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Atti del 1°Congresso SI-EFPP - Roma, 6 maggio 2000

"Costanti e Evoluzioni del Setting in Psicoterapia Psicoanalitica"




Cambiamenti di tecnica nell'analisi di bambini e degli adolescenti: nuove prospettive e nuovi problemi

Giuliana Lisa Milana

Associazione Italiana di Psicoterapia Psicoanaltica Infantile - AIPPI



Ringrazio gli organizzatori di questa giornata che mi hanno invitato a parlare e desidero esprimere la mia soddisfazione di partecipare per la prima volta - almeno per quanto mi riguarda - ad un incontro scientifico che vede riunite assieme relazioni ed interventi relativi alla psicoterapia psicoanalitica dei bambini e degli adolescenti, degli adulti e dei gruppi; mi appare questo un richiamo forte alla unitarietà del processo psicoanalitico nelle sue molteplici forme; un richiamo quanto mai opportuno in questo momento nel quale il fiorire di nuove modalità, se da una parte testimoniano la vitalità del pensiero psicoanalitico possono anche rappresentare un suo sfilacciamento ed indebolimento.
Ma andiamo ora al tema.
Nel preparare questo mio intervento mi sono trovata più volte a montare-smontare e rimontare questa relazione: le innovazioni di setting - e conseguentemente di tecnica - nelle terapie dell'infanzia e dell'adolescenza sono state veramente numerose in questi anni, forse più che negli altri settori. Il tempo a mia disposizione non mi permette di illustrarle e neppure di soffermarmi sui problemi che esse hanno posto e continuano a porre. Ho così pensato di scegliere solo due quesiti per le cui risposte ritengo ci sia ancora molto da discutere e lavorare. Essi sono: 1) Cosa rimane di psicoanalitico quando in un trattamento non è possibile usare l'interpretazione? 2) Cosa comporta nell'assetto mentale del terapeuta e del paziente lavorare contemporaneamente sull'intrapsichico e sull'interpersonale come avviene nella psicoterapia madre-bambino, nelle terapie degli adolescenti e dei genitori?
Le innovazioni provengono da alcune mutate realtà entro le quali si svolge il compito psicoterapeutico; esse sono a) l'espansione della pratica psicoterapica che oggi avvicina una popolazione diversa da quella del cerchio ristretto ed elitario nel quale i genitori, spesso essi stessi analisti o analizzati, mandavano i propri figli in psicoterapia. b) Lo sviluppo di interventi a carattere analitico all'interno dei servizi. Tale realtà ha cambiato il tipo di popolazione, ha dato grande incremento agli interventi sulla adolescenza e ha richiesto la costruzione di formule più praticabili, in definitiva più brevi. Inoltre alcuni fenomeni sociali, anche se diversissimi nella loro sostanza, richiedono ugualmente interventi tempestivi in presenza di traumi appena avvenuti, offrendo l'opportunità di lavorare sul trauma attuale, a differenza della cura, più conosciuta, del trauma pregresso. Mi riferisco da una parte alle violenze di vario genere subite dall'infanzia, dall'altra alle adozioni, specialmente se internazionali, di bambini al di sopra dei due o tre anni di età.
Prima di passare ai nodi problematici penso che debbo indicare gli assunti dai quali sono partita nel valutare l'appartenenza di un intervento terapeutico al campo della psicoanalisi. Essi per me sono stati l'attenzione al mondo interno del paziente, le cui chiavi di accesso, per quanto differenziate, debbono basarsi sull'uso del transfert (non solo all'uso dell'interpretazione di transfert) del controtransfert e su una rigorosità del setting il quale pur nelle sue differenze (di ritmo nel tempo e di contratto), deve mantenere la stabilità e la costanza dei suoi elementi costitutivi, condizioni necessarie per permettere lo stabilirsi del rapporto psicoanalitico, l'affiorare dei fantasmi e la loro riconoscibilità. Ultima, ma non ultima, l'interpretazione, non sempre nella sua forma verbalizzata e comunicata al paziente, ma nella sua presenza nella mente del terapeuta anche se allo stato di ricerca e di tensione a...

