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Atti delle Giornate di studio
"Le Comunità Terapeutiche: ambienti di vita, percorsi di cura"
Quando, come e quanto l'abitare può essere terapeutico



Modelli specifici di comunità terapeutiche: l’esperienza dell’Association Santè Mentale et Communautès di Villeurbanne

(tre certezze illustrate attraverso una vignetta clinica)

M. Sassolas*



* Direttore Scientifico del Corso Internazionale di tecniche di cura nella psichiatria di settore di Villeurbanne.


Dal 1965 ho dedicato buona parte della mia attività professionale alla cura di persone che soffrono di turbe psicotiche. In particolare sono andato alle origini delle strutture extra-ospedaliere specializzate nel trattamento di pazienti psicotici, strutture che si sono rivelate strumenti utili per prese in carico di questo genere ed efficaci per i pazienti e i loro famigliari, ma anche per gli operatori.

Tre certezze
Dopo più di trent’anni di vita professionale, ho acquisito tre certezze che oggi mi propongo di condividere con voi, illustrandole con una vignetta clinica. Esse sono facilmente riassumibili in tre punti: 1. Nel trattamento dei disordini psicotici, che è il caso più appropriato, c’è l’alleanza della cura individuale e dell’approccio di gruppo temporaneo o durevole, ambulatoriale o residenziale (alleanza non significa giustapposizione ma complementarietà e articolazione). 2. Questo approccio di gruppo trova la sua espressione più pertinente nelle comunità terapeutiche. 3. Nel medesimo sistema di cura è utile che più comunità con differente impostazione possano essere proposte ai pazienti.

Un preambolo indispensabile: qual è l’oggetto della cura psichiatrica?
Giunti a questo punto si impone un preambolo: qual è l’oggetto del trattamento che noi proponiamo a questi pazienti? A parer mio esso non si risolve nella scomparsa dei sintomi sotto l’effetto dei neurolettici. Io mi guarderò bene dal negare l’efficacia dei medicinali sulle persone sofferenti e il disagio legato ai sintomi psicotici. Tale efficacia è molto utile, quando ha come conseguenza quella di ristabilire o facilitare la comunicazione del paziente con se stesso e con gli altri. Essa è invece molto dannosa se intacca le capacità dell'io e l’allontanamento delle possibilità di comunicare con se stesso e con i suoi simili. Accade sovente che dietro all’attenuazione apparente dei sintomi (come le allucinazioni e i deliri) ottenuta grazie ai neurolettici, i processi psichici in azione nella psicosi persistano i loro attacchi contro la vita psichica del paziente, assottigliando giorno dopo giorno l’identità del soggetto e le capacità dell’io, qualunque siano le misure di riabilitazione sociale intraprese per rimediare a tale evoluzione.

Se l’oggetto delle cure dei pazienti psicotici non è la scomparsa forzata dei sintomi accompagnata o seguita da un reinserimento sociale volontario del paziente, che cos’è dunque? Tale oggetto è la salvaguardia e la restaurazione della sua vita psichica danneggiata dai processi psicotici. Per comprendere la legittimità di questa concezione dai disordini psicotici è necessario andare oltre il livello dei sintomi per interessarsi ai processi psichici che li sottendono, processi che portano, coloro che ne sono afflitti, a vivere un doppio esilio: fuori di sé e fuori dalla società.

Un esilio dal sé.
Quello che fa di ognuno di noi un essere umano singolare non è solamente la nostra visibile realizzazione corporea e sociale, ma è anche e soprattutto la nostra vita psichica - questo miscuglio insolito e fatto particolarmente di pensieri, ricordi, affetti, fantasmi e desideri. I processi psicotici fanno subire a questa vita psichica un destino molto particolare: percepita come fonte di pericoli e di dolori, essa è ridotta in briciole, diminuita e falsificata dallo sfaldamento e dal diniego, fino a non essere altro che un assemblaggio senza senso o ad essere espulsa fuori dal soggetto nel mondo esterno (il più sovente proiettata sugli interlocutori investiti) per fare in seguito ritorno sotto forma di percezione delirante. Così si spiegano i vissuti di vuoto interiore e di inanità che spesso affliggono i pazienti psicotici.

