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Atti delle Giornate di studio
"Le Comunità Terapeutiche: ambienti di vita, percorsi di cura"
Quando, come e quanto l'abitare può essere terapeutico



Indicazioni all’ inserimento dei pazienti in comunita’ terapeutica

Antonello Lanteri*


*Dipartimento di Salute Mentale ASL7, Chivasso
Via don Paviolo 5, Settimo Torinese (TO)
Tel. 011 8212527 fax. 011 8212513
e-mail : antonellolanteri@libero.it



Prima di definire quali siano le indicazioni ad un inserimento comunitario conviene chiedersi : “esistono indicazioni positive all’ inserimento di pazienti in comunità?”.
Apparentemente è semplice: le Comunità curano le patologie psichiatriche, l’ indicazione all’ inserimento è la presenza di una patologia psichiatrica.
La realtà è un poco più complessa.
Anche solo da una analisi dei dati del mio DSM sugli inserimenti residenziali, dati esemplificativi e senza pretesa statistica, qualche indicazione è possibile trarla.

1 - per la stragrande maggioranza dei casi l’ inserimento si configura di lunga durata, se non a vita
2 - l’ aspettativa di dimissione a casa, o in strutture meno protette di supporto all’ abitare (GA), è scarsa, comunque largamente minoritaria
3 - per la stragrande maggioranza dei casi la motivazione all’ inserimento è “in negativo”: allarme sociale, crollo della rete familiare, difficoltà di presa in carico, ricoveri ripetuti.

sembra insomma che l’ inserimento residenziale, e a maggior ragione quello in CP, abbia come indicazione principale il fallimento della cura a livello di servizi di salute mentale di comunità (DSM).
Risponderebbe quindi ad un meccanismo di delega finale “noi abbiamo fatto quello che potevamo, sapevamo (o avevamo voglia di) fare; adesso pensateci voi”.
E dall’ altra “non preoccupatevi, ci pagate una buona retta e vi potrete dimenticare di lui”.
Si configurerebbe cosi un’ “altrove”, fuori dal contesto sociale dove opera la rete di servizi del DSM dove “va a finire” chi non ce la fa ad essere seguito dal DSM e/o a mantenere un comportamento e un livello di autosufficienza adeguato alla vita nel contesto sociale e familiare.
O quelli per cui le condizioni di rete che lo consentivano sono venute meno.
Questo “altrove” sarebbe in grado di accogliere queste persone in un contesto più o meno aperto all’ esterno, comunque in grado di fornire una risposta globale ai bisogni dell’ ospite.
Un ambiente di vita, appunto.
Correale sostiene anzi che proprio la difficoltà, l’ espulsione dal contesto sociale, la situazione da ultima spiaggia, sono le precondizioni necessarie perchè un paziente mobiliti le sue capacità residue, le sue potenzialità, per poter fruire di un trattamento comunitario e “invertire le rotta”.
Psicoanaliticamente parla di “lutto preliminare”
Nei fatti sembrerebbe piuttosto configurarsi il rischio che fra ospite e operatori si realizzi una sorta di complicità all’ omeostasi : “io con la mia retta ti garantisco il lavoro, il reddito; tu mi garantisci la possibilità di vivere abbastanza bene, di star meglio, di soffrire meno, dentro un guscio protettivo, un “altrove” che fa fronte in modo complessivo ai miei bisogni, a cominciare da quelli di base (vitto, alloggio etc.)”

