PM - HOME PAGE ITALIANA PM-TELEMATIC PUBLISHING PSYCHO-CONFERENCES ELENCO DELLE RELAZIONI


Atti delle Giornate di studio
"Le Comunità Terapeutiche: ambienti di vita, percorsi di cura"
Quando, come e quanto l'abitare può essere terapeutico



Il limite e le potenzialità dell’intervento terapeutico residenziale nel contesto economico, sociale, istituzionale

F. Punzo, R. Cagna*

* Comunità Terapeutica Du Parc - Torre Pellice TO



Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un proliferare di strutture che si sono qualificate come Comunità Terapeutiche.

In Piemonte ad esempio la Ricerca PROGRES dell’Istituto Superiore di Sanità ha censito nel 2000 circa 139 strutture residenziali intermedie(Comunità protette di tipo A e B e soluzioni abitative assistite come Comunità Alloggio e Gruppi Appartamento) per un totale di 1595 posti letto. Di queste ben il 50% è sorto negli anni che vanno dal 1997 al 2000.
Pedriali in un suo lavoro di qualche anno fa ha efficacemente sintetizzato le caratteristiche di questo processo:

- Molteplicità di orientamenti teorici (psicodinamico, psicosociale, cognitivo-comportamentale, sistemico relazionale, modello integrato);talvolta si assiste ad un eccletismo sconcertante o ad una carenza allarmante di modelli teorici;
- eterogeneità di modelli organizzativi con prevalenza di quelli di tipo sanitario;
- prevalenza di pazienti psicotici rispetto ad altri tipi di patologie;
- interesse crescente per strutture a carattere comunitario per pazienti cronici o provenienti dai manicomi giudiziari;
- progetti di comunità fuori dal campo propriamente psichiatrico: carceri, problematiche adolescenziali;
- disomogeneità dei criteri e carenza metodologica nella formazione degli operatori;
- complessità dei rapporti tra iniziative dei Servizi Pubblici e iniziative private;

Si può condividere o meno questa analisi, si possono considerare tutte o solo alcune di queste caratteristiche dei reali e seri problemi per lo sviluppo delle Comunità, quello che è certo e che appare sotto gli occhi di tutti è che ci troviamo di fronte ad un panorama confuso, dove molte Comunità sono diventate contenitori aspecifici di patologie le più diverse a cui non è possibile dare una risposta sul piano sociale e individuale per mancanza di mezzi e di pensiero.

Esiste una gran confusione rispetto a termini come Comunità Terapeutica, Comunità Protetta, RSA, casa di cura ecc.

Che cosa connota una Comunità come terapeutica o come assistenziale?
Quali sono i processi che le differenziano? Esistono indicatori sufficientemente condivisi per valutare gli esiti di un intervento residenziale? Cosa vuol dire certificare o accreditare una CT.? Che cosa sostanzia un determinato intervento e ne giustifica i costi? E’ possibile individuare alcuni indicatori di processo e di esito che aiutino ad orientarci tra la grande difformità di comunità esistenti sul mercato e dia un senso ed una motivazione alla grande disparità di costi?