L'interpretazione è lo strumento principe dello psicoterapeuta che fonda nella psicoanalisi il suo operare; e ciò che rappresenta il proprio specifico e fa parte integrante della sua identità; ebbene c'è una fascia sempre più larga dei nostri pazienti bambini e adolescenti che non solo si dimostra impenetrabile alle interpretazioni, ma le rifiuta attivamente al punto di rendere assai problematica una sufficiente alleanza terapeutica. Il fenomeno riguarda veramente anche una tipologia di pazienti adulti della quale ovviamente non parlerò, ma che voglio segnalare perché possiamo vedere qui un punto di intersezione e di confronto tra terapia infantile e quella degli adulti.
L'opposizione all'attività interpretativa o la sordità alle proposte di nuovi significati è espressione di molteplici disagi psichici che vanno riconosciuti e trattati in modo adeguato. In questa sede mi limiterò a segnalarne alcuni che riguardano una particolare fascia di età che va dagli 8-9 anni ai 15-16, che inizia nella tarda latenza prosegue nella pubertà e nella prima adolescenza. Naturalmente non intendo dire che tutti i pazienti di queste età presentano le stesse connotazioni, ma piuttosto che coloro che hanno questa forte oppositività all'interpretazione sono preferibilmente compresi in tale arco di età.
Questo fenomeno è particolarmente legato alla fruibilità allargata della psicoterapia; in passato questi pazienti adulti, adolescenti e bambini sarebbero stati semplicemente visti come non adatti ad essere seguiti con un lavoro psicoanalitico; e d'altro canto il fatto di averli fatti entrare nel novero degli analizzandi ci offre l'occasione di approfondire concettualmente alcuni capisaldi della tecnica.
Farò ora una presentazione di due sequenze tratte da una psicoterapia con un ragazzo di 13 anni. (Non riporto per iscritto le sequenze, che presenterò per ora solo a voce, si tratta infatti di materiale troppo recente).

