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Atti del 1°Congresso OPIFER

"Prospettive relazionali in psicoanalisi"


Nuove letture del soggetto nell'ottica del concetto di relazione

La psicoanalisi relazionale e l'interfaccia con le scienze affini e l'epistemologia

Daniela De Robertis



E' noto nella storia della Psicoanalisi in che misura dagli anni '50 in poi varie sono state le accuse di scarso rendimento scientifico ad essa rivolte: carente di verifica, non testata, fondata su concetti astratti, infalsificabile, aliena dai metodi sperimentali. Questi i rimproveri più frequenti che hanno rimbalzato da più parti: da Eysenk a Nagel, da Popper a Kuhn, fino ad arrivare negli anni '80 all'attacco di Gruenbaum ( De Robertis, 1994, p.33). Ad eccezione di Popper e Kuhn, tutti questi autori hanno attaccato la Psicoanalisi perché non rispondente ai canoni della "vera" scienza, fondata sull'osservazione, il metodo induttivo e la verifica empirica.
Ma la domanda che occorre porsi consiste nel chiedersi se questa sia la scienza o piuttosto uno dei modi per pensarla. Forse non esiste un unico e incontrovertibile concetto di scienza che valga per tutti i tempi e i luoghi e che pertanto sia assoluto. Piuttosto è più ragionevole pensare che esistano vari modelli di scienza che si avvicendano nella storia del pensiero e del costume (Kuhn, 1962). Secondo questa opinione introdotta sugli input del popperismo dalla New Epistemology ( Kuhn, Lakatos, Feyerabend, per citare i capifila ), la scienza alla quale la Psicoanalisi si sarebbe dovuta uniformare, a detta del positivismo logico di Nagel e poi del neoempirismo di Gruenbaum, non è la scienza, ma un modello di scienza che nella storia dell'epistemologia è stato chiamato scientista. Questa posizione ha continuato ad esercitare la sua influenza non solo nell'ambito epistemico, ma anche nella cultura in generale, fino alla metà del nostro secolo, corroborata verso gli anni trenta dall'epistemologia allora dominante, rappresentata dal neopositivismo logico del Circolo di Vienna. Lo scientismo, che rivendica legittimità scientifica soltanto alle "scienze dure" (fisica, matematica, chimica, biologia, ecc.) ha avuto grosse responsabilità e notevoli limiti. Esso ha svuotato le Scienze umane di significato, perché, come asserivano i "falchi" del positivismo logico, la metafisica è priva di significato perché non empiricamente verificabile; e al tempo stesso ha reso metafisiche le scienze della natura, nel momento in cui in esse ha depositato la verità assoluta. Il guaio è che non sia stata epistemicamente contemplata l'idea che la filosofia e la scienza fossero una cultura scientifica (Levine, 1987). Oggi possiamo criticamente chiederci con quale diritto e su quali fondamenti si è creduto che le scienze abitassero una zona franca, al di là delle coordinate culturali che delimitano un'epoca storica, con il risultato di attribuire solo alle Scienze della natura il monopolio della conoscenza (Pagnini). Ma la stessa filosofia e le stesse "soft sciences" sono state complici di questo "abuso" epistemico: esse hanno concesso molto alle "hard sciences", facendosi condizionare dall'idea che fossero queste ultime a sapere tutto. Il prodotto è stato quello che M. Ferraris chiama una "filosofia residuale", che per prima ha delegato alle scienze il dominio della verità.
