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Atti del 1°Congresso OPIFER

"Prospettive relazionali in psicoanalisi"


Nuove letture del soggetto nell'ottica del concetto di relazione

Il soggetto tra relazione e controtransfert

Roberto De Ponte Conti - Emanuela Busso



Alessandra ha 24 anni, è studentessa universitaria alla facoltà di ingegneria chimica. Ha una sorella di 28 anni che sta ultimando gli studi in giurisprudenza. Vive con la famiglia ed una zia anziana, arteriosclerotica, che la madre ha tolto da una casa di riposo. Alessandra sta ultimando il terzo anno di analisi condotta con frequenza di una seduta alla settimana. Mi fu condotta per una grave sintomatologia depressiva associata a bulimia. All'età di 17 anni, in seguito ad una dieta dimagrante, era insorta una sintomatologia anoressica, con notevole calo ponderale. In quel periodo Alessandra diceva di sentirsi bene, era attiva, aveva iniziato un rapporto affettivo con un ragazzo di sette anni più grande di lei. Ma dopo circa un anno iniziò a sentirsi depressa e comparvero i primi episodi bulimici, raramente seguiti da vomito autoindotto, ma accompagnati sempre da angoscia e senso di colpa. Da allora venne curata farmacologicamente da diversi psichiatri, ma con scarsi risultati. La depressione culminò in un tentativo di suicidio con ingestione volontaria di un'eccessiva dose di psicofarmaci.
La paziente veniva al mio studio accompagnata dalla madre e dalla sorella, poiché non era in grado di guidare l'automobile, per gli effetti collaterali dei farmaci (assumeva 15 cp al die). La psicoterapia già all'inizio presentò delle difficoltà, poiché la paziente parlava poco, a voce bassa, appariva fragile e sofferente, ma era molto chiusa in se stessa ed emotivamente fredda. Tentò di impostare con me un rapporto secondo lo schema medico-paziente, elencando in modo preciso, ma senza partecipazione, i suoi sintomi ed i numerosi farmaci che aveva provato. Si aspettava senz'altro che io trovassi finalmente la terapia giusta per lei.
Nei primi sei mesi di analisi, da parte mia c'è stato il tentativo di proporle qualcosa di diverso dalla terapia farmacologica. Gradualmente, in accordo con lei, era stato ridotto il numero ed il dosaggio dei farmaci, ottenendo un immediato sollievo per la scomparsa degli effetti collaterali e per il recupero dell'autonomia. Venire da sola al mio studio era importante per la sua autostima e contribuì a ridarle la speranza di poter guarire. Tentavo inoltre di creare un ambiente di sostegno calmo e sereno, in cui la paziente potesse parlare con maggiore fiducia. Le sedute erano totalmente dominate dal resoconto della settimana sul piano alimentare. Il lavoro analitico è dovuto partire dal sintomo bulimico che costituiva per lei il problema più importante. Cercando un significato a questo comportamento, era emerso che gli attacchi bulimici si verificavano esclusivamente quando passava diverse ore in casa, mentre si sospendevano quando Alessandra passava la giornata all'università. Indagando sui rapporti famigliari, avevo compreso che era strettamente legata alla madre ed alla sorella, di cui era succube e dalle quali dipendeva per ogni decisione. Il padre era invece "tagliato fuori " e descritto come brontolone, autoritario ed incapace di occuparsi della famiglia a parte il fatto di mantenerla economicamente.