Questa complicità rischia di condizionare il “percorso di cura”, quantomeno quello inteso come volto all’ acquisizione-recupero delle capacità di autonomia, di riproduzione sociale, di libertà.
Quelle che Luc Ciompi propone di parametrare con gli indicatori della capacità di abitare e di lavorare , cui aggiungerei la capacità di consumare, cioè di saper gestire le proprie risorse economiche (anche solo pensioni di invalidità o sussidi) in modo autonomo e razionale.(vedi anche Rosenblatt 1998)
Che le comunità protette potessero essere uno spazio di vita con prospettiva vita era per altro ben chiaro agli estensori della DCR 357 della Regione Piemonte sugli standard strutturali e organizzativi dei presidi per la salute mentale, che, anche sull’ onda della definitiva chiusura degli ex OOPP, ha determinato la nascita di una serie di strutture e soprattutto l’ adeguamento di preesistenti residenze che ospitavano pazienti psichiatrici.
Si prevedono comunità protette tipo A, da cui ci si aspetta un intenso lavoro terapeutico-riabilitativo, di durata biennale, massimo triennale. E comunità protette tipo B, nelle quali si prende atto che possano essere accolti pazienti anche per lunghi periodi, magari a vita.
Non so quanto questa differenza (fra CPA e CPB) sia rilevante nei fatti (oltre che nelle rette). Ormai molti inserimenti in CPA si avvicinano al triennio e sarà interessante verificare quante dimissioni saranno effettivamente effettuate.
Questa questione della permanenza a vita dei pazienti psichiatrici in strutture protette, anche alla luce della riforma dei servizi sociali (Turco) e dei regolamenti applicativi della riforma sanitaria “ter” (Bindi), rischia di porre una questione di competenza fra servizi sanitari e socio assistenziali.
Se i servizi per l’ emergenza, per l’ acuzie, per la riabilitazione in post acuzie, i trattamenti a lungo corso, ambulatoriali e domiciliari, compresi gli interventi tecnici ed educativi per il supporto all’ abitare, a casa o in GA, sono indubbiamente interventi di piena competenza sanitaria, gli inserimenti residenziali a lungo termine di pazienti psichiatrici dovrebbero assumere rilievo socio-sanitario, e quindi coinvolgere nel carico economico, ma anche,quel che più conta, a livello decisionale i servizi socio-assistenziali.
E’ vero che strutture deputate all’ accoglienza e alla convivenza con pazienti psichiatrici, ancorchè “cronici”, o con sintomatologia “stabilizzata” richiede una specificità tecnica psichiatrica, quindi sanitaria.
E’ altrettanto vero che un inserimento a vita, in una istituzione protetta, attuata a giudizio dello psichiatra, pagata interamente dalla sanità ,(senza il contributo dell’ interessato, e la conseguente contrattualità; senza il coinvolgimento economico, quindi decisionale e di controllo di altri servizi) è una discreta definizione di manicomio.
In questo senso sarebbe utile che la responsabilità di un inserimento residenziale tendenzialmente a vita, fosse condivisa, verificata.
Poniamo invece il caso in cui il percorso di cura comunitario riesce, in cui la sofferenza e la paura diventano più tollerabili, i livelli di autonomia vengono recuperati, rinasce il desiderio di tornare nel “mondo” e di giocarsela. in questi casi che succede?
Il DSM è sempre in grado di accoglierlo?
Se sta bene, se ha una casa, una famiglia, una rete, non c’è problema.
Ma lui era andato in CP proprio perchè non aveva più una casa, una famiglia, una rete, e stava proprio male....
Occorre allora una rete di supporto, non più solo per la cura, l’ emergenza, la risocializzazione, ma anche per il vivere, l’ abitare : case (GA), supporti all’ abitare.
Non sempre i DSM sono attrezzati a questo
Men che meno lo sono i servizi socioassistenziali. Ne’ per ora pare essere loro compito.
Senza questi supporti e questi sbocchi però il percorso di cura si arresta, e rischia di regredire.
Il paziente resta nell’ “altrove”, ci si abitua, ci cronicizza.

Per converso quando i DSM si dotano di strutture protette proprie, e di reti di appartamenti, la dinamica e il turn over sono molto più vivaci. L’ interscambio dentro-fuori sembra più ricco (per quel che vale il dato, il turn over nelle strutture del nostro DSM è quasi quattro volte superiore a quello nelle strutture di delega).
Altro modo di costruire reti : alcuni CSM “scelgono” comunità di riferimento, verso le quali indirizzano i pazienti a loro più “cari”, con cui intrattengono frequenti rapporti.
E anche qui il turn over è più vivace.
Molte delle comunità più attive, o che hanno utenza più giovane, premono per poter realizzare e gestire propri percorsi di uscita: reti di appartamenti assistiti, associazioni e cooperative di lavoro, per fornire questo tipo di risposta, che spesso i DSM non danno. E che, stante la legislazione vigente, dovrebbero dare.
Ci si augura che questi movimenti positivi siano sintomo di un trend di decronicizzazione del sistema che caratterizzerà i prossimi anni
Il fatto comunque è che tende ancora oggi a ricrearsi una popolazione di lungodegenti in strutture residenziali psichiatriche protette, spesso lontano dal territorio e dal contesto di provenienza.
Colpa delle comunità che trattengono?
Colpa dei servizi pubblici che delegano e non riaccolgono? Che in quanto pubblici sono tendenzialmente inefficienti ?
Residuo in smaltimento di una storia di massicce istituzionalizzazioni manicomiali?
Oppure dato strutturale inevitabile, insito nella patologia?
Forse. ma in queste dimensioni?
I servizi territoriali, di cui i DSM sono l’ attuale espressione organizzativa, sono nati in radicale opposizione al modello manicomiale : modello tutto o niente in cui, oltre un limite di guardia - la pericolosità, lo scandalo - veniva offerto un servizio completo - vitto, alloggio, contenimento, e contenzione - salvo la cura.
I servizi territoriali nascono per dare quel che serve, a chi serve: cure e supporti psicologici, accoglienza, gestione dell’ acuzie e della crisi, restituzione di senso all’ esperienza psicotica, spazi di condivisione e di attività, supporti domiciliari e alle famiglie, supporti abitativi più o meno tutelati a seconda del bisogno, occasioni lavorative e riaddestramento al lavoro, etc.
Tutto questo sul territorio, nell’ ambiente dove la persona vive, dove ha le sue reti.
Tutto questo assumendosi la responsabilità sul percorso, terapeutico e di vita, del paziente grave. (produzione e tutela)
Questo modello non si rivela attualmente in grado di gestire tutto. Produce delega, o abbandono. Perchè ancora incompleto? Perchè strutturalmente inadeguato, perchè è necessario altro, o anche altro, in un “altrove”?
Il modello della comunità terapeutica nasce nell’ istituzione (ospedale per reduci, ospedale psichiatrico) come critica radicale del modo di vivere l’ istituzione totale, dall’ interno dell’ istituzione stessa.
Ne mutua però la globalità e l’ essere un “altrove”.
Mi pare che nella rete attuale di strutture confluisca anche l’esperienza e il modello delle strutture residenziali per disabili, dove il focus è spostato sull’ accudimento alla persona incapace.
E poi, probabilmente, il modello delle comunità terapeutiche per tossicodipendenti, dove l’ altrove è espressamente richiesto per staccare l’ ospite dal suo territorio, dalle abitudini, dalle compagnie, come precondizione ad un tentativo di cambiamento personale, prima ancora che comportamentale, che richiede una esperienza totalizzante e comunitaria, retta da una linea filosofica, prima che terapeutica, definita.

