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Atti del 1°Congresso SI-EFPP - Roma, 6 maggio 2000

"Costanti e Evoluzioni del Setting in Psicoterapia Psicoanalitica"




Processi Affettivi e Relazione Insegnante - Alunno

Anna Maria Di Santo, Maria Grazia Fusacchia

Membri Ordinari della S.I.PS.I.A



Nel lavoro clinico con gli insegnanti, numerosi e preziosi sono stati i riferimenti alla teoria psicoanalitica, ed in particolare alla teoria winnicottiana, nella faticosa ricerca di un filo conduttore attraverso cui dare un significato alla nostra esperienza. Per Winnicott la salute di un individuo è in stretto rapporto con la reciprocità delle relazioni. "Un segno di salute mentale" egli scrive "è la capacità di un individuo di entrare con l'immaginazione esattamente nei pensieri, nei sentimenti, nelle speranze e nelle paure di un'altra persona, e di permettere all'altra persona di fare lo stesso con lui... ".(1970) Abbiamo così cercato di creare le premesse reali e mentali di uno spazio potenziale per favorire che insegnanti, genitori, allievi con problemi ed il gruppo-classe, potessero "mettersi in gioco" creativamente, con l'obiettivo di facilitare il ritrovamento del vero sé e di una fiducia di base. Con ciò alludiamo alla necessità che la realtà sia organizzata in funzione del bambino, cioè adattata alla sua vita, tale da venire a lui svelata a poco a poco, man mano che acquisisce la capacità di affrontarla. Si tratta di creare una situazione di ricettività, in quanto, organizzando l'ambiente per il bambino, provvedendo a ciò che è necessario, inclusi i limiti, nel senso anche di regole, si crea una rete protettiva che viene a coincidere con un ambiente facilitante lo sviluppo. Vorremmo precisare che nell'accezione di "giocosa" atmosfera in classe, alludiamo alla capacità di impegnarsi in una comunicazione in cui sia possibile condividere le emozioni, prescindendo da un obiettivo esplicito, ed orientate dalla convinzione di evitare il pericolo di "asservimento", che per Winnicott è il vero contrario del gioco. Per definizione il gioco presuppone una fase di crescita e di sperimentazione della realtà, momento preliminare ad una sua successiva elaborazione mentale. Trasferendo il concetto del "mettersi in gioco" alla relazione con l'allievo, per l'insegnante l'obiettivo diverrà quello della costruzione di uno spazio mentale condiviso, espressione della dimensione ludica e creativa della relazione educativa. In questo modo, si realizza la libera circolazione di bisogni e desideri, essenziale per la crescita individuale e del rapporto che, peraltro, implica il poter contemplare e tollerare anche i rischi e le incertezze. La relazione educativa può quindi essere intesa come il campo della fantasia, del gioco e della creatività, dove sia possibile tentare di esprimere il nucleo della personalità, il vero sé che, come dice Winnicott, coincide con l'esperienza stessa del vivere. Abbiamo constatato che quando l'insegnante si aspetta dall'allievo delle prestazioni scolastiche o quando pensa di non poter raggiungere alcun obiettivo di apprendimento con il bambino, l'area del gioco e la sua applicazione ai contenuti scolastici viene a mancare. Il paradosso è che le consolidate ed indiscusse "mete educative", delegate prevalentemente all'istituzione scolastica e familiare, non sempre favoriscono l'emergere del Vero Sé; spesso purtroppo, scuola e famiglia riescono a tramare veri e propri inganni, che alienano il Vero Sé, sostituendosi ad esso. In tal caso, la compiacenza, l'imitazione e l'adattamento alle regole prendono il sopravvento.Tuttavia queste non sono sufficienti a riempire il penoso vuoto interiore, prodotto dall'esclusione e dal mancato riconoscimento, e la situazione tende a peggiorare. Nei gruppi di lavoro che abbiamo condotto con gli insegnanti, attraverso la metodologia dell'osservazione partecipe, questi ultimi hanno potuto porsi domande come: "chi sono ?", "che cosa desidero ?", "sono soddisfatto ?", "cosa mi aspettavo dal mio lavoro ?". Il porsi tali interrogativi ha facilitato l'osservarsi ed il confrontarsi insieme