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Atti della Giornata di studio

"Le comunità sono terapeutiche?"



Finalità, attività e possibilità di M&R.

G. Foresti



Nella letteratura psichiatrica si trovano frequenti riferimenti ai possibili effetti di deriva anti-terapeutica e di disorganizzazione gruppale cui possono andare incontro le istituzioni che si richiamano al modello metodologico delle comunità terapeutiche (CT). Sin dagli albori dell'interesse per questo tema, e anche da parte degli autori più competenti e più entusiasti in materia di nuove soluzioni istituzionali, il problema della precarietà del buon funzionamento delle strutture residenziali a vocazione comunitaria è stato più volte sottolineato e a più riprese ribadito.

E' come se la tendenza all'entropia organizzativa e al decadimento tecnico e morale, che è una sorta di malattia congenita delle istituzioni psichiatriche, condannasse i dispositivi residenziali a tradurre con troppa rapidità in un incubo deludente le utopie, le illusioni e i sogni degli operatori più motivati.

Naturalmente, questa non è una legge di natura, e sono per fortuna molte le istituzioni che riescono a riprodurre per molti anni, al loro interno, le precondizioni e i fattori, clinici ed extraclinici, di buon funzionamento.

Le forze che spingono in una direzione anti-terapeutica sono però molto numerose e robuste.

Dato che allo scopo di prevenirle e di fronteggiarle efficacemente, sarebbe meglio conoscerle accuratamente, proviamo allora a classificarle, almeno in prima approssimazione, distinguendole in due grandi gruppi:
_ fattori di disfunzione interni e
_ fattori/condizioni di disfunzione esterni.

Nel libro sulle CT pubblicato da Cortina e curato da Ferruta, Foresti, Pedriali e Vigorelli (1999), osservazioni e analisi di questo tipo erano state sviluppate da molti autori. Più esplicito di altri, Antonio Andreoli ha ad esempio scritto che la qualità del contesto umano, che è certamente il più importante fattore terapeutico delle CT, è un ingrediente psico-sociale altamente deperibile.

L'idea della CT è da un lato un ideale indispensabile per muovere le istituzioni in una direzione meno custodialistica. Dall'altro però esso è anche un modello organizzativo condannato a rimanere in un certo senso virtuale, ipotetico: "un limite, un concetto asintotico", scrive Andreoli: qualcosa a cui si deve cercare di tendere, ma che è pericoloso pensare di avere raggiunto e finalmente realizzato.

Un analogo punto di vista su questo tema lo si trova nel libro dedicato da Kernberg ai gruppi e alle istituzioni. Tutt'un capitolo di questa raccolta di saggi è dedicato alle CT, e Kernberg è molto abile ad evidenziare e analizzare temi che chiunque abbia esperienza con questo tipo di problemi può subito riconoscere come rilevanti.

I problemi della dialettica socializzazione/riappropriazione cui va incontro l'autorità, ad esempio. Non è affatto un caso, infatti, che il dispositivo di cura più democratico e più egualitario che sia mai stato introdotto in campo sanitario abbia visto la luce in un ospedale militare. E questo paradosso storico si riproduce puntualmente, anche oggi, in ogni CT: come una tensione perpetua fra logiche di funzionamento democratico, fondate sull'autogestione nel governo del dispositivo, e logiche di tipo autocratico, fondate sulla presenza e sulla prevalenza di figure carismatiche - padri fondatori insieme necessari e troppo ingombranti.

Un punto decisivo, che Kernberg tratta con molta chiarezza è quello meglio della tendenza delle CT a costituirsi come una realtà troppo diversa e troppo distante dal contesto istituzionale in cui si inserisce.

Agendo come un elemento gruppale immaginario e inebriante, l'eccessiva demarcazione dei confini fra il dentro della CT e il fuori della realtà sociale, porta con sé fenomeni scissionali che alimentano un narcisismo collettivo assai potente sul piano terapeutico, ma che spinge il dispositivo nella direzione di una deriva autoreferenziale, e quando le cose vanno male francamente antisociale.

Dove, come succede in Italia e in Francia, le CT hanno poi in carico un grande numero di pazienti a funzionamento psicotico, questa difficoltà a costruire "ponti narcisistici" fra un dispositivo e l'altro, a predisporre canali sui quali far circolare un investimento affettivo più socializzato, è già in sé un potente fattore antiterapeutico.

Il rifiuto del mondo e il ritiro in se stessi dei pazienti trova una risonanza patogena nel ritiro e nel rifiuto alla collaborazione con altre strutture da parte di dispositivi istituzionali che rimangono così prigionieri delle loro mitologie costitutive.