Con il tempo però è stata l'epistemologia stessa a demitizzare l'idea di una scienza pura e immacolata, incontaminata dalla metafisica e assolutamente "wert frei" (Pagnini). Così è caduto il miraggio di una scienza indipendente dal tempo, dalla storia e dalla complessità (Prigogine). Ma bisognerà aspettare Popper perché l'epistemologia nel dopoguerra si affranchi dalla dicotomia e dalla posizione scientista ad essa collegata. Popper tagliò i ponti con la logica della Methodenstreit quando asserì che la scientificità di una disciplina non dipende dall'osservazione neutra dei dati e dal metodo induttivo, perché l'osservazione non è mai neutra, ma guidata dagli "a priori" e dai punti di vista dell'osservatore. In sostituzione Popper proponeva come garanzia di scientificità, comune ad ogni forma di conoscenza e al di fuori delle partizioni, le procedure di falsificazione di cui ogni teoria si dovrebbe dotare, sia essa appartenente alle Scienze della natura che alle Scienze umane. Per merito dell'epistemologia popperiana si superò la logica dualistica nella scienza e ci si riferì ad un'altra weltanschauung scientifica. Quest'ultima metteva fine alla rigidità del dualismo epistemico, ricomponendo la scienza secondo un ordine unitario

( De Robertis, 1995, p.49 ). Pertanto, anche per impulso del popperismo, lo scientismo, in auge all'incirca fino al dopoguerra, è stato soppiantato da altri modelli di scienza rappresentati in gran parte dalla filosofia analitica, nelle sue diverse correnti: dal neoprammatismo, dal funzionalismo, dal costruttivismo, dall'anarchismo epistemico, dal decostruzionismo, ed anche dalla fenomenologia nelle sue varie ermeneutiche. Rispetto a questi orientamenti epistemici che caratterizzano la nostra attualità, i modelli scientisti detengono un valore eminentemente storico, non essendo più di rilevante riferimento nel panorama dell'epistemologia contemporanea .
Accennavo prima alla necessità che la Psicoanalisi, al fine di costruire un suo statuto epistemico, entri nel merito di ciò che oggi s'intende per scienza. La filosofia della scienza contemporanea, anche se nei suoi molteplici e differenti schieramenti, ritiene insostenibile l'approccio corrispondentista che la filosofia occidentale ha sostenuto ( Maturana e Varela, 1980 ) almeno fino alla metà del nostro secolo. L'approccio corrispondentista riponeva fede nella "vera" conoscenza fondata sulla corrispondenza tra il pensiero e una presunta realtà esterna, posta "là fuori", alla quale il pensiero aderisce ( De Robertis,1997). Si è molto discusso in che misura una simile concezione della conoscenza rinvii a concetti di Verità, Valore, Realtà, concepiti in modo assoluto e con carattere essenzialistico ( Rorty, 1979 ). Sicuramente la Psicoanalisi deve esibire le sue credenziali scientifiche; da questo punto di vista la critica degli epistemologi dagli anni '50 ad oggi ha prodotto un effetto salutare. Il punto fondamentale è che nella ricerca di uno statuto scientifico la Psicoanalisi si allinei ai parametri di un'epistemologia ad essa contemporanea e non si allei con un'epistemologia scientista o corrispondentista che sta più in soffitta che sul mercato ( De Robertis e Tricoli, 1997 ). Ma al di là di certe querelles non del tutto spente tra scienze della natura e scienze umane, oggi si assiste ad una caduta di demarcazioni scientifiche tra scienze "dure" e scienze umane nel momento in cui la pretesa di verità certe e inconfutabili, che caratterizzava le scienze "dure" e gli conferiva il ruolo di scienza, è venuta a cadere. Da ciò è conseguita una perdita di credibilità di quel concetto di oggettività che era l'espressione di una malcelata aspirazione metafisica verso il possesso dell'"assoluto", e un conseguente spostamento verso il relativismo. L'artefice della crisi dei valori assoluti, e quindi di tutte le forme di ontologismo, è stato Popper, seguito dalla New Epistemology e anche da tutta la filosofia funzionalista e neoprammatista a noi contemporanea. Secondo quest'ultima prospettiva non esistono principi universali di razionalità che permettono di classificare e giudicare vera in assoluto e una volta per tutte una proposizione scientifica. La realtà non è preconfezionata nella conoscenza, non è oggettivamente data , ma è funzione dell'osservatore e del contesto , ossia dipende da come viene concepito il mondo e non da come il mondo è.
Stando così le cose è più opportuno considerare il vero ciò che permette di conseguire un valore cognitivo (Stich) e ritenere che la verità stia in ciò che "funziona" (Peirce). Viene proposto dunque un concetto di verità non ontologico, ma funzionale, un concetto non caduco, ma ridimensionato, secondo il quale la verità scientifica sta nel suo valore d'uso utile all'azione. Goodman e Quine, pur riferendosi a posizioni teoriche diverse (il primo al costruttivismo radicale e il secondo al neoprammatismo), concordano nel respingere la concezione della scienza modellata sulla struttura assiomatica della matematica, modello che i positivisti avevano importato nella filosofia della scienza. Diversamente si va pensando che gli strumenti scientifici vengano confezionati con i valori, le credenze e le tendenze della società di cui gli scienziati fanno parte; le esperienze scientifiche non nascono "in vitro" o dal nulla ma costruiscono mondi a partire dai mondi che l'esperienza prescientifica fornisce.
