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Atti delle Giornate di studio
"Le Comunità Terapeutiche: ambienti di vita, percorsi di cura"
Quando, come e quanto l'abitare può essere terapeutico



Le comunità terapeutiche come luoghi di attualizzazione dello scenario psicotico

E. Pedriali



* Presidente Associazione per la Terapia di Comunità (AtiC)

In Italia la cultura della Comunità Terapeutica si è sviluppata con un certo ritardo rispetto ad altri paesi e ancor oggi molte delle Strutture che assumono questa denominazione stentano a costituirsi un’identità teorico-metodologica ben definita.
Paradossalmente questo è il prezzo che abbiamo dovuto pagare al grosso sforzo di cambiamento del nostro contesto psichiatrico e al superamento del Manicomio: il Movimento di Riforma infatti finì con l’assumere connotazioni politico-ideologiche fortemente antistituzionali che lasciarono poco spazio alla ricerca e alla sperimentazione di modelli alternativi all’Ospedale Psichiatrico.

Dal varo della 180 ad oggi, le esigenze che si sono andate delineando hanno imposto agli addetti ai lavori nuovi modi di pensare e di fare ed è stato soprattutto intorno alle problematiche delle patologie più gravi che si sono dovuti concentrare gli sforzi maggiori.
E’ così che si sono sviluppate, prima timidamente poi quasi freneticamente, una miriade di Strutture residenziali e semiresidenziali, a carattere comunitario o sedicenti tali, per accogliere una domanda sempre più consistente ed eterogenea.

Non è mia intenzione soffermarmi sulle diverse posizioni ideologiche che sono state assunte intorno a questi problemi, quindi evito di proposito di entrare nel merito delle varie antinomie che ne sono derivate: pubblico contro privato, presa in carico ambulatoriale contro residenzialità, trattamento a breve contro trattamento a lungo termine e via dicendo.
Mi limito ad evidenziare ciò che a me sembra un dato di fatto: la doverosa chiusura dei Manicomi da un lato e la mancanza di una cultura alternativa dall’altra, spiegano in larga misura la debolezza teorica dei nostri modelli comunitari e della loro frequente aspecificità, per cui ancor oggi sotto la denominazione di Comunità Terapeutica si può trovare tutto e il contrario di tutto.

Questo è un primo dato che differenzia la nostra realtà da quella di altri paesi, penso in particolare all’Inghilterra e alla Francia, dove i fermenti antipsichiatrici, che pure si svilupparono prima che da noi, non riuscirono ad abbattere le mura del Manicomio, ma presero la forma di movimenti di pensiero che attingendo dal bagaglio culturale delle Scienze Umane (soprattutto dalla Psicologia, dalla Sociologia e dalla Psicoanalisi), fornirono chiavi di lettura della sofferenza psichica del tutto estranee alla Psichiatria organicistica e consentirono sperimentazioni originali che a poco a poco diedero vita a una cultura alternativa a quella dell’Ospedale.
Certamente anche da noi non sono mancate e non mancano le esperienze e i contributi teorico-metodologici interessanti, ma il cammino da fare per poter parlare di Cultura Comunitaria nel nostro paese è ancora lungo.

Per le ragioni appena accennate, le nostre Comunità si son trovate a far fronte alla domanda crescente di un’utenza costituita in buona misura da gravi patologie: psicosi, residuo manicomiale, nuova cronicità, non di rado mescolate a ritardo mentale di vario grado e natura, disturbi di personalità e via elencando.

Questa folla multiforme di pazienti, bussa alla porta delle tante “Comunità” esistenti e quand’anche vi trova una residenza accettabile sotto il profilo del calore umano e delle buone intenzioni, non sempre riceve un trattamento adeguato ai differenti bisogni e fondato su una sufficiente competenza clinica e metodologica.
Credo sia tempo ormai di denunciare l’aspecificità di molte Strutture come espressione di carenza culturale e come rischio concreto di iatrogenicità.
Di fronte alle problematiche poste da questo tipo di patologie, non ci si può affidare all’improvvisazione, al velleitarismo, al solidarismo o alla generica disponibilità ad aiutare il prossimo, per non parlare degli intenti speculativi che talvolta si celano dietro certe iniziative.