Commento
I due interventi possono apparire senza altro "selvaggi" per il loro diretto riferimento alla realtà del ragazzo (venuto in Italia all'età di quattro anni da un paese dell'Asia per un'adozione) e per l'iniziativa del terapeuta di introdurre argomenti nel colloquio psicoterapeutico.
Si tratta di un paziente che non usa il materiale da gioco, che non racconta sogni, che si esprime verbalmente con una modalità molto povera, confinata in due o tre argomenti: il calcio, qualche bravata con i compagni, qualche impresa attuata per lo più ai danni di persone o cose. La diagnosi del servizio che lo ha inviato diceva tra l'altro: " .......Presenta immaturità neuropsicologia globale con iperattività in un soggetto con storie di grave deprivazione affettiva e socio-culturale". In realtà diagnosticato all'inizio come lieve insufficiente mentale, una conoscenza approfondita aveva fatto propendere per un grave blocco intellettivo derivato da traumi gravi e ripetuti; opinione con la quale ho concordato pienamente.
Devo qui dire che al tipo di comunicazione usuale, di cui vi ho parlato, ne devo aggiungere un'altra, espressa con rapidi e brevissimi sussurri, un lieve muovere delle labbra quasi si trattasse di messaggi subliminali fatti in uno stato di sopra pensiero, che non sono mai potuti passare nell'altro registro e che riguardano un'area che il paziente non vuole mai toccare e di cui non vuole sentire parlare: "tutti quei fratelli che sono rimasti laggiù' ' a mia madre non importa nulla di quello che faccio ora'. A me, che dichiaravo la mia preoccupazione-dispiacere per una cosa accaduta nel nostro rapporto 'ma io non ci capisco niente di queste vostre cose'. Nelle innumerevoli sedute succesive, senza storia, in cui non sembrava esserci nulla, oltre il senso letterale delle parole, ero andata maturando una ipotesi di lavoro: esisteva in questo ragazzo, apparentemente ottuso, una parte dolente e nascosta, circondata da un'area di vergogna, che non poteva essere toccata, non solo dalle mie interpretazioni, ma neppure dal suo stesso pensiero che poteva solo fugacemente sorvolarla. Come definire lo stato mentale dei momenti sussurrati? Non è facile dirlo; ma credo che si tratti di uno stato tra il sogno e la realtà; stato non veramente onirico, ma neppure presenza della coscienza: Un fenomeno che ho ritrovato più volte in ragazzi che erano stati adottati o avevano subito grossi traumi (coincidenza o più preciso rapporto causale?) di cui ho scritto in un altro lavoro.
Non si può parlare in questi casi di rimozione; il quadro nevrotico che ne risulterebbe sarebbe più noto e di più conosciuto accesso; la confusione sembra essere il derivato più evidente e riconoscibile, sostenuta da aree intoccabili di caos mentale primitivo. Come arrivare a queste zone off limits, come raggiungere il mondo interno del paziente senza la chiave dell'interpretazione? Nel caso specifico il mio tentativo è stato di assumermi io stessa affetti e pensieri per lui impensabili ed innominabili, e di portarli in seduta in quei momenti rari nei quali controtransferalmente e solo così, avvertivo esserci un piccolo varco attraverso il quale introdurli. Una specie di 'sortite', ballon d'essai che erano invece momenti di emersione di una navigazione sotto traccia lunga e continua; navigazione portata avanti dai pensieri muti del terapeuta e che suppongo attraversare anche qualche regione remota della mente del paziente.
Un'altra causa dell'intolleranza alle interpretazioni è che nell'età indicata comincia a farsi strada la capacità di un pensiero auto riflessivo e la concomitante coscienza di una propria identità; momenti fondanti e delicati, nuove costruzioni fragili, una riedizione dell'uscita dalla simbiosi materna (Malher) dei 14- 15 mesi in cui il 'no' costituisce il primo baluardo posto a difesa della nascente percezione di sé; in modo analogo il timore di questi ragazzi di sentire la propria mente invasa dai potenti pensieri di un adulto potente è grande; ed è tanto più grande quando il percorso di sviluppo è accidentato, come lo è quello dei bambini e ragazzi che ricorrono alle nostre cure. In tali casi l'interpretazione può suonare 'ti dico io cosa c'è nei tuoi pensieri' e prende l'aspetto di una vera e propria effrazione.
L'esempio portato ha avuto il compito di illustrare nel modo più vivo possibile una condizione del rapporto terapeutico; non esaurisce ovviamente né le forme in cui si presenta il fenomeno né le modalità per affrontarlo. L'ho voluto portare all'attenzione perché mi sembra uno di quei campi nei quali occorre lavorare per cogliere nuovi aspetti della comunicazione analitica e del suo potenziale mutativo.
C'è inoltre un altro buon motivo per prestare attenzione a questi aspetti della tecnica che possiamo considerare 'aree di confine'. Mi riferisco alla difficoltà di mantenere un assetto analitico, un vero setting interno, nonostante che la comunicazione passi attraverso forme che possono apparire sostegno, incoraggiamento pedagogico, benevola compagnia.
Quando il vertice psicoanalitico è perso non è facile, se non impossibile, riconvertire la situazione e ricomporre un setting appropriato; è infatti arduo reggere l'attacco che il paziente fa al pensiero del terapeuta, tanto più quando a questi viene a mancare un punto di appoggio forte: l'interpretazione comunicata. Sottolineo l'aggettivo comunicata perché l'interpretazione, nonostante la sua assenza nello scambio verbale, deve rimanere una costante nella mente dello psicoterapeuta.
Le modalità ora descritte possono appartenere ad una fase iniziale anche se lunga, che viene indicata come preparatoria, nella quale si costituiscono le coordinate necessarie al dispiegamento del processo psicoanalitico.
Ma non è infrequente il caso nel quale il lavoro si limita o sembra limitarsi alla fase preparatoria; questo accade particolarmente con i piccoli pazienti che iniziano a lavorare con noi nella tarda latenza fino all'affacciarsi dell'adolescenza. Bene, alcuni di questi ragazzi, nella mia esperienza personale ed anche dalle notizie che mi hanno fornito diversi colleghi, si sono ripresentati spontaneamente da giovani adulti per chiedere una analisi con motivazioni di sorprendente insight; una situazione tutt'affatto diversa dall'atteggiamento mentale nel quale li avevamo lasciati e una riprova di come l'assetto mentale del terapeuta riesca a continuare la sua influenza nel tempo.