Alessandra era nelle mani della madre e della sorella, per le quali rappresentava la "bimba malata" da proteggere e da accudire; solo loro sapevano che cosa era meglio per lei e che cosa andava evitato, a loro spettava il compito di curarla. Questo veniva accettato da Alessandra che era convinta di avere bisogno di loro... Quando Alessandra aveva ancora la necessità di essere accompagnata, avevo avuto un breve scambio verbale con loro. Volevano spiegarmi quali erano i problemi di Alessandra e mi chiesero un colloquio, per avere dei consigli su come trattarla, naturalmente per il suo bene. Una immediata sensazione di antipatia, oltre all'esigenza di proteggere il setting dalla loro evidente intrusione, mi aveva spinto a rispondere seccamente che preferivo ottenere ogni informazione da Alessandra e che non avevo bisogno del loro intervento; l'unica cosa che chiedevo era che non interferissero con la terapia. In quanto ai consigli, non era mia abitudine darli a nessuno, poiché lo ritenevo poco utile. Certamente il mio atteggiamento non era stato gradito, tanto più che, come venni a sapere, la psichiatra da cui Alessandra era stata seguita negli ultimi periodi, era solita parlare regolarmente con la sorella, prima di ogni colloquio, per farsi aggiornare sull'evoluzione delle condizioni cliniche della paziente. Era stato così convalidato ufficialmente il ruolo di "tutor" della sorella che agiva in una stretta alleanza con la madre. Intuivo che il fatto di avere impedito l'intervento attivo e l'intromissione della madre e della sorella nel rapporto terapeutico non era dispiaciuto ad Alessandra, anche se sicuramente, nel caso contrario, avrebbe accettato di buon grado ogni loro iniziativa. I sentimenti che si erano scatenati dentro di me, mi ponevano però i primi problemi di controtransfert. Nonostante ritenessi una "mossa" giusta aver agito in tal modo, mi chiedevo il motivo della rabbia ed antipatia che avevo provato verso la madre e la sorella della mia paziente. Difendere Alessandra dal loro potere intrusivo per quanto riguardava la terapia e definire chiaramente le regole del setting era stato indispensabile, ma sentivo che l'aspetto indifeso di questa ragazza aveva suscitato in me il bisogno di proteggerla e mi aveva scatenato una forte aggressività contro i suoi persecutori. Mi scatenava rabbia soprattutto il fatto che tutto veniva apparentemente fatto per il suo bene, ma era evidente che dietro a questa giustificazione, si nascondevano altre motivazioni. La mistificazione della verità, mi riconduceva a problematiche simili che avevo dovuto affrontare nella mia adolescenza, per conquistare l'autonomia. Mi rendevo conto di provare una forte identificazione con la mia paziente, che poteva rendermi più facile capirla, ma non era esente da rischi. Un altro aspetto interessante fu scoprire che Alessandra suscitava facilmente risposte protettive negli altri, con il suo comportamento sembrava tacitamente chiedere protezione a chi le stava vicino. Notare questa sua caratteristica mi fu utile per smorzare in parte l'aggressività nei confronti della madre e della sorella. Ammettere che il tipo di rapporto che Alessandra aveva con loro, dipendeva in parte anche da lei, la faceva uscire dalla posizione di "vittima indifesa" e rendeva più comprensibile il loro comportamento. Analizzando le mie reazioni controtransferali, capivo che dovevo evitare il pericolo di prendere io il posto della madre e della sorella, come "tutor", ripetendo il modello di rapporto patologico che già esisteva tra loro.
