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Atti delle Giornate di studio
"Le Comunità Terapeutiche: ambienti di vita, percorsi di cura"
Quando, come e quanto l'abitare può essere terapeutico



La cultura organizzativa della comunita’ terapeutica

Mario Perini*

* Presidente de IL NODO Group - Torino

Per sviluppare il tema proposto dal titolo occorre affrontare due problemi preliminari.
Il primo è la difficoltà di rispondere alla domanda “che cosa è la Comunità Terapeutica”?
Il secondo è la necessità di precisare che cosa si intenda per “cultura organizzativa”.
Il campo da esplorare si rivela talmente vasto e complesso che mi vedrò costretto a limitare il mio intervento al tentativo di offrire una visione d’insieme, una semplice carrellata, con la quale però mi propongo di non lasciar fuori nessuno dei vertici concettuali più importanti dai quali osservare lo scenario oggetto di studio.

1. Definire la comunita’ terapeutica
Non è facile dare una definizione soddisfacente di Comunità Terapeutica (CT) perché il termine ha acquisito nel tempo un alone semantico sempre più sfumato, generico ed ambiguo. In Italia molte strutture residenziali rivolte alla cura, all’assistenza e alla riabilitazione si autodefiniscono CT, sebbene i loro modelli di riferimento, i loro obiettivi espliciti ed impliciti, i loro clienti e le loro pratiche di lavoro siano molto differenti e spesso assai lontani dal paradigma originario.
Ma qual è il paradigma originario, se pure ne esiste uno? E quali gli sviluppi attuali che si possono considerare coerenti con quel paradigma?

Tom Main, uno dei padri fondatori del “modello inglese” della CT, la descrive come “un tentativo di utilizzare l’ospedale come una comunità il cui scopo immediato è la piena partecipazione alla vita quotidiana di tutti i suoi appartenenti, mentre l’obiettivo finale è la reintegrazione dell’individuo nella vita sociale” (Main 1983). Oggi aggiungeremmo che il modello “si fonda sull’indagine del comportamento e sulla ricerca di nuove modalità di relazione attraverso una moltitudine di setting interpersonali” (Karterud 1988)

Il paradigma della CT inglese è stato elaborato da Robert Rapoport nel suo famoso studio “Community as a doctor” (Rapoport 1960), risultato di un’accurata esplorazione antropologica condotta nell’Henderson Hospital, la comunità creata da Maxwell Jones; Rapoport aveva individuato quattro elementi distintivi del modello comunitario:
1.la democratizzazione, ossia la divisione del potere decisionale tra operatori e pazienti;
2.il collettivismo (“communalism”), cioè un’atmosfera relazionale caratterizzata da condivisione, confidenza e aperta comunicazione;
3.la permissività, ovvero la tolleranza della diversità e della devianza nell’espressione e nel comportamento;
4.il confronto con la realtà, nel senso di un clima di apertura e reciprocità nel misurarsi quotidiano con il significato e le conseguenze dei comportamenti di ciascuno dei membri della comunità.

Per molti anni queste caratteristiche sono servite quasi come precetti e linee-guida per distinguere le istituzioni comunitarie dalle altre strutture di ricovero e cura, soprattutto dalle segreganti istituzioni asilari, ma è difficile ritenere che oggi, in un contesto sociale e culturale così profondamente mutati, esse possano mantenere inalterati la funzione e il significato delle origini. L’Association for Therapeutic Communities (ATC) ha prodotto recentemente un’encomiabile opera di aggiornamento elaborando un questionario che evidenzia gli aspetti distintivi della CT: si tratta del “Kennard-Lees Audit Checklist” (KLAC), uno strumento di indiscusso valore scientifico e di grande utilità pratica, ma per forza di cose molto ancorato alla realtà inglese e quindi non immediatamente trasferibile nella nostra.

D’altra parte una stessa CT può essere descritta in termini molto diversi a seconda del vertice osservativo che si decide di privilegiare; essa è infatti contemporaneamente:
1.un luogo di residenza (“struttura”)
2.uno strumento di cura (“tecnologia”)
3.una tradizione e un modello di lavoro (“cultura”)

“Oltre che indicare uno spazio fisico infatti - si legge nell’introduzione al tema di questo Convegno - il termine ‘Comunità Terapeutica’ definisce un fondamento culturale e scientifico di ‘pensiero’ che sottende ad un agire comunitario volto a superare la contrapposizione tra istituzione e territorio ”.
Spazio, pensiero e azione, dunque: tre coordinate necessarie per definire la CT in quanto “setting”, ossia contesto nel quale ha luogo la cura, ma non sufficienti per comprenderla in termini di “organizzazione” della cura, il che richiede l’esplorazione di altre dimensioni come struttura, tecnologia e cultura. E’ alla terza di queste dimensioni che dedicherò la maggior parte del mio intervento.

Occorre infine tenere presente che la CT è anche un oggetto mutevole nel tempo, più processo che oggetto dovremmo dire o, con le parole di Hinshelwood (2001), “un’organizzazione che si reinventa continuamente ogni giorno”, sia pure all’interno di alcune direttrici che ne determinano lo sviluppo (ovvero l’involuzione): la sua storia in primo luogo, la sua struttura e cultura organizzativa ma soprattutto l’ambiente sociale e politico, con il quale in molti modi interagisce ed al quale deve inevitabilmente adattarsi se vuole sopravvivere. Ma adattarsi vuol dire cambiare e il cambiamento, sempre penoso e spesso fonte di resistenza, può significare trasformazione, innovazione creativa, ma altre volte purtroppo degrado o pervertimento.

Dobbiamo dunque riconoscere che la CT si presenta oggi se non proprio come un oggetto misterioso quanto meno come un fenomeno socio-tecnico decisamente ambiguo ed insaturo, che non si lascia agevolmente afferrare da una definizione né ordinare da regole, criteri valutativi o linee-guida, fatto com’è soprattutto di atmosfere e trame emozionali, di conquiste soggettive e sempre precarie, di pratiche esperienziali difficili da comunicare e ancor più da insegnare. Forse l’unico modo per coglierne il senso generale più autentico e per poterne disegnare plausibili scenari futuri è ripercorrerne la storia - quella del movimento nel suo insieme come quella delle singole esperienze comunitarie.

Il modello della CT, così come si è affermato in Italia, ha sostanzialmente due matrici:
a)Il movimento delle Comunità Terapeutiche inglesi (da Maxwell Jones e Tom Main a Stuart Whiteley, Robert D. Hinshelwood e Kingsley Norton);
b)La psichiatria di settore e la psicoterapia istituzionale francese (da François Tosquelles, Henri Vermorel, Philippe Paumelle e i pionieri del XIIIème Arrondissement a Paul-Claude Racamier e a Marcel Sassolas)
La diffidenza quando non l’aperta ostilità che il movimento antipsichiatrico ha manifestato verso la CT e la psicoanalisi hanno ritardato di molto l’affermazione di questa metodologia nel nostro Paese, ostacolando la costruzione di un modello originale italiano. In Italia le CT - presenti già alla fine degli anni ’60 con pochi e isolati esperimenti d’avanguardia (ricordo per tutti Villa Serena a Milano) - si sono sviluppate solo nell’ultimo decennio soprattutto grazie allo svuotamento dei manicomi e all’azione apri-pista delle comunità per tossicodipendenti e per adolescenti problematici.

Chi voglia approfondire la straordinaria storia delle esperienze comunitarie in Europa ed il confronto tra i diversi modelli può trovare stimoli e ricchissimo materiale nei due recenti volumi “La Comunità Terapeutica” (Ferruta, Foresti, Pedriali e Vigorelli 1998) e “Organisations, Anxieties and Defences” a cura di R.D.Hinshelwood e M.Chiesa (2002).
Passerei ora ad indagare la dimensione che ho indicato col termine “cultura organizzativa”.

