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Atti della Giornata di Studio dedicata a

"PAUL-CLAUDE RACAMIER E LA FUNZIONE CURANTE IN PSICHIATRIA"



Strategie di cura per la sopravvivenza psichica [1]

Simona Taccani


Le riflessioni che oggi vi comunico risentono tutte di interrogativi di fondo: che cosa succede di differente in coloro che nella malattia e nella catastrofe/pericolo/difficoltà arrivano ad elaborare dei processi di sopravvivenza psichica, quando altri non ce la fanno?
In che modo? Con quali costi propri o di altri  più o meno vicini a loro?
Come capire questi fenomeni, e come farvi fronte avendo presente e tenendo conto dell’unità biopsicosomatica dell’uomo e dei legami o dei vincoli che lo connettono all’ambiente?


Premessa teorica metapsicologica

Sopravvivenza è un termine complesso, polisemico, e in definitiva ambiguo in italiano, ancor più che in francese, lingua che dispone sì di un unico verbo survivre, ma di due sostantivi: “survivance” e “survie”; di quest’ultimo termine potremmo forse tentare la traduzione con il sopravvivere, perdurare, persistere.
Nella prefazione a un testo curato da Joyce Ain, dal titolo “Survivances”, sottotitolo “De la destructivité à la créativité”, si parla di sopravvivenza sia nel senso dello stato di colui che sopravvive, sia di ciò che del passato è, esiste, persiste nel presente.

In uno scritto del 1991, “Souffrir et survivre dans les paradoxes”  PC. Racamier affronta il tema sia dal punto di vista metapsicologico che clinico.
Lo cito: “La sopravvivenza designa il principio secondo cui la psiche tende a  e lavora per il suo sopravvivere ”.

“Quanto alla fonte delle forze in gioco, la nostra teoria conosce meglio quelle che lavorano al servizio del piacere che quelle che lavorano al servisio del sopravvivere (survie): va da sé che per questo sono all’opera l’istinto di conservazione, l’autoerotismo, la libido dell’Io, il narcisismo di vita, ma la questione è troppo vasta per essere dibattuta qui.”

Riprenderà e specificherà il concetto in Cortège:

La sopravvivenza designa un principio fondamentale della vita psichica finalizzato ad assicurare e mantenere la perennità narcisistica dell'essere. Tale principio di organizzazione delle forze narcisistiche e dell'istinto di conservazione mira alla perpetuazione dell'essere corporeo e psichico di fronte alle forze psichiche e fantasmate che lo minacciano di morte o di qualsiasi altra forma di scoparsa. La sopravvivenza ha dunque il suo contrario e complemento, la scoparsa. Il doppio principio di sopravvivenza e di scomparsa... sta alla necessità narcisistica come il principio... del piacere e dispiacere sta al desiderio libidico. Si può presumere che la sopravvivenza si organizzi prima del piacere; è quella che organizza le massicce difese... che prevalgono in maniera schiacciante non solo nelle organizzazioni psicotiche, ma anche marginali o ultranevrotiche, ed altrettanto negli stati critici... (p.70, Corteo)


E’ chiaro che la sopravvivenza non lavora solo e semplicemente per il sopravvivere. Esserci, esistere, non è un postulato, è un frutto, è il frutto della scoperta dell’oggetto,  dell’invenzione del senso del pensabile, della messa in opera di un’area, di uno spazio di espansione e di costante scoperta del proprio Sé.
E’ in tutto questo che consiste la sopravvivenza.
In questa prospettiva appare evidente quanto stretto sia il legame tra il concetto di sopravvivenza psichica e la psicoanalisi, intesa come conoscenza e approccio allo psichismo umano nel suo originarsi, divenire, traversare tempi e spazi, costruirsi e/o decostruirsi.
“Solo la psicoanalisi ci permette di conoscere il valore delle immagini, dei fantasmi, dei potenziali dell’Io nascosti sotto lo spessore dei sintomi”.
“E già qui noi vediamo che è impossibile trovare l’oggetto senza perderlo, concepire dei pensieri senza incontrare l’impensabile, estendersi senza darsi dei limiti.”

I grandi traumatismi universali quali l’alterità, la differenza dei sessi, la differenza delle generazioni, o quello del lutto originario chiave di volta della teorizzazione di PaulClaude Racamier che tutti li comprende sono affrontati da ciascun individuo in modi, luoghi e tempi infinitamente diversi anche a seconda della prevalente mobilizzazione dell’energia di sopravvivenza o di quella di annientamento o scomparsa.