Una persona la cui organizzazione psichica è di tipo nevrotico, è in genere capace di riconoscere l’emergere in sé di un vissuto psichico (emozioni, fantasmi, ricordi e pensieri) e di collegarlo ad un avvenimento reale di cui è stata protagonista, vittima o testimone. Questo attuale vissuto psichico può essere più o meno falsificato dai meccanismi di difesa nevrotici - ma la sua esistenza è riconosciuta dal soggetto. Questo non è il caso di una persona la cui organizzazione psichica è di tipo psicotico: essa sfugge a questa percezione di un vissuto psichico legato ad un avvenimento reale - a maggior ragione gli sfuggono i legami che uniscono il vissuto all’avvenimento reale che li ha suscitati.

Così alla sensazione di vuoto, tipica di questi pazienti, si aggiunge quella di non-sense che sovente contamina i loro processi e, in particolare, gli operatori psichiatrici, inducendo un vissuto di scoraggiamento nell’équipe medica. In effetti, è difficile sopportare razionalmente le complesse situazioni relazionali che noi viviamo con questi pazienti, e quello che mobilita in noi quando non comprendiamo ciò che sta accadendo. Siamo preparati a vivere situazioni professionali provate a condizione di vederne l’utilità ovvero di comprenderne il significato. I meccanismi di difesa psicotici attaccano questa percezione di senso - nei pazienti come in noi. Per il paziente psicotico la sensazione percepita è di pericolo - dunque inconsciamente farà di tutto per proteggersene.

Un esilio dalla società.
Se questa presa di distanza dalla propria vita psichica, fa del paziente psicotico un esiliato dalla sua singolarità soggettiva, fa anche di lui un esiliato dalla società. Qui intervengono molti elementi, due dei quali mi paiono particolarmente rilevanti.

Il primo elemento è questa percezione da parte del paziente della sua vita psichica come un pericolo: questa percezione lo porta a proteggersi continuamente dagli stimoli psichici. Dunque, la prima fonte di stimolazione psichica per tutti gli esseri umani è l’incontro con gli altri. Incontrare un altro essere umano è un’inevitabile fonte di stimolazione narcisistica e pulsionale. Per proteggersi, colui che vive in un tale registro psichico, andrà ad evitare i contatti con gli altri, o cercherà di far fuggire gli altri: fino a giungere ad un forte ripiegamento su se stesso di tipo autistico e a manifestazioni deliranti o comportamenti spettacolari con il solo scopo di tenere l’altro a distanza. Come ha fatto notare P.C. Racamier, il delirio ha sovente una finalità repulsiva. Il risultato finale di queste attitudini a ritirarsi o a mettersi a distanza dall’altro è un isolamento relazionale sempre più marcato - un ritiro dalla comunità degli uomini. Socialmente niente impoverisce di più della psicosi.

Il secondo elemento è questo doppio vissuto interiore di vuoto e di non-sense poc’anzi citato, che porta colui che lo subisce, a non percepirsi più simile a noi, e porta noi stessi a non percepirlo più come nostro simile. Il non-sense crea l’estraneità e colui che è percepito come estraneo rischia di diventare uno straniero. Una differenza della quale noi non percepiamo il significato è presto sentita come un pericolo.

Questa differenza tra il funzionamento mentale psicotico e quello della maggior parte degli esseri umani esiste - non è il caso di negarla, ma di riconoscerla. Non per aggravarla, ma per attenuarla. Ogni incontro con tali pazienti pone un problema di fondo, quello della nostra attitudine verso questa differenza. Ogni designazione sociale di tale diversità, se non è accompagnata da uno sforzo permanente per incontrare questo movimento spontaneo verso l’esilio da se stessi e dalla società, rischia di andare nella direzione delle difese psicotiche e di respingere il paziente in un esilio psichico e sociale mortificante, sempre più lontano dalla sua singolarità soggettiva, sempre più lontano dalla comunità degli uomini. Manifestare questa evidenza ci pone di fronte al quesito della risposta sociale a questo esilio. Ora la risposta sociale alla patologia mentale è annunciata e agita dagli operatori psichiatrici.

L’oggetto della cura: riconciliare il paziente con se stesso e con i suoi simili.
Se siamo convinti del fatto che questo esilio del paziente dalla sua vita psichica e dai suoi simili non è la testimonianza di un deficit strutturale della sua personalità, ma la testimonianza dell’attività dei processi di difesa, cercando di proteggerlo dalla pericolosità di tutte le attività mentali, noi dobbiamo orientare la cura in funzione di un fine preciso: ridurre la necessità dei processi difensivi di estinzione o espulsione della sua vita psichica, ristabilire la comunicazione del paziente con se stesso e con gli altri, permettere che egli si riappropri non solo della sua vita psichica, ma anche della sua storia e della sua identità.