2. Cultura comunitaria e cultura terapeutica
Edgar Schein nei suoi studi accurati sul funzionamento dell’impresa (Schein 1985, 1999) descrive la “cultura di un’organizzazione” come un’architettura a tre livelli, da quello più visibile degli “artefatti” (le strutture e i processi organizzativi evidenti) a quello intermedio dei “valori dichiarati” (strategie, obiettivi, filosofie) fino al livello più profondo e nascosto, quello degli “assunti taciti condivisi”, che includono le convinzioni e le percezioni inconsce, i sentimenti e le fantasie. E’ facile descrivere un’organizzazione al livello di ciò che è più visibile, di “ciò che si vede, si ascolta e si prova” muovendosi al suo interno, ma il quadro istituzionale che ne emerge, ancorché chiaro, resta probabilmente indecifrabile, nel senso che non permette di coglierne il significato, di capire il perché le cose stiano così, come si sia arrivati a costruirle e che cosa realmente le persone pensino della propria organizzazione. La cultura organizzativa è certamente costituita da quel complesso di modelli, procedure, norme esplicite, rituali, simboli, valori dichiarati e climi emotivi che ne rappresentano la “struttura emersa”; ma la vera fonte dei valori, dei significati e delle motivazioni che la sorreggono risiede piuttosto nella sua zona d’ombra, in quella parte sommersa abitata da tutto ciò che è implicito e scontato, non-detto o semplicemente inconscio, ovvero da miti, credenze e valori tacitamente condivisi, pregiudizi, fantasie, sentimenti, e in definitiva dalle ansie e dalle relative difese.
Sfortunatamente questo livello, proprio perché nascosto, è anche difficile da indagare, così come in psicoanalisi l’origine di un sintomo e il senso di un processo psichico vanno ricercati più nel contenuto latente che in quello manifesto.

Tra i possibili metodi esplorativi per accedere a questi livelli informali ed inconsci della cultura organizzativa si sono rivelate molto promettenti le tecniche dette di ”osservazione istituzionale”. L’osservazione istituzionale mira a conoscere il funzionamento di un’istituzione, con particolare riguardo agli aspetti emotivi inconsci e ai processi relazionali che vi sono implicati, utilizzando un metodo derivato della cosiddetta “infant observation”, la tecnica per l’esplorazione della relazione madre-bambino originariamente creata dalla psicoanalista inglese Esther Bick (1964) a scopi di ricerca clinica e successivamente sviluppata come metodo di formazione per psicoterapeuti e professionisti operanti nelle istituzioni di cura e assistenza.

L’applicazione del metodo osservativo alle istituzioni sociali e alle organizzazioni produttive nasce e si sviluppa in Inghilterra negli ultimi decenni a partire dal fecondo filone delle ricerche sulla dinamica dei gruppi e delle organizzazioni inaugurato dal Tavistock Institute of Human Relations e dalla Tavistock Clinic. Entrambe le istituzioni offrono tuttora a studenti e professionisti corsi, master e seminari sull’analisi e la consulenza organizzativa che includono ricerche ed esercitazioni basate sull’osservazione (Perini e Vandoni 2001).
In anni più recenti (Hinshelwood e Skogstad 2000) una metodologia analoga è stata elaborata in contesti diversi quali il Cassel Hospital e l’Università dell’Essex per essere applicata più specificamente alle istituzioni di cura e assistenza e alla formazione degli psichiatri e degli psicologi clinici.

Cercherò ora di individuare e descrivere sommariamente gli elementi-base che costituiscono la cultura organizzativa della CT.

a) Il modello organizzativo
Il modello organizzativo di un’istituzione sociale dipende in larga misura dalla sua missione e dal suo compito primario, oltre che da una serie di fattori e processi espliciti ed impliciti, consci ed inconsci, che prenderò in esame più oltre. Col termine di compito primario (primary task) di una qualsiasi organizzazione si intende quel compito che essa deve necessariamente svolgere se vuole sopravvivere (Miller e Rice 1967).

Rispetto alla missione della CT riprenderei la già citata definizione di Tom Main: “scopo immediato [della CT] è la piena partecipazione alla vita quotidiana di tutti i suoi appartenenti, mentre l’obiettivo finale è la reintegrazione dell’individuo nella vita sociale” (Main 1983). Tale obiettivo finale può essere considerato il compito primario della CT.
Molti dei problemi emergenti nella vita di una CT scaturiscono dalla difficoltà di definire quale sia realmente il suo compito primario, nel senso che possono esistere senza essere riconosciute ed affrontate alcune serie discrepanze tra il compito esplicitamente dichiarato (ufficiale), il compito implicitamente perseguito e il risultato effettivamente prodotto.
Corollari inevitabili della scarsa chiarezza del compito primario sono l’indefinitezza dei ruoli e l’ambiguità dei singoli compiti istituzionali (sub-tasks), le “missioni impossibili”, la gestione confusiva dei confini, l’impossibilità per gli operatori di capire se stanno lavorando bene o no, l’aumento dell’ansia circolante senza adeguati argini di contenimento, e in ultima analisi, la sua ricaduta in termini di crisi acute, incidenti, paranoia istituzionale, mobbing e burnout.

I modelli organizzativi possono avere una valenza difensiva contro aspetti ansiogeni o dolorosi inconfessati propri del compito primario dell’istituzione. Un esempio classico è quello riportato da Miller e Gwynne nel loro studio sulle strutture residenziali per l’assistenza ai disabili (Miller e Gwynne 1972). Da un lato essi trovarono istituzioni gestite con atteggiamento liberale, dove i residenti erano considerati come dotati di complete capacità potenziali e fortemente sollecitati a svilupparle; dall’altro trovarono strutture gestite con stile paternalistico, dove essi venivano invece vissuti come irreparabilmente danneggiati, dipendenti e totalmente bisognosi di cure. Essi denominarono le due tipologie contrapposte rispettivamente “modello serra” (horticultural model) e “modello deposito” (warehouse model), e ne individuarono l’inconscia funzione difensiva contro l’idea penosa che il mandato sociale di queste istituzioni fosse quello di occuparsi di persone socialmente morte e di gestire l’intervallo tra la morte sociale e la morte fisica dei residenti.
“Fronteggiare - scrive Hinshelwood - il grave danno che rendeva impossibile a questi pazienti una vita normale, riconoscere le loro capacità e potenzialità residue, e valutare entrambi gli aspetti individualmente e ripetutamente nel tempo avrebbero comportato ansia e dolore sia per i pazienti sia per il personale. Questi sentimenti venivano evitati attraverso una scissione ed una netta divisione lungo una linea di frattura, col risultato che atteggiamenti separati ma complementari non potevano essere fatti coesistere. Tale polarizzazione implicava per coloro che deludevano le aspettative nel modello serra un diniego del loro grave danno e del relativo disagio, e per molti dei residenti nel modello deposito un diniego del loro potenziale con la conseguenza di una limitazione non necessaria della loro esistenza” (Hinshelwood e Skogstad 2000). In sintesi, nel primo modello pazienti e operatori vengono messi terribilmente sotto pressione cercando di realizzare compiti irrealistici e votandosi a continue frustrazioni, mentre nel secondo operatori zelanti accudiscono i pazienti rendendoli totalmente passivi e dipendenti e nascondendo la disperazione dietro la routine.

Il saggio di Miller e Gwynne si riferisce alle istituzioni per handicappati fisici, ma credo che non occorra molta fatica per estenderne le conclusioni alle strutture residenziali psichiatriche.

Ci sono dunque forti tensioni ed angosce che permeano la cultura organizzativa della CT. La tensione principale è forse quella che si crea tra due compiti di pari importanza, quello di accogliere e quello di far crescere.
Il paradosso centrale e insieme la sfida della CT è appunto lo sforzo di creare un microcosmo sociale che sia capace di accogliere quella follia che il mondo esterno non è in grado di tollerare, ma che sia al tempo stesso capace di aiutare i suoi membri a rinunciare a una casa accogliente per tornare a vivere nel mondo esterno. E’ lo stesso paradosso che si annida nel comune compito emancipativo della terapia e dell’educazione, dove curare malati, allevare figli o istruire allievi implica sempre il creare legami per poi insegnare a scioglierli, o diventare importanti per finire con l’essere superflui, o, in altre parole, lavorare per la separazione.