all'allievo, guardandolo dall'interno con occhio attento, benevolo e non persecutorio. Nello sforzo di rintracciare delle risposte, gli insegnanti si sono ritrovati ad un bivio, venendo attraversati da sentimenti ambivalenti di angoscia e di speranza; da un lato, hanno percepito che queste si configuravano come un'occasione di incontro con le proprie parti più autentiche, che coincidevano allo stesso tempo con quelle più fragili e bisognose. Dall'altro, si sentivano spinti a rifugiarsi difensivamente in allarmanti intellettualizzazioni, derive di un processo di crescente alienazione da se stessi, mascherato dal ricorso alle intoccabili mete educative, intese come necessità di oggettivare totalmente la relazione con l'allievo, depurandola dei contenuti emotivi e affettivi. E' superfluo sottolineare i danni che, inevitabilmente, conseguono a quest'ultima posizione. L'allievo viene vissuto soltanto come un "oggetto", in modo non dissimile, per certi versi, dalla soggettivazione confusiva in cui si incorre quando l'insegnante vive il bambino come una parte di sé, per l'eccessivo investimento narcisistico a cui ha bisogno di sottoporlo. Nell'inganno perpetuato a danno del bambino, che viene ad essere perseguitato dalla necessità di una "buona educazione", rientrano anche quegli aspetti di invidia che l'insegnante può provare per la presenza in lui di elementi creativi e vitali se, nel confronto, è costretto a constatarne la bruciante mancanza all'interno del suo universo psichico. Abbiamo potuto avvalerci delle derive teoriche dello strumento del controtransfert, del lavoro psichico necessario per accedere ad un suo riconoscimento, essendo quest'ultimo uno strumento essenziale e prezioso per aiutare gli insegnanti ad avvicinare i loro sentimenti e le loro emozioni, per promuovere il confronto con i loro aspetti conflittuali, che circolano nella relazione con l'allievo con problemi. Questo processo di elaborazione psichica ha permesso che emergessero i penosi sentimenti di inadeguatezza ed immutabilità che, se fossero rimasti inelaborati, avrebbero impedito la comunicazione, dal momento che questa si fonda sulla necessaria fiducia di base. Senza voler generalizzare, questo è particolarmente significativo con ragazzi borderline e psicotici, che spesso tendono ad una sovrapposizione ed interscambiabilità tra realtà interna ed esterna.(Winnicott, 1935). Su queste premesse, è stato indispensabile affrontare con gli insegnanti, al fine di una riconciliazione con se stessi, il tema del "lutto" per la propria infanzia e adolescenza, il rivivere accanto alle esperienze positive, anche quelle traumatiche precoci, con le intense emozioni di rabbia, frustrazione. Il poterle riconoscere e condividere, in molti casi, ha consentito l'avvio di un processo di elaborazione e l'investimento in nuove situazioni. L'esperienza si è trasformata per l'insegnante in un'esperienza positiva di sé, andando ad alimentare anche la relazione educativa. Nel paragonare se stessa e i suoi allievi a degli animali un'insegnante ha osservato : "Mi sentirei una tartaruga e vedrei i ragazzi come puledri. Infatti, l'insegnante dovrebbe essere saggia, capace di ascolto e di lenta meditazione ; i ragazzi sono giustamente protesi verso il futuro, in movimento. Accade che la tartaruga sia sconvolta, perché il suo solito percorso è stato alterato e cancellato dagli zoccoli di puledri in corsa. Inizialmente si ferma, poi decide di decifrare i nuovi segni sul terreno e scopre, grazie ai puledri, che i percorsi possibili sono tanti, non tutti "razionali" come il suo di una volta, ma capaci di portarla in luoghi sconosciuti ed interessanti. Ed inizia una splendida amicizia". Solo la progressiva scoperta ed esperienza, sia pur limitata, da parte dell'insegnante, degli aspetti meno consapevoli presenti nel suo mondo interno, delle valenze traumatiche costantemente rivissute attraverso reiterate messe in scena, che sembrano ripercorrere strade già conosciute, può permettergli di entrare in contatto e di comprendere, a sua volta, il senso della sofferenza nascosta nell'allievo. Un altro aspetto su cui è stato molto utile soffermarci è quello dell'odio, quale sentimento presente nella relazione educativa, ed il suo importante nonché difficile riconoscimento. Attraverso la sua elaborazione abbiamo constatato che è possibile attuare una situazione di holding, cioè di sostegno nella relazione e nella crescita, per riuscire a dare un senso a ciò che accade, ed evitare giochi proiettivi ed agiti.