La cultura organizzativa della comunita terapeutica Mario Perini* * Presidente de IL NODO Group - Torino
Per sviluppare il tema proposto dal titolo occorre affrontare due problemi preliminari.
1. Definire la comunita terapeutica Tom Main, uno dei padri fondatori del modello inglese della CT, la descrive come un tentativo di utilizzare lospedale come una comunità il cui scopo immediato è la piena partecipazione alla vita quotidiana di tutti i suoi appartenenti, mentre lobiettivo finale è la reintegrazione dellindividuo nella vita sociale (Main 1983). Oggi aggiungeremmo che il modello si fonda sullindagine del comportamento e sulla ricerca di nuove modalità di relazione attraverso una moltitudine di setting interpersonali (Karterud 1988)
Il paradigma della CT inglese è stato elaborato da Robert Rapoport nel suo famoso studio Community as a doctor (Rapoport 1960), risultato di unaccurata esplorazione antropologica condotta nellHenderson Hospital, la comunità creata da Maxwell Jones; Rapoport aveva individuato quattro elementi distintivi del modello comunitario: Per molti anni queste caratteristiche sono servite quasi come precetti e linee-guida per distinguere le istituzioni comunitarie dalle altre strutture di ricovero e cura, soprattutto dalle segreganti istituzioni asilari, ma è difficile ritenere che oggi, in un contesto sociale e culturale così profondamente mutati, esse possano mantenere inalterati la funzione e il significato delle origini. LAssociation for Therapeutic Communities (ATC) ha prodotto recentemente unencomiabile opera di aggiornamento elaborando un questionario che evidenzia gli aspetti distintivi della CT: si tratta del Kennard-Lees Audit Checklist (KLAC), uno strumento di indiscusso valore scientifico e di grande utilità pratica, ma per forza di cose molto ancorato alla realtà inglese e quindi non immediatamente trasferibile nella nostra.
Daltra parte una stessa CT può essere descritta in termini molto diversi a seconda del vertice osservativo che si decide di privilegiare; essa è infatti contemporaneamente:
Oltre che indicare uno spazio fisico infatti - si legge nellintroduzione al tema di questo Convegno - il termine Comunità Terapeutica definisce un fondamento culturale e scientifico di pensiero che sottende ad un agire comunitario volto a superare la contrapposizione tra istituzione e territorio . Occorre infine tenere presente che la CT è anche un oggetto mutevole nel tempo, più processo che oggetto dovremmo dire o, con le parole di Hinshelwood (2001), unorganizzazione che si reinventa continuamente ogni giorno, sia pure allinterno di alcune direttrici che ne determinano lo sviluppo (ovvero linvoluzione): la sua storia in primo luogo, la sua struttura e cultura organizzativa ma soprattutto lambiente sociale e politico, con il quale in molti modi interagisce ed al quale deve inevitabilmente adattarsi se vuole sopravvivere. Ma adattarsi vuol dire cambiare e il cambiamento, sempre penoso e spesso fonte di resistenza, può significare trasformazione, innovazione creativa, ma altre volte purtroppo degrado o pervertimento. Dobbiamo dunque riconoscere che la CT si presenta oggi se non proprio come un oggetto misterioso quanto meno come un fenomeno socio-tecnico decisamente ambiguo ed insaturo, che non si lascia agevolmente afferrare da una definizione né ordinare da regole, criteri valutativi o linee-guida, fatto comè soprattutto di atmosfere e trame emozionali, di conquiste soggettive e sempre precarie, di pratiche esperienziali difficili da comunicare e ancor più da insegnare. Forse lunico modo per coglierne il senso generale più autentico e per poterne disegnare plausibili scenari futuri è ripercorrerne la storia - quella del movimento nel suo insieme come quella delle singole esperienze comunitarie.
Il modello della CT, così come si è affermato in Italia, ha sostanzialmente due matrici:
Chi voglia approfondire la straordinaria storia delle esperienze comunitarie in Europa ed il confronto tra i diversi modelli può trovare stimoli e ricchissimo materiale nei due recenti volumi La Comunità Terapeutica (Ferruta, Foresti, Pedriali e Vigorelli 1998) e Organisations, Anxieties and Defences a cura di R.D.Hinshelwood e M.Chiesa (2002).