Italo Carta (1999) propone un modello organizzativo di CT fondato su quattro assunti:
1 - Comunità Terapeutica come luogo in cui si forniscono risposte a dei bisogni psichici nei termini dell’offerta di un contenitore che soddisfi le esigenze di protezione dall’angoscia.
2 - Comunità orientata da una filosofia di lavoro in cui la cultura medica occupa una posizione marginale o comunque subordinata alla cultura clinico-psicologica.
3 - Luogo la cui geografia spaziale, architettonica e funzionale corrisponde ad una rappresentazione del disagio psichico diversa da quella offerta dalla medicina
4 - Istituzione organizzata per perseguire l’obiettivo dell’integrazione tra diversi interventi terapeutici (approccio integrato) e tra diverse agenzie del contesto sociale (lavoro di “rete”).

Le riflessioni di Carta collocano il modello della CT in una prospettiva orientata soprattutto al superamento del paradigma medico di interpretazione e gestione della malattia mentale ed al superamento della dicotomia istituzione/territorio, in direzione di un’integrazione sia tra approcci diversi (cfr. anche Zapparoli 1988) sia tra differenti servizi e soggetti sociali. Vedremo più oltre come questa integrazione sia tutt’altro che facile e indolore e come sia contrassegnata da una continua conflittualità intra- e interculturale.

In termini più fenomenologici (1)potremmo tentare di descrivere la cultura della CT come una filosofia di lavoro che include e privilegia:
-l’enfasi sulla vita in comune
-la partecipazione di curanti e pazienti alla gestione del quotidiano, con particolare riferimento alla “cogestione dell’ansia” (Pagliarani 1969)
-l’attenzione ai processi di gruppo
-l’espressione aperta e pubblica dei sentimenti, anche e soprattutto quelli più “scomodi”
-il confronto con la realtà e con l’ambiente sociale
-la dimensione contrattuale dell’accoglienza e della cura
-l’accento sulla riflessività (“cultura dell’indagine”) e sull’apprendimento come risorse emancipative e antidoti all’istituzionalizzazione (Griffiths e Hinshelwood 1995)

Questa filosofia di lavoro prende talora nomi e connotazioni differenti a seconda degli autori: Edelson (1964) la chiama socioterapia, Maxwell Jones (1953, 1979)“living learning”, Hinshelwood e i ricercatori del Cassel “assistenza psicosociale” (psycho-social nursing; Barnes 1968, Griffiths e Hinshelwood 1995). Di fatto essa rappresenta un terreno comune ed un elemento unificante anche rispetto alla varietà degli approcci teorici che vengono praticati nel lavoro di comunità e che per grandi linee possono essere così raggruppati:
- modello socio-educativo (M.Jones)
- modello psicodinamico (T.Main, R.Hinshelwood, P-C.Racamier)
- modello fenomenologico (R.Laing, D.Cooper)
- modello missionaristico (la Richmond Fellowship)
- modello integrato (per lo più una sintesi tra modello psicodinamico e socioeducativo, probabilmente il modello più rappresentato in Italia)
Non sono prese qui in considerazione le esperienze - tutt’altro che rare - caratterizzate da eclettismo e da generosa improvvisazione, che non è facile categorizzare e ancor meno valutare.
a)Democrazia, autorità e leadership
Le questioni della democrazia, dell’autorità e della leadership sono, oggi come ieri, cruciali per la vita e per il destino di una CT, anche se il contesto politico-culturale attuale appare profondamente diverso da quello libertario e antiautoritario che negli anni 60-70 aveva permesso lo sviluppo del movimento delle Comunità Terapeutiche, e sebbene i valori-guida nelle società occidentali si siano alquanto allontanati dalla dimensione del pensiero, del significato dei sentimenti, dell’appartenenza solidale per orientarsi più verso il profitto, l’individualismo, il consumo e l’efficienza (Hinshelwood 1998).

Il coinvolgimento dei pazienti nella gestione della vita comunitaria modifica profondamente la struttura dell’autorità e la fisionomia della leadership. Non si può davvero concepire una CT a gestione autoritaria e verticistica, governata da una rigida struttura gerarchica e da una scissione verticale tra i ruoli di curante e quelli di paziente. Anche senza adottare il radicalismo di Maxwell Jones e la sua proposta di una leadership multipla, è inevitabile identificare la democrazia comunitaria nei termini di una suddivisione dell’autorità, del potere decisionale e della responsabilità tra operatori e pazienti. Questa delega di potere verso il basso, questo “empowerment” delle figure istituzionali più “deboli” (gli operatori di prima linea, i residenti) sono in effetti gli aspetti più tipici della cultura organizzativa della CT.

Naturalmente oggi la nostra idea di democrazia è meno “naive” ed estremistica che trent’anni fa, non può più concepire l’assemblearismo egualitario e la leadership diffusa imperanti negli anni ’70, non considera la democrazia incompatibile con l’autorità di un capo o l’esistenza di una gerarchia o la diseguaglianza dei ruoli: nella società in senso lato come nella CT la democrazia è divenuta più matura e meno ideologica, anche se questo processo le ha imposto una serie di compromessi non sempre costruttivi e quasi mai indolori.

L’attribuzione di autorità ai pazienti dipende, com’è facile intuire, in larga misura dai livelli di maturità, capacità critica e autoregolazione che questi sono in grado di sviluppare e mantenere, in una parola dalla loro patologia; ma dipende anche dalla maturità professionale e personale degli operatori, dalla loro disponibilità a riconoscere le effettive capacità dei pazienti e ad imparare a fidarsene. L’autorità degli uni come quella degli altri sono evidentemente funzione di quanta ne è stata loro delegata dalla leadership, e l’ampiezza di questa delega risente dell’influenza di fattori interni - quali la fiducia di base, il contenimento dell’ansia e il morale istituzionale - e di fattori esterni quali le leggi, i costumi, le politiche e gli atteggiamenti culturali predominanti.

Democrazia comunitaria, struttura dell’autorità e leadership hanno in definitiva a che fare soprattutto con i processi psicosociali relativi ai ruoli e alla loro gestione, al potere e alla responsabilità, ma su un piano più profondo si collegano con i bisogni narcisistici, di dipendenza, di sicurezza e di controllo appartenenti sia agli individui isolati sia al gruppo. La differenziazione dei ruoli dipende non solo dalla diversità dei compiti ma anche dalle aspettative che vi sono connesse. “Ciascun ruolo - scrivono Deutsch e Schneider - comporta determinate responsabilità che ne definiscono i parametri. A ciascun ruolo viene attribuito un potere [che forse sarebbe meglio chiamare autorità] che opera come energia necessaria per l’adempimento del compito” E più oltre aggiungono: “Senza contraddire il concetto di CT, possiamo affermare che la responsabilità finale per il trattamento in una comunità è degli operatori, proprio come in un Paese democratico appartiene al governo” (Deutsch e Schneider 1984).

Lo sforzo costante di chiarificazione dei ruoli, dei compiti, dei valori e delle norme si rivela anche un valido modo per contenere entro limiti accettabili le tensioni interpersonali, i conflitti sul potere e sulla democrazia comunitaria, anche se certo non è in grado di eliminarli.

La leadership, punto di forza della CT nella fase fondativa, ne rappresenta anche e non di rado il tallone d’Achille, non foss’altro perché è costantemente immersa in un bagno di scissioni, proiezioni e fantasie primitive che rischiano di sommergerla, specialmente nei momenti di crisi e di transizione. La fondazione di una CT è nella maggioranza dei casi frutto della realizzazione della “visione” di un leader carismatico (2) la cui idealizzazione gli assicura per un certo tempo un seguito di compagni e collaboratori entusiasti, creativi e alquanto dipendenti.
Ma in ogni comunità il tempo dei pionieri presto o tardi tramonta e allora occorre affrontare la complicata transizione dal carisma alla managerialità. E’ qui che la leadership viene messa più a dura prova. In teoria la soluzione sarebbe semplice: il carisma del leader - e con esso l’autorità e la stessa “missione” comunitaria - deve essere ridistribuito tra i membri dell’istituzione, cui dovrebbe essere concessa anche la facoltà di cambiare il modello originario; lo stile di gestione intanto migra gradualmente dal polo ideologico della realizzazione dei valori a quello più pragmatico del perseguimento degli obiettivi. In pratica le cose non vanno quasi mai così lisce: talvolta i padri e le madri delle fondazioni temono la propria vecchiaia e la rivalità edipica dei figli-seguaci, non preparano la successione e non danno deleghe perché resistono all’idea che la loro “creatura” venga gestita da altri, rischiano la deriva paternalistica o quella autoritaria oppure l’insediarsi della “madre arcaica” seduttrice e anti-emancipativa.
Un altro scenario possibile è quello dell’indebolimento progressivo della leadership, che si traduce nella cronica incapacità di prendere decisioni, nella degenerazione burocratica della vita istituzionale e nella scomparsa della creatività sotto una coltre sempre più spessa di regole e di routine. I collaboratori e gli stessi residenti possono colludere con questi sviluppi regressivi per paura del cambiamento. La cultura della democrazia rischia allora di svuotarsi di senso minata da alcune delle sue più comuni perversioni: la demagogia con le sue liturgie pseudo-egualitarie, la militarizzazione paranoide in difesa della “causa” o della purezza degli ideali originari, la corruzione mafiosa con le sue manovre manipolative e le sotterranee guerre per bande.