Sono questi alcuni degli interrogativi su cui è urgente aprire un dibattito nell’interesse degli utenti e delle loro famiglie, ma anche nell’interesse delle Comunità.
Riaprire una seria e approfondita discussione e una riflessione sul tema dell’abitare dei folli, significa ripensarlo come sempre oscillante tra separazione e prossimità tra comunanza e segregazione, tra libertà e reclusione.
Le alternanze sono sempre state tra segregazione istituzionale, a fronte del prevalere di una necessità di protezione e controllo sociale, e reintegrazione sociale, a fronte tanto di ragioni etiche, quanto di ragioni tecniche, pertinenti al campo della cura e della riabilitazione; recupero di spazi rispettosi della malattia, ma non dipendenti da essa, in cui i malati potessero vivere non una vita normale, ma secondo le regole di una vita normale.
Unica costante, sempre presente, l’idea che il folle per guarire, dovesse lasciare la propria famiglia per non farvi ritorno, se non dopo molti anni, e quello che il suo stare, risiedere, abitare, vivere quotidiano dovesse essere vigilato e presidiato come facente comunque parte in modo essenziale della cura.
Necessità di stare come dentro altre famiglie, che sanno tenere il malato, perché sono diverse da quella in cui si è compiuta la rottura; famiglie diverse, ma evocanti quella originaria, percorso di uno stare lontano dalla famiglia per poter tornare in famiglia.
In questo ultimo aspetto si installa l’origine dell’abitare in un luogo e con persone determinate-la residenza terapeutica appunto- come metodo di cura per la follia
Questa oscillazione tra polarità contrapposte, ma anche costantemente compresenti è del resto centrale, oggi nel dibattito relativo alla definizione stessa di “comunità terapeutica”, e in quello relativo all’idea di “abitare terapeutico”, ossia del possibile uso terapeutico e riabilitativo della residenzialità non necessariamente correlato ai canoni classici della Comunità Terapeutica.
E’ importante a questo punto individuare quali sono gli elementi, fondanti dal punto di vista metodologico, che hanno permesso e permettono tutt’ora alla residenzialità riabilitativa di diversificarsi non solo dal manicomio, ma anche dalle altre strutture a prevalente connotazione assistenziale oppure ad orientamento medico internistico, strutture che pur necessarie per alcune situazioni evocano un vissuto di immodificabilità.
Primo tema caratterizzante una residenzialità che voglia avere dei caratteri riabilitativi è quello dell’esplicitazione dei valori comunicativi, simbolici e antropologici degli spazi. E’ specifico di queste strutture e dei loro operatori il proporsi la riflessione tecnica ed etica insieme, sull’impegno di cura e di riabilitazione della follia attraverso una discussione sui luoghi: luoghi di transito, incontro e impegno resi significanti anche dagli stili delle relazioni di cura.
E perché il luogo implichi un abitare e non una stabilità stanziale, è necessario che esso sia attraversato dalla dimensione del transito: il transito è ciò che pone i luoghi in rapporto tra loro, ma anche li fa esistere, come luoghi da attraversare per andare da qualche parte, ed insieme come luoghi di sosta, di riposo, ma non certo di permanenza indeterminata.
Secondo elemento fondante una residenzialità riabilitativa è la vita quotidiana come possibilità di riappropriazione di tutte le capacità fondamentali, degli affetti e dei modi di comportamento di fondo.E’ di straordinario valore il significato che la comunità attribuisce alla condivisione della quotidianità fra pazienti e operatori come possibilità, la più autentica forse, di trovare risposte possibili ai bisogni dei pazienti, attraverso una continua mediazione fra il loro mondo interno e la realtà esterna. La quotidianità include anche le attività di vita pratica e la loro necessaria interazione tese alla riconquista della percezione e gestione della propria corporeità; include il clima affettivo come esperienza di sfondo delle attività riabilitative, elemento decisivo per la riacquisizione non tanto delle abilità, ma delle motivazioni ad esercitarle.
Altro elemento fondante un’abitare terapeutico è il concetto di domesticità. Il lavoro che giorno dopo giorno viene portato avanti dagli operatori insieme ai pazienti, in una dimensione che allude a quella della casa, dando alla residenzialità una dimensione schiettamente domestica e quindi emotivamente pregnante contribuisce a ricomporre e riaggregare lo spazio vissuto, sconvolto dall’esperienza psicotica.