2. Cultura comunitaria e cultura terapeutica Tra i possibili metodi esplorativi per accedere a questi livelli informali ed inconsci della cultura organizzativa si sono rivelate molto promettenti le tecniche dette di osservazione istituzionale. Losservazione istituzionale mira a conoscere il funzionamento di unistituzione, con particolare riguardo agli aspetti emotivi inconsci e ai processi relazionali che vi sono implicati, utilizzando un metodo derivato della cosiddetta infant observation, la tecnica per lesplorazione della relazione madre-bambino originariamente creata dalla psicoanalista inglese Esther Bick (1964) a scopi di ricerca clinica e successivamente sviluppata come metodo di formazione per psicoterapeuti e professionisti operanti nelle istituzioni di cura e assistenza.
Lapplicazione del metodo osservativo alle istituzioni sociali e alle organizzazioni produttive nasce e si sviluppa in Inghilterra negli ultimi decenni a partire dal fecondo filone delle ricerche sulla dinamica dei gruppi e delle organizzazioni inaugurato dal Tavistock Institute of Human Relations e dalla Tavistock Clinic. Entrambe le istituzioni offrono tuttora a studenti e professionisti corsi, master e seminari sullanalisi e la consulenza organizzativa che includono ricerche ed esercitazioni basate sullosservazione (Perini e Vandoni 2001). Cercherò ora di individuare e descrivere sommariamente gli elementi-base che costituiscono la cultura organizzativa della CT.
a) Il modello organizzativo
Rispetto alla missione della CT riprenderei la già citata definizione di Tom Main: scopo immediato [della CT] è la piena partecipazione alla vita quotidiana di tutti i suoi appartenenti, mentre lobiettivo finale è la reintegrazione dellindividuo nella vita sociale (Main 1983). Tale obiettivo finale può essere considerato il compito primario della CT.
I modelli organizzativi possono avere una valenza difensiva contro aspetti ansiogeni o dolorosi inconfessati propri del compito primario dellistituzione. Un esempio classico è quello riportato da Miller e Gwynne nel loro studio sulle strutture residenziali per lassistenza ai disabili (Miller e Gwynne 1972). Da un lato essi trovarono istituzioni gestite con atteggiamento liberale, dove i residenti erano considerati come dotati di complete capacità potenziali e fortemente sollecitati a svilupparle; dallaltro trovarono strutture gestite con stile paternalistico, dove essi venivano invece vissuti come irreparabilmente danneggiati, dipendenti e totalmente bisognosi di cure. Essi denominarono le due tipologie contrapposte rispettivamente modello serra (horticultural model) e modello deposito (warehouse model), e ne individuarono linconscia funzione difensiva contro lidea penosa che il mandato sociale di queste istituzioni fosse quello di occuparsi di persone socialmente morte e di gestire lintervallo tra la morte sociale e la morte fisica dei residenti. Il saggio di Miller e Gwynne si riferisce alle istituzioni per handicappati fisici, ma credo che non occorra molta fatica per estenderne le conclusioni alle strutture residenziali psichiatriche.
Ci sono dunque forti tensioni ed angosce che permeano la cultura organizzativa della CT. La tensione principale è forse quella che si crea tra due compiti di pari importanza, quello di accogliere e quello di far crescere.
Italo Carta (1999) propone un modello organizzativo di CT fondato su quattro assunti: Le riflessioni di Carta collocano il modello della CT in una prospettiva orientata soprattutto al superamento del paradigma medico di interpretazione e gestione della malattia mentale ed al superamento della dicotomia istituzione/territorio, in direzione di unintegrazione sia tra approcci diversi (cfr. anche Zapparoli 1988) sia tra differenti servizi e soggetti sociali. Vedremo più oltre come questa integrazione sia tuttaltro che facile e indolore e come sia contrassegnata da una continua conflittualità intra- e interculturale.