Il re del Siam, di cui Locke ci parla, riteneva il ghiaccio una cosa diversa dall'acqua, differentemente dagli europei per i quali l'acqua può presentarsi sotto forma solida o liquida. Allora, ne deduce Goodman (1983), la differenza è data dagli individui dai quali si origina il processo scientifico e non dalle proprietà dei sistemi all'interno dei quali gli individui si muovono. Ne consegue un'epistemologia per la quale la scienza è costruzione, nel senso che escogita una realtà che si adatti alla teoria: quando gli scienziati confermano le loro teorie attraverso la sperimentazione, in realtà hanno inventato metodologie e operazioni che ne comprovano la plausibilità. La decadenza dell'idea di verità assoluta come natura intrinseca del mondo è legata alla caduta delle credenze teologiche ( Rorty, 1982 ). La secolarizzazione della cultura ha fatto sì che la ricerca delle scienze, filosofia compresa, non indaghi più su una realtà posta al di fuori di noi (fondazionismo), al di là di ciò che è umano. Passando per la laicizzazione del sapere dal positivismo ad oggi, il prammatismo è la corrente che meglio esplicita l'idea che non esista niente al di fuori della comunità umana. Diversamente dall'idea che la realtà sia assoluta e oggettivamente osservabile, si fa spazio un'epistemologia "relativistica" fondata sulla considerazione che un osservatore, in connessione con il suo campo di osservazione, lo modifica mentre l'osserva. Parimenti contro la pretesa di verità scientifica, il pensiero epistemico va argomentando che in ogni teoria esiste un nucleo metafisico e mitico irriducibile, che spesso fornisce il suo contributo proprio alle teorie scientifiche (Watkins, 1983; Agassi, 1975). Perciò, cambiate le mode epistemiche, il primato per cui rivaleggiano oggi le teorie non è la loro supposta verità, ma ben altro: ciò che preme è la loro capacità di fornire spiegazioni circa un determinato ambito di fenomeni e il loro successo nel prevedere eventi fino a quel momento sconosciuti. Guardando più a fondo, le conclusioni relativistiche a cui approda l'epistemologia dal secondo Wittgenstein a Feyerabend, convergono con la filosofia ermeneutica secondo la quale le teorie scientifiche sono il prodotto di un atto interpretativo effettuato sulla realtà. Perciò la scienza attuale non contrae pretese ontologiche, ma si calibra su finalità interpretative. Questo orientamento ha potuto creare tra scienza ed ermeneutica una disposizione condivisa, che, al di là degli specifici disciplinari, ne ha eliminato i distanziamenti.
La coincidenza tra pensiero scientifico e pensiero ermeneutico è assai importante ai fini delle costruibilità di un discorso scientifico all'interno della Psicoanalisi, perché a me sembra l'unica strada percorribile affinchè la Psicoanalisi acquisti scientificità , senza dover rinnegare la sua natura interpretativa.
Infatti questo breve excursus sulle attuali proposte dell'epistemologia non era finalizzato a sottolineare l'evoluzione delle idee nella filosofia della scienza. Piuttosto è un modo per comprendere le esigenze e le possibilità che oggi, proprio al contrario di ieri, grazie ad un diverso pensiero che abita l'epistemologia, possono rendere scientifica la Psicoanalisi e possono permettere di parlare a pieno titolo di un'epistemologia psicoanalitica. La virata costruttivista che vede nella scienza costrutti interpretativi e non rispecchiamenti della realtà, ha una ricaduta eccellente sulla Psicoanalisi, perché abbatte le pregiudiziali di tipo scientista che tenevano la Psicoanalisi fuori dai confini della scienza.