Non mi era sempre facile controllare le mie spontanee reazioni di disappunto e di rabbia quando venni a sapere che il ragazzo con cui Alessandra aveva un rapporto da oltre quattro anni (lo stesso che aveva conosciuto all'età di 17 anni), non era ancora stato accettato dalla sua famiglia. Il padre ne era stato informato solo da un anno e da parte della madre e della sorella il loro rapporto era stato ostacolato in tutti i modi: lo trattavano con freddezza e gli impedivano di entrare in casa loro. Soprattutto veniva utilizzato il disprezzo e la svalutazione : il ragazzo era brutto, non aveva un titolo di studio e non era ricco, infatti faceva il giardiniere; secondo loro Alessandra si era legata a lui unicamente perché era malata e non era in grado di fare una scelta. Più volte Alessandra mi comunicò il suo dolore per questo atteggiamento della sua famiglia, ma passò molto tempo, prima che iniziasse ad esprimere la rabbia e a reagire in qualche modo. Per un lungo periodo ero io che davo voce alla sua rabbia, poiché non le nascondevo le sensazioni che provavo di fronte all'ingiustizia ed alla violenza psicologica che subiva, dal momento che le veniva ostacolato ogni tentativo di crescere e di diventare più autonoma. Cercavo di comunicare alla paziente i miei sentimenti, invitandola contemporaneamente a reagire. "Perché accetti tutto questo, senza dire niente a tua madre e a tua sorella? Non ti sembra che cerchino di sostituirsi a te, nelle scelte importanti della tua vita?" Alessandra era d'accordo con me, ma non sapeva spiegare perché non tentasse di difendere i suoi diritti e preferisse subire in silenzio, magari rinunciando ad incontrare spesso il suo ragazzo. Un passo avanti si verificò quando un giorno mi disse: "Forse la mia famiglia avrebbe rifiutato qualunque persona a cui io mi fossi legata, credo che nessuno andrebbe bene per loro....!" Disse questa frase con evidente amarezza, senza aggressività, quasi con rassegnazione. Provai contemporaneamente rabbia verso la sua famiglia e sollievo per la nuova consapevolezza di Alessandra, che ci apriva nuove possibilità di analisi.
Dopo questa affermazione Alessandra si sentì più libera di mettere in discussione i rapporti tra i suoi famigliari: i suoi genitori non erano mai andati d'accordo, secondo lei per colpa del padre, che non aveva mai partecipato alla vita della famiglia; quando era a casa, dormiva o brontolava, voleva essere servito in tutto, non usciva mai con sua madre, non la portava da nessuna parte. Non ricordava di essere mai stata in braccio a suo padre quando era piccola, era sempre la madre a occuparsi della scuola e di tutto ciò che riguardava le figlie, alle quali si era dedicata completamente. Alessandra non rimproverava la madre, per avere accettato questa situazione, anzi soffriva per lei, si preoccupava e si sentiva in dovere di prendersi cura di lei, restandole il più possibile accanto e rinunciando a qualsiasi forma di autonomia ed a qualunque svago e soddisfazione personale. Molte volte mi ripeteva: "Come posso andare a divertirmi, quando in casa mia tutti stanno male? Nella mia famiglia nessuno è allegro e si diverte, so che è sbagliato, perché è una famiglia chiusa, il mondo esterno non può penetrare....ma io non posso fare diversamente da loro...!" Alla mia domanda: "Come pensi che ti sentiresti a fare diversamente da loro, a divertirti e ad essere felice?" rispondeva: "Forse mi piacerebbe, ma mi sentirei di avere abbandonato mia madre..." "Credi che a lei farebbe piacere vederti più indipendente e più felice?" Alessandra : "Credo proprio di no, perché mi allontanerei da lei."
Alessandra mi riferì che la sorella si era sempre comportata come una seconda mamma. "E' gelosa di me, mi rimprovera perché preferisco uscire con il mio ragazzo, piuttosto che con lei. Odia il mio ragazzo, spesso lo tratta male e se si accorge che gli telefono, si arrabbia e mi viene a disturbare."
Alessandra si sentiva in colpa sia verso la madre che verso la sorella. Ogni suo tentativo di autonomia provocava sofferenza e proteste in loro, mentre da parte del padre veniva ostacolato a causa di una mentalità autoritaria e retrograda.