Una delle più convincenti analisi delle ragioni di questa tendenza alla deriva antiterapeutica la si trova nel bel libro che Marcel Sassolas ha scritto e che la casa editrice Borla ha pubblicato in italiano quest'anno (Sassolas, 2001).

Costretti ad entrare in relazione coi pazienti alle condizioni che sono innanzitutto questi ultimi a dettare, gli operatori delle CT rimangono spesso imprigionati in quella che Sassolas ritiene essere un'equivalente psichiatrico della preoccupazione materna primaria: un miscuglio di fusionalità, istanze terapeutiche onnipotenti, lutti originari impossibili e pervasive, inevitabili seduzioni narcisistiche.

Mentre la madre normalmente e relativamente buona riesce poco per volta a emanciparsi dalla posizione materna primaria, e a evolvere verso quell'anticipazione materna in cui la soddisfazione genitoriale è fondata sul ridursi del bisogno di cure della prole, la "psichiatria della bontà" (è una formula di Sassolas) resta invece prigioniera di un atteggiamento riparatorio megalomane, che diveniene una ragion d'essere irrinunciabile.

Si potrebbe andare avanti a lungo con questi argomenti: questo è il modo, o meglio alcuni dei modi, in cui gli psicoanalisti descrivono e concettualizzano i fattori interni di disorganizzazione delle comunità terapeutiche.

Vediamo ora rapidamente alcuni dei fattori esterni.

Nella cartelletta che avete ricevuto all'ingresso, trovate oltre agli schemi che vi consentiranno di seguire le relazioni della mattinata e vari altri materiali, un articolo in inglese.

Prima di affrettarvi a concludere che non vi interessa e che è poco pertinente, vorrei che lo apriste nella seconda pagina, alla prima facciata, dove trovate il numero tre. Questo articolo è apparso sulla prima pagina del NYT nell'aprile di quest'anno, ed è un reperto fortunoso. Alcuni di noi si trovavano a New York per un congresso, e hanno notato, sul quotidiano locale, il New York Times, questo articolo intitolato CAOS IN UNA STRUTTURA RIFUGIO PER MALATI MENTALI.

Non è un saggio specialistico, gli autori non sono psicoanalisti e magari non sono nemmeno elettori democratici. Ma a pagina tre trovate in poche righe (sono quelle della prima colonna, che sono state in parte sottolineate) una sintetica descrizione di una storia che ci riguarda molto da vicino.

Si parla di istituzioni che all'inizio degli anni settanta cominciarono a ospitare pazienti sul territorio urbano newyorkese che provenivano dalle strutture psichiatriche statunitensi. LEBEN HOME, l'istituzione di cui l'articolo parla, è uno di questi dispositivi residenziali post-asilari.

In tedesco e in yiddish, "Leben" vuol dire vita. E l'articolo elenca con ordine gli avvenimenti che hanno caratterizzato la vita di questa istituzione (li trovate sintetizzati nel riquadro: 5 suicidi fra il 79 e l'80, percosse e decesso di una degente pochi anni dopo, un'altra epidemia con altri 7 suicidi fra il 79 e l'80, e poi minacce di revoca della licenza d'esercizio, denunce, accuse, operazioni chirurgiche sospette, ispezioni, evacuazioni etc.). La diagnosi che i giornalisti formulano è la seguente: "the homes", queste strutture, "had no mental health expertise", non avevano competenze, tradizione in materia di salute mentale, "but the state did not object", ma nessuna autorità istituzionale ebbe da obiettare.

I pazienti erano infatti - dichiara un'intervistata, Karen Schimke - "out of sight, out of mind": lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

Ora, si dà il caso che le politiche sanitarie fatte dalle autorità federali e statali nordamericane in materia di cronicità siano simili a quelle che, nel nostro paese, sono state attuate negli ultimi anni in materia di residenzialità psichiatrica. Nel loro complesso, queste politiche configurano un modello organizzativo che si definisce "esternalizzazione di servizio" (out-sourcing).

I fattori di contesto sociale, e dunque quelli che abbiamo definito come esterni alle CT, sono in larga misura influenzati da queste politiche.

Anche alle nostre latitudini, dunque, si sono determinate le premesse politico-istituzionali che rendono possibili e temo anche probabili involuzioni e derive di questo tipo. Certo da noi sarà un po' difficile che passino inosservate problematiche così macroscopiche. Leben Home è a NY, in quartiere degradato del distretto denominato Queens.