Le matrici e gli orientamenti relazionali e costruttivisti, che per varie traiettorie e "scuole" sono entrati negli ultimi anni nella Psicoanalisi, attestano che finalmente all'interno delle teorie psicoanalitiche si stanno applicando parametri conoscitivi in linea con le attuali formulazioni epistemologiche. Proprio su questo avvicinamento, a mio avviso, può fondarsi un'epistemologia psicoanalitica più rispettabile, diversa da quella che la Psicoanalisi ha maldestramente proposto, facendo propria una concezione del sapere spaccata tra scienze "dure" (le "vere" scienze) e scienze umane (le "pseudo-scienze" o "metafisiche").Vivere il discorso all'interno di questa spaccatura ha fatto sì che la Psicoanalisi, ora secondo certi autori, Freud in testa, si proclamasse scienza della natura , e ora, secondo altri, si proclamasse scienza umana, sotto forma di ermeneutica e, ancor peggio, secondo altri ancora, si proponesse come "terza via" in qualità di scienza "sui generis", cadendo così in un'aberrazione epistemica.
A questo punto vorrei riprendere il discorso sulla crisi dell'oggettivismo nella scienza. Tanto il positivismo quanto il positivismo logico e anche la forma che oggi ne sopravvive sotto il nome di neoempirismo, hanno considerato la scientificità fondata su ciò che esiste nella realtà, ossia fondata sull'ontologia. Da ciò è derivata l'importanza della verifica empirica. Ma dopo la crisi di questo modello di scientificità cosa s'intende oggi per verifica scientifica, se quella empirica poggiava su un'epistemologia ormai dai più contestata? Oggi viene proposto che la convalida di una scienza, sfumato il nucleo ontologico, avviene sul piano linguistico. Ciò vuol dire che le argomentazioni della filosofia della conoscenza passano per il piano della discorsività e della matrice sociale del linguaggio. Tale impostazione ha diversificate origini che vanno dal post-popperismo alla New Philosophy of Science, alla teoria dei giochi linguistici di Wittgenstein e degli atti linguistici di Austin e non da ultimo a vaste porzioni dell'attuale filosofia analitica. Questi diversi approcci trovano una piattaforma comune nella considerazione che le teorie scientifiche dipendono dal contesto sociale, intendendo con questa parola la comunità degli scienziati operanti in quel dominio.
Anche la svolta sociologistica che si è prodotta negli USA a partire dagli anni '60, ha contribuito alla diffusione dell'opinione che il carattere intrinseco di verità o falsità attribuibile ad una teoria scientifica consiste nell'accettazione da parte della comunità scientifica (Kuhn, cap. V, 1962).

Il passaggio è importante perché apre la scienza all'idea di condivisibilità sotto forma di controllo e verifica intersoggettiva. La verità scientifica poggia essenzialmente sull'accordo della comunità scientifica che a sua volta è essa stessa socialmente e culturalmente connotata. A questo proposito Ross Abbinet (1988), chiedendosi se la verità poggia soltanto su una certezza interiore oppure su un sentimento condiviso, risponde che la verità non è definibile solipsisticamente, ma in qualità di realtà intersoggettiva e bene comune. In epistemologia un ulteriore contributo alla crisi della conoscenza oggettiva è stato fornito dall'approccio prospettivista. Il prospettivismo sollecita a pensare che la verità è relativa al ristretto settore di "oggetti" a cui una proposizione si riferisce e tali "oggetti" costituiscono sempre aspetti parziali della realtà (Agazzi, 1994). Le cose sono colte sotto un "certo" punto di vista per il fatto che ogni enunciato scientifico intenziona la realtà, ritagliandosi un dominio di cui indaga solo talune variabili. Non si può assolutizzare ciò che è solo un possibile sguardo sul mondo, così il valore probabilistico della conoscenza (Hutten) suggerisce di trattare l'enunciato teorico con valenza operativa e funzionale.
Il superamento del corrispondentismo ha permesso di avvicinare incredibilmente l'epistemologia e la filosofia della mente alle discipline psicologiche, proprio per il fatto che il problema della conoscenza è stato impostato non più in termini di rispondenza tra il pensiero e la realtà, ma in termini di processi di conoscenza in riferimento alla mente. In psicologia il discorso è stato storicamente inaugurato dalla rivoluzione cognitiva della metà degli anni '50. Quest'ultima, benchè si sia poi dimostrata per certi versi fallimentare, era sorta sull'esigenza di riportare l'attenzione, dopo il buio degli automatismi del comportamentismo, sulla riscoperta e la descrizione dei significati che le persone creano a contatto con il mondo. Da ciò derivava l'esigenza di formulare ipotesi sui processi di costruzione del significato prodotto sulla base di queste operazioni (Bruner, 1990). La rivoluzione cognitiva fu il primo tentativo di costruire una teoria della personalità, e quindi una teoria psicologica, a partire da una teoria della conoscenza: il cognitivismo s'interessava ai processi attraverso i quali le persone riescono a conoscere la realtà esterna aggregando le diverse manifestazioni della realtà e collegandole in sistemi di costrutti organizzati (Bruner, 1956). In seguito fu riconosciuto che la rivoluzione cognitiva era stata una "wrong revolution", perché la persona risultava troppo chiusa nel suo individualismo conoscitivo: di fatto "il cognitivismo, data la sua prospettiva radicalmente individualista della mente, non appare in grado di dar ragione dei fenomeni tipici del mondo sociale e, portato alle estreme conseguenze, sfocia in una sorta di solipsismo"(Castiglioni, 1995, p. 106).