(Winnicott, 1968). Nel concetto di holding ha un grosso peso l'apporto del bambino, gli accomodamenti reciproci che si determinano, essenziale è l'interazione tra holding e sviluppo. C'è l'holding di un bambino che è ancora preda della sua crudeltà, e l'holding di un bambino più sano e maturo che può andare incontro alle carenze dell'adulto. Nell'holding, ad un certo punto è possibile cogliere il gesto spontaneo del bambino, che consiste nel Vero Sé in azione, ciò che per ogni persona "dà senso al reale" e che ognuno può trovare solo per se stesso. Winnicott ipotizza che tutti abbiano un Sé che, come una pianta, ha bisogno di un ambiente nutritivo per crescere, ma sappiamo che ci sono persone che hanno subito fallimenti talmente gravi nel loro primo ambiente di vita da pensare di non aver mai iniziato ad esistere; pertanto le loro vite sono caratterizzate da un senso di futilità, nato dalla sottomissione. Per queste persone, il poter sperimentare la scuola come uno spazio transizionale, in cui sia possibile "mettersi in gioco", li mette in grado di cominciare a sentirsi reali, il ché significa "trovare un modo per esistere come se stessi e potersi rapportare agli altri come se stessi". Con la nostra presenza, si è favorita nell'insegnante la capacità di "essere lì al momento giusto" per dare all'allievo un'attenzione sufficientemente attendibile ed ordinaria che per entrambi è spesso una condizione straordinaria. L'allievo ha potuto fare l'esperienza di una situazione gratificante, in cui sperimentare la sensazione di poter ovviare in un qualche modo al fallimento dell'ambiente, arginando l'angoscia della propria distruttività onnipotente o di una paralizzante impotenza. La relazione educativa si è andata così definendo come una particolare forma di comunicazione tra due partners, cioè di coppia, piuttosto che come un rapporto asimmetrico tra un osservante e un osservato. Il nostro percorso di indagine si è così orientato sulle modalità e i livelli di comunicazione presenti nella coppia insegnante-allievo. La risonanza emotiva prodotta dalla "voce" dell'allievo è stato il filo conduttore attraverso cui l'insegnante ha potuto sperimentare e riconoscere dentro di sé l'agire di "parti" della personalità dell'altro. Spesso la comunicazione verbale è risultata carente, inesatta, riduttiva, rispetto a contenuti poco differenziati, inesprimibili con le parole. Le sensazioni emotive dell'insegnante sono divenute allora un veicolo insostituibile, per rendere possibile e completo uno scambio, altrimenti limitato o falsato tramite un uso ristretto del linguaggio. La risonanza emotiva, pertanto, può divenire il "clou" del processo didattico ed un prezioso strumento di conoscenza per l'insegnante, se usato con oculatezza, senza cedere a facili quanto immotivati ottimismi, date le implicazioni strettamente personali presenti nel rapporto. Da un lato il mettere in gioco aspetti così profondi del proprio Sé favorisce la possibilità di una comunicazione e comprensione empatica. Allo stesso tempo, però, l'empatia si disperde, ed il rapporto può essere vissuto come minaccioso ed incomprensibile, quando l'allievo tocca oscure zone conflittuali che l'insegnante preferisce non affrontare né comprendere per una propria economia interna. D'altronde, nella nostra esperienza, sono stati proprio il riconoscimento e l'elaborazione di queste parti più infantili e "nevrotiche" a provocare una crescita significativa nella relazione. Nel suo divenirne consapevole, l'insegnante ha potuto spiegarsi contenuti essenziali del conflitto dell'allievo e del suo rapporto con lui. Queste considerazioni illustrano il nostro rappresentarci la relazione educativa come una