Nei momenti difficili le funzioni necessarie al governo dell’istituzione, delle persone e delle conoscenze - quelle che la cultura aziendale ha riassunto con i termini “stretching”, “sharing”, “coaching” e “empowering (3)” - rischiano di degenerare in una qualche forma di leadership patologica, come quelle di tipo paranoide, narcisistico, delinquenziale, depressivo, maniacale o “alessitimico” (4) Non voglio qui addentrarmi oltre nel ginepraio della leadership e delle sue “malattie”, argomenti sui quali molto è stato scritto e per i quali rimanderei soprattutto ai lavori di Kets de Vries (1993, 2001).

Oggi molte delle crisi delle CT sono legate o all’uscita di scena dei leader-fondatori (come del resto le crisi generazionali nella piccola e media impresa familiare) oppure all’inevitabilità dei cambiamenti imposti alla leadership dalle trasformazioni socio-culturali e dai mutamenti nella politica psichiatrica e nel welfare. La crisi della leadership ha talora il volto del narcisismo distruttivo (“La Communauté c’est moi!”), o quello dell’isolazionismo autocompiaciuto che ignora l’esistenza di un mondo esterno “là fuori”, o all’opposto quello dell’orientamento tutto proteso alla realtà esterna, alla politica, al mercato, alla caccia al cliente.

Compito della leadership è assicurare la sopravvivenza dell’istituzione e quella dei valori che hanno ispirato la sua missione, due imprese tutt’altro che facili che possono anche diventare reciprocamente antagonistiche.
Il perseguimento dei valori originari a dispetto dei mutamenti esterni può costare alla CT profonde crisi di identità e anche la chiusura, la “morte istituzionale”. Ma la giusta preoccupazione che i leader mostrano per il rifornimento di risorse (nuovi pazienti) e il contenimento dei costi può indurli a trascurare la qualità dei servizi resi e il morale dei collaboratori, provati dal sovraccarico o disorientati da comunicazioni e politiche incoerenti. In questo caso il rischio per la CT non è più l’estinzione - almeno non a breve termine - ma la sua progressiva trasformazione in comunità “anti-terapeutica” (Hinshelwood 1985).

Le vicissitudini della leadership in CT sono, com’è facile intuire, strettamente connesse con la questione dell’autorità, con il “problema delle regole” e con la gestione dei confini - la Legge, per dirla con Lacan, o, in altri termini, la reciproca articolazione del codice paterno e di quello materno nella cultura istituzionale.
I rischi involutivi possono dipendere sia da un eccesso di autorità (come nelle culture dominate dalla repressione o del controllo) sia da un’autorità debole o lasciata in ostaggio dell’ansia (cultura dell’anomia, della negazione e della collusione nell’irresponsabilità); ma possono scaturire anche da una sua deriva perversa, come quando ad esempio l’autorità si svia nelle lotte di potere o si traduce in burocratismo, impersonalità e ritualizzazione, o, peggio, finisce con l’alimentare una cultura corrotta e falsificata, una “caricatura” della comunità terapeutica (Hinshelwood 1985).

Nella CT le regole - come per lo più insegna l’esperienza - sembrano “fatte per essere violate”, sia dai pazienti che dagli operatori, da chi le subisce come da chi le detta, con una molteplicità di tecniche che vanno dalla trasgressione aperta all’aggiramento, dall’obbedienza cieca e sottomissiva che le rende insensate alla manipolazione che le degrada e le svaluta.
Forse uno dei compiti più delicati della leadership in una CT è proprio la gestione delle regole, una gestione che sappia evitare la loro santificazione ma non dimentichi mai la loro funzione di confine e sistema di contenimento dell’ansia. Le regole, poche, chiare e condivise, sono per la CT più o meno ciò che il setting è per la terapia, ossia un sistema normativo - una vera e propria ”istituzione” come afferma Bleger (1967) - che deve esistere non per sé, per essere obbedito, ma perché proprio la sua violazione lo rende “parlante”, capace di comunicare emozioni o processi inconsci che altrimenti resterebbero muti, di far giungere alla mente qualcosa di conosciuto ma che ancora non è stato pensato (Bollas 1987).

Quanto ai confini, chiunque lavori in istituzioni comunitarie ha fatto certamente esperienza dell’estrema facilità con cui confini di ogni genere vengono continuamente confusi, sovvertiti, blindati o ampliati a dismisura. La psicosi è assenza di confine; la trasgressione coatta dei disordini di personalità e dei tossicodipendenti è “malattia” del confine. A nessun altro se non alla leadership - sia essa incarnata in un direttore di comunità o nell’intero staff - compete farsi rocciosa funzione egoica nel definire e difendere i vari confini organizzativi: quelli tra gruppo e individuo, tra persone e ruoli, tra l’istituzione e l’ambiente circostante; i confini di tempo, compito e territorio; le regole stesse, che sono confini di comportamento; e soprattutto il fragile e sempre minacciato confine tra realtà e fantasia.

b)La cultura dell’indagine
Il termine “cultura dell’indagine” (“culture of inquiry”) è stato coniato da Tom Main per indicare “un impegno comune ad esaminare francamente e a risolvere problemi, tensioni e conflitti all’interno del gruppo della comunità” (Main 1983)
Di chiara matrice psicodinamica, essa è centrata sull’esplorazione delle relazioni e dei comportamenti individuali e collettivi con particolare attenzione al non-visto, al non-comunicato, all’implicito e all’informale, in breve ai processi inconsci e preconsci che si animano nella vita comunitaria. Finalità della cultura dell’indagine è la creazione e il mantenimento da parte degli individui e dei gruppi di una condizione di sensibilità che permetta di diventare consapevoli di certi processi relazionali e di riconoscere le ansie e le difese istituzionali ed il gioco reciproco tra queste ultime e le ansie e le difese individuali, tanto nei pazienti quanto negli operatori. Essa implica evidentemente anche la creazione e il mantenimento di uno stato mentale e di un clima istituzionale favorevoli all’indagine stessa, ovvero quelle condizioni di sicurezza, apertura e fiducia di base che permettono all’attenzione critica di non diventare persecutoria e distruttiva.

Le ansie nel sistema comunitario sono assai intense, primitive e prevalentemente di marca psicotica: persecuzione, frammentazione, annientamento, perdita di senso, caduta nel vuoto, disperazione, fusione e perdita dei confini. Contro tali ansie si attivano difese altrettanto primitive quali la scissione, la proiezione e l’identificazione proiettiva, l’idealizzazione, il diniego, l’attacco al legame. I processi di gruppo, in particolare quelli propri del gruppo allargato, sono potenti amplificatori delle angosce psicotiche e delle relative difese, non solo nei pazienti ma anche negli operatori. Questi ultimi, quand’anche individualmente siano persone sufficientemente mature e integrate, nella grande riunione di comunità tendono a regredire a funzionamenti arcaici ed immaturi, in particolare quelli descritti da Bion (1961) e dai suoi continuatori (Turquet 1974, Lawrence, Gould e Bain 1996) col termine di “assunti di base”.