In questo progetto dobbiamo affrontare due ostacoli. Il primo è la diffidenza di tali pazienti verso l’espressione verbale, volontariamente dequalificata al profitto di una comunicazione il cui veicolo non è la parola ma la realtà. In tal modo si spiega la difficoltà di un approccio esclusivamente verbale come la psicoterapia classica codificata e l’interesse verso situazioni di cura che includono la realtà: tutte le attività psicoterapeutiche, utilizzando una mediazione, poggiano su una tale utilizzazione della realtà come mezzo e vettore di cura psichica, a partire dai gruppi di espressione artistica o corporea fino a giungere ai luoghi residenziali.

Il secondo ostacolo è la loro difficoltà a regolare la distanza dagli altri, dunque ad avere una vita relazionale armoniosa. Queste sono le loro particolari modalità di investimento sull’altro, che sono all’origine di tale difficoltà. Questa necessita che tali situazioni di cura siano concepite ciascuna in funzione di queste particolarità, e che ognuna sarà pensata e perseguita come parte di un insieme strutturato e flessibile: il sistema di cura.

Per realizzare tale obiettivo: il sistema di cura.
Questo termine non indica soltanto un insieme di persone e di luoghi, ma anche il sistema relazionale e materiale che li mette in relazione gli uni con gli altri in un preciso obiettivo, quello della cura - vale a dire la riappropriazione da parte del soggetto della sua vita psichica.
Le due qualità fondamentali che sottendono al sistema di cura, sono semplici da enunciare - il che non significa che esse siano facili da realizzare. La prima qualità è quella di non andare nella direzione delle difese psicotiche. La seconda è di rinforzare le potenzialità psichiche del paziente, permettendogli di avere una parte attiva in questo trattamento relazionale che gli è proposto.

L’esperienza condotta a Villeurbanne da più anni ci ha portato a privilegiare un sistema di cura che poggia su tre elementi essenziali:
1-La personalizzazione delle relazioni: la cura è centrata molto più sulla persona del paziente che sui suoi sintomi. L’interesse degli operatori è orientato sulla sua vita psichica le sue reazioni emotive, i suoi comportamenti, le sue modalità relazionali, il suo divenire corporeo e sociale. Tutto ciò che i processi psicotici alterano o distruggono è oggetto dell’attenzione degli operatori - il che suscita lo stupore ma spesso anche l’inquietudine o la collera dei pazienti.
2-L’appartenenza di ciascun paziente a un piccolo gruppo: le interazioni tra i membri sono riscontrabili in ciascuno. Grazie all’attenzione degli operatori ai movimenti emozionali così come agli avvenimenti reali che attraversano il gruppo, delle reazioni insolite o folli possono prendere significato e divenire messaggi, in cui il senso può essere restituito a uno o agli altri.
3-L’immersione di questo gruppo nella realtà di un luogo e di un apparato istituzionale facile da decodificare. Al doppio messaggio e all’impresa cara alle famiglie a funzionamento psicotico, bisogna sostituire un sistema dove i messaggi agiti possano essere in accordo con il progetto istituzionale e dove il paziente possa il più liberamente possibile lasciarsi andare ad una spontaneità verbale e di azione.

Mi propongo di evocare il funzionamento di questo sistema illustrando la particolare situazione di un paziente. La sequenza in questione permette di chiarire due aspetti essenziali: da una parte l’articolazione della relazione terapeutica individuale con le prese in carico comunitarie istituzionali, e dall’altra l’articolazione delle prese in carico in due strutture comunitarie differenti.


Christian
L’episodio qui proposto riguarda Christian, che al momento dei fatti viveva da due anni nella Comunità Terapeutica di Baïsse. Aveva venticinque anni quando è entrato, dopo una progressiva degradazione del suo stato psichico, avendo necessità di essere ricoverato con TSO all’ospedale psichiatrico. Fino ad allora viveva con la madre e la sorella gemella, in un contesto molto conflittuale dalla morte del padre. Questi, di origine maghrebina, soffriva di alcolismo di fronte al quale tutte le prese in carico psichiatriche si erano rivelate vane. Sua madre è di origine spagnola. Le difficoltà relazionali di Christian, il suo approccio poco pragmatico della realtà, i suoi propositi sempre confusi o deliranti avevano finora condotto i suoi diversi compiti professionali ad una situazione di impasse.