Malgrado tutto, l’esperienza che si è sviluppata in Italia in questi ultimi anni nell’ambito delle Strutture Intermedie costituisce ormai un bagaglio considerevole di acquisizioni da cui si potrebbe partire per fondare una prassi comunitaria originale e ricca di potenziali sviluppi.
L’esserci liberati dalla palla al piede del Manicomio ci ha costretti a uno sforzo creativo, a sperimentare modalità e luoghi d’incontro diversi con il paziente e solo in parte abbiamo potuto assumere come riferimento le classiche esperienze inglesi, sia per le notevoli differenze del contesto storico-culturale, sia per la diversità dell’utenza: il modello inglese infatti si è sviluppato e consolidato sostanzialmente intorno al trattamento di pazienti con Disturbi di Personalità, salvo rare eccezioni.
Da questo punto di vista la nostra realtà si avvicina forse maggiormente a quella francese che, pur mantenendo ancor oggi in vita l’Ospedale Psichiatrico, ha comunque sviluppato, a partire dagli anni 50-60, alcune esperienze esemplari nell’ambito del trattamento istituzionale delle psicosi: la Psicoterapia Istituzionale, il XIII° Arrondissement, “La Velotte” di Racamier, l’Associazione Santè Mentale e Communautés di Villeurbanne.
Ma pur con tutta l’ammirazione per le esperienze pionieristiche d’oltre Manica e per quella dei “cugini” d’oltralpe, non si tratta di effettuare una semplice trasposizione di modelli realizzati altrove, ma di sviluppare una nostra capacità originale di elaborare un approccio istituzionale modulato su differenti bisogni.

E vengo al punto che mi sono proposto di sviluppare nel mio intervento: il trattamento comunitario di pazienti psicotici.
Credo si possa dire che esso rappresenta per le Comunità Terapeutiche un banco di prova assai arduo e, al tempo stesso una sfida affascinante.
I canoni tradizionali su cui si sono fondate le esperienze classiche di Comunità (Tolleranza, Democrazia, Condivisione, Confronto con la Realtà), sembrano infatti non reggere l’impatto con le psicosi, soprattutto se interpretati con rigidità e assunti come se avessero il valore di sacramenti.

Cosa può significare infatti Democrazia per chi è soggetto alla dittatura di fantasmi, coercizioni e angosce persecutorie cui tuttavia sembra così profondamente attaccato; oppure Condivisione per chi teme la relazione con l’oggetto come fonte di pericolo o di drammatiche delusioni; o Confronto con la Realtà per chi vive un conflitto insanabile tra mondo interno e mondo esterno.
A ben vedere, solo la Tolleranza può costituire la base di partenza per una possibile intesa con lo psicotico e in questo senso rappresentare un valore condivisibile da ogni tipo di Comunità.
A scanso di equivoci, va precisato che Tolleranza non va interpretata come compassionevole sopportazione dei comportamenti a volte bizzarri e apparentemente incomprensibili dello psicotico, ma come disponibilità ad accoglierli con una costante tensione alla loro comprensione e con la capacità di restituirne il senso al paziente.

Prima di addentrarsi tuttavia nella definizione dei possibili caratteri distintivi di una Comunità per psicotici, occorre chiedersi se e cosa una Comunità può offrire ad essi.
Si tratta semplicemente di garantire un tetto, un piatto e un letto a chi non ne dispone, o una protezione da tensioni e conflitti familiari insostenibili, o una forma di esilio al riparo da dinamiche espulsive, o un luogo di rieducazione sociale attraverso pratiche riabilitative più o meno sofisticate, o non si tratta invece di qualche cosa d’altro ?
Credo che la risposta possa venire solo da una riflessione attenta sui bisogni che i pazienti ci presentano, cercando di vedere oltre la cortina fumogena di ciò che noi chiamiamo sintomatologia.