Tra le ansie e le difese caratteristiche della CT potremmo menzionare: l’indifferenziazione dei ruoli e l’egualitarismo come difesa dalle differenze e dall’invidia; la paralisi decisionale o all’opposto la decisionalità impulsiva, la ricerca del capro espiatorio ed i processi sommari come forme di evacuazione dell’ansia di sentirsi incapaci o della paura di sbagliare e di venire biasimati, sia dall’esterno sia dall’interno; l’accanimento interpretativo (o “pantanalisi”, secondo una suggestiva espressione coniata da Diego Napolitani) come difesa intellettualizzante, aggressione mascherata o imperialismo di categoria, baluardo contro i rischi del confronto, la depressione dell’insuccesso e l’angoscia di non capire e sentirsi confusi; l’inflazione di riunioni e gruppi (che qualcuno ha chiamato “riunionite”) come rituale coesivo contro la frammentazione, la paura della rivalità, il senso di solitudine e l’ansia da contatto/contagio con il paziente; l’iperattivismo organizzativo e occupazionale come fuga nell’azione di fronte agli aspetti ansiogeni dell’attività riflessiva e del confronto emozionale; la burocratizzazione, la mistica delle regole ecc.

Un significato particolare presentano poi le “difese di ruolo”, basate sulla scissione tra la persona e il ruolo istituzionale da questa rivestito: in CT il ruolo di curante può essere facilmente utilizzato come trincea contro le identificazioni pericolose con i pazienti, così come il camice negli ospedali. Tom Main ha dato una vivida descrizione delle conseguenze di questi sistemi difensivi:

“ Sono a disposizione soltanto ruoli di salute o di malattia, gli operatori sono soltanto in buona salute, competenti, gentili, potenti ed attivi ed i pazienti soltanto ammalati, sofferenti, ignoranti, passivi, obbedienti e grati. Nella maggior parte degli ospedali, gli operatori sono così perché cercano di curare altri meno in salute di loro, mentre i pazienti sperano di trovare altri più in salute di loro stessi. Coloro che danno aiuto e coloro che lo ricevono si incontrano e fanno pressione reciproca per agire, non soltanto nella relazione concreta, ma anche in una collusione fantasmatica. Quelli che danno aiuto hanno bisogno inconsciamente di altri da aiutare, mentre i bisognosi di aiuto avranno necessità di altri pronti ad aiutare. Operatori e pazienti sono pertanto inevitabilmente in qualche misura creature le une delle altre ( Main 1975).

Per un approfondimento delle ansie e delle difese sociali implicate nel lavoro di aiuto a persone che soffrono rimanderei ai lavori, classici ma ancora attualissimi, di Elliott Jaques (1955) e di Isabel Menzies (1960) e, in epoca più recente, alle antologie “The Unconscious at Work” di Obholzer e Roberts (1994) e “Organisations, Anxieties and Defences” di Hinshelwood e Chiesa (2001).

c)La cultura dell’azione
Chiunque abbia visto una CT non può non essere stato colpito dall’enfasi che la cultura organizzativa colloca in misura maggiore o minore sulla dimensione dell’agire, dell’essere - operatori e pazienti - occupati in qualche forma di attività o, al contrario, oppressi dal problema dell’inerzia e della passività. La comunità stessa è vista non solo come luogo di cura ma come “agente” delle cure, come caregiver, e Rapoport stesso la assimila al medico, figura di curante da sempre prevalentemente orientata all’azione (Rapoport 1960). Nella CT il fare è quindi sempre in primo piano - quello dei pazienti ma anche quello dei curanti - ed è in stretta relazione con l’esperienza della quotidianità, con la condivisione dei momenti di vita e con la necessità di risolvere continuamente problemi pratici e insieme affettivi.

Questa cultura “pragmatica” è sentita come ostica e per molti versi estranea alla cultura riflessiva propria della psicologia e soprattutto della psicoanalisi, la quale ha sempre concepito l’azione come profondamente in antitesi al pensiero quando non un attacco al pensiero stesso, come nel caso dell’acting out. Dunque “comunità come dottore”, come propone Rapoport, o “comunità come analista”, come suggerisce Hinshelwood (1979)? E in questo caso che genere di analista?

Occorre riconoscere che in CT l’azione si propone di diventare parte integrante del progetto di cura; e questo non solo perché affronta questioni pratiche di cui non possiamo evitare di occuparci (l’accoglienza e l’accudimento, il controllo e il contenimento, la condivisione delle responsabilità legate alla vita quotidiana, alla gestione dell’ambiente di vita, allo svolgimento di un lavoro), ma perché nella maggior parte dei casi essa si rivela il solo linguaggio per poter comunicare con pazienti che funzionano con processi mentali molto primitivi e per operare trasformativamente sul loro mondo interno. Le “azioni parlanti” descritte da Racamier (1997) o le “interpretazioni agite” di cui parlava Carlo Ferraris, come modalità di intervento contrapposte sia alle classiche interpretazioni - per lo più irricevibili per psicotici e borderline - sia agli agiti e alle azioni drammatizzate - che evacuano difensivamente i contenuti mentali degli individui e dei gruppi - , creano nel contesto comunitario uno scenario rappresentazionale nel quale la realtà esterna e quella mentale possono incontrarsi e rifornirsi reciprocamente di senso. In questi termini l’organizzazione della CT rende disponibili tanto agli operatori quanto ai pazienti una serie di opportunità per “apprendere dal fare”, utilizzabili come strumenti di integrazione del sé, di sollievo dall’ansia, di padronanza degli impulsi e di sviluppo individuale e collettivo.
d)La cultura della relazione
Le relazioni interpersonali - e la loro lettura come rispecchiamento di quelle intrapsichiche - sono lo strumento principe, la tecnologia di base del lavoro comunitario.
Nella cultura organizzativa della CT l’attenzione è costantemente rivolta
a cogliere l’atmosfera relazionale nel suo insieme (lo “stato mentale” del gruppo o dell’istituzione);
a esplorare le relazioni che si creano nelle aree strutturate della vita istituzionale ma soprattutto in quelle non-strutturate, negli spazi interstiziali e nei “corridoi”, nei momenti informali e negli atteggiamenti più irrituali e spontanei.

Diversamente da altre culture organizzative - come quella dell’impresa - la CT reca scritto nel proprio DNA l’interesse per la vita di relazione e le emozioni che vi sono correlate. La sua sfida consiste nell’imparare a riconoscere tali emozioni, ad accettarle e a tentare di padroneggiarle, soprattutto quelle basate sull’invidia, la rivalità, la seduzione, la manipolazione, l’odio e il disprezzo, perché sono quelle che hanno devastato il mondo interno dei pazienti e che possono distruggere il potenziale terapeutico della comunità.

Il contesto relazionale più tipico della CT è quello offerto dal gruppo allargato, che si concretizza nella “riunione” o “assemblea” di comunità tra operatori e pazienti: come ho già detto si tratta di un luogo di intense emozioni, ma che rappresenta anche uno speciale laboratorio psicosociale, dove le grandi dimensioni e la coesistenza di molteplici differenze (d’età, di sesso, di ruolo, di comportamento) creano un ambiente adatto ad accogliere processi, affetti e legami primitivi e a costituirsi come spazio transizionale tra il mondo interno degli individui che ne fanno parte e la realtà sociale esterna.

La vita relazionale un’istituzione (quella che gli studiosi del Tavistock hanno denominato “relatedness”) implica l’adozione di una prospettiva complessa, molto più ampia di quella “diadica” propria della relazione madre-bambino o curante-paziente. I modelli relazionali che occorre utilizzare sono per lo più non-lineari e strutturati come reti che connettono tra loro persone, gruppi, settori istituzionali, micro- e macrosistemi sociali.
In estrema sintesi potremmo descrivere la rete relazionale che struttura la vita comunitaria come composta dall’intreccio delle relazioni intraistituzionali con le relazioni interistituzionali. Alle prime appartengono le relazioni tra operatori e pazienti, quelle tra operatori in quanto gruppo di pari e quelle tra dirigenti e collaboratori. In quest’area la cultura organizzativa della CT deve attrezzarsi per far fronte ai problemi specifici dei vari piani relazionali: al livello operatori-pazienti la tensione tra autonomia e dipendenza, le regole, il contenimento, il flusso delle identificazioni proiettive, il contagio psichico, i sentimenti ostili, la seduzione, la paura della violenza e della follia; al livello delle équipes operative le tensioni di ruolo, il bisogno di coesione, la tensione tra rivalità e collaborazione, l’integrazione, la gelosia, l’invidia, le proiezioni dei lati deboli e incapaci; nel rapporto capi-collaboratori l’ambivalenza dei sentimenti, ancora l’invidia, le questioni dell’autorità e del potere, la dipendenza passiva, le vicissitudini dell’onnipotenza narcisistica.