In termini più fenomenologici (1)potremmo tentare di descrivere la cultura della CT come una filosofia di lavoro che include e privilegia:
Questa filosofia di lavoro prende talora nomi e connotazioni differenti a seconda degli autori: Edelson (1964) la chiama socioterapia, Maxwell Jones (1953, 1979)living learning, Hinshelwood e i ricercatori del Cassel assistenza psicosociale (psycho-social nursing; Barnes 1968, Griffiths e Hinshelwood 1995). Di fatto essa rappresenta un terreno comune ed un elemento unificante anche rispetto alla varietà degli approcci teorici che vengono praticati nel lavoro di comunità e che per grandi linee possono essere così raggruppati: Il coinvolgimento dei pazienti nella gestione della vita comunitaria modifica profondamente la struttura dellautorità e la fisionomia della leadership. Non si può davvero concepire una CT a gestione autoritaria e verticistica, governata da una rigida struttura gerarchica e da una scissione verticale tra i ruoli di curante e quelli di paziente. Anche senza adottare il radicalismo di Maxwell Jones e la sua proposta di una leadership multipla, è inevitabile identificare la democrazia comunitaria nei termini di una suddivisione dellautorità, del potere decisionale e della responsabilità tra operatori e pazienti. Questa delega di potere verso il basso, questo empowerment delle figure istituzionali più deboli (gli operatori di prima linea, i residenti) sono in effetti gli aspetti più tipici della cultura organizzativa della CT.
Naturalmente oggi la nostra idea di democrazia è meno naive ed estremistica che trentanni fa, non può più concepire lassemblearismo egualitario e la leadership diffusa imperanti negli anni 70, non considera la democrazia incompatibile con lautorità di un capo o lesistenza di una gerarchia o la diseguaglianza dei ruoli: nella società in senso lato come nella CT la democrazia è divenuta più matura e meno ideologica, anche se questo processo le ha imposto una serie di compromessi non sempre costruttivi e quasi mai indolori. Democrazia comunitaria, struttura dellautorità e leadership hanno in definitiva a che fare soprattutto con i processi psicosociali relativi ai ruoli e alla loro gestione, al potere e alla responsabilità, ma su un piano più profondo si collegano con i bisogni narcisistici, di dipendenza, di sicurezza e di controllo appartenenti sia agli individui isolati sia al gruppo. La differenziazione dei ruoli dipende non solo dalla diversità dei compiti ma anche dalle aspettative che vi sono connesse. Ciascun ruolo - scrivono Deutsch e Schneider - comporta determinate responsabilità che ne definiscono i parametri. A ciascun ruolo viene attribuito un potere [che forse sarebbe meglio chiamare autorità] che opera come energia necessaria per ladempimento del compito E più oltre aggiungono: Senza contraddire il concetto di CT, possiamo affermare che la responsabilità finale per il trattamento in una comunità è degli operatori, proprio come in un Paese democratico appartiene al governo (Deutsch e Schneider 1984). Lo sforzo costante di chiarificazione dei ruoli, dei compiti, dei valori e delle norme si rivela anche un valido modo per contenere entro limiti accettabili le tensioni interpersonali, i conflitti sul potere e sulla democrazia comunitaria, anche se certo non è in grado di eliminarli.
La leadership, punto di forza della CT nella fase fondativa, ne rappresenta anche e non di rado il tallone dAchille, non fossaltro perché è costantemente immersa in un bagno di scissioni, proiezioni e fantasie primitive che rischiano di sommergerla, specialmente nei momenti di crisi e di transizione. La fondazione di una CT è nella maggioranza dei casi frutto della realizzazione della visione di un leader carismatico (2) la cui idealizzazione gli assicura per un certo tempo un seguito di compagni e collaboratori entusiasti, creativi e alquanto dipendenti. Nei momenti difficili le funzioni necessarie al governo dellistituzione, delle persone e delle conoscenze - quelle che la cultura aziendale ha riassunto con i termini stretching, sharing, coaching e empowering (3) - rischiano di degenerare in una qualche forma di leadership patologica, come quelle di tipo paranoide, narcisistico, delinquenziale, depressivo, maniacale o alessitimico (4) Non voglio qui addentrarmi oltre nel ginepraio della leadership e delle sue malattie, argomenti sui quali molto è stato scritto e per i quali rimanderei soprattutto ai lavori di Kets de Vries (1993, 2001). Oggi molte delle crisi delle CT sono legate o alluscita di scena dei leader-fondatori (come del resto le crisi generazionali nella piccola e media impresa familiare) oppure allinevitabilità dei cambiamenti imposti alla leadership dalle trasformazioni socio-culturali e dai mutamenti nella politica psichiatrica e nel welfare. La crisi della leadership ha talora il volto del narcisismo distruttivo (La Communauté cest moi!), o quello dellisolazionismo autocompiaciuto che ignora lesistenza di un mondo esterno là fuori, o allopposto quello dellorientamento tutto proteso alla realtà esterna, alla politica, al mercato, alla caccia al cliente.