Fu così che nacque il costruttivismo sociale, che è un tipo di statuto della conoscenza. Esso esprime, al pari di altri orientamenti, un elemento condiviso dalla cultura epistemica e dagli studi sulla conoscenza a partire dal dopoguerra: il rifiuto di un'epistemologia realista per la quale la realtà che è unica e si trova "là fuori" non aspetta altro che essere colta così, a disposizione della comprensione umana. In opposizione al fatto che la realtà è oggettivamente colta e recepita, si suggeriva l'idea che la realtà sia interpretata e costruita. Gergen, padre del movimento, divulgò la formula secondo la quale l'impresa conoscitiva è un'impresa sociale (Gergen, 1982; Gergen e Davis, 1985). Bruner e tanti altri, delusi dalle mancate promesse del cognitivismo, aderirono al manifesto costruttivista che enfatizzava la partecipazione dell'individuo al proprio "medium". Si sottolineò la considerazione che attraverso questa partecipazione il significato personale è reso pubblico e condiviso e che le realtà costruite dagli individui costituiscono delle realtà sociali, negoziate in relazione agli altri. Il mondo "costruito" in cui si vive non è né dentro, "nella testa", né fuori secondo qualche interpretazione "paleopositivista" ; piuttosto tanto la mente quanto il Sé fanno parte di questa realtà "distribuita" (Bruner, 1990).
Il modo di vivere della gente, adattandosi alla "cultura", dipende dai significati e dai concetti condivisi, ma anche dalle modalità del discorso, altrettanto condivise, che hanno la funzione di negoziare le differenze interindividuali di significato e d'interpretazione (Ibid.). La realtà intrapsichica del soggetto è il risultato di numerosi processi di costruzione negoziati attraverso il veicolo dell'interattività culturale. Perciò la partecipazione dell'uomo al suo ambiente esterno, in altri termini alla sua "cultura", e la realizzazione di se stesso attraverso questo ambiente, o questa "cultura", rendono impossibile la concezione di una teoria psicologica con base puramente individuale. Anche sul fronte antropologico si sviluppava un'antropologia costruttivista (Geertz, 1973), secondo la quale non esiste una natura umana indipendente dalla cultura. Il costruttivismo sociale, che informa l'attuale psicologia, e che - come vedremo - è un'ottica emergente in Psicoanalisi, è una concezione sociale e non empirista della conoscenza. Esso presenta un paradigma di grande duttilità: infatti la sua applicabilità, oltre alle scienze psicologiche, tocca anche altri ambiti disciplinari, tanto che il costruttivismo ha occupato uno spazio così allargato da poter essere considerato una specie di filosofia, i cui rappresentanti sono conosciuti sotto il nome di "filosofi sociali". Come deducibile dai suoi enunciati, il costruttivismo sociale è perfettamente solidale con gli assiomi di base delle epistemologie attualmente dominanti. Infatti pensare alla conoscenza in termini di costrutti sociali significa avere lasciato andare l'idea della conoscenza come adaequatio (corrispondenza) tra mente e realtà, per abbracciare l'idea che la conoscenza è il frutto di una costruzione condivisa da una molteplicità di soggetti sulla base della collettività sociale. Gergen, rifecendosi alla New Epistemology e alla svolta linguistica del secondo Wittgenstein, nega che la conoscenza possa essere un'osservazione pura che passa dall'induzione fino alla verifica empirica delle ipotesi. Piuttosto le conoscenze sono forme negoziate e condivise di comprensione. Questa accezione di attività condivisa da una comunità di loquenti dimostra come il costruttivismo prenda il linguaggio a fondamento della conoscenza e lo impieghi come referente "forte". Infatti il costruttivismo sociale piuttosto che adeguarsi alla realtà (oggettivismo assoluto) o, all'estremo opposto, crearla (relativismo radicale), la interpreta (relativismo moderato) sulla base di un linguaggio socialmente condiviso. Quando viene affermato che la conoscenza non si produce tra mente e realtà, ma tra mente e linguaggio, il linguaggio occupa il ruolo di matrice mentale della conoscenza.
