jung dovette confrontarsi, durante tutto il corso della sua vita, con l'alterità interna cui abbiamo fatto cenno.
L'evidenziazione di questa chiave di lettura è, io credo, di un certo interesse clinico perché ciò che Jung mette in luce della genesi della propria personalità, del funzionamento del proprio apparato psichico, data la finezza e l'accuratezza dellla sua autosservazione, può permettere di conoscere meglio la vita psichica di tutte quelle persone che, come Jung, non riescono a vivere soltanto per vivere ma che hanno la necessità di avere o di dirsi di avere come scopo una realizzazione del proprio sé.
Se prendiamo in considerazione ciò che Jung ci rivela a proposito delle caratteristiche della sua vita psichica, della necessità di un confronto con l'altro interno e di una realizzazione di sé e infine del suo rapporto con i genitori, se prendiamo in considerazione tutto ciò alla luce delle conoscenze che sono state oggi acquisite nei riguardi, specialmente, delle connessioni del funzionamento mentale dei figli con il funzionamento mentale dei genitori, quanto fin qui detto può essere letto in un modo sufficientemente coerente e probabile.
I rapporti che Jung ebbe con il padre e la madre furono rapporti, tra di loro molto diversi. A proposito della madre Jung scrive: "Di giorno era ... amorevole, ma di notte mi appariva inquietante: era come una di quelle veggenti che sono al tempo stesso uno strano animale, come una sacerdotessa nella grotta di un orso. Arcaica e spietata; spietata come la verità e la natura. In tali momenti era la personificazione di ciò che ho chiamato natural mind "mente naturale"" (1961, pp. 68-70), quella mente che nel Seminario sulla "Interpretazione delle visioni",
Jung definirà poi come quella mente "che scaturisce direttamente dalla natura, e non dalle opinioni accolte dai libri; zampilla dalla terra come una sorgente naturale, e porta con sé la saggezza propria della natura" (ibidem, p. 106). "... non era cosciente di ciò che diceva, era come se una sua voce, che esercitasse un potere assoluto, dicesse esattamente ciò che si addiceva alla situazione" (ibidem, p. 71).
Giungevano dei momenti, scrive ancora Jung, "nei quali la sua seconda personalità si manifestava liberamente e ciò che diceva in tali occasioni era così vero e talmente a proposito che mi sconvolgeva: se solo avessi potuto fissarla per sempre in tali momenti, avrei avuto un interlocutore meraviglioso" (p. 72). "Naturalmente non potevo parlare con nessuno di queste cose: non conoscevo nessuno a cui potessi comunicarle, ad eccezione forse di mia madre, che mi pareva seguisse anch'essa un corso di pensieri simili al mio. Ma presto mi accorsi, parlando con lei, che non faceva al caso mio. Il suo atteggiamento nei miei riguardi era innanzi tutto di ammirazione, e per me non era un bene. Così, restai solo con i miei pensieri..." (pp. 79-80).
A fronte di questa madre stava un padre, pastore protestante, pieno di dubbi e di incertezze, insicuro di sé e dei propri pensieri.
"Quando lo sentivo predicare sulla grazia, pensavo sempre alla mia personale esperienza, e ciò che diceva mi pareva vuoto e trito, come una storia raccontata da chi la conosce solo per sentito dire, senza crederci veramente. Volevo aiutarlo, ma non sapevo come; per di più ero troppo timido per parlargli della mia esperienza, o per immischiarmi delle sue preoccupazioni personali (pp. 62-63).
Ho citato direttamente queste frasi per dare un breve cenno del materiale a proposito del quale è possibile proporre una lettura interpretativa. Nella psiche di Jung, da una parte esisteva una possibilità di piena condivisione con i vissuti della madre, dall'altra un rapporto distante e molto poco significativo con il padre.
Si può così sostenere che il linguaggio così profondamente condiviso con la madre non abbia trovato, in Jung, la possibilità di essere catturato da una rete di significanti paterni capace di dare struttura e forma all'esperienza di tipo profondamente fusivo vissuta appunto nel rapporto con la madre. Si può emettere insomma l'ipotesi che la presenza così fondamentale, nella vita psichica di Jung, di un altro interno sia nata in un ambiente in cui la funzione normativa del padre non poté esercitarsi nella sua pienezza. I pensieri e le fantasie autonome, inquietanti a causa della loro estraneità dalla coscienza svolsero la funzione, con ogni probabilità, di mantenere Jung in contatto con un fondo originario materno, una "mente naturale" cui Jung ha avuto necessità di attingere continuamente. Si può anche pensare che l'immagine di mèta dello sviluppo psichico, il raggiungimento di una totalità e unità psichica chiamata Sé abbia avuto a che fare con la nostalgia di una fusione primaria con la madre. La totalità e l'unità del Sé, punto di arrivo del processo di individuazione potrebbero richiamare la totalità e l'unità del rapporto primario con la madre.
Nell'esperienza psicologica e nella teoria di Jung, punto di partenza e punto di arrivo si rimandano del resto continuamente l'un l'altro.