Questa situazione mi faceva immaginare la mia paziente chiusa in una trappola fatta di sensi di colpa e di ricatti affettivi. Più volte in seduta mi veniva la fantasia di entrare in casa sua, prendere a schiaffi tutti, rovesciare ogni cosa, fare la rivoluzione. Questa fantasia mi indicava come sentissi difficile per la mia paziente opporsi a queste forme di potere subdole e liberarsi dallo schema rigido di questa famiglia che si reggeva sulla legge : "Nessuno deve essere felice, perché sarebbe un tradimento, porterebbe all'allontanamento gli uni dagli altri...Nessuno si deve allontanare!" La mia fantasia di fare la rivoluzione era la reazione al senso di oppressione che spesso provavo in seduta, quando Alessandra mi diceva "Niente di nuovo, in casa c'è sempre la stessa atmosfera di nervosismo e di insoddisfazione...". La situazione sembrava immutabile e si ripeteva all'infinito, le giornate erano sempre uguali per tutti, compresa la mia paziente. Quando le facevo notare che stavano tutti male, ma nessuno voleva cambiare nulla, lei rispondeva "E' difficile farlo..."
Anche le sedute si ripetevano con uno schema sempre uguale: una descrizione concisa della situazione famigliare sempre più o meno uguale, un resoconto sugli attacchi bulimici, che si ripetevano con frequenza variabile a seconda dei periodi, e quando erano più frequenti, facevano precipitare Alessandra in una profonda depressione, il rapporto con il ragazzo che veniva descritto sempre con le stesse parole "Va benino, ma quando sto male, non ho voglia di vederlo..."
Questa situazione di "stallo" dell'analisi, mi dava la sensazione che tutto fosse "bloccato" dentro e fuori, cioè nella vita intrapsichica e relazionale della paziente. Anch'io mi sentivo bloccata e mi sembrava di ripetere sempre le stesse domande e le stesse interpretazioni. Vivevo una terribile sensazione di morte.
Un giorno mentre come al solito ascoltavo le sue lamentele, la interruppi bruscamente: "Basta, Alessandra, non sei stanca di ripetermi sempre le stesse cose? Non ne posso più di restare qua ad ascoltare, senza poter fare nulla di utile per te....Perché continui a venire da me? Che cosa ti aspetti? Mi sento impotente continuando così, e questo non lo accetto facilmente!" Dopo averle detto queste parole, mi ero sentita meglio, più viva, più vera, e mi ero resa conto che nei periodi precedenti mi ero allontanata emotivamente da lei, le sedute mi annoiavano, forse mi difendevo da una sensazione di impotenza che feriva il mio narcisismo e metteva in crisi il mio ruolo di analista e l'utilità dell'analisi. Il mio intervento scatenò un intensa reazione, Alessandra scoppiò a piangere e disse: "E' vero, non cambia niente, ma l'unica speranza di riuscire a stare meglio, la trovo qui...Non ne posso più di farmi del male, quando mangio troppo, faccio del male a me stessa, per non farlo a loro....almeno dopo me la prendo con me...! Ora so perché lo faccio..." Il rapporto tra noi diventò più vivo, finalmente la paziente, che avevo sempre visto docile e indifesa, cominciò ad esprimere verbalmente la rabbia, per le restrizioni che doveva imporre alla sua libertà e per le ingiustizie che quotidianamente subiva. Comprendere il significato aggressivo nascosto nel comportamento bulimico, ebbe come conseguenza una riduzione di frequenza degli episodi, che si presentavano più facilmente quando passava lunghi periodi in casa, mentre scomparivano quando trascorreva le giornate all'università. Alla maggiore capacità di esprimere la rabbia, fece seguito il primo sogno che portò in analisi (stavamo finendo il secondo anno) : "Avevo mangiato moltissimo, mi sentivo scoppiare...Poi comincio a vomitare e mi escono dalla bocca migliaia di vermetti bianchi, che mi fanno schifo. Vomito, vomito e ne vengono continuamente fuori altri...poi mi sveglio con un senso di nausea." Alessandra commentò il sogno, dicendo che non riusciva ad eliminare tutte le "cose schifose" che aveva mangiato. Le risposi che forse arrabbiandosi cercava di fare proprio questo. Mi chiedevo se tra le cose schifose qualche volta avrei potuto esserci anch'io, dal momento che non aveva mai espresso rabbia nei miei confronti, come d'altra parte non esprimeva direttamente nessun altro sentimento. Ogni volta che provavo a chiederle come viveva il rapporto con me, restava in silenzio, un po' a disagio, poi rispondeva "Bene...!" Capivo che non era ancora in grado di esprimere emozioni e sentimenti, la sua affettività sembrava congelata, la vita emotiva coartata. Quando le comunicavo il mio coinvolgimento emotivo e la mia partecipazione affettiva, lo facevo con cautela, perché non mi era facile sapere che effetto aveva dentro di lei.