rete interattiva molto spessa di messaggi in gran parte inconsci, che si organizza in un sistema con una struttura complessa e precise modalità di funzionamento a differenti livelli di profondità: reciproci scambi, influenze, modificazioni, incomprensioni, conflitti di competenze, rifiuti, ecc.. . L'epicentro del sistema ci sembra vada rintracciato soprattutto nella capacità di uno "stare insieme"; in momenti, in tempi ed ai livelli richiesti, senza che sia più possibile rintracciare insegnante e allievo, come oggetti separati al di fuori di una profonda relazione dinamica che trascende le singole individualità. Per limitare il rischio di equivoci e distorsioni, abbiamo focalizzato la nostra attenzione sulla distinzione tra realtà della relazione e fantasie sulla relazione : "Che cosa l'insegnante ha comunicato realmente all'allievo attraverso la postura, la mimica, ecc. ? Che cosa avrebbe voluto comunicare ?." Su queste premesse, possiamo entrare nel merito degli aspetti collusivi, sia patologici che evolutivi, presenti all'interno della relazione. In presenza di una collusione patologica, ci troviamo ad affrontare situazioni in cui insegnante e allievo non riescono a trovare una soluzione all' "impasse" che accomuna entrambi. E' come se ci fosse una disposizione reciproca alla "intesa nevrotica", per il suo carattere prevalentemente difensivo, reattivo a situazioni irrisolte, che affonda le radici nel passato, più che essere la risultante di un libero gioco "nel qui e nell'ora". La riscontriamo, ad esempio, quando insegnanti, allievi e genitori accettano di esprimere il Sé che l'altro si aspetta, e che incarna un proprio ideale, lasciandosi indurre ad una situazione di rinuncia o comunque di allontanamento dal proprio Sé, in un progressivo processo di disconferma, in funzione di un riscontro sociale per l'alto livello di produttività ad esso collegato. Insegnante e allievo possono "non vedersi" del tutto o coinvolgersi in alleanze e complicità di carattere prevalentemente narcisistico, in cui è molto scarsa la presenza di una comunicazione significativa, che faciliti nell'allievo l'individuarsi come persona separata con un suo Sé. Al contrario, in situazioni simili, l'allievo diventa l'epicentro dell'inconscio dei suoi genitori e dell'insegnante, l'anello più debole del sistema, nei cui confronti possono perpetuarsi terribili giochi di sfruttamento, seduzione, idealizzazione, invenzione, in altri termini una vera e propria depersonalizzazione. Ciò che colpisce, è il frequente ricorso ad una rigidità di ruoli per l'incapacità o la difficoltà di metabolizzare ed elaborare quote emotive vissute con disagio. Al contempo, solo mediante un lavoro di metabolizzazione si può indurre la capacità di trasformare ciò che si è proiettato, rendendo possibile movimenti identificatori e controidentificatori. Diversamente, dal momento che l'altro diventa un proprio oggetto totale, una specie di possesso privato, non è possibile condividere nulla. Un rischio ulteriore è che si creino situazioni di confusione con alleanze parziali tra genitori, insegnante e allievo basate sull'esclusione di qualcuno dei partners. Ciò che è in gioco in queste circostanze è il livello di funzionamento dell' Io, che ci sembra riassumibile nell'interrogativo: "Quanto posso permettermi una situazione fusionale con l'altro, senza sentirmi minacciato nella mia autonomia ?" Detto altrimenti: "Quanto sono capace di riguadagnare quello spazio minimo necessario per non farmi espropriare della mia identità ?" A questo punto il nostro discorso si sposta sugli aspetti evolutivi della collusione, intesa come "area condivisa" della coppia insegnante - allievo, che si configura come uno spazio accogliente per le parti profonde di ciascuno, all'interno in un equilibrio libero e flessibile, che può avere un significato trasformativo. E' "un'area transizionale" in cui da un lato si individua un'area comune del Sé, che resta per un certi versi meno differenziata, dove è possibile mettere in gioco e condividere stati emotivi profondi. Allo stesso tempo, accanto a questa dimensione e