I più vistosi cambiamenti di setting li troviamo nella psicoterapia madre-bambino e nella presa a carico degli adolescenti, questi due modalità di intervento hanno trovato una diffusa affermazione negli ultimi anni sia negli studi privati che nei servizi pubblici.
Per motivi di tempo scelgo di soffermarmi solamente sui cambiamenti apportati dalle terapie madre-bambino perché credo a tutti voi sia nota la complessità e i diversi tipi di intervento attuati nei confronti degli adolescenti.
Riguardo alle terapie madre-bambino occorre subito premettere che sarebbe più corretto parlare di terapie madre-bambino tanto esse sono diverse in relazione agli scopi da raggiungere e agli strumenti da utilizzare. Non posso citare tutti gli esempi di lavoro madre-bambino ed anche genitori-bambini presentati come materiale clinico in situazioni occasionali e di consultazione, dove gli autori non propongono un vero e proprio modello di psicoterapia, pur essendovi tra questi psicoterapeuti molto illustri - quali Winnicott, Lebovici Dolto, Normann ed altri. Fu per prima la Mahler negli anni 40' a mettere a punto questo nuovo genere di psicoterapia; essa nasceva direttamente dalla sua teorizzazione delle fasi di sviluppo del rapporto tra il bambino e la madre: la fase presimbiotica, la fase della simbiosi ed infine quella della separazione ed individuazione. La terapia si colloca nella seconda di queste fasi e mira a dare alla coppia una occasione di esperienza simbiotica correttiva. L'attività interpretativa è minima; non vengono toccati i fantasmi materni ma si lascia che sia la madre stessa a formulare interpretazioni del comportamento del bambino nel corso della terapia stessa. La madre è vista come una sorta di collaboratore.
Mossa inizialmente da istanze sociali Selma Freiberg effettua pressappoco nello stesso periodo interventi a domicilio per aiutare l'instaurarsi di un buon rapporto madre-bambino in casi di madri adolescenti e disturbate e, ovviamente, non in grado di cercare e sostenere una psicoterapia. Questo intervento viene chiamato 'la terapia nella cucina'. La stessa autrice ha coniato anche l'espressione "il fantasma nella nursery" per evocare la presenza inquietante degli oggetti interni dei genitori nella costituzione dei fenomeni transgenerazionali. Ella divide le terapie madre- bambino in tre tipi: 1) interventi brevi nelle crisi, 2) terapie di sostegno e counsiling 3) psicoterapie intensive. In tutti e tre i tipi la Freiberg pone il focus sul transfert di un conflitto interno della madre nella relazione con il bambino. Ma solo a proposito delle terapie intensive si parla di interpretazioni che vengono fatte alla madre sui suoi conflitti centrali e su come essi si proiettano nella sua relazione con il figlio. Di tutt'altro tipo, ma con modalità non molto diverse sono le psicoterapie madre-bambino sperimentate nei casi di autismo da Adriano Giannotti e Giuliana De Astis. Ma la copresenza dell'intrapsichico e dell'interpersonale, come aree integrate sulle quali lavorare, viene esplicitamente teorizzata da P. Espasa e B. Cramer; anche se queste due facce della psicoterapia madre bambino erano già presenti - in forme e proporzioni differenti - nei precedenti autori, esse non venivano così chiaramente esplicitate.
Occorre ricordare che tra i primi terapeuti citati ci sono di mezzo le ricerche e le teorizzazioni degli interazionisti e dei teorici dello sviluppo. Bowlby in primo luogo con la sua teoria dell'attaccamento e poi Brazelton, Emde, Stern ed altri. Essi sottopongono l'interazione madre-bambino, attraverso procedimenti rigorosamente codificati e precisi, ad una osservazione di tipo microscopico dalla quale traggono categorie ricorrenti nei gradienti di sviluppo e nei diversi stili di attaccamento. Queste ricerche non sono psicoanalitiche, tuttavia i loro risultati sono apparsi interessanti ed utilizzabili anche da psicoterapeuti di ispirazione analitica.
Così nelle prefazione al loro libro Le psicoterapie madre-bambino P. Espasa e Cramer scrivono: 'Le psicopatologie del bambino molto piccole possono essere meglio comprese facendo contemporaneamente riferimento a due aspetti: l'intrapsichico e l'interpersonale. Nelle terapie madre-bambino questa visione bifocale è possibile. La madre rivela, tramite le sue associazioni, il segno della sua conflittualità nelle relazioni con il bambino; le interazioni madre-bambino che si svolgono parallelamente rivelano la messa in atto di questi conflitti, a cui il bambino contribuisce a seconda del suo funzionamento mentale.