Proviamo a riassumere. All'inizio e durante la sua vita Jung dovette
confrontarsi con un misterioso altro interno. Apprese una possibilità di confronto che gli permise di uscire da una pericolosa fascinazione da parte di contenuti inconsci molto potenti. Necessitato a questo confronto per motivazioni psicologiche dedicò poi gran parte della sua vita allo studio di questa alterità che aveva abitato il suo mondo interno e ritenne di trovarla testimoniata oltre che nell'immaginario dei suoi pazienti anche nelle più lontane manifestazioni dell'immaginario collettivo. Dalla somma di queste osservazioni trasse conclusioni teoriche secondo le quali era possibile pensare che lo sviluppo in gran parte inconscio della psiche umana, possedesse, in ogni uomo ed anche a livello collettivo, una mèta rappresentata dal Sé e sostanzialmente caratterizzata non solo da una totalità di conscio e inconscio ma anche dalla possibilità di osservarsi sub specie aeternitatis. In ogni uomo la mèta dello sviluppo psichico sarebbe comunque altamente individuale e il compito principale di ogni uomo consisterebbe appunto nel cercare di raggiungere questa mèta.
"Individuazione, scrive, significa diventare un essere singolo e, intendendo noi per individualità la nostra più intima, incomparabile e singolare peculiarità, diventare noi stessi, realizzare il proprio Sé" (1961, p. 425).
La più specifica peculiarità umana sarebbe dunque la realizzazione del proprio Sé.
Spero che questo rapido excursus, questa rapida sintesi consenta ora di affrontare con profitto il problema più importante, il tema dell'incontro con l'altro. Che ruolo hanno in tutto questo processo gli altri, da un lato i piccoli altri da cui siamo stati concepiti e
dall'altro i piccoli altri con cui condividiamo la vita? E' un problema questo che, come già detto, non riguarda soltanto la psicologia analitica ma anche tutte quelle scuole psicoanalitiche che hanno dato rilievo alla nozione di sé. Le differenze tra le varie concezioni sono molto grandi, ma quando si legge in Kohut che il compito primario dell'uomo potrebbe essere "la realizzazione, attraverso le sue azioni, dello schema della sua vita" presente nel sé nucleare (Kohut 1977) si può ben capire come il rapporto tra realizzazione di sé e rapporti con gli altri sia cruciale anche al di fuori della psicologia analitica. Secondo Eagle, che, come è noto, è un critico di Kohut, nella psicologia di Kohut ciò "che veramente rende la vita degna di essere vissuta è lo sviluppo di valori e ideali stabili, il perseguimento e il raggiungimento di ambizioni informate e motivate da questi valori e ideali insieme alle proprie capacità, e il conseguimento di un'autostima grazie a questi valori, ideali e ambizioni. ... queste attività e risultati sono soprattutto attività e risultati ottenuti da soli. Nella teoria di Kohut gli altri sono necessari dal punto di vista eziologico e dello sviluppo, in quanto forniscono il rispecchiamento e la possibilità di idealizzazione indispensabili per lo sviluppo di un Sé coesivo e per la fluida trasformazione della grandiosità arcaica in un "sano narcisismo".
Ma una volta che gli altri hanno svolto il loro ruolo, il sano
narcisismo -che il genio e/o l'eroe possiedono per eccellenza- permette di partire da soli per adepiere ciò a cui è chiamata la propria vita" (p. 53).
La stessa critica di Eagle a Kohut potrebbe essere rivolta anche a Jung. Dell'opera di Jung, da questo punto di vista, si possano dare infatti due letture, la prima delle quali richiama la precedente lettura di Kohut da parte di Eagle.
Si può infatti pensare che Jung possa essere visto come un autore che ha considerato gli altri, prevalentemente, come strumenti della realizzazione del Sé.
"Il processo ha per senso e meta la realizzazione della personalità originariamente contenuta nel germe embrionale in tutti i suoi aspetti" (1917/1943, p. 111).
Gli altri potrebbero essere considerati così, soltanto, come occasione di uno sviluppo implicito nel germe embrionale. Possiamo considerare meglio questo problema esaminando il ruolo, nello sviluppo psicologico, del ritiro delle proiezioni. Lo sviluppo del Sé necessiterebbe infatti, secondo Jung, di un ritiro delle proiezioni. Molti contenuti psichici sarebbero infatti proiettati al di fuori della psiche e perché possa avvenire un'evoluzione nella direzione di uno sviluppo del Sé, occorrerebbe che tali contenuti fossero ritirati e integrati, prima, all'interno della personalità. Possiamo fare l'esempio dei contenutipsichici relativi al genere e alla bisessualità. Un maschio (per la donna varrebbe lo stesso discorso rispetto al maschile interno) possiederebbe sempre un femminile interno, ma questo apparirebbe sotto forma di proiezione nella donna amata. Nel corso del processo di individuazione sarebbe appunto opportuno che questa proiezione fosse ritirata. L'uomo si potrebbe sviluppare in un senso individuativo solo assumendo su di sé le qualità del femminile che aveva proiettato. Dal punto di vista del processo di individuazione e dello sviluppo del Sé si
potrebbe cosi arrivare a pensare che la donna reale sulla quale è stato proiettato il femminile interno svolga la sola funzione di consentire vuoi la proiezione vuoi il suo ritiro. In questa visione delle cose l'uomo è sostanzialmente solo con il suo inconscio, solo con il suo compito che è quello di trovare un equilibrio tra coscienza e altro interno. Mi sembra di poter affermare con sufficiente certezza che sia lo stesso Jung che molti dei suoi eredi abbiano corso il rischio di assumere proprio questa posizione.