piuttosto a margine, altri aspetti del Sé procedono nell'esame di realtà, permettendo di riconoscersi reciprocamente come diversi, con la possibilità di un reciproco arricchimento e di cambiamento emotivo: sentirsi riconosciuti senza negare il riconoscimento dell'altro. Con l'offrire agli insegnanti uno spazio in cui contenere il carico di ansie persecutorie, confusionali e depressive, presenti all'interno di relazioni particolarmente problematiche, abbiamo contribuito alla creazione di uno spazio mentale per pensare, in cui si è andato sempre più evidenziando lo stretto rapporto tra processi mentali ed emotivo-affettivi. E nel mettere a fuoco attese, idealizzazioni e frustrazioni, si è aperto il varco ad un progressivo processo di decollusione; ripristinando la comunicazione affettiva. Abbiamo constatato la trasformazione del rapporto con il proprio ruolo, non più deputato ad una funzione di contenitore rigido, garante dell'intoccabilità del proprio Sé, perché l'insegnante non ha più avvertito il bisogno di proteggersi, imponendo all'allievo un modello complementare, quale alibi e rinforzo alle proprie difese, onde evitare reciproci sentimenti di tenerezza, dipendenza e regressione, vissuti come pericolosi. In conclusione, quando l'insegnante ha potuto permettersi di frugare nel suo mondo interno e gestire, senza eccessivi imbarazzi, i propri bisogni di dipendenza, ha finalmente concesso a se stesso ed all'allievo di esistere realmente, cioè di farsi sentire, costringendo al silenzio l'intelletto e la razionalizzazione, con i relativi rischi di eccessive idealizzazioni, persecutorietà ed identificazioni nel ruolo professionale.
Di fronte a situazioni vissute con evidente disagio ci siamo chiesti : come è stata gestita la sofferenza ? In modo costruttivo, producendo, cioè, riflessioni, incertezze, difficoltà, desideri di trasformazione, vivendo la situazione come un processo in divenire, nonostante i continui ostacoli che vi si frappongano, o è stata soltanto una sterile esplosione di situazioni di crisi per evitare o tenere a bada un mutamento interno con cui è difficile confrontarsi ? E' possibile ipotizzare una situazione vantaggiosa per entrambi i partners della relazione ?
Con ciò stiamo affrontando il problema del passaggio evolutivo dalla collusione alla identificazione, cioè dalla confusione alla differenziazione. Ci riferiamo al cercare di essere come un'altra persona, pur riconoscendo chiaramente la propria separazione e differenziazione. E' lo stabilirsi di uno scambio empatico che permette di porsi al posto dell'altro, facilitando la comprensione di pensieri, emozioni ed atteggiamenti, in un processo fondamentale per la strutturazione e l'arricchimento dell'Io.
Ed è così che lo stare insieme in classe può diventare uno spazio condiviso in modo creativo, uno spazio di gioco o spazio potenziale (Winnicott '71) in cui l'allievo può mettere in gioco sia gli aspetti problematici del suo sviluppo sia le potenzialità evolutive. La classe svolge una funzione di holding con l'integrare piuttosto che con l'espellere, facendo leva sul desiderio di ciascun bambino di crescere e svilupparsi attraverso i rapporti con gli altri. In una classe "sufficientemente buona", che con Winnicott(1950) potremmo definire "una struttura dell'appartenere", da preservare e da sviluppare, dove ognuno può "trovare la sua strada", gli allievi con difficoltà possono affrontare ed anche vincere la sfida quotidiana di acquisire un proprio posto, in un mondo dove il diverso è vissuto come il "perturbante", piuttosto che semplicemente dipendere dall'autorità degli altri o cercare di dominarli. Ed anche gli educatori possono sviluppare un proficuo senso di appartenenza quando è possibile lavorare sulle dinamiche proiettive che intervengono inevitabilmente. L'acting di ciascun allievo, infatti, non solo influenza e condiziona l'intera classe, ma rappresenta anche un messaggio significativo che veicola i contenuti dissociati dal dialogo inconscio, spesso preziosi per la comprensione di qualcosa che in qualche modo può averci fatto deviare dal nostro obiettivo.