Per chi si limita a considerare il paziente come la semplice somma dei suoi sintomi, l’obiettivo non può che essere la maggior o minore possibilità della loro soppressione: il contesto in cui il trattamento si svolge, non ha alcuna importanza !
Per chi invece si pone la domanda sul significato positivo o negativo del contesto ambientale nel percorso di cura, è chiaro che la modalità relazionale, così come lo spazio e il tempo condivisi col paziente, assumono un significato determinante ed entrano a far parte, a pieno titolo, della funzione curante.

Occorre innanzi tutto tener presente che l’ingresso del paziente in Comunità ha in ogni caso il significato di una separazione, non solo dai luoghi e dalle persone a lui più familiari, ma anche da una modalità esistenziale che per lungo tempo è stata l’unica possibile per tenersi al riparo da una realtà che gli rappresenta la minaccia di altre, più angosciose separazioni.
In più, accettare la Comunità ha per lui il significato di un duplice fallimento, quello di non poter porre rimedio con le proprie risorse a una situazione oggettivamente critica e più ancora quello di percepire la debolezza del proprio funzionamento psichico che mette in crisi duramente l’immagine di sé.
Crollo dell’onnipotenza e ferita narcisistica si accompagnano quindi molto spesso a questo delicato passaggio, manifestandosi con la negazione o la diffidenza, a volte mascherate dalla passività o addirittura dissimulate da una parvenza di disponibilità.

Tutto questo può essere considerato come fastidiosa produzione di sintomi da eliminare in qualche modo, ma se ci si pone nell’ottica di costruire una relazione come base di partenza per un possibile cambiamento, non si può che cogliere dietro queste apparenze un tentativo di difesa da un’angosciosa minaccia.

Non credo sia necessario dilungarsi sull’importanza di questi aspetti nel prospettare al paziente la proposta di abitare per un certo tempo in uno spazio inusuale, condiviso con altri simili e, al tempo stesso, diversi da lui, in coabitazione con personaggi come psicologi, infermieri, socioterapisti, psichiatri che gli offrono in fondo un percorso verso l’ignoto, oscuro e inquietante.

E’ particolarmente in questa prima fase che si esprime in tutta evidenza la diversità fra l’approccio della psichiatria tradizionale e il metodo comunitario: nel primo caso il terapeuta si pone nella condizione di attaccare frontalmente il sintomo; nel secondo, l’istituzione curante accoglie e rispetta le difese del paziente e avvia un lungo lavoro terapeutico per arrivare a ciò che sta dietro i meccanismi difensivi.

Al tempo stesso qui comincia anche a evidenziarsi la differenza tra una Comunità che accoglie prevalentemente soggetti psicotici e quelle che ospitano altre tipologie d’utenza. Mi riferisco ad esempio a tutte quelle strutture che si occupano di Disturbi di Personalità o alle tante Comunità per Tossicodipendenti o a quelle che, soprattutto all’estero, operano nell’ambito della popolazione carceraria.
A mio parere, la differenza consiste nella diversa qualità dell’alleanza terapeutica che è possibile stabilire con i diversi soggetti e dal peso che essa ha nell’avviare il progetto terapeutico.

In linea di massima, pazienti con disturbi anche gravi di personalità, possono condividere un contratto terapeutico che consenta, fin dall’inizio, la definizione di un setting fondato su quei canoni tradizionali cui prima ho fatto riferimento (Tolleranza, Condivisione, Democrazia, Confronto con la Realtà) e che definiscono la fisionomia del modello anglosassone di Comunità, cui va riconosciuto ancor oggi la sua efficacia con questo tipo di pazienti, oltre al merito di aver sovvertito profondamente la prassi psichiatrica tradizionale.
In queste Strutture, come in psicoterapia, le regole del Setting possono essere disattese, attaccate o manipolate dai pazienti fino anche alla rottura del “contratto”: tutto ciò rappresenta materiale su cui si sviluppa il lavoro terapeutico secondo le modalità di ogni Comunità, accettate già dall’ingresso da entrambe le parti, pazienti e operatori.