E' al livello dell'incontro tra la conflittualità materna e il funzionamento nascente del bambino, e tra l'intrapsichico e l'inter agito che lo psicoterapeuta articola la sua comprensione. Più avanti nel corso del libro viene modellizzato l'intervento bifocale nella Sequenza Interattiva Sintomatica che è 'una struttura ripetitiva nello scambio madre-bambino che focalizza la patologia tipica della diade e si collega causalmente ad un conflitto centrale della madre (...). Il riconoscimento della 'materializzazione' di una attività difensiva, a livello della inter relazione è utile per il lavoro interpretativo: il terapeuta deve poter cogliere l'emergere di tale attualizzazione e interpretarla alla madre come correlato agito della sua difesa intra psichica'.
Mentre non sembra possano esserci difficoltà nell'integrazione di questi due livelli per quanto concerne la comprensione, che certamente ne risulta più arricchita, sorgono molti interrogativi relativamente all'intervento, o meglio al setting che si viene a costituire nelle relazioni incrociate tra i tre componenti: madre-bambino-psicoterapeuta con relativi transfert e controtransfert.
Poiché la comprensione del terapeuta - matrice delle interpretazioni e degli altri interventi - è irrinunciabile perché vi sia un intervento di carattere psicoanalitico, comunicazione per essere dinamizzante deve nascere dal controtransfert e dal transfert. A questi concetti che esistono fino dagli esordi della psicoanalisi si è aggiunta negli ultimi tempi l'interessante teoria del campo bipersonale dei coniugi Baranger, ripresa da Antonino Ferro con il concetto di 'aggregato funzionale' o 'ologramma affettivo'. Se nella psicoterapia individuale il campo è bipersonale nella terapia madre-bambino il campo sarà tripersonale, sappiamo però che non si tratta di aggiungere semplicemente un fattore, che l'operazione non sarà più una addizione, ma una moltiplicazione. Pongo questi problemi non perché debbano fungere da deterrenti e limitazioni alle nuove sperimentazioni, ma perché è necessario non eluderli per arrivare ad interventi che siano per lo meno chiari concettualmente nel pensiero del terapeuta.
In un numero della rivista Richard e Piggle, come introduzione al focus di quel fascicolo che era centrato sulla terapia madre-bambino, Diana Norsa si poneva interrogativi in un certo senso simili a questi. A proposito delle possibili dinamiche transferali e controtransferali intercorrenti tra i diversi attori a questo proposito scriveva: 'Insomma se c'è al momento attuale una certa chiarezza in merito a quali obiettivi un programma terapeutico dovrebbe ragionevolmente perseguire, ancora molto cammino deve essere percorso relativamente ai metodi e ai mezzi per raggiungere tale obiettivo' (Richard e Piggle 1993). Correva l'anno 1993 e non ho trovato attualmente una letteratura e delle rappresentazioni cliniche che esprimessero una elaborazione ulteriore della problematica che già allora veniva evidenziata.
Si avverte una spinta e un desiderio di integrazione tra i diversi modelli di riferimento; questo può rappresentare un segno di maturità, ma, analogamente a quanto accade nello sviluppo dell'individuo, una buona integrazione è possibile solo quando l'individuazione è solidamente piantata. In altre parole, ancora oggi non è ben chiaro in che modo l'acceso all'intrapsichico possa coesistere con l'osservazione e il commento sull'interagito: in un momento il terapeuta è dentro la relazione stessa e comunica con il paziente dal proprio interno all'interno dell'altro, in un altro momento il terapeuta diviene un osservatore e, come tale, commenta l'agito - elemento esterno visibile del paziente.
Unificando i punti problematici emersi nel corso di tutta la relazione possiamo dire che lo stato dell'arte nella psicoterapia dell'infanzia e dell'adolescenza sia connotato attualmente da un fermento di nuove sperimentazioni che si affacciano dietro la spinta di nuove esigenze, come ho già detto e una ancora scarsa ed insufficiente elaborazione teorica delle stesse.
E' un momento importante che può divenire anche insidioso. Se andiamo all'origine dell'analisi infantile possiamo vedere come quelle che allora erano novità sconcertanti hanno poi portato ad un ampliamento del panorama psicoanalitico; pensiamo all'inclusione di categorie di pazienti considerate fino a quel momento non analizzabili. Ma anche allora è stata presente l'eventualità che la nuova psicoterapia per l'infanzia si confondesse e si diluisse in interventi correttivi e pedagogici. Quello che a quel tempo ha prevalso è stato invece un punto di vista e un procedere chiaramente psicoanalitico. E' questo credo è ciò di cui abbiamo bisogno anche ora; individuo in questa esigenza di elaborazione dei nodi teorici e tecnici dei nuovi settings il compito specifico delle diverse Associazioni o Società di psicoterapia psicoanalitica. Un lavoro comune che non può essere proficuo al di fuori di un confronto costante, come quello che l'EFPP inaugura in questa giornata.



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