Compito della leadership è assicurare la sopravvivenza dellistituzione e quella dei valori che hanno ispirato la sua missione, due imprese tuttaltro che facili che possono anche diventare reciprocamente antagonistiche.
Le vicissitudini della leadership in CT sono, comè facile intuire, strettamente connesse con la questione dellautorità, con il problema delle regole e con la gestione dei confini - la Legge, per dirla con Lacan, o, in altri termini, la reciproca articolazione del codice paterno e di quello materno nella cultura istituzionale.
Nella CT le regole - come per lo più insegna lesperienza - sembrano fatte per essere violate, sia dai pazienti che dagli operatori, da chi le subisce come da chi le detta, con una molteplicità di tecniche che vanno dalla trasgressione aperta allaggiramento, dallobbedienza cieca e sottomissiva che le rende insensate alla manipolazione che le degrada e le svaluta. Quanto ai confini, chiunque lavori in istituzioni comunitarie ha fatto certamente esperienza dellestrema facilità con cui confini di ogni genere vengono continuamente confusi, sovvertiti, blindati o ampliati a dismisura. La psicosi è assenza di confine; la trasgressione coatta dei disordini di personalità e dei tossicodipendenti è malattia del confine. A nessun altro se non alla leadership - sia essa incarnata in un direttore di comunità o nellintero staff - compete farsi rocciosa funzione egoica nel definire e difendere i vari confini organizzativi: quelli tra gruppo e individuo, tra persone e ruoli, tra listituzione e lambiente circostante; i confini di tempo, compito e territorio; le regole stesse, che sono confini di comportamento; e soprattutto il fragile e sempre minacciato confine tra realtà e fantasia.
b)La cultura dellindagine Le ansie nel sistema comunitario sono assai intense, primitive e prevalentemente di marca psicotica: persecuzione, frammentazione, annientamento, perdita di senso, caduta nel vuoto, disperazione, fusione e perdita dei confini. Contro tali ansie si attivano difese altrettanto primitive quali la scissione, la proiezione e lidentificazione proiettiva, lidealizzazione, il diniego, lattacco al legame. I processi di gruppo, in particolare quelli propri del gruppo allargato, sono potenti amplificatori delle angosce psicotiche e delle relative difese, non solo nei pazienti ma anche negli operatori. Questi ultimi, quandanche individualmente siano persone sufficientemente mature e integrate, nella grande riunione di comunità tendono a regredire a funzionamenti arcaici ed immaturi, in particolare quelli descritti da Bion (1961) e dai suoi continuatori (Turquet 1974, Lawrence, Gould e Bain 1996) col termine di assunti di base. Tra le ansie e le difese caratteristiche della CT potremmo menzionare: lindifferenziazione dei ruoli e legualitarismo come difesa dalle differenze e dallinvidia; la paralisi decisionale o allopposto la decisionalità impulsiva, la ricerca del capro espiatorio ed i processi sommari come forme di evacuazione dellansia di sentirsi incapaci o della paura di sbagliare e di venire biasimati, sia dallesterno sia dallinterno; laccanimento interpretativo (o pantanalisi, secondo una suggestiva espressione coniata da Diego Napolitani) come difesa intellettualizzante, aggressione mascherata o imperialismo di categoria, baluardo contro i rischi del confronto, la depressione dellinsuccesso e langoscia di non capire e sentirsi confusi; linflazione di riunioni e gruppi (che qualcuno ha chiamato riunionite) come rituale coesivo contro la frammentazione, la paura della rivalità, il senso di solitudine e lansia da contatto/contagio con il paziente; liperattivismo organizzativo e occupazionale come fuga nellazione di fronte agli aspetti ansiogeni dellattività riflessiva e del confronto emozionale; la burocratizzazione, la mistica delle regole ecc. Un significato particolare presentano poi le difese di ruolo, basate sulla scissione tra la persona e il ruolo istituzionale da questa rivestito: in CT il ruolo di curante può essere facilmente utilizzato come trincea contro le identificazioni pericolose con i pazienti, così come il camice negli ospedali. Tom Main ha dato una vivida descrizione delle conseguenze di questi sistemi difensivi: Sono a disposizione soltanto ruoli