La stessa cosa non è sempre possibile con soggetti psicotici se l’io residuale non presenta una consistenza sufficiente a stabilire un’alleanza di lavoro fin dal primo approccio.
Il Setting comunitario potrà quindi costituirsi solo all’insegna di una Tolleranza (per usare la terminologia cara agli inglesi) che consenta di sviluppare nel tempo un percorso di cura.
Quelli che per altre Comunità rappresentano dei punti fermi, delle premesse da cui partire per sviluppare il programma terapeutico, con pazienti psicotici costituiscono delle linee di tendenza, degli obiettivi a cui tendere attraverso il percorso di cura stesso.
Questo non significa considerare questi pazienti esclusivamente come portatori di un deficit, ma proprio per consentire lo sviluppo o il recupero di potenzialità, da tempo ingessate da un particolare funzionamento psichico, occorre tener sempre presente che l’ambiente di vita che proponiamo come veicolo di terapia può facilitare o inibire il cambiamento se non tiene conto delle loro resistenze, dei loro tempi e delle loro modalità di reagire agli stimoli indotti dalla relazione con noi.
Capita di sovente che i pazienti vengano valutati in base ad un presunta idoneità a questo o a quel tipo di trattamento: “ il tal paziente non è adatto alla nostra Comunità…” oppure: “ …non è adatto all’analisi…” si sente dire spesso per liquidare definitivamente ogni rapporto, come se fosse lui a dover dimostrare l’idoneità del nostro armamentario terapeutico e non viceversa.
Oggi, anche nel trattamento psicoterapico di pazienti psicotici la definizione di un possibile Setting non può non tener conto della difficoltà del paziente a riconoscere la vulnerabilità del suo funzionamento psichico, della pericolosità per lui di entrare in una relazione significativa con un oggetto altro da sé e della sua difficoltà di accettare l’emergenza di emozioni da cui tenta di proteggersi attraverso i suoi sintomi.

Ma la Comunità propone qualcosa d’altro dal rapporto duale: la contiguità quotidiana con altre persone con tutti i limiti posti dalla convivenza, la necessità di provvedere ai propri bisogni essenziali, la dimensione gruppale di molti momenti della vita comunitaria.
Una volta entrato, il paziente si trova immerso in un’infinità di situazioni che lo rinviano frequentemente al nucleo essenziale della psicosi: l’angoscia della separazione dalla beata condizione di fusionalità con la madre e la perdita dell’onnipotenza narcisistica conosciuta nei primi stadi della sua vita, che gli hanno impedito di sviluppare un processo di separazione/individuazione.
Inizia così quella che io definirei la “Rappresentazione Comunitaria”, messa in scena con l’ausilio di tutti gli “attori” della Comunità, pazienti e operatori.
Di volta in volta il paziente si trova alle prese con situazioni e personaggi su cui investe parti di sé e che riattualizzano vissuti ed emozioni legati alla sua storia e divenuti parti integranti del suo mondo interno.
In questa rappresentazione egli si riferisce a un suo copione, secondo modalità a volte ripetitive e monotone, a volte frenetiche e aggressive, a seconda del diverso potere di evocazione che il vivere in comunità gli suscita.

In altre parole, sul palcoscenico comunitario si sviluppa quel gioco di resistenze, proiezioni, scissioni, identificazioni proiettive che sono altrettante modalità di interazione del paziente con noi e col contesto, per ciò che gli rappresentano in relazione alla sua storia.
A poco a poco emerge un materiale fatto di espressioni, gesti, azioni, non necessariamente di parole, che affiorano dall’inconscio del paziente consentendo una miglior comprensione del suo mondo interno.