Questi due altri modelli sembrano anche radicati nella formazione e nell’ esperienza di molti degli operatori addetti ai lavori
Detto questo è possibile riproporre la domanda iniziale : “esistono indicazioni positive all’ inserimento di pazienti in comunità?”.
Più precisamente “esistono indicazioni perchè un paziente psichiatrico - psicotico o border - tragga giovamento dal vivere un’ esperienza totalizzante e comunitaria in un “altrove” lontano dal suo contesto?”.
Oppure la Comunità terapeutica è un modo di dare senso e valore all’ esperienza di convivenza col folle che è lì perchè espulso dal suo contesto, perchè troppo grave, o gravoso, o troppo solo.
Valutando la situazione attuale e i dati oggi a disposizione, non mi sembra possibile dare una risposta seria emotivata al quesito
Ma proprio perché a queste domande mi piacerebbe poter iniziare a dare risposte, sto cercando, in collaborazione con il professor Andera Ferrero di organizzare una ricerca di valutazione degli inserimenti residenziali psichiatrici in Piemonte.
Tale ricerca avrà come primo campione la totalità degli inserimenti residenziali a carico della Psichiatria in alcune ASL rappresentative della realtà piemontese.
In una prima fase verrà valutata la congruità degli inserimenti : se esiste una correlazione fra età, storia, sintomatologia, livello di abilità, struttura di personalità, problemi di rete, e tipologia di inserimento residenziale.
Una seconda fase, individuate coorti omogenee, valuterà gli stessi parametri a un anno dal T.0, per valutare gli esiti dell’ intervento, correlandoli con la tipologia della struttura.
La metodologia adottata si presta ad essere utilizzata per successive verifiche o anche per la valutazione a tappeto di tutti i nuovi inserimenti.
Penso che ricerche come questa possano contribuire seriamente a dare risposte ai quesiti posti dalla mia relazione, risposte fondate su dati, non solo su opinioni.
In realtà , da psichiatra territoriale, un’ opinione ce l’ ho, anche se per ora resta un’ opinione.
Ritengo che la cura a lungo termine di un paziente psichiatrico grave, sia un percorso lungo e duro, che debba essere gestito con continuità, responsabilità, e in modo integrato.
La comunità terapeutica può essere uno strumento prezioso in alcuni di questi percorsi, forse in molti. Purchè sia un elemento del percorso, un nodo della rete, integrato con gli altri interventi prima , dopo e durante.
Non importa chi gestisce complessivamente il percorso, se un ente pubblico, o un’ agenzia privata, o insieme.
Deve essere gestito con continuità e coerenza.
E deve essere individuato sempre un punto di responsabilità del processo e del percorso, che abbia i mezzi e il potere di tutelare il percorso - ogni singolo percorso di cura.
L’ alternativa è un “Modello Flipper” dove l’ utente-pallina rimbalza da un’ agenzia all’ altra, ora attratto, ora violentemente respinto, finchè non va in buca.
In questo modello le comunità possono essere un birillo, se non , troppo spesso, la buca.
E non ho mai visto una buca terapeutica.

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