L' esigenza di entrare in contatto con le sue emozioni e la sua affettività era frenata dal timore di sembrarle intrusiva, come lo erano la madre e la sorella. Dal materiale fornito da Alessandra, era emerso che per la madre volere bene significava nutrire di cibo e fornire cose materiali, provvedendo ai bisogni fisici "Quando ero piccola, insisteva perché mangiassi, si preoccupava della mia salute, ma non ricordo di averla mai sentita vicina quando ero triste, o avevo paura. Anche ora quando mi vede star male, mi chiede se è il caso di riprendere i farmaci...Mia madre deve sempre accudire qualcuno, ora lo fa con la zia, in un modo esagerato che mi fa rabbia!"
Io non volevo essere come la madre, talvolta temevo che le mie interpretazioni diventassero come il cibo e le cose materiali che le aveva dato la madre. Io volevo che Alessandra mi sentisse vicina come persona e desideravo essere riconosciuta come persona. Ma non sempre avevo questa sensazione e ciò mi dava la dolorosa percezione che il suo "blocco" emotivo e affettivo fosse diventato un po' anche mio.
Il bisogno della madre di accudire sempre qualcuno era stato senza dubbio un elemento chiave nel determinare l'insorgenza della sintomatologia psichiatrica della mia paziente, come lei stessa capì ed espresse con estrema lucidità : "Credo di essere diventata anoressica per non togliere a mia madre la sua bambina....Avevo da poco conosciuto il mio ragazzo, avevo voglia di essere grande, ma sentivo che a mia madre non faceva piacere, che sarebbe rimasta sola...Dimagrendo sembravo più piccola..." Dopo queste osservazioni, Alessandra pianse a lungo silenziosamente. Le dissi che mi sembrava terribile pagare un prezzo così alto, sacrificare la sua vita, il suo futuro...
E' del terzo anno di analisi il secondo sogno portato in seduta dalla paziente, un sogno significativo, anche perché compare una figura che viene associata alla mia persona. "Sono ricoverata in ospedale, mia madre e mia sorella, vogliono che stia lì, perché sono malata, ma io voglio scappare. Quando escono dalla camera, salto dalla finestra, corro via, una persona di sesso femminile mi apre il cancello dell'ospedale, e mi guarda sorridendomi. Fuori c'è il mio ragazzo in macchina che mi aspetta, andiamo all'aeroporto..." Alessandra dice che la persona che le apre il cancello potrei essere io, che l'aiuto a diventare libera. Credo che questo sogno si commenti da solo, vorrei solo aggiungere che per me è stato molto importante, perché mi ha fatto percepire in modo più chiaro che attraverso il rapporto con me, stava cercando di liberarsi dall'angoscia e dai sensi di colpa che la bloccavano nella posizione di eterna bambina malata e di svincolarsi dalla fusione simbiotica con la madre. Ero contenta di rappresentare per lei un ponte verso una vita più libera e verso il suo futuro (rappresentato dal ragazzo). Non a caso, dopo il sogno Alessandra mi presentò per la prima volta il suo ragazzo che la aspettava dopo una seduta. Fino ad allora non lo avevo mai visto. Ho cominciato a sentire con piacere di esistere come persona nella relazione con lei. Nello stesso periodo mi chiese di partecipare ad un corso di informatica che si teneva nel centro di aggregazione giovanile che io gestisco e di cui sono responsabile. Un altro piccolo segnale della sua accresciuta capacità di vivere il rapporto interpersonale, oltre che di sviluppare in modo creativo i suoi interessi, iniziando a sentirsi protagonista della sua vita. Vorrei sottolineare il fatto che da oltre un anno Alessandra non assume più psicofarmaci.