di salute o di malattia, gli operatori sono soltanto in buona salute, competenti, gentili, potenti ed attivi ed i pazienti soltanto ammalati, sofferenti, ignoranti, passivi, obbedienti e grati. Nella maggior parte degli ospedali, gli operatori sono così perché cercano di curare altri meno in salute di loro, mentre i pazienti sperano di trovare altri più in salute di loro stessi. Coloro che danno aiuto e coloro che lo ricevono si incontrano e fanno pressione reciproca per agire, non soltanto nella relazione concreta, ma anche in una collusione fantasmatica. Quelli che danno aiuto hanno bisogno inconsciamente di altri da aiutare, mentre i bisognosi di aiuto avranno necessità di altri pronti ad aiutare. Operatori e pazienti sono pertanto inevitabilmente in qualche misura creature le une delle altre ( Main 1975). Per un approfondimento delle ansie e delle difese sociali implicate nel lavoro di aiuto a persone che soffrono rimanderei ai lavori, classici ma ancora attualissimi, di Elliott Jaques (1955) e di Isabel Menzies (1960) e, in epoca più recente, alle antologie The Unconscious at Work di Obholzer e Roberts (1994) e Organisations, Anxieties and Defences di Hinshelwood e Chiesa (2001).
c)La cultura dellazione Questa cultura pragmatica è sentita come ostica e per molti versi estranea alla cultura riflessiva propria della psicologia e soprattutto della psicoanalisi, la quale ha sempre concepito lazione come profondamente in antitesi al pensiero quando non un attacco al pensiero stesso, come nel caso dellacting out. Dunque comunità come dottore, come propone Rapoport, o comunità come analista, come suggerisce Hinshelwood (1979)? E in questo caso che genere di analista?
Occorre riconoscere che in CT lazione si propone di diventare parte integrante del progetto di cura; e questo non solo perché affronta questioni pratiche di cui non possiamo evitare di occuparci (laccoglienza e laccudimento, il controllo e il contenimento, la condivisione delle responsabilità legate alla vita quotidiana, alla gestione dellambiente di vita, allo svolgimento di un lavoro), ma perché nella maggior parte dei casi essa si rivela il solo linguaggio per poter comunicare con pazienti che funzionano con processi mentali molto primitivi e per operare trasformativamente sul loro mondo interno. Le azioni parlanti descritte da Racamier (1997) o le interpretazioni agite di cui parlava Carlo Ferraris, come modalità di intervento contrapposte sia alle classiche interpretazioni - per lo più irricevibili per psicotici e borderline - sia agli agiti e alle azioni drammatizzate - che evacuano difensivamente i contenuti mentali degli individui e dei gruppi - , creano nel contesto comunitario uno scenario rappresentazionale nel quale la realtà esterna e quella mentale possono incontrarsi e rifornirsi reciprocamente di senso. In questi termini lorganizzazione della CT rende disponibili tanto agli operatori quanto ai pazienti una serie di opportunità per apprendere dal fare, utilizzabili come strumenti di integrazione del sé, di sollievo dallansia, di padronanza degli impulsi e di sviluppo individuale e collettivo. Diversamente da altre culture organizzative - come quella dellimpresa - la CT reca scritto nel proprio DNA linteresse per la vita di relazione e le emozioni che vi sono correlate. La sua sfida consiste nellimparare a riconoscere tali emozioni, ad accettarle e a tentare di padroneggiarle, soprattutto quelle basate sullinvidia, la rivalità, la seduzione, la manipolazione, lodio e il disprezzo, perché sono quelle che hanno devastato il mondo interno dei pazienti e che possono distruggere il potenziale terapeutico della comunità. Il contesto relazionale più tipico della CT è quello offerto dal gruppo allargato, che si concretizza nella riunione o assemblea di comunità tra operatori e pazienti: come ho già detto si tratta di un luogo di intense emozioni, ma che rappresenta anche uno speciale laboratorio psicosociale, dove le grandi dimensioni e la coesistenza di molteplici differenze (detà, di sesso, di ruolo, di comportamento) creano un ambiente adatto ad accogliere processi, affetti e legami primitivi e a costituirsi come spazio transizionale tra il mondo interno degli individui che ne fanno parte e la realtà sociale esterna.