Christian è allo stesso tempo seducente e inquietante, sia con gli operatori sia con gli altri residenti della comunità terapeutica. Col passare dei mesi, Christian ha un atteggiamento dapprima discreto e poi sempre più marcato nei confronti degli uni e degli altri. Questo conflitto è centrato sul modo particolare con cui Christian fa uso di uno dei diritti fondamentali dei residenti: quello di ricevere degli ospiti personali nella casa.

La Comunità di Baïsse
Per comprendere la portata e l’entità del conflitto è necessario che sia precisato il contesto istituzionale in cui si origina. Si tratta di una comunità terapeutica di sette pazienti residenti in una piccola casa di Villeurbanne. Viene detto a ciascun residente al suo ingresso che quei luoghi sono messi a disposizione per una durata di tempo indeterminata, con lo scopo di favorire la sua evoluzione personale. Quel posto diventa dunque il suo domicilio. In cambio, come spiegheremo tra un istante, lo si invita a rispettare cinque regole.

Ogni residente ha la chiave della sua camera e quella della casa, mentre noi non abbiamo né l’una né l’altra. Quando andiamo in questa casa, è in seguito a momenti istituzionalizzati (come la riunione settimanale) o alla richiesta di uno o più residenti (per esempio se uno tra di loro sta male fino al punto di inquietare gli altri). Intanto il direttore della nostra Associazione, incaricato di tutti i problemi materiali concernenti le comunità, ha le chiavi della casa e delle camere, utilizzabili in caso di emergenza. Queste poche caratteristiche esprimono in atto e in fatti concreti lo stato ambiguo ma ricco di potenzialità di questa struttura: 1- essa è veramente il domicilio personale dei pazienti (per questo loro hanno le chiavi e noi no). 2- essa è anche una struttura di cura, che autentica le seguenti cinque regole. Le prime tre riguardano il loro comportamento nella casa e sono relativamente banali. é chiesto a ciascuno: 1- di astenersi dalla violenza verso di sé e verso gli altri residenti e verso la casa; 2- di non fare uso di alcol e droga in modo abituale; 3- di pagare l’affitto ogni mese.

Le altre due regole interessano il funzionamento istituzionale e meritano di essere analizzate in modo dettagliato.

Regola di una relazione curante personale.
La prima regola obbliga ciascun residente ad essere in relazione, al di fuori della comunità, con uno o due terapeuti personali, diversi dai tre operatori che intervengono nella comunità.

Questa esigenza è per noi essenziale: essa ci mette al riparo dagli inevitabili inconvenienti della seduzione narcisistica esercitata da tali pazienti verso le persone che ne sono investite. Ricordiamo che questa seduzione narcisistica, descritta accuratamente da P. C. Racamier, porta coloro che ne sono l’oggetto a percepirsi come i soli professionisti capaci di venire in aiuto a questo paziente, a ritenersi indispensabili alla sua sopravvivenza psichica e fisica e a considerare gli altri intervenienti (famiglia e professionisti) come inutili intrusi. Ogni relazione investita su di un paziente psicotico non può sfuggire a questa vicenda transferale: bisogna dunque trovare i mezzi per limitarne le nocività. Questa suddivisione di responsabilità tra operatori individuali ed istituzionali della comunità è il miglior antidoto che durante gli anni abbiamo trovato per questo problema della seduzione narcisistica.

Con l’utilizzo ed il passare degli anni, questa suddivisione si è rivelata particolarmente utile per la salute mentale degli operatori: la modalità di funzionamento delle nostre comunità che anticipano le capacità dei pazienti lasciandogli buona parte di iniziativa e di libertà nella gestione della loro vita quotidiana, ci porta spesso a vivere sul registro dell’inquietudine. Quando questa è spartita con altri, implica secondo i momenti della presa in carico, una minore difficoltà a vivere e genera meno sensi di colpa. Il conforto psichico degli operatori è un elemento da non trascurare mai in questo tipo di presa in carico.


I tre incontri istituzionali obbligatori.
La seconda regola concerne la presenza di ogni residente ai tre incontri che regolano la vita istituzionale.