Il caso clinico esposto ci da lo spunto su alcune riflessioni sull'importanza del ruolo della partecipazione dell'analista alla relazione secondo un modello clinico interpersonale.
Il concetto di controtransfert nella storia del pensiero psicoanalitico ha vissuto varie evoluzioni e concettualizzazioni da:
Freud raccomandava una neutralità analitica secondo il modello dello specchio opaco (anche se in una lettera scritta nel 1927 a Oskar Pfister raccomanda un "cordiale rapporto umano" e lo rimprovera di guastare "l'effetto dell'analisi con una certa seccata indifferenza, e" di omettere "poi di scoprire le resistenze, che, così facendo, ha destato nel paziente");
In contrasto con Freud, Jung sottolineava l'importanza della reciproca influenza di paziente-analista e così si esprime in un suo scritto del 1929 intitolato "I problemi della psicoterapia moderna": "Comunque lo si voglia prendere, il rapporto tra terapeuta e paziente è un rapporto personale nell'ambito impersonale del trattamento. Nessun artificio può impedire che la cura sia il prodotto di un'influenza reciproca a cui p. e analista partecipano interamente. Nella cura si incontrano due fattori irrazionali, due persone che non sono entità circoscritte, ben definibili, ma che portano con sé, oltre alla loro coscienza più o meno chiaramente determinata, una sfera inconscia indefinitamente estesa. Perciò, per il risultato del trattamento psichico, la personalità del terapeuta (così come quella del p.) è spesso infinitamente più importante di ciò che il terapeuta dice o pensa, anche se quanto egli dice o pensa può essere un fattore non disprezzabile di perturbamento o di guarigione. L'incontro di due personalità è simile alla mescolanza di due diverse sostanze chimiche: un legame può trasformarle entrambe. Da ogni trattamento psichico efficace ci si deve aspettare che il terapeuta eserciti la sua influenza sul p., ma quest'influenza può verificarsi soltanto se il p. lo influenza a sua volta. Influenzare significa essere influenzati. Non giova affatto a chi cura difendersi dall'influsso del p., avvolgendosi in una nube di autorità paternalistico-professionale: così facendo, egli rinuncia a servirsi di un organo essenziale di conoscenza. Il p. esercita lo stesso, inconsciamente, la propria influenza sul terapeuta e provoca mutamenti nel suo inconscio: quei perturbamenti psichici (vere lesioni professionali) che sono ben noti a tanti psicoterapeuti, e illustrano clamorosamente l'influenza quasi "chimica" del p.";
M. Klein considera il transfert non solo come il risultato del riemergere del passato che si riattualizza secondo la coazione a ripetere, ma come uno spostamento verso l'esterno - cioè nella situazione analitica - del mondo di oggetti interni e parti del sé attualmente presenti nel p. L'interpretazione non ha come obiettivo la ricostruzione del passato, ma è un continuo commento sulle fantasie dinamiche attuali, che derivano dal passato ancora vivo, in quanto interiorizzato in presenze dinamiche. Per la Klein quindi assume importanza ciò che accade all'interno del processo psicoanalitico, nel "qui ed ora", e anche se per lei l'analista è presente solo come interprete, la sua scoperta del meccanismo dell'identificazione proiettiva, ha aperto la strada a successive elaborazioni verso una direzione interpersonale. Con l'identificazione proiettiva il p. immagina di mettere parte dei suoi contenuti psichici nella mente di un'altra persona, quindi vive in fantasia un'intensa forma di interazione tra sé e gli altri;
Bion iniziò a considerare l'identificazione proiettiva anche come una forma di interazione tra due persone, cioè la rese interpersonale: l'analista fa da contenitore a ciò che il p. proietta nella sua mente, poi, come fa la madre col bambino, glielo restituisce perché possa reinteriorizzarlo in una forma più accettabile e utilizzabile. Inizia allora ad essere preso in considerazione il fatto che i contenuti psichici del p. possono diventare un'esperienza dell'analista;
Racker nel '68 considerava il controtransfert come il principale strumento che ha l'analista per esplorare le dinamiche del p. L'analista si identifica con le proiezioni del p., che suscitano e attivano in lui ricordi ed esperienze infantili simili e comuni a tutti gli esseri umani. Quindi la persona dell'analista viene messa al centro dell'interazione psicoanalitica e la situazione psicoanalitica è diventata profondamente interattiva.