A differenza che in una psicoterapia tradizionale, l’interpretazione verbalmente espressa non è lo strumento d’elezione di chi opera in Comunità a qualsiasi titolo: è più con gli atti che con le parole che è possibile veicolare al paziente messaggi importanti, così come lui tende a fare con noi.
A questo proposito, dobbiamo a Paul Claude Racamier la felice espressione di “atti parlanti” con cui indicava l’importanza dei messaggi agiti attraverso gesti, fatti, oggetti capaci di entrare nella stessa lunghezza d’onda del paziente per rendere evidente il significato di situazioni e circostanze e consentire il recupero di modalità espressive diverse da quelle comportamentali e sintomatiche a lui abituali.

Questo lavoro di ricostruzione di un diverso registro comunicativo si dipana in una continua alternanza di illusioni e disillusioni che mettono a dura prova la disponibilità degli operatori.
Eppure questo gioco in cui sono coinvolti non è frutto di una particolare malignità dei pazienti, ma semmai esprime in tutta evidenza la resistenza al cambiamento che li mette, di volta in volta, di fronte alla prospettiva angosciosa di una perdita e alla dolorosa rinuncia di un’illusione.

Per evitare queste minacciose evenienze, lo psicotico mette in atto con tutte le sue forze, una varietà di sistemi difensivi:
un progressivo disinvestimento del mondo esterno, fino al totale ripiegamento su se stesso, annullando o quasi ogni forma di vita psichica; l’attacco al pensiero di chi gli testimonia l’esistenza di un mondo esterno e la prospettiva di una separazione dalla fusionalità originaria;
la negazione delle evidenze della realtà;
la proiezione sugli operatori di una perfezione tanto seducente quanto ingannevole poiché appartiene alla dimensione narcisistica che il paziente teme di perdere (e che tenta di salvaguardare ristabilendo una relazione simbiotica coi terapeuti).

Dal canto loro, i curanti sono esposti continuamente a movimenti controtransferali non sempre riconoscibili ma preziosi, una volta che lo diventino, perché consentono di aprire una finestra sul mondo interno del paziente.
Analogamente a quanto avviene in psicoterapia, anche in Comunità gli operatori si trovano nella condizione di mettere la propria persona a disposizione delle proiezioni dei pazienti e di utilizzare le reazioni controtransferali come uno strumento di conoscenza.

Marcel Sassolas nel suo bel libro, tradotto di recente in italiano con un titolo che, a mio avviso, non rende efficacemente il senso di quello originale francese (“La psychose à rebrousse-poil”, letteralmente :”La psicosi in contropelo”) sostiene che “curare uno psicotico significa creare per lui un contesto nel quale abbia la possibilità di vivere con altri relazioni significative …. Che possano favorire un’evoluzione psichica fino a questo momento paralizzata dai processi di difesa psicotici”.
Credo che ciò riassuma molto bene il dilemma entro cui lo psicotico si dibatte tra desiderio e terrore dell’oggetto, tra simbiosi e separazione, tra narcisismo e individuazione.
La Comunità, con la sua relazionalità diffusa, le esigenze della quotidianità, la dimensione necessariamente gruppale, può costituire in un arco di tempo sufficientemente lungo, un percorso di cambiamento in cui al paziente diventi possibile riappropriarsi delle sue emozioni, ricollegarle alle vicende del proprio passato e trovare un modo di esprimerle diverso da quello delle difese psicotiche.

Certo non si tratta di un percorso facile per lo psicotico, ma nemmeno per la Comunità: non sono pochi i rischi in cui essa può incappare e il tempo non ci consente di passarli tutti in rassegna.
Mi limito solo a qualche “flash”.
A mio avviso il rischio più frequente da cui l’Istituzione Comunitaria deve guardarsi è rappresentato dall’idealizzazione e dall’auto-referenzialità che finiscono col determinare una collusione con la psicosi e portare a una stagnazione senza sbocco.
La Comunità si trasforma così in una setta, o in una specie di “isola felice” in contrapposizione non solo all’Ospedale, ma anche alla famiglia e al gruppo sociale di provenienza, come modello di microsocietà contrapposta al gruppo sociale più allargato.