Il primo di questi tre incontri è la riunione settimanale nella casa, presieduta da due operatori referenti della casa. Questi sono conosciuti da ogni paziente perché sono coloro che hanno incontrato più volte prima della loro ammissione. I due vanno nella casa solo in occasione di tale riunione, o se sono chiamati, o per presiedere ad una riunione straordinaria motivata da un avvenimento eccezionale (violenze reciproche, tentativo di suicidio, conflitti con il vicinato). Ma ogni ospite possiede il loro numero telefonico personale e li può chiamare in ogni momento del giorno e della notte. L’esistenza di tale recapito telefonico sempre certo (e raramente utilizzato) è una smentita al timore o ai fantasmi d’abbandono. La leggerezza del dispositivo di sostegno è deliberata: è inscritta nella realtà la necessità per ognuno di utilizzare le sue capacità per affrontare la vita quotidiana, e anche la nostra convinzione che queste capacità esistano. Queste riunioni settimanali sono l’occasione per evocare tutti gli aspetti relazionali e materiali della vita di gruppo.
Anche i due studenti in psicologia che frequentano la casa per uno stage di sei mesi, partecipano alla riunione. Non hanno alcuna responsabilità di cura, ma hanno la funzione di essere amici o vicini benevoli con cui organizzano divertimenti e pasti. Il loro arrivo e la loro partenza dopo sei mesi ritma lo scorrere del tempo, e questo riveste un’importanza particolare per quelle persone funzionanti sul registro della atemporalità.
Nella casa la vita quotidiana è lasciata all’iniziativa dei residenti e, a seconda dei momenti, ognuno vive nel suo ritmo e nel suo angolo, invece qualche volta, a seconda di quel che succede, si crea per qualche giorno una vita di gruppo più o meno conviviale.

Il secondo incontro è il colloquio individuale mensile, che ogni residente ha negli uffici di consulenza della nostra Associazione e non nella casa, con un’équipe di tre interlocutori istituzionali - i due poc’anzi citati e il medico responsabile, anche lui ben noto dai residenti ancor prima della loro ammissione. Questi incontri sono centrati sulla vita personale del paziente nella comunità, ma anche sulla sua vita al di fuori, i suoi progetti, i suoi legami familiari. Qui sono ripresi in una prospettiva psicoterapeutica gli avvenimenti della vita che più hanno segnato il paziente, riferendosi a volte al suo passato conosciuto dai tre interlocutori.
Il terzo incontro è costituito da colloqui che riuniscono ogni residente con l’équipe istituzionale della comunità e con gli operatori personali. Esso ha luogo ogni due mesi (una volta sul nostro territorio, una volta sul loro) e permette di elaborare le vicende della vita del residente all’interno della comunità nella più ampia prospettiva del suo trattamento. L’incontro materializza la collaborazione di due équipes ed è un obbligo per le tre parti (per le due équipes come per il paziente). In caso di crisi potrà avere luogo una riunione straordinaria.

Gli ospiti di Christian.
Nel regolamento interno è precisato che ogni residente ha il diritto di ricevere degli ospiti, ma è responsabile del comportamento proprio e di questi. É su tale questione degli ospiti che si snoderà tutta la problematica di Christian. Riceve molto sovente degli amici che in un primo tempo sembrano legare bene anche con gli altri ospiti e con gli operatori. Una casa senza visite serali sarebbe come una famiglia chiusa su se stessa e la visita di persone estranee alla casa appaiono sempre come un segno di vitalità e un’apertura sulla città. Ma con il passare dei mesi le cose si complicano: certi amici di Christian, soprattutto maghrebini, girano nella casa anche durante la sua assenza, si piazzano davanti alla televisione o rovistano nel frigorifero. Il più delle volte si tratta di giovani emarginati amanti della birra e di haschich. Christian organizza - o piuttosto lascia correre - nella sua camera, poi nella sala comune serate all’insegna di fumo e di alcool, che disturbano gli altri residenti e che vanno contro le regole accettate da ognuno al proprio ingresso nella comunità. Per tali fatti è stato sanzionato a più riprese fino ad essere espulso per una settimana.