A questo punto ciò che interessa la nostra indagine consiste nel verificare la rispondenza tra i postulati dell'epistemologia e della filosofia e anche della psicologia, finora illustrati, e le svolte concettuali effettuate negli ultimi anni dalla Psicoanalisi. La dimensione relazionale che connota oggi larghe fasce della Psicoanalisi ha trasformato i processi intrapsichici da intrapersonali ad interpersonali. Queste posizioni sono in linea, anzi riflettono, non solo la dimensione sociale espressa da quella forma di filosofia sociale che è il costruttivismo, ma anche l'antirealismo conoscitivo che marca le attuali epistemologie.

Partecipi di queste tematiche, in qualità di analisti è opportuno chiedersi quali referenti epistemici ci siano dietro la considerazione che la realtà del paziente non si colga come se fosse lì, al di là del terapeuta, oggettivamente data, ma si costruisce in un lavoro collettivo e dialogico (ermeneutico) tra paziente e analista. Questa posizione presente oggi in Psicoanalisi è solidale con una concezione non corrispondentista e non obbiettivista della conoscenza, nell'ottica largamente condivisa dalle più autorevoli voci della filosofia della scienza, per la quale il sapere non è "preso", ma interpretato e costruito. Un'ulteriore prova dell'avvenuta vicinanza tra i postulati dell'epistemologia e le riflessioni della Psicoanalisi sta nella grande attualità del discorso sulla "costruzione". Infatti l'attività clinica viene concepita non tanto una ricostruzione della storia del paziente e dei suoi svolgimenti secondo la logica dell'adaequatio, ma soprattutto una costruzione in atto durante la stessa narrazione, all'interno del "dire a". Nell' epistemologia psicoanalitica si fa spazio l'idea per la quale gli enunciati dell'interpretazione, al pari degli enunciati delle altre scienze, non pretendono di porsi come "spiegazioni" del mondo, ovvero della realtà del paziente, ma come "costruzioni" ( Ambrosiano, 1998, p. 41 ).

La correzione che la Psicoanalisi postmoderna esercita su quella classica ha come asse il concetto di relazione. L'introduzione del termine relazionale ha significato includere nell' intrapschico - che rimane pur sempre la dimensione esclusiva - il parametro sociale, considerato una categoria della mente.
Da queste brevi note risulta evidente quanto l'approccio relazionale in Psicoanalisi sia debitore, e al tempo stesso partecipe, dell'orientamento che connota in maniera specifica la filosofia della scienza e il sapere del tardo novecento. A proposito dei nuovi orientamenti psicoanalitici, evidenti richiami alla "filosofia sociale" sono rintracciabili nell'orientamento intersoggettivo (Stolorow e coll.). L'intersoggettività e la sua vasta risonanza in campo psicoanalitico da quando questo istituto newyorchese ne ha fatto la propria insegna, è un termine che non si origina in casa psicoanalitica. Esso si ritrova nella riflessione epistemica, filosofica e sociologica e nella sociologia della conoscenza, in riferimento al concetto di consenso sociale.

Tutto questo per sottolineare che nella Psicoanalisi oggi sono individuabili referenti desunti da discipline affini, anche se rielaborati secondo la propria specifica configurazione, che rendono la Psicoanalisi aperta alla trasversalità delle idee.