Per gli autori kleiniani più recenti, come Betty Joseph (1989), è fondamentale la consapevolezza dell'impatto del p. sull'analista e la "corretta valutazione dell'uso che il p. sta facendo di noi.." ;
Bowlby con la sua teoria dell'attaccamento, vicino alla linea delle relazioni oggettuali, pone al centro della relazione analitica il concetto di "base sicura" offerta dal terapeuta per esplorare il mondo del p. La situazione analitica determina la riattivazione del comportamento di attaccamento, in cui il transfert è la manifestazione dei modelli operativi interni dell'individuo che il terapeuta interpreta per modificarli. E' importante sottolineare che per B. non tutto quello che avviene nella seduta deve essere interpretato come una proiezione. Sopravvalutare la proiezione, potrebbe determinare l'errore di prendere per proiezioni le giuste percezioni della realtà da parte del p.
La dimensione relazionale transfert-controtransfert, quella che Fiscalini chiama "la relazione consensualmente valida o reale", separabili solo sul piano concettuale, acquisisce significato solo nell'ambito bidirezionale della relazione stessa; gli interpersonalisti contemporanei vedono il controtransfert come il reciproco del transfert, come lo stesso processo psichico. Per usare le parole di Wolstein (1975) "il controtransfert, inteso come quell'esperienza psichica che avviene durante la terapia psicoanalitica, non è diverso dal transfert".
H.S.Sullivan ha introdotto il termine "paratassi" invece di transfert e controtransfert, le integrazioni interpersonali sono paratassiche quando: "al di là della situazione interpersonale così come è definita nell'ambito della consapevolezza di chi parla esiste una situazione interpersonale concomitante del tutto diversa per quanto riguarda le sue principali tendenze di integrazione di cui chi parla è più o meno del tutto inconsapevole. Oltre al gruppo integrato dello psichiatra e del soggetto esiste nelle situazioni paratattiche anche un illusorio gruppo integrato di due persone: lo psichiatra "distorto" per accogliere uno speciale modello del "tu" e il soggetto che sta rivivendo una precedente integrazione non risolta e che sta manifestando il corrispondente modello speciale del "me". Queste distorsioni paratassiche o modelli "del tu e del me" si riferiscono chiaramente alla dimensione transferale della vita umana. Sullivan considera la paratassi come una delle tre forme dell'esperienza umana, intermedia dal punto di vista evolutivo tra la più primitiva prototassica e i più avanzati (e più strettamente logici) modi sintassici della simbolizzazione.