L’area delle relazioni interistituzionali include prima di tutto i rapporti con le famiglie dei pazienti, rispetto alle quali il dilemma di fondo resta quello di decidere se tentare di costruire con i familiari un’alleanza di lavoro reclutandoli come “co-terapeuti” oppure tagliarli fuori e neutralizzarne le tendenze sabotatrici.
A queste si aggiungono altre importanti trame relazionali, quelle con gli invianti e con i committenti (che possono o meno coincidere) e quelle con le altre agenzie del territorio. Diversamente che in Inghilterra, dove la riflessione scientifica sulle modalità di invio dei pazienti - il processo detto del “referral” - ha avuto un grande sviluppo, nel nostro Paese questa delicata cerniera istituzionale resta ancora un fenomeno largamente inesplorato e affidato al caso o all’improvvisazione, sebbene tutti ne riconoscano l’importanza sul piano sia emozionale sia pratico ed economico. Lo stesso può dirsi per le relazioni con i “paganti” (quando, come quasi sempre accade, esiste un’Azienda sanitaria che corrisponde una retta alla residenzialità privata), dove occorrerebbe da un lato un maggiore impulso allo studio della psicodinamica dei rapporti interorganizzativi e delle relazioni contrattuali, e dall’altro un’elaborazione approfondita delle distorsioni culturali che anche nel mondo delle professioni d’aiuto trasformano così spesso fornitori e clienti in controparti diffidenti e pronte ad approfittare l’una dell’altra.
Anche la cultura della collaborazione tra CT e altre agenzie del territorio presenta più di una zona d’ombra, che la corrente retorica sul “lavoro di rete” non riesce a nascondere: le CT spesso faticano a stabilire rapporti di partnership che sfuggano ai tradizionali rischi rappresentati dalla rivalità, dalla lotta per l’egemonia delle proprie filosofie di lavoro e dal rimpallo delle responsabilità; ed anche quando i rapporti sono meno conflittuali, resta comunque grande la fatica richiesta dalle reciproche difficoltà di intendersi e dalla rigidità interculturale dei mille piccoli e grandi negoziati imposti a ciascuno dalla “condanna a collaborare”. Le tecniche di mediazione oggi sono molto di moda, ma ancora non sembrano volersi occupare di queste zone di conflittualità.

e)La cultura del conflitto
Il quadro offerto fin qui sembra fornire della CT un ritratto drammatico, scosso da tensioni e guerre, una sorta di “Guernìca” istituzionale nella quale ci si può chiedere come si riesca non solo a lavorare decentemente ma persino a sopravvivere senza diventare matti. Devo riconoscere in queste mie descrizioni l’operare della tendenza pessimistica propria della prospettiva psicoanalitica e mi rendo conto di avere lasciato in ombra gli aspetti più forti, generativi e gioiosi dell’impresa comunitaria, quelli che continuano ad attrarre giovani terapeuti e a produrre salute, conoscenza e sperimentazione innovativa.

Tuttavia non posso tacere che il lavoro in CT sia un lavoro rischioso - soprattutto per la propria pace mentale - e che il rischio primario (Hirschhorn 1999) consista a mio avviso proprio nel magma conflittuale in cui gli operatori sono quotidianamente immersi, quegli stessi conflitti che i loro pazienti hanno messo fuori gioco sviluppando una psicosi, un disturbo della personalità o una dipendenza da sostanze.

Conflitti e antinomie si creano continuamente tra le sottoculture che convergono nel lavoro di comunità: i più noti e tipici sono quelli tra cura e custodia, tra autonomia e dipendenza, tra ruolo del terapeuta e ruolo del paziente, tra permissività e autoritarismo, tra azione e pensiero. Ma potremmo aggiungere molte altre coppie di opposizioni dialettiche: socializzazione/isolamento, terapia/riabilitazione, adattamento/cambiamento, biologico/mentale, attività/passività, efficienza/soddisfazione, piacere/realtà, modelli educativi/modelli psicodinamici, istituzione/territorio e, tra le più attuali, pubblico/privato.

Una componente strutturale della conflittualità origina dalla coabitazione nella CT, accanto alle figure e culture professionali tradizionali (medico, psicologo, infermiere e assistente sociale), di realtà nuove e diverse rappresentate da educatori, adest, terapisti occupazionali, arte-terapisti ecc., a cui si affiancano altre figure tradizionalmente “invisibili” o vissute come marginali perché appartenenti alla gestione amministrativa del sistema (personale con compiti economico-finanziari o di contabilità, cuochi, addetti alle pulizie, alla manutenzione, segreteria ecc.).

Cruciale per il destino della CT è l’esito del confronto/conflitto tra le sue tre culture professionali basilari: la cultura medico-biologica, quella psicologica e quella socio-educativa. Per molto tempo ci si è chiesti se la CT fosse un’istituzione “sanitaria” o non-sanitaria (psicoterapeutica, socio-pedagogica), ma in realtà il punto è che il movimento comunitario, pur essendo nato in ospedale, ha sviluppato fin dagli inizi una cultura di tipo “anti-sanitario”, proprio per marcare la differenza rispetto agli abusi di cui il sistema sanitario psichiatrico tradizionale si era macchiato e per sottrarre le proprie sperimentazioni all’egemonia del modello medico ospedaliero ed accademico. La matrice culturale della CT - ci ricorda Enrico Pedriali - “[è] fondata più sugli apporti della psicologia sociale, della psicoanalisi e della sociologia che non su quello della medicina scientifica” (Pedriali 1999)

Il graduale affermarsi nel movimento delle comunità di un pluralismo metodologico e degli approcci terapeutico-riabilitativi cosiddetti “integrati” ha attenuato la pregiudiziale anti-medica ma ha riproposto il conflitto interculturale tra sistemi teorici, strumenti e linguaggi diversi e talora molto distanti tra loro. E poiché il modo più spiccio per risolvere le contraddizioni è costituito dalla soppressione di uno dei poli conflittuali, il rischio a cui oggi non di rado si assiste è quello dei “dinieghi incrociati”: diniego del corpo da parte degli psicologi, della parola da parte degli educatori, del mondo esterno da parte degli psichiatri.
Il dilemma tra azione e interpretazione è un altro esempio del conflitto tra culture psicologiche e culture educative che può trasformarsi in lotta di religione e dar luogo a soluzioni integralistiche.

Il problema evidentemente non è come abolire i conflitti, ma come contenerli perché non divengano distruttivi pur conservando la loro funzione dinamica, che è quella di mobilizzare il pensiero nell’istituzione.
Esistono naturalmente culture che accettano il conflitto e le sue espressioni non distruttive come parte dello sviluppo umano (tra queste soprattutto quelle di orientamento psicodinamico), mentre ve ne sono altre più orientate al controllo sociale, al silenziamento o al diniego dei conflitti, che mirano al raggiungimento di obiettivi di coesione e di armonia di tipo conformistico e sostanzialmente anti-evolutivo. Quando nella CT si affermano queste ultime, allora si crea un particolare clima istituzionale che Gustafson ha chiamato “pseudomutualità”, rifacendosi a un concetto della teoria sistemica: la comunità erige una facciata di eguaglianza e di unanimismo che serve ad evitare e a tenere celati intensi conflitti distruttivi (Gustafson 1976). Ma l’intesa è fittizia e di breve durata e presto o tardi lascia il campo a nuove e più gravi tensioni, senza che si sia fatta alcuna esperienza utile per fronteggiarle.