E' qui essenziale anche un'altra precisazione: quando la psiche non ha troppo sofferto, questo principio bifronte, doppio, lavora agilmente, l’oggetto s’inventa, la realtà si costituisce, il piacere si fa strada, i limiti e i legami si stabiliscono; quando invece la psiche è in stato di sofferenza, i meccanismi difensivi si esacerbano e si irrigidiscono, i limiti si perdono, i legami si ingranano o si decostruiscono, l’onnipotenza narcisistica con la sua carica paradossale prende il sopravvento.

La teorizzazione metapsicologica di PC.Racamier si pone qui nella linea che partendo da Freud raggiunge i lavori di Bion (l’attacco ai legami),; Winnicott (Fear of breakdown), Green (la madre morta), Tustin (buco della psiche), Vernant (la mort dans les yeux), Aulagnier.


Nel vivo della clinica

Questa digressione metapsicologica mi permette di inoltrarmi nel vivo dell’esplorazione clinica, il cui obiettivo è di contribuire a meglio conoscere questi soggetti (e queste famiglie) in cui la dinamica sopravvivenzasopravvivere; nel senso di perdurare, sussistere, mantenersi in vita  costituisce il quotidiano dell’esistenza e il cui riconoscimento, la cui comprensione, valutazione e cura richiedono da parte nostra strategie attente, mirate, adeguate e oltre tutto non solo individuali, proprie, ma gruppali, condivise nella comunità scientifica, messe a punto e discusse in un corpo collegiale allargato e aperto al confronto.

Esiste tutta una fascia di pazienti di difficile e sfumata collocazione diagnostica non necessariamente non nevrotici ma neanche sfrontatamente psicotici, che giungono nei nostri ambulatori, centri di salute mentale, consultori, centri di consultazione per adolescenti, nelle scuole, dai medici di base, dagli specialisti più vari, in Pronto soccorso: sono persone che a fronte di una richiesta poco chiara, ambigua, a volte addirittura paradossale (“non ho nulla, ma sto male” o “l’angoscia mi attanaglia, ma non accetto di prendere alcun farmaco, perché se no mi sento malato”), ci turbano per il loro malessere, il disagio quotidiano a procedere non dico creativamente, ma a procedere tout court nelle tappe del ciclo vitale.
Ci turbano e ci affaticano in modi diversi, alcuni ci minano il pensiero, paralizzandoci, altri ancora ci sospingono all’agire, altri ancora inducono in noi sentimenti estremi di risentimento, d’impotenza, a volte anche di paradossale onnipotenza. Quello che dovrebbe essere il nostro “ben temperato” operare terapeutico è comunque messo alle corde.

Ascoltiamone alcuni.
(omissis vignette cliniche)

Ho scelto di tratteggiare queste due situazioni cliniche senza peraltro addentrarmi in considerazioni e approfondimenti che potremo riservare alla discussione, per evocare più concretamente  attraverso questi pazienti  il tema della “sopravvivenza psichica”, sperando anche che possano in voi suscitare associazioni sui vostri pazienti, che come dicevo  costituiscono un contingente numeroso della popolazione che incontriamo nei contesti più diversi e le cui problematiche tentiamo di affrontare in setting anch’essi diversificati.


Rilievi clinici: registro antedipico e suicidosi

Ciò che spicca nel funzionamento mentale di questi soggetti mi sembra sopra tutto essere sul versante intrapsichico:
1) gli intoppi nel processo di personazione, nel senso di sentimento di essere persona “continua e autonoma”
2) l’incoerenza dei processi di triangolazione con l'emergenza del registro Antedipico
3) l’intollerabilità a qualsiasi lavoro di lutto
4) il congelamento dell’attività fantasmatica.

Sul registro intersoggettivo operano:
- la paradossalità / l'incestualità
- i dinieghi
- l’agire muto

Siamo quindi nel territorio di quella che PC.Racamier ha definito la terza topica, la topica interattiva, transpersonale.
Il termine interattivo non ha qui il significato di “capace di agire in correlazione o reciprocità con altri” bensì quello psicoanalitico relativo alle “interazioni inconsapevoli obbligate”.

In particolare i pazienti di cui vi ho portato alcuni flash possono almeno per certi aspetti essere visti entro la configurazione suicidosica. Le suicidosi, sono così state chiamate da P.C. Racamier con un felice neologismo.