La vita relazionale unistituzione (quella che gli studiosi del Tavistock hanno denominato relatedness) implica ladozione di una prospettiva complessa, molto più ampia di quella diadica propria della relazione madre-bambino o curante-paziente. I modelli relazionali che occorre utilizzare sono per lo più non-lineari e strutturati come reti che connettono tra loro persone, gruppi, settori istituzionali, micro- e macrosistemi sociali.
Larea delle relazioni interistituzionali include prima di tutto i rapporti con le famiglie dei pazienti, rispetto alle quali il dilemma di fondo resta quello di decidere se tentare di costruire con i familiari unalleanza di lavoro reclutandoli come co-terapeuti oppure tagliarli fuori e neutralizzarne le tendenze sabotatrici.
e)La cultura del conflitto Tuttavia non posso tacere che il lavoro in CT sia un lavoro rischioso - soprattutto per la propria pace mentale - e che il rischio primario (Hirschhorn 1999) consista a mio avviso proprio nel magma conflittuale in cui gli operatori sono quotidianamente immersi, quegli stessi conflitti che i loro pazienti hanno messo fuori gioco sviluppando una psicosi, un disturbo della personalità o una dipendenza da sostanze. Conflitti e antinomie si creano continuamente tra le sottoculture che convergono nel lavoro di comunità: i più noti e tipici sono quelli tra cura e custodia, tra autonomia e dipendenza, tra ruolo del terapeuta e ruolo del paziente, tra permissività e autoritarismo, tra azione e pensiero. Ma potremmo aggiungere molte altre coppie di opposizioni dialettiche: socializzazione/isolamento, terapia/riabilitazione, adattamento/cambiamento, biologico/mentale, attività/passività, efficienza/soddisfazione, piacere/realtà, modelli educativi/modelli psicodinamici, istituzione/territorio e, tra le più attuali, pubblico/privato. Una componente strutturale della conflittualità origina dalla coabitazione nella CT, accanto alle figure e culture professionali tradizionali (medico, psicologo, infermiere e assistente sociale), di realtà nuove e diverse rappresentate da educatori, adest, terapisti occupazionali, arte-terapisti ecc., a cui si affiancano altre figure tradizionalmente invisibili o vissute come marginali perché appartenenti alla gestione amministrativa del sistema (personale con compiti economico-finanziari o di contabilità, cuochi, addetti alle pulizie, alla manutenzione, segreteria ecc.). Cruciale per il destino della CT è lesito del confronto/conflitto tra le sue tre culture professionali basilari: la cultura medico-biologica, quella psicologica e quella socio-educativa. Per molto tempo ci si è chiesti se la CT fosse unistituzione sanitaria o non-sanitaria (psicoterapeutica, socio-pedagogica), ma in realtà il punto è che il movimento comunitario, pur essendo nato in ospedale, ha sviluppato fin dagli inizi una cultura di tipo anti-sanitario, proprio per marcare la differenza rispetto agli abusi di cui il sistema sanitario psichiatrico tradizionale si era macchiato e per sottrarre le proprie sperimentazioni allegemonia del modello medico ospedaliero ed accademico. La matrice culturale della CT - ci ricorda Enrico Pedriali - [è] fondata più sugli apporti della psicologia sociale, della psicoanalisi e della sociologia che non su quello della medicina scientifica (Pedriali 1999)
Il graduale affermarsi nel movimento delle comunità di un pluralismo metodologico e degli approcci terapeutico-riabilitativi cosiddetti integrati ha attenuato la pregiudiziale anti-medica ma ha riproposto il conflitto interculturale tra sistemi teorici, strumenti e linguaggi diversi e talora molto distanti tra loro. E poiché il modo più spiccio per risolvere le contraddizioni è costituito dalla soppressione di uno dei poli conflittuali, il rischio a cui oggi non di rado si assiste è quello dei dinieghi incrociati: diniego del corpo da parte degli psicologi, della parola da parte degli educatori, del mondo esterno da parte degli psichiatri.