Una cultura che accetta il conflitto deve però disporre necessariamente di tecniche e dispositivi per la sua gestione (conflict management):
1 - in primo luogo le risorse (leadership, autorità, tempo, spazi organizzativi, denaro, personale), sia in quanto necessarie alla risoluzione dei conflitti, sia perché la loro carenza è di per sé generatrice di conflittualità;
2 - poi la qualità del clima relazionale, che dovrebbe promuovere uno stato mentale orientato all’esame di realtà e alla posizione depressiva, un ambiente di sicurezza (safety background, Sandler 1987) e di ragionevole fiducia di base, una “cultura dell’indagine”, una comunicazione aperta, trasparente e liberamente mobile nei vari spazi organizzativi, e infine norme “anti-infortunistiche” di protezione dall’ansia e di limitazione dei comportamenti di mobbing o basati sull’uso del capro espiatorio;
3 - la capacità di distinguere tra conflitti fisiologici (ad es. tra visioni diverse di un problema complesso) e patologici (come certe lotte per il potere), nonché tra aspetti costruttivi e distruttivi dei conflitti;
4 - infine le condizioni organizzative capaci di attenuare la portata dei conflitti, come l’esistenza di gruppi e incontri destinati ad affrontarli (gruppi di confronto, riunioni decisionali), la chiarificazione dei ruoli, dei compiti e dei confini, la disponibilità di strumenti di supervisione, di consulenza e di supporto allo staff

Anche il dilemma dipendenza/autonomia, generatore di tanti conflitti nella CT e più in generale in psichiatria, può trovare una ricomposizione quando si riesca a promuovere una cultura istituzionale dell’interdipendenza: interdipendenza tra operatori e pazienti, tra capi e collaboratori, tra servizi e agenzie del territorio, e persino tra parti mature e immature del Sé.

f)La comunità come organizzazione narcisistica
La CT nasce come sfida orgogliosa alla segregazione autoritaria nell’istituzione asilare e alla disperazione della cronicità psicotica. La sua cifra è quindi segnata in maggiore o minor misura dalla grandiosità narcisistica e da una evidente missione salvifica.
Alternativa prima al manicomio, poi al “repartino” psichiatrico e in generale alla dimensione del ricovero ospedaliero, la CT si candida al ruolo rischioso di oggetto idealizzato in quanto punta di diamante del sistema della salute mentale e dispositivo potenzialmente sentito come quello a più alta tecnologia (farmaci, educazione, social learning, psicoterapia, terapia occupazionale, “socioterapia” ecc.). Ma è noto che il contraltare dell’idealizzazione è il disprezzo, sempre in agguato dietro la sua facciata; di qui scaturiva il canzonatorio gioco di parole “Comunità - comodità”, un tempo in auge nel manicomio di Collegno per screditare la scelta di chi non senza rischi in comunità aveva deciso di andare a lavorare; di qui l’attuale scarsa considerazione per le esigenze e le caratteristiche funzionali di questa istituzione, a cui non di rado si inviano pazienti di ogni tipo, morti viventi e killer, con l’apparente richiesta di essere un luogo dei miracoli e la segreta intenzione di farne la pattumiera del sistema.

Il fatto è che molto spesso le CT stanno a questo gioco, costrette in parte dalla subordinazione gerarchica (le strutture pubbliche) o dal ricatto commerciale (quelle private), ma anche in qualche misura sedotte dalla lusinga del “compito impossibile”. E’ questa dimensione narcisistica che vorrei ora brevemente considerare, nei suoi indubbi “pro” e negli inevitabili “contro”.
Ha senso parlare di un’organizzazione narcisistica? O è solo possibile esaminare organizzazioni gestite da leader narcisisti? Schwartz (1990) afferma che sono proprio le culture organizzative di tipo narcisistico a selezionare i leader appropriati, ma la maggior parte degli autori (Schein 1987, Kets de Vries 1993, Sievers 1998) mettono l’accento sulla leadership narcisistica e considerano l’organizzazione narcisistica come un rispecchiamento della personalità del leader, che tende a costruirla a sua immagine e somiglianza. Questo sembra particolarmente vero per organizzazioni di piccole dimensioni - come sono molte CT - dove leader fondatori (o ri-fondatori) possono sviluppare una concezione “proprietaria” e autoreferenziale della propria organizzazione, concezione non di rado corroborata dal fatto che ne hanno davvero la proprietà.
Bisogna peraltro riconoscere che l’impresa di costruire e soprattutto di governare una CT è talmente impegnativa, rischiosa, mal difendibile in termini di immagine e di mercato, esposta a ogni sorta di conflitti e contraddizioni che occorre realmente una buona dose di megalomania per volersene sobbarcare. Come sempre, occorre distinguere il narcisismo sano da quello distruttivo ed ammettere l’evidenza che, sia pure entro certi limiti e a certe condizioni, una leadership efficace richiede necessariamente persone con un alto senso di sé e con la capacità di “pensare in grande”.
Senza entrare nel merito del funzionamento della leadership narcisistica in CT, mi preme qui solo ricordare i rischi principali di una cultura organizzativa che non includa funzioni di contraltare e antidoti al narcisismo del leader. Uno dei pericoli più evidenti è la “sindrome del re Sole”, l’identificazione totale tra la persona del leader, il suo ruolo istituzionale e la stessa istituzione, vissuta come la propria famiglia, il proprio corpo, un’estensione del Sé. Questi leader di solito non fanno scuola, non allevano successori, non si sporcano le mani in alleanze con altri compagni di strada, mantengono la loro comunità in condizioni di splendido isolamento e creano le premesse perché la sua parabola finisca con loro: “aprés moi le déluje!”.

L’altro rischio maggiore è che il leader metta mano alla creazione di un microcosmo sociale più o meno fortemente impregnato di valenze narcisistiche distruttive, per lo di chiara marca psicotica. L’elevatissimo investimento che questi leader pongono sul “Sé istituzionale”, grande fonte di entusiasmi e motore di esaltanti risultati a breve, diventano alla lunga causa di malfunzionamenti, tensioni croniche e vicoli ciechi istituzionali. Uno sbocco è la gestione sacrale e autocratica della politica istituzionale, contro l’evidenza e i buoni consigli di collaboratori e consulenti, qualcosa che ricorda la patologia del carattere di Riccardo III descritta da Freud nel suo saggio sulle “eccezioni” (Freud ); un altro è l’isolamento “autistico”, culturale e scientifico, della comunità, che la priva del contatto reale con il mondo esterno impoverendone la capacità di produrre idee nuove e rendendola incubatrice di integralismi.

L’isolamento “narcisistico” è uno dei rischi più comuni per la cultura organizzativa comunitaria. Le comunità terapeutiche - scrive Enrico Pedriali - “spesso” si presentano come monadi isolate che, anche quando svolgono il loro lavoro con scrupolo e serietà, non riescono a produrre una ricerca teorico-clinica, metodologica, epidemiologica e statistica sufficientemente indicativa. Le dimensioni, generalmente piccole, e i mezzi a disposizione, generalmente scarsi, non lo consentono e ciò finisce col determinare il rischio dell' autoreferenzialità”.
“Molte comunità infatti - prosegue Pedriali - si mostrano restie a un effettivo confronto, o per scelta di un conveniente anonimato, o per un ‘complesso di primogenitura’ che le induce a considerarsi depositarie dell' ‘ortodossia comunitaria’, o per quella specie di ‘rischio professionale’, tutt'altro che raro, che finisce col far considerare comunità solo ciò che avviene entro le mura della propria casa. Strettamente avvinghiati ai propri orientamenti teorici (psicodinamico, cognitivista, psico-sociale, Bioniano, Foulkesiano, integrato, etc, etc,) ciascuno guarda il vicino con diffidenza o con formale tolleranza”. (Pedriali 1999)