Altra evenienza tutt’altro che rara è rappresentata dalla Seduzione Narcisistica, per usare la definizione di Racamier, che accomuna pazienti e operatori in una relazione apparentemente gratificante, ma in realtà asfissiante e senza via d’uscita, in cui il paziente si culla in una condizione di eterna dipendenza e l’operatore si sente gratificato dalla sua presunta indispensabilità.

Così pure l’Attivismo senza senso se non quello di gratificare un bisogno degli operatori, indotti a sostituirsi al paziente con eccessiva sollecitudine, depauperandolo di ogni potenziale capacità, oppure stimolandolo acriticamente per l’incapacità di tollerarne e comprenderne i momenti di passività.

Oppure l’ideologia del “Buonismo”, cioè l’evitamento di affrontare il senso delle operazioni difensive del paziente per timore che non sia in grado di reggerne le conseguenze.

Aggiungerei anche quella specie di Perversione Logica, secondo l’espressione di Zapparoli, per cui gli operatori si rifugiano dietro la razionalizzazione o a un eccessivo schematismo cognitivo, per difendersi dalle proiezioni, dal coinvolgimento emotivo e dai movimenti controtransferali. Accade cosi che al paziente vengano riconosciuti il diritto di cittadinanza in Comunità e una formale accettazione della sua diversità, ma al tempo stesso gli venga richiesto di essere ragionevole, non-ambivalente, non-dipendente, non-onnipotente per corrispondere alle aspettative di co-responsabilizzazione e di co-gestione del progetto comunitario.

Da ultimo accennerei anche a quel particolare rischio che si può definire come “Pantano Analitico” prodotto da un’utilizzazione distorta delle teorie psicoanalitiche trasferite tout-court dal contesto duale a quello ben diverso della Comunità, ove la dimensione gruppale, la natura di sistema sociale con un suo sviluppo organizzativo e le sue finalità terapeutiche assumono una complessità che richiede un’integrazione fra ottiche diverse, fra cui anche quella psicoanalitica che da sola tuttavia non può fornire l’unica chiave di lettura dei “fenomeni” comunitari.

A mio parere, una Comunità Terapeutica per pazienti psicotici è possibile nella misura in cui l’abitare diviene parte integrante della terapia e offre al paziente la possibilità di mettere in evidenza le sue manovre difensive dalla realtà.
Ciò non significa che essa sia una sorta di “nave dei folli” ove non resti altra possibilità che la contemplazione della follia; al contrario, il compito dei curanti consiste proprio nell’utilizzare il modo di essere del paziente nell’impatto con la vita di Comunità, come il filo di Arianna che, attraverso la comprensione delle resistenze e dei processi difensivi, gli consenta almeno in parte una maggior consapevolezza e una maggior tolleranza delle proprie angosce.

Cito ancora Sassolas per concludere che la realizzazione di un contesto terapeutico comunitario, può consentire “ … al funzionamento mentale (dello psicotico) di attenuarsi, di divenire meno invalidante e doloroso, a condizione di non agire a casaccio e di dedicarsi senza sosta al chiarimento del vissuto reciproco del personale curante e dei pazienti”.


Riferimenti Bibliografici

M. Sassolas: Terapia delle Psicosi. La funzione curante in Psichiatria. Ed. Borla
A.Ferruta, G.Foresti, E.Pedriali, M.Vigorelli: La Comunità Terapeutica. Tra mito e Realtà. Ed. Cortina
G.C.Zapparoli: La Psichiatria oggi. Ed. Bollati Boringhieri
P.C. Racamier: Lo psicoanalista senza divano. Ed. Cortina
“” “” “” : Gli schizofrenici. “” “” “”
“” “” “” : Il genio delle origini. “” “” “”
T.Main: La Comunità Terapeutica e altri scritti psicoanalitici. Ed. Il Pensiero Scientifico
D.Kennard: Introduction to Therapeutic Community. Ed. Jessica Kingsley
B.Betteleim: La fortezza vuota. Ed. Garzanti

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