L'orientamento intersoggettivo è ormai noto al pubblico psicoanalitico per la sua battaglia contro la "mente isolata", che concepisce il Sé come una monade, tipico della Psicoanalisi classica. Gli intersoggettivisti invece concettualizzano il Sé non concepito nella mente, ma socialmente "distribuito" (per usare un'espressione di J. Bruner) e concepito in senso interpersonale. Secondo la critica degli intersoggettivisti, aver pensato la mente in termini d'isolamento è un modo inaugurato da Cartesio e presente fino ai nostri giorni. La concezione della mente in uso nella psicoanalisi freudiana corrisponde a questa concezione cartesiana (Cavell,1993; Orange,1999) definita "atomismo epistemologico"(Orange,1995). Nella mente cartesiana, vista come un'entità monadica, il cogito si pone all'opposto dell'interazione e all'opposto di forme di pensiero che funzionano intersoggettivamente. L'assunto dell'isolamento comporta alcune conseguenze così sintetizzabili (Orange,1999):
l'ottica antropologica, secondo la quale l'essere umano non è concepito in relazione, ma chiuso in sé;
la scissione, figlia di tutta l'epistemologia empirista e innatista, che nella conoscenza ha separato il soggetto dall'oggetto e che si è fatta responsabile del dualismo gnoseologico e ontologico;
la contrapposizione tra interno e esterno, derivata dal punto precedente, che in Psicoanalisi si è tradotta nella contrapposizione tra realtà psichica e realtà ambientale.
L'orientamento intersoggettivo pertanto si connota come l'approccio psicoanalitico che deriva i suoi postulati di base dai "filosofi sociali", ma che accoglie anche l'eredità della filosofia ermeneutica: esso infatti concepisce la soggettività in modo contestualizzato. Il contesto, essendo il sistema di cui l'individuo fa parte, permette di restituire un soggetto storicamente situato. Su questo postulato si origina il legame che l'intersoggettività contrae con l'ermeneutica filosofica, in particolare con Gadamer, il quale afferma che nell'isolamento non è data alcuna comprensione e interpretazione. Inoltre, contrariamente alla teoria della verità come corrispondenza, l'approccio intersoggettivo persegue un realismo prospettivista, fondato su presupposti sociali e relazionali. Viene proposta una concezione della conoscenza in modo dialogico, partecipatorio, prospettivista ed ermeneutico (Orange,1999). IL realismo prospettivista ha due vantaggi (Federici, 1999): in primo luogo il vantaggio di superare la pretesa oggettivistica che nel '900 le scienze "dure", fondate su enunciati neoempiristi, hanno importato nel sapere. In secondo luogo ha il vantaggio di recuperare la matrice realista e pluralista (perché le prospettive rappresentano i molteplici e diversi punti di vista) che evita l'anarchismo e lo scetticismo epistemico. Questi ultimi sono i rischi in cui potrebbe incorrere il costruzionismo radicale (v. ad es. la posizione di Maturana e Varela ) ed è anche la strada che il decostruzionismo ha intrapreso (v. il pensiero di J. Derrida e in ambito psicoanalitico le riflessioni di D. Spence ).
Tornando al discorso sui referenti epistemici adottati da una parte considerevole dell'attuale Psicoanalisi, l'evento che ha accorciato le distanze tra la Psicoanalisi e le epistemologie contemporanee è stata la "rivoluzione relazionale". Analizzando il concetto di relazione, le sue implicazioni e il suo impiego clinico, ci si accorge che questo approccio è inseparabile dai concetti epistemico-filosofici a noi contemporanei.
Dai tempi della "svolta relazionale" degli anni '80 che ha sostituito al paradigma della pulsione il paradigma della relazione, l'epistemologia di fondo della Psicoanalisi e i presupposti che informano la sua teoria della conoscenza sono diventati via via più in linea e più consoni con gli attuali concetti dell'epistemologia, della filosofia, della filosofia della mente, della filosofia sociale, ecc. Testimonianze di queste rispondenze sono accertabili nel filone del costruttivismo sociale che ha i suoi rappresentanti più di spicco in Gill, Hoffmann, Schwaber, Aron e recentemente anche in Lichtenberg, in quello intersoggettivo, precedentemente citato, rappresentato da Stolorow, Atwood, Brandschaft, Orange, Burke e altri, in quello interpersonale portato avanti da un capo "storico" come Levenson, nella "two person psychology", nel concetto di sistema diadico, nel bipersonalismo, nel concetto di "campo analitico" che connota una larga fetta della Psicoanalisi italiana (Balsamo, Napolitano, Chianese, Ferro, ecc.), e , per concludere, presente in tutti quegli autori che sono variamente assimilabili sotto l'estesa dizione di "relational track". Sono queste le correnti che più si sono impegnate a riflettere sui referenti epistemici alla base del cambiamento di paradigma (per usare un termine di Kuhn) o del cambiamento di programma di ricerca (per usare un termine di Lakatos) che si è prodotto nel passaggio dal tracciato pulsionale a quello relazionale. La riflessione operata da alcune "postazioni" psicoanalitiche, non a caso le più critiche e aperte, ha approfondito i referenti epistemici a monte del nuovo paradigma e la ricaduta che tali concetti producono nella prassi clinica. Mi soffermerò brevemente nell'evidenziare in che misura i referenti epistemici che si trovano a monte del concetto di relazione e del suo uso clinico prospettano un modo alternativo di concepire la realtà. Per realtà mi riferisco alla realtà dell'analista, del suo lavoro con il paziente e naturalmente anche alla realtà del paziente. Si tratta di frantumare l'idea che l'analista sia lo specchio neutro o lo schermo bianco della realtà del paziente, una credenza tipica di un concetto della conoscenza corrispondentista e assolutistica che attesta anche la natura asociale dell'esperienza psichica del paziente. Ad essa si va sostituendo l'idea che l'osservatore sia dentro il campo di osservazione e dunque vi copartecipi. L'idea di cocostruzione di una realtà che l'analista produce insieme al paziente non ha affatto l'intenzione di disconoscere il valore e la portata della storia individuale. Il concetto di cocostruzione tende piuttosto a non tenere distaccata con mezzi artificiosi l'esperienza del paziente dalle variabili di personalità dell'analista e ribadisce la vicinanza sociale sotto forma di ricadute o ripercussioni che la partecipazione inconscia e la soggettività dell'analista esercita (Fosshage, 1995), altrimenti detta "partecipazione osservata" e "partecipazione controtrasferale" (Hirsch, 1996). La considerazione che la Psicoanalisi ha fatto proprio il concetto socio-psicologico, filosofico e epistemico di socialità distribuita insieme ai concetti di un'epistemologia non fondazionista, ma relativista, ha impresso all'interno del lavoro analitico notevoli mutamenti. Nel primo caso ad esempio le nuove acquisizioni epistemico-filosofiche hanno fatto sì che non fosse più rispondente parlare di transfert e controtransfert e che risultasse più consono parlare di due transfert: quello del paziente e quello dell'analista in riferimento al sistema intersoggettivo d'influenza mutua e reciproca ( Orange et all., 1997). Nel secondo caso ad esempio è stato abbattuto il mito dell'oggettività dell'analista, un mito responsabile di aver negato l'indivisibilità tra osservatore e osservato. Analogamente sono state oggetto di critica non solo le istanze della teoria strutturale (Es, Io, Super Io), ma anche il Sé introdotto da Kohut, concetti considerati espressione di reificazione. La reificazione testimonia la tendenza da parte della psicoanalisi a individuare nel proprio oggetto di studio una realtà ultima e pertanto ad assumere un atteggiamento fondazionista.

Queste revisioni attestano che le proposte psicoanalitiche più attuali partecipano ad un pensiero definito antiessenzialista che connota i costrutti epistemologici dei nostri tempi e testimoniano in che senso i parametri conoscitivi delle attuali epistemologie vengano applicati nel vivo delle conoscenze che l'analista fa del paziente.
Concludendo, con il presente lavoro si è cercato d'illustrare in che misura gli orientamenti psicoanalitici dominanti abbiano adottato parametri di riferimento in comune con l'epistemologia e le scienze affini, rompendo il solipsismo epistemico, in base al quale la Psicoanalisi per troppo tempo ha indebitamente creduto di poter fare "per conto suo". Questo avvicinamento concettuale tra Psicoanalisi, epistemologia e scienze limitrofe attesta una condivisione concettuale nella quale, a mio parere, può risiedere la scientificità della Psicoanalisi. Ma è bene sottolineare in che misura questo avvicinamento, e di conseguenza questa scientificità, è stata favorita dall'entrata in campo del concetto di relazione. La relazione, enfatizzando la matrice sociale e interattiva, ha permesso di superare la logica della corrispondenza tra osservatore e realtà osservata, concetto che si era psicoanaliticamente tradotto nella figura dell'analista come garante di Verità. In questo modo, grazie anche ad una nuova episteme si è demitizzato il rapporto asimmetrico che per lunghi anni nella storia della tecnica psicoanalitica ha caratterizzato la relazione tra paziente e analista.

Bibliografia

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