Il problema evidentemente non è come abolire i conflitti, ma come contenerli perché non divengano distruttivi pur conservando la loro funzione dinamica, che è quella di mobilizzare il pensiero nellistituzione.
Una cultura che accetta il conflitto deve però disporre necessariamente di tecniche e dispositivi per la sua gestione (conflict management): Anche il dilemma dipendenza/autonomia, generatore di tanti conflitti nella CT e più in generale in psichiatria, può trovare una ricomposizione quando si riesca a promuovere una cultura istituzionale dellinterdipendenza: interdipendenza tra operatori e pazienti, tra capi e collaboratori, tra servizi e agenzie del territorio, e persino tra parti mature e immature del Sé.
f)La comunità come organizzazione narcisistica
Il fatto è che molto spesso le CT stanno a questo gioco, costrette in parte dalla subordinazione gerarchica (le strutture pubbliche) o dal ricatto commerciale (quelle private), ma anche in qualche misura sedotte dalla lusinga del compito impossibile. E questa dimensione narcisistica che vorrei ora brevemente considerare, nei suoi indubbi pro e negli inevitabili contro. Laltro rischio maggiore è che il leader metta mano alla creazione di un microcosmo sociale più o meno fortemente impregnato di valenze narcisistiche distruttive, per lo di chiara marca psicotica. Lelevatissimo investimento che questi leader pongono sul Sé istituzionale, grande fonte di entusiasmi e motore di esaltanti risultati a breve, diventano alla lunga causa di malfunzionamenti, tensioni croniche e vicoli ciechi istituzionali. Uno sbocco è la gestione sacrale e autocratica della politica istituzionale, contro levidenza e i buoni consigli di collaboratori e consulenti, qualcosa che ricorda la patologia del carattere di Riccardo III descritta da Freud nel suo saggio sulle eccezioni (Freud ); un altro è lisolamento autistico, culturale e scientifico, della comunità, che la priva del contatto reale con il mondo esterno impoverendone la capacità di produrre idee nuove e rendendola incubatrice di integralismi.
Lisolamento narcisistico è uno dei rischi più comuni per la cultura organizzativa comunitaria. Le comunità terapeutiche - scrive Enrico Pedriali - spesso si presentano come monadi isolate che, anche quando svolgono il loro lavoro con scrupolo e serietà, non riescono a produrre una ricerca teorico-clinica, metodologica, epidemiologica e statistica sufficientemente indicativa. Le dimensioni, generalmente piccole, e i mezzi a disposizione, generalmente scarsi, non lo consentono e ciò finisce col determinare il rischio dell' autoreferenzialità.
Lisolamento dà la misura di quanto sia vulnerabile e antieconomico lassetto narcisistico, perché nel cercare di proteggere unidentità istituzionale sentita come minacciata, di fatto ne facilita la perdita o la perversione. Gli esiti a medio-lungo termine sono abbastanza noti: basta pensare alle CT che hanno dovuto chiudere i battenti per la loro orgogliosa incapacità di trasformarsi, o a quelle che sono diventate legione straniera del sistema psichiatrico, rifugio di mercenari e di reietti, pattumiere sociali o neo-manicomiali, agenzie di lavoro interinale per la disoccupazione intellettuale, organizzazioni commerciali - private e pubbliche - preoccupate solo del budget. In qualche caso particolarmente infelice il cocktail tra narcisismo organizzativo e i prodotti più tossici lavorati dal sistema-comunità (follìa, violenza, sesso, droga) possono portare allesplosione del contenitore: gli operatori si ammalano o fuggono, capita qualche grave incidente, si finisce sul giornale o davanti al magistrato, il credito sociale e quello economico vengono ritirati e la CT chiude nel peggiore dei modi. Lincubo notturno di tutti i responsabili di comunità!