Altra enorme potenzialità terapeutica delle comunità è la dimensione gruppale. Una comunità che voglia affermare una propria vocazione terapeutica e riabilitativa deve necessariamente valorizzare appieno la sua dimensione gruppale, arricchendone al massimo la sua potenzialità come strumento terapeutico e di lavoro. Complemento di questa grande potenzialità terapeutica è la concezione dell’equipe come strumento di comprensione dell’universo frammentato del paziente, attraverso l’elaborazione delle complesse dinamiche di gruppo da cui essa viene investita e che si generano anche al suo interno.
Ma soprattutto una comunità è terapeutica se, come dicevamo prima, è un luogo di transito, se sin dall’inizio sono precostituiti i percorsi di uscita. Ecco allora l’importanza del lavoro all’esterno della comunità, il lavoro in rete, e quindi i rapporti con le famiglie, con il Dipartimento di Salute Mentale, con il medico di base , con le altre agenzie presenti sul territorio e più in generale con l’ambiente sociale. Dobbiamo lavorare perché per molti pazienti finisca il tempo dell’abitare riabilitativo ed inizi quello dell’abitare riabilitato, in ordinari contesti sociali.
Ma cosa impedisce alla Comunità nell’attuale momento storico di dispiegare appieno tutte le sue enormi potenzialità che sopra abbiamo elencato?
Il quadro che abbiamo davanti non è purtroppo esaltante. Come tutti sanno il rischio che la Comunità si trasformi in manicomio è sempre presente; ci si muove su equilibri molto instabili, anche un capello fa la differenza: il senso della Comunità Terapeutica è tale se si riporta al centro l’uomo e lo si aiuta a riconnettersi alla totalità dell’essere: questo vuol dire chiarire, esplicitare, dare senso, risignificare, affinché ciò che non aveva un senso lo acquisti, ciò che era distruttivo diventi costruttivo, ciò che era inerte diventi vivo, è sufficiente lasciare che dilaghi l’inerzia dell’inconscio che tradotto significa, spostare appena di poco l’accento sull’aspetto istituzionale piuttosto che sulla responsabilizzazione del soggetto.
Una primo grave limite delle Comunità è la loro l’autoreferenzialità.
Come afferma Pedriali, le Comunità non riescono a produrre una ricerca teorico-clinica, metodologica, epidemiologica e statistica significativa. La necessità di utilizzare procedure di valutazione, certificazione e accreditamento per far chiarezza sulle proprie metodologie, per dimostrare la loro efficacia e per rendere conto dei loro costi, non sembra interessare tutte le Comunità, anzi molte si sottraggono con tenacia a questo che, prima ancora di essere un obbligo di legge, è una necessità tecnico-scientifica e un atto dovuto al paziente e alla sua famiglia.
La grave crisi del Welfare State, che ha investito gran parte dei paesi occidentali, pone tutte le organizzazioni di fronte alla sfida più impegnativa: coniugare qualità e contenimento dei costi. Purtroppo spesso invece assistiamo ad una politica sanitaria e a scelte aziendali attente solo al contenimento della spesa senza alcuna attenzione alla qualità. Ma, quando ci si occupa dell’uomo nella sua interezza ( e questo è sicuramente costoso), come è possibile parlare di costi trascurando quelli umani, affettivi, e sociali?
Ed ecco quindi che nel mercato delle Comunità, variegato e difforme, dove non è facile discriminare che cosa stia sotto l’offerta, dato che, come abbiamo visto, non esiste una certificazione, non esiste trasparenza rispetto ai processi, non esistono criteri condivisi di accreditamento, è facile che si attivi la spirale perversa del risparmio, senza avere in alcun conto i costi umani e sociali. La risposta più semplice e che nell’immediato sembra la vincente è quella di trovare la soluzione più a buon mercato.
Le difficoltà del mercato, che sopra enunciavamo, e l’aumento della domanda di presa in carico di patologie sempre più complesse hanno imposto alle comunità di non dotarsi di criteri di selezione rigorosi dei pazienti. E’ quindi inevitabile che, nell’attuale momento storico, le comunità non possono scegliere i propri pazienti; questo fa si che vengano convogliati nello stesso contenitore patologie, molto lontane fra di loro, che in periodi migliori di questo a stento si riuscirebbe ad immaginare insieme. Unico dato che accomuna questa estrema varietà dell’utenza, è che tutti gli inserimenti sono la conseguenza del fallimento dei precedenti trattamenti terapeutici dove la famiglia è stanca, spaventata, esasperata, il servizio frustrato dal fallimento di innumerevoli tentativi, il paziente sempre più risucchiato in una spirale patologica e autodistruttiva.