L’isolamento dà la misura di quanto sia vulnerabile e antieconomico l’assetto narcisistico, perché nel cercare di proteggere un’identità istituzionale sentita come minacciata, di fatto ne facilita la perdita o la perversione. Gli esiti a medio-lungo termine sono abbastanza noti: basta pensare alle CT che hanno dovuto chiudere i battenti per la loro orgogliosa incapacità di trasformarsi, o a quelle che sono diventate “legione straniera” del sistema psichiatrico, rifugio di mercenari e di reietti, pattumiere sociali o neo-manicomiali, agenzie di lavoro interinale per la disoccupazione intellettuale, organizzazioni commerciali - private e pubbliche - preoccupate solo del budget. In qualche caso particolarmente infelice il cocktail tra narcisismo organizzativo e i prodotti più “tossici” lavorati dal sistema-comunità (follìa, violenza, sesso, droga) possono portare all’esplosione del contenitore: gli operatori si ammalano o fuggono, capita qualche grave incidente, si finisce sul giornale o davanti al magistrato, il credito sociale e quello economico vengono ritirati e la CT chiude nel peggiore dei modi. L’incubo notturno di tutti i responsabili di comunità!
Ecco perché una CT non si può improvvisare, perché la sua fondazione e la sua sopravvivenza hanno bisogno di grandi investimenti, in termini di risorse economiche, ma soprattutto tecniche ed affettive. E’ per questo che la mancanza o la riduzione delle risorse indotta dai più svariati fattori - crisi del mercato, cambi di politica, turnover accelerati e carenze di personale, aumentato carico di pazienti, indebolimento o corruzione della leadership - tende ad attivare nel clima comunitario dinamiche paranoidi, mobbing e altri comportamenti distruttivi oppure uno stato mentale impregnato di depressione narcisistica, che si esprime con un crollo del morale istituzionale, incidenti, assenteismi, burnout.
Questi processi sono presenti in tutte le organizzazioni, ma nella microsocietà della CT , più precaria e indifesa, possono avere effetti devastanti. Non so se esista un “vaccino” anti-narcisismo, ma una risorsa utile è certamente quella che Kets de Vries chiama il “ruolo del giullare” - la sola persona che può criticare il re e persino beffeggiarlo senza rischiare la testa (Kets de Vries 1993). Un’altra è quella che ho chiamato la “cultura dell’interdipendenza”, che non ignora quanto la leadership sia tributaria della “followership” (dei collaboratori) per realizzare i propri obiettivi e che permette di ripartire tra molti i meriti, le responsabilità, i rischi; la cultura che Lao-Tse ha riassunto nel noto aforisma:
“Quando un ottimo leader ha ultimato il proprio compito la gente dirà: ’Siamo stati noi a farlo’”

3. Movimento o metodo?
La CT nasce più come cultura “movimentista” che come paradigma scientifico. Il modello delle origini, forgiato dall’antagonismo con l’ospedale psichiatrico e la cultura medica tradizionale, è stato un modello scomodo, eversivo, a forti valenze carismatiche, con grandi ambizioni e con ancor più grandi opportunità di sperimentazione e di conoscenza.

Dobbiamo riconoscere che il movimento delle CT è stato un vero laboratorio sociale, che ha prodotto cambiamenti di rilievo non solo nella psichiatria ma anche nel modo di concepire le relazioni umane e le istituzioni sociali. Ma la CT attuale possiamo ancora definirla un laboratorio? Un tale concetto, allora aperto e promettente, non corre oggi il rischio di alimentare nella pratica comunitaria un atteggiamento di “irresponsabilità civile” o di farne un eterno cantiere adolescenziale sempre in attesa della palingenesi psichiatrica che dovrebbe riconoscerne il valore?

Oggi la realtà è assai diversa ed una delle sue durezze consiste nel richiedere ad ogni teoria e ad ogni prassi di giustificare il proprio statuto (scientifico e sociale) e di dimostrare con i risultati di aver titolo a ricevere una quota del denaro pubblico. Si tratta di un processo non coerente né lineare, che a volte sembra preferire la nettezza del dato statistico o di quello contabile all’incertezza del discorso sulla qualità, che non di rado sembra smarrire dietro questioni di potere la dovuta attenzione per i bisogni delle persone.

E nondimeno per la CT questa può rivelarsi anche una benefica sfida, quella di misurarsi col mondo che cambia, di affrontare le fatiche della crescita, di migrare dall’era del pionierismo a quella della professionalizzazione, dell’interrogarsi sul metodo, sull’efficacia, sul problema del reclutamento e della formazione degli operatori. L’alternativa al laboratorio (che non significa certo smettere di sperimentare) comporta oggi l’esigenza di pensare alla CT come un’impresa - in senso aziendale ma soprattutto come un’avventura, un “viaggio degli Argonauti” - che dovrà pur sempre ispirarsi a una visione, ma proponendosi un ben definito obiettivo di produttività sociale.

L’originaria cultura del movimento non può confrontarsi con i propri sviluppi se non in termini di cultura del metodo. Certo, il confronto lungo la linea temporale sembra marcare una perdita di vitalità o quanto meno un appannamento: nella cultura del movimento dominano il carisma, l’innovazione creativa, lo sperimentalismo, l’idealizzazione, la tenuità delle strutture organizzative, l’enfasi sulla dimensione sociale; in quella del metodo invece prevalgono la professionalità, l’istituzionalizzazione, i metodi e le routine, la standardizzazione, il pragmatismo, strutture più forti e l’enfasi sulla dimensione clinico-terapeutica.
Ciò a cui oggi assistiamo sembra un lungo e tormentato processo di transizione dal polo movimentista a quello del metodo, processo che può anche invertirsi o diventare oscillazione, probabilmente in sintonia con le oscillazioni PS __ D (tra posizione schizoparanoide e depressiva) nello stato mentale che caratterizza il clima istituzionale.

Il movimento è certamente tensione, provvisorietà, e soprattutto lotta alla cronicità e all’istituzionalismo che minacciano la vita delle persone, delle organizzazioni e delle stesse idee. D’altra parte metodo significa trasmissibilità e diffusione, depositarsi delle conoscenze, assumersi responsabilità nei confronti degli altri saperi come degli uomini che di queste idee si serviranno. Movimento e metodo, come tradizione e innovazione, sono in opposizione dialettica e in oscillazione dinamica; dal loro reciproco dialogare potrebbero discendere, anche per i destini della CT, la disponibilità ad accogliere il nuovo e la possibilità di ulteriori sviluppi.
Dopo tutto, come Bion ci ha acutamente ricordato, se il genio ha bisogno di un establishment che ne argini la carica potenzialmente distruttiva, occorre anche che quest’ultimo non giunga a soffocarne la creatività (Bion 1966).

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Note:
(1) Il questionario di valutazione dell’Association for Therapeutic Communities - la Kennard-Lees Audit Checklist 2nd Ed. (KLAC 2) - permette di individuare a partire dagli item esplorati quali dimensioni istituzionali siano ritenute caratteristiche distintive e qualificanti della cultura comunitaria di area inglese:

1-La cultura dell’indagine (libertà di indagare, esprimere e discutere apertamente questioni inerenti emozioni e comportamenti sia dei pazienti che dello staff)
2-La struttura del programma di trattamento (ampia disponibilità di informazione e facoltà di critica sulla filosofia, gli scopi e i programmi di trattamento per pazienti, operatori ed invianti, attraverso la partecipazione a vari tipi di riunioni e attività di gruppo, terapeutiche, gestionali ed informali)
3-Il processo terapeutico e la vita comunitaria (apprendimento dalla gestione della vita quotidiana, verbalizzazione dei pensieri e dei sentimenti, comunicazione aperta, supporto tra pari e confronto sul comportamento)
4-Le responsabilità e i meccanismi decisionali (partecipazione dei pazienti alle decisioni su ammissioni e dimissioni e sulla selezione di nuovo personale, sulla gestione e amministrazione della comunità, sull’assegnazione di ruoli e compiti)
5-Le attività e le dinamiche relazionali dello staff (riunioni cliniche, di passaggio di consegne, di programmazione dell’attività, di supervisione, momenti di verifica dei ruoli e delle relazioni nello staff, di discussione dei sentimenti e dei comportamenti verso i pazienti, di analisi dei meccanismi di difesa dall’ansia e delle dinamiche di gruppo)
6-La gestione dei confini e il contenimento (creazione di un ambiente emozionalmente sicuro, esercizio dell’autorità, gestione dei rischi, dei controlli, delle regole, del tempo e dello spazio comunitario)
7-Le risorse materiali (locali e attrezzature per riunioni, terapie e attività)
8-Le risorse umane (numero di operatori, loro capacità e competenza, valori condivisi)
1.
(2) Sul carisma del leader si leggano le interessanti pagine di Melvyn Rose (1982) e in particolare l’articolo di Rapoport su Maxwell Jones (Rapoport 1991).

(3) “Stretching” implica sollecitare e sfidare, “sharing” condividere emozioni, conoscenze e valori, “coaching” addestrare e dare supporto, “empowering” attribuire potere e stimolare iniziativa e autonomia (Testa 2001).

(4) “Alessitimia” è un termine che descrive una sorta di “analfabetismo emozionale” (Kets de Vries 1993)

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