3. Movimento o metodo? Dobbiamo riconoscere che il movimento delle CT è stato un vero laboratorio sociale, che ha prodotto cambiamenti di rilievo non solo nella psichiatria ma anche nel modo di concepire le relazioni umane e le istituzioni sociali. Ma la CT attuale possiamo ancora definirla un laboratorio? Un tale concetto, allora aperto e promettente, non corre oggi il rischio di alimentare nella pratica comunitaria un atteggiamento di irresponsabilità civile o di farne un eterno cantiere adolescenziale sempre in attesa della palingenesi psichiatrica che dovrebbe riconoscerne il valore? Oggi la realtà è assai diversa ed una delle sue durezze consiste nel richiedere ad ogni teoria e ad ogni prassi di giustificare il proprio statuto (scientifico e sociale) e di dimostrare con i risultati di aver titolo a ricevere una quota del denaro pubblico. Si tratta di un processo non coerente né lineare, che a volte sembra preferire la nettezza del dato statistico o di quello contabile allincertezza del discorso sulla qualità, che non di rado sembra smarrire dietro questioni di potere la dovuta attenzione per i bisogni delle persone. E nondimeno per la CT questa può rivelarsi anche una benefica sfida, quella di misurarsi col mondo che cambia, di affrontare le fatiche della crescita, di migrare dallera del pionierismo a quella della professionalizzazione, dellinterrogarsi sul metodo, sullefficacia, sul problema del reclutamento e della formazione degli operatori. Lalternativa al laboratorio (che non significa certo smettere di sperimentare) comporta oggi lesigenza di pensare alla CT come unimpresa - in senso aziendale ma soprattutto come unavventura, un viaggio degli Argonauti - che dovrà pur sempre ispirarsi a una visione, ma proponendosi un ben definito obiettivo di produttività sociale.
Loriginaria cultura del movimento non può confrontarsi con i propri sviluppi se non in termini di cultura del metodo. Certo, il confronto lungo la linea temporale sembra marcare una perdita di vitalità o quanto meno un appannamento: nella cultura del movimento dominano il carisma, linnovazione creativa, lo sperimentalismo, lidealizzazione, la tenuità delle strutture organizzative, lenfasi sulla dimensione sociale; in quella del metodo invece prevalgono la professionalità, listituzionalizzazione, i metodi e le routine, la standardizzazione, il pragmatismo, strutture più forti e lenfasi sulla dimensione clinico-terapeutica.
Il movimento è certamente tensione, provvisorietà, e soprattutto lotta alla cronicità e allistituzionalismo che minacciano la vita delle persone, delle organizzazioni e delle stesse idee. Daltra parte metodo significa trasmissibilità e diffusione, depositarsi delle conoscenze, assumersi responsabilità nei confronti degli altri saperi come degli uomini che di queste idee si serviranno. Movimento e metodo, come tradizione e innovazione, sono in opposizione dialettica e in oscillazione dinamica; dal loro reciproco dialogare potrebbero discendere, anche per i destini della CT, la disponibilità ad accogliere il nuovo e la possibilità di ulteriori sviluppi.
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Note:
1-La cultura dellindagine (libertà di indagare, esprimere e discutere apertamente questioni inerenti emozioni e comportamenti sia dei pazienti che dello staff) (3) Stretching implica sollecitare e sfidare, sharing condividere emozioni, conoscenze e valori, coaching addestrare e dare supporto, empowering attribuire potere e stimolare iniziativa e autonomia (Testa 2001).
(4) Alessitimia è un termine che descrive una sorta di analfabetismo emozionale (Kets de Vries 1993)
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