Venendo al caso presentato all'inizio la relazione con la terapeuta era impostata "secondo lo schema medico-paziente", modalità questa che riproduceva esattamente il rapporto di tipo genitoriale. Per Alessandra la risposta a cibo, farmaco e interpretazioni dell'analista aveva lo scopo di rendere impotente l'altro materno. Questa è stata una fase in cui la p. gestiva il rapporto secondo i suoi schemi "evitanti" appresi secondo interazioni con altri illusori. Per Sullivan gli altri illusori non erano preesistenti e riteneva infatti che tutte le immagini delle persone derivassero da interazioni con "altri" reali. Le personificazioni illusorie non corrispondono agli altri reali delle interazioni attuali, ma sono combinazioni e trasformazioni di altri reali presenti in interazioni del passato che vengono registrate, combinate e riorganizzate, e nuovamente sperimentate in complesse relazioni con altri reali nelle interazioni attuali. La p. per ridurre l'ansia ai livelli minimi organizzava la nuova situazione in base alle vecchie categorie (Sullivan parla di modelli io-tu) in modo da poter essere affrontata continuativamente secondo modalità collaudate ed affidabili. Le distorsioni paratattiche forniscono al p. un illusorio senso di sicurezza trasformando automaticamente le novità potenzialmente minacciose in una familiarità conosciuta anche se infelice. L'esperienza del passato modellata e trasformata nel corso della vita viene mantenuta perché esalta la sicurezza nel presente.
Il concetto di "osservazione partecipe" è centrale nella descrizione dell'analista nella tradizione interpersonale; per Sullivan gli eventi che forniscono informazioni sono quelli ai quali lo psichiatra partecipa. Il lavoro del terapeuta è un lavoro di investigazione: ottenere informazioni dal paziente, con l'opera lunga e difficile che consiste nel distinguere il passato dal presente, ciò che è illusorio da ciò che è reale.
Levenson è andato oltre affermando che "il terapeuta,..., diventa un partecipante totale e un osservatore della propria esperienza di partecipazione". L'analista, per un primo periodo, ha cercato di investigare, di analizzare e di ricostruire la storia della p. utilizzando reazioni emotive controtransferali di odio nei confronti della madre e della sorella della paziente entrando nelle sue aree paratattiche fino a diventare lei stessa la voce dell'odio della p. Se tutto questo è servito a comprendere la situazione emotiva e le modalità relazionali della paziente, ha creato però una collusione con le stesse modalità di interazione.
Come avverte Spotnitz "il controtransfert non può essere utilizzato con completa sicurezza fino a quando non sia stato depurato dai suoi elementi soggettivi. Queste influenze "estranee" devono essere "estrapolate" dal controtransfert obiettivo prima che vadano a contaminare la reazione controtransferale".
Al contrario per Giovacchini "il terapeuta può restare coinvolto nei processi psichici primitivi propri e del paziente, ma quando ciò avviene è per migliorare la comprensione della psicopatologia allo scopo di facilitare il processo terapeutico".
Racher nel 68 rilevava che la dinamica del paziente entra inevitabilmente in risonanza con quella dell'analista; i conflitti nei quali il paziente si dibatte sono conflitti umani universali, e questo fa rivivere nell'analista le sue personali lotte con i medesimi conflitti (quello che la Horney chiamava il "nucleo psicopatologico" dell'analista).
Ritornando al caso clinico rileviamo, comunque, in tutta quella fase del rapporto terapeutico definito dall'analista "situazione di stallo", non una "completa identità di pensieri e di sentimenti" ma uno spazio in cui medico e paziente "si muovevano in uno stesso ambito emozionale" (Eagle) che ha reso possibile in termini terapeuticamente efficaci la reazione controtransferale. Tutta l'azione terapeutica è collocata in questo campo interattivo diadico che paziente ed analista costituiscono. In tale ambito le interpretazioni acquisiscono importanza terapeutica al di là della parola e del suo significato: " è la voce con cui sono pronunciate che rende possibile il dispiegarsi e l'arricchirsi delle modalità caratteristiche del paziente nell'integrare le relazioni con gli altri" ( ).
Mi piace concludere con le parole di Feiner: è quello "che sta accadendo, e non la ripetizione, che determina una condizione molto diversa dall'originaria condizione patogena e" che quindi "costituisce un'esperienza emozionale correttiva ".

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