Attraversando la vita quotidiana della classe, gli alunni con difficoltà non solo fanno emergere i nuclei problematici ed inarticolati della loro personalità, ma anche li pongono in rapporto con le dinamiche più allargate dell'organizzazione del sistema-classe.
Interpretando l'acting-out nei termini del sistema, vediamo che l'agire ricompatta l'ambiente ed allo stesso tempo lo mette alla prova. E' infatti molto rassicurante e soddisfacente per il bambino, la scoperta che l'oggetto che ha subito il suo attacco distruttivo è sopravvissuto all' intensità delle sue scariche emotive ed è lì pronto per affrontare nuovi attacchi . La trasformazione delle cariche del Sé onnipotenti e distruttive in cui il bambino è sterilmente isolato, verso un Sé costruttivamente riparativo, nel suo correlarsi all'oggetto, ci danno la misura delle spinte evolutive.
In conclusione, quando l'insegnante crea uno spazio all'interno di se stesso, in una disposizione d'animo positivamente recettiva, la classe diventa uno spazio sicuro in cui il bambino può crescere naturalmente.
La salute è una questione di spazio. L'insegnante ha bisogno di creare in se stesso, lo stesso spazio interiore di cui il bambino è alla ricerca.

Riferiremo ora brevemente alcune riflessioni derivate dal lavoro con le insegnanti di una bambina autistica. Le nostre riflessioni non si prefiggono di evidenziare strategie di risposta alle problematiche ed alle difficoltà che vanno prendendo forma nell'ambito dell'inserimento scolastico, quanto piuttosto mirano a riconoscere ed identificare gli elementi collusivi che compulsivamente reiterano pregresse esperienze precoci traumatiche, consentendoci di accedere ad un registro di pensabilità, in vista del tentativo di dare ad esse un senso, così da limitare o interrompere la coercitiva tendenza alla ripetizione ed al non senso.
Gli incontri con le insegnanti, altrimenti noti con la sigla GLH (Gruppo di lavoro per l'handicap), hanno una cadenza mensile e sono previsti dalla normativa scolastica, si svolgono a scuola durante l'orario scolastico, ad essi partecipano i genitori, tutte le insegnanti, di classe e di sostegno, l'assistente educativa comunale (AEC) e sovente interviene anche la Direttrice.
Lucia è stata inserita nella scuola elementare a sette anni, dopo un biennio di permanenza alla Scuola dell'Infanzia, protrattosi per consentirle di consolidare le acquisizioni circa l'autonomia personale, favorite in larga parte dal coinvolgimento emotivo ed affettivo delle maestre che, peraltro, si sono dovute confrontare anche con momenti di tensione e di conflitto con i genitori, restii a sostenere e promuovere la crescita ed i cambiamenti.
La bambina aveva iniziato a mangiare da sola, non portava più il pannolino, sebbene non avesse raggiunto il completo controllo sfinterico. Dal punto di vista della socializzazione, Lucia andava stabilendo un contatto emotivo, per quanto occasionale e sporadico, con gli altri bambini. Con le maestre prediligeva scambi di tipo confusivo-fusionale, attestati a livello sensoriale, che consistevano in abbracci e carezze, seppure mostrasse di capire le loro indicazioni verbali, inerenti limiti e regole presenti nella classe. Queste maestre presenziarono i primi incontri con le insegnanti della scuola elementare per favorire l'inserimento della bambina e condividere con le colleghe la loro esperienza. Poi, molto a malincuore dovettero rinunciarvi, ma non tralasciarono di comunicare che percepivano un assetto di chiusura e di ritiro nei confronti della bambina da parte delle loro colleghe, sensazione che traduceva anche la loro difficoltà a separarsene.