Nell'alessandrino, o nella provincia di Bergamo, non sarà possibile che non vengano notate e che vengano tollerate serie così eclatanti di eventi-sentinella. Ma siamo realisti, quali e quante saranno le differenze? Italiani brava gente, siamo soliti ripetere. Ma certa piccola imprenditoria, che beneficia delle condizioni di mercato che si sono create nel nostro paese in questo ambito, è poi così diversa dal Signor Rubin di cui ci parla l'articolo del NYT?

Non è davvero troppo facile, in un sistema in cui nel giro di pochi anni le offerte di trattamento residenziale sono cresciute tanto vertiginosamente (sono i risultati dell studio PROGRES a dirlo), ridurre i costi alle spese della qualità delle cure?

In un sistema di piccole strutture che mette anche qui da noi molti pazienti "out of sight, out of mind", chi assicura le funzioni di monitoraggio, ridiscussione, rinegozazione pubbico/privato?

Gli operatori di comunità devono sapere che quello che corre il rischio di ricadere sulle loro spalle è il peso soverchiante di un sistema che si è sbarazzato delle sue responsabilità cliniche in materia di cronicità, e che scarica alla periferia della rete dei servizi le sue contraddizioni, i suoi paradossi e le sue difficoltà.

Non sarebbe ragionevole evitare di sottolineare che tutti questi fattori esterni sono con ogni probabilità destinati ad accrescere la forza dei fattori che minacciano dall'interno il buon funzionamento della CT, trasformandola da dispositivo con grandi potenzialità terapeutiche in macchina iatrogena: non il transatlantico manicomiale, certo, ma la piccola utilitaria dell'emarginazione diffusa, socialmente mimetizzata.

E' bene che concluda rapidamente.

Queste poche pagine che io ho scritto, ma che risultano dalle molte discussioni che hanno avuto luogo nel gruppo anzi nei gruppi che hanno pensato e realizzato questo convegno, avrebbero dovuto avere un altro titolo: ERA DAVVERO NECESSARIA UN'ALTRA ONLUS?

Abbiamo poi deciso per un titolo più sobrio, perché di provocazioni in quest'iniziativa ci è parso che ce ne fossero già a sufficienza.

Il quesito però è quello giusto, e questa è una domanda che noi stessi ci siamo posti a lungo.

Valeva veramente la pena di costituire un'altra organizzazione?

Come si vede abbiamo poi finito per rispondere affermativamente.

I soci fondatori, e quelli che si sono poi aggregati, intendono l'associazione a cui hanno dato vita come un'organizzazione leggera, finalizzata a creare occasioni di scambio e di pensiero come questa di oggi.

Negli ultimi due anni, la ONLUS M&R si è data un programma di lavoro che ha comportato la costituzione di quattro gruppi di studio, coordinati
* da Emanuela Cafiso - sul tema della ricerca clinica -,
* da Marta Vigorelli e da Anna Ferruta - sul tema della consulenza/supervisione -,
* da Enrico Pedriali e da Edoardo Razzini - sull'argomento dei gruppi 'esperienziali' -,
* da Eugenia Pelanda e da Carla Marzani, la vera autrice del titolo della giornata odierna, sul problema del trattamento dei giovani psicotici.

Date le premesse che ho posto con questo discorso d'apertura, lo scopo sociale dell'associazione è ora facilamente esplicitabile: lavorare per fronteggiare costruttivamente i fattori esterni ed interni che minacciano il buon funzionamento delle strutture residenziali.

Un lavoro che è finalizzzato a facilitae la crescita di gruppi di operatori che sappiano aver cura della qualità umana del loro contesto lavorativo come di un bene prezioso e, purtroppo, facilmente deperibile.

Essere ottimisti, dati i tempi, non sarebbe prudente.

Ma Enrico Pedriali e io stesso ipotizzavamo, concludendo il nostro contributo nel libro già citato, che se le CT erano risultate dall'incontro della psichiatria e della psicoanalisi degli anni trenta con i problemi posti dalla seconda guerra mondiale, forse anche dall'incontro con i problemi posti dalla globalizzazione e dalle politiche neo-liberiste potranno derivare degli sviluppi creativi.

Mi piace passare ad altri la parola facendo notare - e ho davvero finito - che anche Marcel Sassolas ha concluso il suo bel libro con considerazioni analoghe.

"il clima di economie che si sta diffondendo in tutto il sistema saniatrio rischia di rendere più difficile il compito di tutti gli operatori" - ha scritto. "Ma tutto ciò potrebbe anche, paradossalmente, finire per avere un effetto salutare sulla psichiatria, costringendo gli psichiatri a sconvolgere le proprie abitudini e a rimettere in discussione i loro tabù".

Contribuire a questo esito costruttivo è una responsabilità di tutti.

M&R è uno strumento pensato per questo scopo, messo a disposizione di chiunque pensi di potersene servire.

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