La CT è l’ultima spiaggia in cui si azzera tutto, cercando di ripartire.
Sempre più frequenti sono i ricoveri in Comunità di pazienti con diagnosi di disturbi di personalità che per dirla con un vecchio autore quale Kurt Schneider essendo “varianti abnormi dell’essere” non sono considerati patologici, ma lo diventano o per lo meno diventano degni di “attenzione” quando si connotano pericolosi socialmente..
Appare dunque chiaro che il criterio guida che sempre di più informa il ricovero in Comunità sia, oltre al fallimento di ogni tentativo precedente, quello della pericolosità sociale con il rischio che la Comunità diventi sempre di più il ricettacolo di situazioni altrimenti ingestibili e socialmente gravose spostando sempre di più il suo baricentro e la sua missione verso compiti di segregazione e controllo sociale.
Vorremmo chiudere questa nostra analisi sulle cause delle attuali difficoltà delle Comunità, affrontando quello che, forse, è il problema più spinoso e complesso per le sue implicazioni politiche economiche e culturali: il rapporto con il Dipartimento di Salute Mentale.
E’ un rapporto necessitato più che scelto, caratterizzato da un clima di reciproca diffidenza; tutto questo con conseguenze, a volte, disastrose sulla riuscita stessa dell’inserimento e sulla possibilità che la Comunità dispieghi appieno le sue potenzialità.
Non ci si riesce ad immaginare come parti di un unico e complesso progetto terapeutico, ma ci si rapporta con atteggiamenti di reciproca strumentalità: la Comunità non può fare a meno del Dipartimento per evidenti ragioni di sopravvivenza e il Dipartimento non può fare a meno della Comunità perché altrimenti non avrebbe alcuna risposta per quelle situazioni difficili e gravose di cui parlavamo prima. Ma questo tipo di motivazione al rapporto non può che essere riduttiva e alla lunga perdente perché, in realtà, nasconde diffidenze, rivalità, sfiducia reciproche. Ne conseguono o atteggiamenti di delega completa o atteggiamenti di controllo sospettoso sull’operato dalla comunità.
E’ possibile superare questa dinamica francamente poco costruttiva? Io credo di si se si riesce ad riconoscere ed accettare i propri limiti.
La comunità senza il DSM non ha alcuna possibilità di aprirsi all’esterno, non può svolgere quell’efficace lavoro di rete di cui si parlava prima, non potrà mai aprirsi all’esterno e sarà costretta a rinchiudersi in una pericolosa autosufficienza, rinunciando definitivamente a quella caratteristica di luogo di transito, fondamentale perché sia realmente una Comunità Terapeutica.
Il DSM deve riconoscere che non sempre è in grado di dare risposte adeguate e soddisfacenti ai pazienti gravi. I problemi, come tutti i dati epidemiologici evidenziano con chiarezza, non riguardano soltanto i vecchi pazienti dimessi dagli OP, ma anche e sempre di più la nuova cronicità i disturbi di personalità, i pazienti con doppia diagnosi etc.
Il DSM non può considerare la Comunità come l’ultima spiaggia a cui ricorrere quando tutti gli altri interventi sono falliti. E’ sempre più evidente che per queste gravi situazioni cliniche l’esperienza comunitaria può rappresentare la risposta più adeguata.
Riconoscere i propri limiti non significa rinunciare alla propria centralità e alla titolarità del progetto, significa solo aprirsi a nuovi e diversi contributi culturali e scientifici.
Una riflessione serena su i propri limiti potrebbe consentire, quindi, di vivere l’esperienza delle comunità (quelle davvero terapeutiche) come una risorsa per il Dipartimento.
Solo con una stretta collaborazione tra CT ed inviante in cui sia riconosciuto al DSM il ruolo di l’interlocutore tecnico privilegiato e in cui paziente impari a diventare protagonista e a mediare con le istituzioni sarà possibile, sin dall’inizio, prefigurare possibili percorsi di uscita
Il paziente dovrà sempre aver chiaro che, quando lascerà la comunità, ci sarà una rete di sostegno pronta ad accoglierlo e che CT, DSM, famiglia sono parti di questa unica rete e che agiscono di comune accordo.

PM - HOME PAGE ITALIANA PM-TELEMATIC PUBLISHING PSYCHO-CONFERENCES ELENCO DELLE RELAZIONI
Untitled