Egli designa come suicidosi:
- una configurazione psicopatologica coerente, dotata di potenziale suicidario elettivo, ma non melanconico
- una organizzazione difensiva rigida e temibile, che può costituire fase di esistenza o organizzazione di personalità

Poiché la suicidosi non è una di quei processi che si sviluppano come la melanconia a circuito chiuso, essa costituisce una modalità relazionale e in un duplice modo, ovvero come "difesa massiccia contro qualsiasi vissuto di lutto" e "qualsiasi attrazione libidica" e come "imposizione all'ambiente di dilemmi fondamentalmente insolubili".
“Non è quindi a rigor di termine una malattia, bensì ripeto una configurazione psicopatologica, una forma clinica coerente”.

Leggendo Racamier, riflettendo sui nostri casi, la suicidosi ci appare comeuna strategia di sopravvivenza patologica.
Il suicidosico tenta la morte non tanto perché vuol morire, quanto perché vuole /cerca di sopravvivere alla nonvita. E' questo il paradosso in cui si trova serrato senza scampo. Un paradosso portato all'estremo e in quanto tale carico di un potenziale altamente distruttivo, un paradosso tuttavia che in una prospettiva diversa, ben temperata permette forse il pensiero stesso del vivere. Così ancora P.C. Racamier:
"Meglio fantasmare che agire, e scomparire in fantasma piuttosto che morire davvero..." (voce Autodisgenerazione, in Corteo, p.23).

A questo proposito, lo scrittore Thomas Bernhard così si esprime con prodigiosa immediatezza:
“il pensiero del suicidio gli era stato sempre familiare. Da bambino aveva cercato spesso in questo pensiero una via di scampo da altri pensieri. Qualche volta gli era passato per la mente, ma sempre e soltanto un pensiero necessario per vivere, da lui prodotto a questo scopo, un pensiero di requie, mai il suicidio era stato per lui un pensiero immanente” (Perturbamento, 1967).


Le strategie di cura

Parlo di cura nell’accezione di PaulClaude Racamier. Cura come “l’attenzione vigile che noi consacriamo a mantenere e rinforzare la capacità di sopravvivenza fisica e psichica delle persone che noi trattiamo”.

Vorrei tra parentesi sottolineare che con questa definizione PC.Racamier lascia intendere (e come non dargli profondamente ragione?) che non necessariamente trattare significa curare.
E per curare è davvero necessario possedere strategie intese come insieme di accorgimenti, di operazioni, di condotte volte al raggiungimento dell’obiettivo prestabilito.
I greci parlavano di arte strategica laddove metodo e invenzione creativa, stile personale e approfondita conoscenza del terreno riescono a coniugarsi costruttivamente.
Spesso si impone un primo intervento in urgenza per bloccare l’emorragia vitale, compensarla, per prima cosa. Come nelle situazioni di grave anoressia e in certe fasi suicidosiche.

Penso appartenga alle strategie di cura conoscere la nostra soglia di tollerabilità all’indifferenza che fa loro invulnerabili e noi del tutto inanizzati nel gioco transferale controtransferale.
Conoscerla per farvi fronte e individuare i dilemmi che questi pazienti pongono a se stessi ma soprattutto a chi li frequenta, e quindi ai terapeuti.

Vediamo un altro rapido flash clinico. (omissis)


Le strategie di cura debbono assai spesso andare di conserva con le strategie di sopravvivenza del terapeuta.

Penso proprio sia indispensabile, in molti casi. Tanto quanto il mobilitare energie per neutralizzare la collera impotente di cui alcuni pazienti caricano le nostre spalle terapeutiche.

E’ qui quindi il dilemma: non cambiare è morire, ma cambiare è ugualmente morire.
“Non c’è soluzione al dilemma, o piuttosto non ce n’è che una: sfuggirvi, liberarsene, rifiutarsi ad esso; e mostrarsi al paziente, mostrargli quello che sta facendo e lasciargli il tempo di ritrovare il proprio conflitto espulso” (Il genio delle origini, p.119).

L’alleanza di lavoro  è sempre un punto cruciale.
Se ne parla e se ne abusa, ma se ci ponete attenzione è pur sempre dell’alleanza di lavoro del paziente o delle famiglie che si parla, di quella dei terapeuti assai meno, quasi a dare per scontato che c’è, esiste, è sana, solida e ben funzionante. Lavora bene ed è continuamente attiva nel tempo.
Ebbene, credo che le cose possano andare anche diversamente e meno ottimisticamente, se riflettessimo con le nostre possibilità autoanalitiche o in una discussione di gruppo o nelle supervisioni.