I problemi relativi al ritiro delle proiezioni sono problemi di grande importanza e di grande complessità. Il meccanismo proiettivo è probabilmente inesauribile, ma da un punto di vista teorico, dove porta il ritiro di tutte le proiezioni se non nella direzione di una
solitudine dell'uomo destinato ad essere appunto solo con il proprio
altro interno? Narciso è diventato un fiore, un bel fiore, ma ha perso le gambe, le braccia e la capacità di muoversi.
Della psicologia analitica di Jung esiste però, come ho già accennato, un'altra possibile lettura. Si può infatti sostenere che il ritiro delleproiezioni pone l'altro sempre in un suo al di là. Voglio dire che se la mia conoscenza di x è legata alle proiezioni che io vi compio, x nella sua realtà si trova in un al di là delle proiezioni stesse. X è inconoscibile, ma esiste. L'alterità dell'altro interno e l'alterità dell'altro esterno mettono in confronto con un'esperienza simile. Lo sviluppo della coscienza ha portato infatti la coscienza stessa a sapere che l'altro, sia interno che esterno, non è radicalmente riconducibile alle proiezioni che possiamo inviarvi. L'esperienza dell'alterità
interna conduce in Jung alla possibilità di concepire anche un'alterità esterna. Ed è la consapevolezza di una posizione umana comune di fronte all'alterità che può essere la base, il fondamento di una non solitudine. La solitudine di ogni essere può stemperarsi nella consapevolezza del fatto che la solitudine è comune.
La vera relazione viene affidata così alla consapevolezza. Ci sono le relazioni. La nostravita è affidata alle relazioni, alle relazioni basate sui meccanismi introiettivi e proiettivi. Il lavoro psicologico disfa questi meccanismi e ci pone di fronte alla nostra fondamentale solitudine. Ma la coscienza sa che non solo il soggetto, ma che anche gli altri sono soli. "Soli" come aggettivo ma anche come plurale di "sole".
Quando parla di Sé come totalità, Jung include in questa anche la coscienza. Ed è il costante riferimento alla coscienza che evita alla posizione di Jung di essere solamente narcisistica.
Siamo giunti così a dover concludere. Io ritengo che la psicologia analitica di Jung sia ancora da considerarsi come particolarmente interessante. Da questa rapida esposizione risulta credo evidente quanto la teorizzazione di Jung sia lontana da tutte quelle teorizzazioni che pongono in primo piano le esperienze conflittuali e le problematiche pulsionali. Queste, come abbiamo visto, sono come in un secondo piano funzionale al primo e questo piano più importante è quello della realizzazione del Sé. Ma Jung non esclude, come pure abbiamo visto, l'importanza degli altri. La sua teoria oscilla così tra questi due poli.
Ed è per questo che è oggi molto interessante, proprio per questa oscillazione. Non possiamo essere certi né della nostra piena solitudine né della nostra piena possibilità di comunicare. Non possiamo fare altro, credo, allora, che sopportare questo conflitto, non perdere di vista né l'una né l'altra possibilità. Oscillare, dubitare, pensare rinunciando di arrivare a un punto fermo.
Fa parte dei sistemi autoregolativi anche la possibilità che variazioni ambientali portino a nuove forme di caos. Occorre accettare che pulsionalità e narcisismo non possano prevalere l'una sull'altro, avere una chiara coscienza che la relazione umana ci rimanda continuamente alla nostra solitudine e che la nostra solitudine ci rimanda pure continuamente alle nostre relazioni.

Bibliografia

Eagle M.N. (1984): La psicoanalisi contemporanea. Laterza: Bari 1988.
Jung C.G. (1916): Septem Sermones ad Mortuos. In Maillard C.: Les Sept Sermons aux morts de C.G. Jung. Presses Universitaires de Nancy, 1993 pp. 17-28.
Jung C.G. (1917/1943): Psicologia dell'inconscio. In Jung C.G.: Opere, vol. VII. Boringhieri: Torino 1983, pp. 1-120.
Jung C.G. (1947/54): Riflessioni teoriche sull'essenza della psiche. In Jung C.G.( 1976) : Opere, vol. VIII. Boringhieri: Torino, pp.
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Jung C.G. (1961): Ricordi sogni riflessioni. Il Saggiatore: Milano: 1965.
Jung C.G. (1975): Letters 2: 1951-1961. Princeton University Press: Princeton.
Kohut H. (1977): La guarigione del Sé. Boringhieri: Torino 1980 (p. 133 ed. ingl., cit. da Jacoby, p.104)



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