La questione degli invitati che invadono lo spazio privato della casa, è spesso nominata nelle riunioni settimanali. Niente è semplice. Certi residenti si sentono insicuri a causa di questi intrusi e fanno ricorso più frequentemente ai muri protettori dell’ospedale. Altri sono invece più tolleranti, essi/e hanno legami amichevoli o amorosi tra di loro, diventando in tal modo più loro ospiti che solo di Christan. Un conflitto interno al gruppo si aggiunge al problema scaturito dal comportamento di Christian, che fugge le messe in discussione di cui è oggetto sia assentandosi dalle riunioni sia diventando confuso e qualche volta delirante.
Eccoci di fronte ad una difficoltà imbarazzante e stimolante allo stesso tempo nelle due dimensioni individuale e comunitaria. Se il fine di questa casa fosse solo quello di proporre un’abitazione a persone con disturbi psicotici, la risposta sarebbe facile: le successive infrazioni di Christian al regolamento interno giustificherebbero largamente il suo rinvio. Ma il nostro scopo è anche quello di utilizzare la situazione in una prospettiva terapeutica come un’occasione per ciascuno da una parte di entrare in comunicazione con un vissuto psichico negato, progettato o agito, d’altra parte di essere interpellato come un soggetto autore della sua vita. Questo è valido per ogni residente, ma soprattutto per colui le cui azioni sono messe in discussione.

Una misura comunitaria per proteggere la comunità in pericolo.
é noto che il gruppo è in pericolo e che la medesima finalità della casa è attaccata dall’invasione progressiva dello spazio comunitario e dello spazio privato di ciascuno: non è più possibile per ogni residente trarre profitto da una situazione diventata ansiogena. D’altra parte la capacità del gruppo di proteggersi sta fallendo. é dunque nostro dovere supplire temporaneamente alle capacità dei residenti di difendere il loro luogo di vita. Indiciamo una riunione straordinaria alla quale partecipano il medico responsabile ed il direttore dell’associazione - presenza che sottolinea la gravità della situazione e delle decisioni. In questa riunione viene annunciata ai residenti la sospensione temporanea per due mesi della libertà di ricevere ospiti. Non nascondiamo il carattere paradossale di questa decisione che sembra andare in una direzione opposta a quella che rappresenta la linea guida della casa: permettere a ciascuno di amministrare un giorno la sua stessa vita. La finalità è quella di opporre agli intrusi uno sbarramento più efficace, in modo da ristabilire un clima di sicurezza nella casa.

La sollecitudine fino a qui non espressa.
Nonostante qualche protesta, la discussione rivela un reale sollievo tra i residenti - compreso Christian, che può per la prima volta parlare prima della sua difficoltà a dire no ad amici diventati a poco a poco parassiti, poi della sua paura della solitudine. E per la prima volta un abbozzo di sollecitudine da parte degli altri ospiti verso di lui può esprimersi - questi non si sentono più delle vittime: sanno che questa misura offre a Christian un’ultima occasione per restare nella comunità. Qui comincia ad essere percepibile sia a Christian sia agli altri residenti il carattere difensivo dei suoi comportamenti devianti - difensivi in rapporto ad un desiderio di dipendenza infantile, di sollecitudine, di presa in carico. Dietro il lato provocatorio delle sue attitudini seduttrici, delle sue cattive frequentazioni e delle sue condotte delinquenziali, appare il piccolo bambino perso che piange in lui.
Qui si vede l’interesse del funzionamento di questa comunità nella quale, un giorno o l’altro, ciascuno ha occasione di esercitare la sua capacità di sollecitudine sia verso se stesso sia verso gli altri. Questa possibilità di prendersi cura di se e degli altri, ha un doppio interesse. Da una parte modifica il vissuto di incapacità di venire in aiuto di se stessi, fonte di disistima e di vissuti depressivi. Dall’altra parte permette di vivere attitudini benefiche di riparazione, che molti autori (Winnicott, M. Klein, Searles) hanno con pertinenza legato al vissuto inconscio di colpa suscitato dai fantasmi violenti verso l’imago materna, soggiacente ad ogni movimento verso la separazione e l’autonomia. Troppo spesso le situazioni istituzionali riservano ai soli professionisti l’esercizio di questa salutare capacità di riparazione - a danno dei pazienti che ne sono esclusi e che invece avrebbero tanto bisogno di esercitarla!