Per parte mia ritengo che dare implicitamente per scontato che l’alleanza del terapeuta singolo o della coppia terapeutica o del gruppo terapeutico (istituzione) vada da sé, non solo derivi da una posizione preliminare acritica e decisamente narcisistica, ma che soffra anche di grande miopia e riduttività nei confronti della strategia terapeutica, processo di vasto respiro dai cangianti orizzonti che necessita (da parte nostra) di una continua analisi del terreno in cui ci muoviamo.

La prudenza. La strategia di cura con questi pazienti che abbiamo chiamato sopravviventi (il participio presente, più che il participio passato sopravvissuti, sembra rendere maggiore giustizia alla loro presenza, ai loro tentativi, alla loro richiesta di aiuto, ma anche alla loro intensa attività espulsiva del conflitto, del dolore, della colpa), esige prudenza sempre e comunque, anche quando si sia in una situazione di emergenza, anche quando si sia chiamati a prendere dei rischi, per esempio nel caso di un affiorante vissuto suicidario in un paziente suicidosico, configurazione patologica piuttosto frequente in genere e in particolare entro il contingente di pazienti che qui abbiamo preso in considerazione.

Prudenza nello stabilire una relazione e nel portarla avanti, l’ossigeno narcisistico così carente in questi pazienti va somministrato a piccole dosi, così come il lavoro sul sistema difensivo.
Le difese quali diniego, scissione, idealizzazione, possono dar mostra di grande e solido dispiegamento e noi possiamo facilmente ritrovarci a combattere inermi ai piedi di queste inaccessibili pareti.

Prudenza, quindi, per le possibili conseguenze di un lavoro che aiuti il paziente ad avvicinarsi alle inevitabili problematiche di lutto e alle difese antilutto che si sono costruite negli anni e a volte nel tempo delle generazioni.
Prudenza che tenga conto del dolore della sofferenza connessa al vivere e ancor più al cambiare, nel senso di operare cambiamenti costruttivi, creativi, aiutando purtuttavia questi pazienti a stabilire collegamenti e legami al riparo (per quanto possibile) da pulsioni distruttrici, da bruschi viraggi sul corpo, da noi psicoterapeuti ancor oggi troppo poco tenuto in conto. Fenomi di espulsione della sofferenza e del dolore al di fuori dello spazio psichico sul corpo vissuto in questi casi come altro da sé.

In questi pazienti il corpo assume un’importanza assolutamente primordiale come spazio di scarica di un plenum eccitatorio violento con possibili conseguenze disorganizzanti, ove alla già scarsa attività di mentalizzazione si associano fenomeni sintomatici veri e propri, sino alla comparsa di veri e propri eventi patologici, minacciosi non soltanto per la salute, ma per la vita stessa.

E’ questo un capitolo di grande portata in epigone alla teorizzazione di PC.Racamier sul lutto originario e la sua mancata elaborazione, quindi su tutta la patologia inerente al lutto e sui problemi suicidosici .
Il rischio somatico, i suoi collegamenti con le problematiche individuali e familiari di pazienti la cui configurazione abbiamo cercato di delineare qui, è un problema del tutto aperto, e di estremo interesse.

Indubbiamente il lavoro che stiamo portando avanti, lo facciamo insieme, le strategie le andiamo via via cercando in quella cocreazione che PC. Racamier riteneva indispensabile di ogni processo di cura.

Lavoriamo per allentare la stretta dei dilemmi del registro “voglio morire per vivere o voglio essere curato perché la cura fallisca”.
Lavoriamo per riconflittualizzare la vita psichica, cioè per restituire a questi pazienti ciò che tendono a diffondere fuori di loro. A volte con violenza.

Le strategie di cura che noi mettiamo in atto si scontrano, come abbiamo visto, con mezzi difensivi pesanti, se malgrado tutto riusciremo a farcela avremo in alcuni casi sventato qualche suicidio, in altri impedito una carriera di cronicità dentro e fuori dai Servizi, in altri ancora evitato che processi espulsivi fuori dalla psiche non prendano di mira il corpo provocando pericolosi circuiti psicosomatici.

Qualora poi il nostro compito non fosse che parzialmente riuscito non dimentichiamo l’affermazione di PC.Racamier che, nonostante tutto, i dilemmi, i paradossi e anche l’ambiguità nel suo versante nefasto, sono e restano nel territorio del legame, del pensiero sia pure per non pensare, o del pensare senza fantasmi; al di là, oltre, si aprono gli spazi del non pensabile, della non vita, del non legame, là dove le nostre strategie non hanno corso.


[1]  Mi scuso con il lettore: per ragioni di riservatezza non compaiono qui i casi clinici.


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