Le insegnanti della scuola elementare, all'inizio, mostrarono tutto il loro disorientamento ed il loro imbarazzo, Lucia appariva loro diversa, estranea, inavvicinabile. Affermavano di non aver mai avuto contatti con bambini affetti da simili problematiche, pur tuttavia, si dissero disposte a confrontarvisi, aderendo alla nostra proposta di lavorare insieme attorno alle difficoltà che sarebbero potute emergere nel corso del loro lavoro.
Il primo periodo fu caratterizzato dall'esplicitare la loro insoddisfazione ed il loro disagio a contenere Lucia, ad offrirle quella condizione di "holding" cui abbiamo accennato. La bambina fuggiva dalla classe ogni qualvolta veniva aperta la porta, costringendole a fare lezione con la porta chiusa, la qual cosa arrecava loro un senso di disagio: si sentivano in trappola. Ma stentavano a poter ricondurre tale sentimento alla relazione educativa con Lucia.
Non erano tuttavia convinte della possibilità di metterle dei limiti, che sembravano suscitare in loro fantasie persecutorie di controllo e che restituivano loro un'immagine di se stesse deludente. La presenza dell'insegnante di sostegno, un'insegnante assai giovane e molto disponibile, che aveva instaurato con la bambina modalità di scambio analoghe a quelle delle maestre della scuola materna, sortiva l'effetto di rassicurarle e contenere le loro ansie. Nelle ore in cui quest'ultima era assente, le insegnanti versavano in uno stato di tensione elevata, al punto da giungere ad inviarla in un'altra classe, non potendo tollerare l'angoscia che le assediava.
Le insegnanti di classe erano due maestre di mezza età ed avevano da anni stabilito un'alleanza di lavoro fondata sul rispetto dei programmi ministeriali e sull'adozione di criteri di conduzione della classe piuttosto rigidi, al punto da arrivare a segnalare al servizio psicopedagogico un altro bambino, definito "caratteriale" ed ingestibile, perché reattivo a tali modalità educative. Esse riferivano ai bambini lo stato di malessere che le attanagliava ed esplicitavano la difficoltà di gestire l'intera classe, mostrando di non poter in alcun modo fronteggiare i loro movimenti interni. Il livello dell'azione era dominante, ed i vissuti che circolavano avevano un' elevata risonanza persecutoria.
Per far fronte alle ansie delle insegnanti di classe e dovendo tener conto delle direttive scolastiche, fu introdotta un'altra figura, l'assistente educativa comunale, che interveniva quando la maestra di sostegno era assente, onde accondiscendere alla richiesta delle insegnanti stesse.
Anche i genitori di Lucia si sentivano coinvolti in queste tensioni, al punto che vi fu un acceso diverbio tra la mamma ed una delle insegnanti per via dell'esclusione di Lucia dalla classe. Va menzionato che Lucia presentava una recrudescenza sintomatica, si erano intensificate le stereotipie e le manovre di chiusura autistica. Ad un mese dal rientro dalle vacanze di Natale, l'insegnante che aveva più apertamente manifestato la difficoltà a contenere Lucia, fu colta da un malore e morì improvvisamente.
L'insegnante rimasta ne soffrì moltissimo e precipitò in uno stato depressivo che spesso, ancor oggi, affiora nel rapporto con la bambina, vissuta come ostinata e rifiutante. Al quell'epoca, abbiamo assistito all'istituirsi di un'alleanza tra l'insegnante di classe e la giovane insegnante di sostegno, che si traduceva nella resistenza a proseguire il lavoro intrapreso, motivata dal percepire che i nostri incontri andavano a rinnovare il dolore per il recente lutto. Al contempo, l'assistente educativa divenne il bersaglio delle fantasie persecutorie, derivanti da questa esperienza di perdita e di abbandono, e su di lei si concentrarono atteggiamenti di svalutazione e di rifiuto.
L'intervento della Direttrice Didattica supportò il ripristino degli incontri.