Il clima di sicurezza ritrovato.
Durante i due mesi previsti, la sospensione del diritto di ricevere ospiti sembra stata più o meno rispettata dai residenti. Il clima di insicurezza si è dissipato e le relazioni tra i membri della comunità sono divenute meno tese e più forti. Al tempo della riunione prevista allo scadere della sospensione, due mesi più tardi abbiamo restituito agli ospiti il loro diritto di decisione a tale proposito. La discussione è stata animata, seguita da una votazione, e i residenti hanno allora deciso di mettere a punto delle ulteriori riunioni settimanali, un progetto che precisa le condizioni nelle quali delle persone estranee alla casa possano frequentarla, prolungando il periodo di sospensione fino alla messa a punto definitiva di un testo accettabile da tutti. Al termine di questo periodo movimentato, l’essenziale è stato preservato, i residenti ne uscivano più attenti al loro destino, con un’autostima rinforzata dall’aver partecipato attivamente alla risoluzione di una crisi.

Una risposta individuale al problema di Christian.
Quanto a Christian, le aperture apparse nel suo comportamento difensivo fuori dalla riunione straordinaria, sono andate crescendo nei giorni successivi. Privato di stampelle affettive rappresentate dalle entrate e uscite dei suoi amici, è apparso sempre più sgomento e confuso. Viene dunque deciso un incontro tra il suo psichiatra, lui e noi. é l’occasione per l’operatore di esprimere la sua inquietudine a proposito di Christian e lo scompiglio creatosi in lui dopo il trasloco della madre. Noi possiamo parlare dei comportamenti di Christian nella casa, i quali dissimulano il disagio sotto la maschera della sfida alla legge. Si può riconoscere che abbiamo commesso l’errore di reagire di più a questa attitudine di sfida piuttosto che all’angoscia sottostante. E infine proporre una decisione che incontra l’adesione di Christian come quella del suo medico: la sua ammissione per qualche settimana alla casa di accoglienza psicoterapeutica (Map), altro luogo comunitario dove sarà più contenuto che a Baïsse.

La casa di accoglienza psicoterapeutica (Map).
Si tratta di un’altra struttura residenziale che permette di accogliere in un grande appartamento sette pazienti per dei periodi brevi, raramente più di due mesi. A differenza della comunità di Baïsse, il personale (psicologi o infermieri) vive in modo stabile in questa casa, dove la condivisione della vita quotidiana è utilizzata in una prospettiva psicoterapeutica. Ogni settimana il paziente incontra uno psicoterapeuta personale e partecipa anche a sedute settimanali di terapia di gruppo. Così è possibile un triplice abbordo del vissuto di crisi che ha motivato il suo soggiorno: individuale, di gruppo e istituzionale.

L’eventuale ricorso a questa struttura più contenitiva è un elemento necessario a tale presa in carico. Il dispositivo curante deve poter affrontare i movimenti affettivi suscitati dal paziente attraverso le vicende della sua relazione con noi, proponendo dei luoghi differenti corrispondenti ciascuno a uno degli aspetti del suo vissuto. Inoltre è necessario che questi luoghi comunichino, che siano articolati l’uno con l’altro. Così dopo la riunione prevista alla fine del periodo di due mesi, Christian era ancora al Map. Al momento di questa riunione che temeva molto, si trascinava nella sua camera facendo finta di non accorgersi del tempo che passava: informato dell’importanza della sua partecipazione a questa riunione nella comunità, un operatore del Map lo porta in auto. Il trasportarlo con l’auto da una struttura all’altra ha valore interpretativo: la soddisfazione temporanea dei desideri regressi di dipendenza non può essere una soluzione di evitamento di situazioni in cui è interpellato come soggetto.

Questa articolazione tra strutture curanti con diversa impostazione è indispensabile per mantenere vivo il conflitto intrapsichico tra questi due desideri contraddittori: il desiderio di autonomia (il cui territorio è per Christian la comunità) e il desiderio di appartenenza all’universo narcisistico materno (qui soddisfatto dal soggiorno al Map). I processi di difesa psicotici cercano di far sparire rapidamente questo conflitto, annullando uno di questi due termini. Il sistema curante nella sua realtà deve tener conto di questi due aspetti della vita psichica del paziente. Se la presa in considerazione di uno dei due termini del conflitto crea la negazione dell’altro, la risposta curante è riduttiva e va nel senso delle difese psicotiche.

Un elemento di risposta alla patologia psicotica.
Siamo giunti al termine di questo momento trascorso insieme. Riassumiamo i tre punti sui quali mi sono soffermato: nel trattamento dei disordini psicotici ciò che è più opportuno è l’alleanza della cura individuale e l’approccio di gruppo, dove l’espressione più pertinente è la formula delle comunità terapeutiche, soprattutto quando più comunità di differente funzionamento possono essere proposte ai pazienti.

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