Apparve evidente che l'insegnante di classe era alle prese con il tentativo di far fronte al proprio dolore attraverso l'esclusione del pensiero, che veniva concepito come foriero dei sentimenti penosi. Dal canto suo, la giovane insegnante di sostegno sembrava coltivare la fantasia di accedere ad una maggiore valorizzazione del suo ruolo, andando a riempire il vuoto lasciato dall'insegnante venuta a mancare e, identificandosi con l'anziana collega, ne aveva assunto l' atteggiamento di chiusura ai contenuti emotivi che circolavano nel rapporto con la bambina, dando più spazio alla necessità di procedere con la didattica.
Non fu semplice tentare di evidenziare al gruppo educativo come simili modalità rappresentassero una sorta di strategia amplificata di quanto avveniva anche nella mente della piccola Lucia, che sembrava dover ripristinare le sue manovre difensive ed autarchiche per far fronte al rischio che affiorassero primitive ed impensabili angosce di perdita e di annientamento.
Con l'inserimento dell'insegnante supplente la dinamica nel gruppo didattico divenne ancor più complessa e delicata, dal momento che quest'ultima solidarizzò con l'assistente educativa, perché entrambe tendevano a dare più spazio e più valore all'integrazione dei contenuti emotivi ed alla corporeità dei bambini, ivi compresa Lucia, che sembrava rispondere alle loro proposte.
Si venne così a creare una vistosa dicotomia tra le due coppie delle insegnanti, da una parte le insegnanti che prediligevano l'area delle acquisizioni cognitive, dall'altra, le insegnanti che preferivano valorizzare la spontaneità, attraverso il contatto corporeo e l'attività motoria.
In questo assetto dicotomico è venuto a radicarsi un acceso conflitto all'interno del gruppo educativo, nonostante oggi sia presente una nuova insegnante di ruolo, il conflitto permane ed evidenzia come la rete delle relazioni interpersonali, sia asservita alla esternalizzazione ed alla proiezione delle problematiche personali, che si realizza a diversi livelli: scolastico, familiare, genitoriale, personale. In ciascuno di questi ambiti, come catturati da un vortice a spirale, l'altro rappresenta quanto di sé è soggetto al rifiuto ed all'espulsione.
Per Lucia, questa dinamica risulta riproporre nel contesto scolastico, l'inconciliabilità e la drammatica conflittualità presente nella coppia genitoriale, peraltro massicciamente proiettata attraverso modalità primitive; la coppia genitoriale appoggia sul conflitto esterno, scolastico, le proprie difficoltà ed in tal modo le aliena e le rinnega.
La qualità perniciosa e complessa di tali dinamiche, che suscita un penoso sentimento di impotenza, ci è sembrata potesse rinvenire una potenzialità di pensabilità, solo attraverso il poter riconoscere questi sentimenti di disagio e di sofferenza come moti personali che prendono forma e si palesano nello scambio e nell'attività didattica con la bambina.
Si tratta di un lavoro, lento e delicato, nonché rispettoso dei tempi e delle difficoltà personali delle insegnanti e delle altre figure educative che sembra aprire un varco, offrire uno spiraglio trasformativo all'interno della relazione educativa, di cui la bambina sembra avvertire di potersi avvantaggiare e fruire. Questa ipotesi di lavoro sembra trovare conferma nella comparsa del disegno spontaneo, nella comparsa del cerchio, come accesso alla dimensione del Sé, per quanto celato ancora da tanti scarabocchi, che rappresentano la rete di relazioni confuse e magmatiche in cui Lucia è catturata.

Bibliografia
Winnicott D., Cure(1970) in "Home is where we start from" ; Essays by a Psychoanalyst. London : Pelican Books,1987
Winnicott D., La difesa maniacale (1935), in Dalla Pediatria alla psicoanalisi(1958) , tr. it. Martinelli, Firenze,1975.
Winnicott D., L'apprendimento dei bambini (1968), in Dal luogo delle origini(1986), tr. it. Milano, Cortina ,1990.
Winnicott D., Alcune riflessioni sul significato della parola democrazia(1950), in La famiglia e lo sviluppo dell'individuo(1965), tr.it. Roma , Armando,1968.
Winnicott D., Gioco e realtà (1971), tr.it. Roma, Armando,1974.



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