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Università degli Studi "La Sapienza" Roma
VI Centro di Psicoterapia Cognitiva
in collaborazione con
APC - Scuola di Psicoterapia Cognitiva

Abstract del Congresso Internazionale

Personalità e relazione
Un gioco polifonico tra le parti


Roma, 10-11-12 Maggio 2007



Disturbi di personalità e continuità terapeutica

Maria Teresa Rocchi
Psichiatra Psicoterapeuta
Gruppo ARPAS e Associazione di Psicologia Cognitiva
VI centro di psicoterapia cognitiva, Roma


La classificazione multiassiale,attuata dal DSM III in poi, ha incoraggiato il clinico a non focalizzarsi solo sulla valutazione del sintomo emergente del problema in atto. Favorendo l'applicazione del modello multidimensionale.
Il modello bio psico sociale (Engel 1980), ha ampliato l'ottica verso la complessità incoraggiando a pianificare una diagnosi e un intervento maggiormente articolati e personalizzati. In particolare la distinzione tra Asse I e Asse II ha portato ad approfondire in maniera esponenziale il tema dei disturbi di personalità e della comorbilità
Questo invito alla complessità del DSM III e delle successive edizioni rimane limitato per tre questioni fondamentali: 1 la diagnosi categoriale,2 la dicotomia mente-corpo ,3 la posizione ateoretica.
La prima questione è quella della classificazione che si basa sulla diagnosi categoriale. Questo approccio definisce i disturbi di personalità come sindromi cliniche qualitativamente distinte, mentre il riscontro empirico depone più a favore di una prospettiva dimensionale.
Secondo tale prospettiva la personalità ed i disturbi di personalità sono il risultato di una complessa interazione tra varie predisposizioni biogenetiche ed esperienze ambientali, che alla fine producono un numero imponente di costellazioni di tratti di personalità di volta in volta adattivi e disadattivi. Nella prospettiva dimensionale i disturbi di personalità rappresentano varianti non adattive di tratti di personalità che si confondono impercettibilmente con la normalità e tra di loro.
. La tradizionale dicotomia fra temperamento e carattere, fra biologico ed acquisito è stata poco utile nella pratica clinica e fonte di preconcetti, come l'idea che ciò che è biologicamente determinato risponda solo bene all'intervento farmacologico e ciò che è più determinato da influenze ambientali sia solo sensibile all'intervento psicoterapico. L'importante scoperta della neurogenesi come funzione che persiste al di là dell'epoca di sviluppo encefalico,ha accelerato esponenzialmente il superamento della dicotomia mente-corpo; La neurogenesi è stimolata da fattori ambientali, neurotrofici, terapie farmacologiche antidepressive e modulanti il tono dell'umore ma anche da un costruttivo rapporto interpersonale;viene inibita da deprivazione, stress
ambientale e dall'azione dei glucocorticoidi.
Le moderne tecniche di brain imaging confermano che le terapie della parola e quelle farmacologiche agiscono entrambi modificando la struttura cerebrale.
E' possibile ipotizzare che la via finale comune della terapia psicofarmacologica e delle terapie della parola sia quella della plasticità cerebrale.
La terza questione è l'ateoreticità del DSM. Il manuale è stato creato per la necessità di adottare un sistema diagnostico indipendente dalle varie scuole di psicoterapia e di pratica clinica. L'eccessiva preoccupazione di neutralità ha messo a rischio la comprensione dei dati empirici che, senza una teoria che fornisca un contesto, non hanno la possibilità di essere esaminati. L'elaborazione dei modelli teorici ha fornito il razionale per il loro trattamento psicoterapico e farmacologico
In questo contesto è di grande aiuto poterci riferire ad una teoria che giustifichi ciò che da tempo i clinici hanno messo in opera nel tentativo di curare i DDPP: l'uso di setting multipli.
La cura del paziente grave richiede cure maggiori e più articolate per la complessa realtà clinica del paziente stesso e porta alla combinazione di trattamenti diversi prescindendo dalle regole dottrinarie. In particolare pazienti con DBP tendono a richiedere più degli altri terapie combinate (Bateman e Fonagy,2004; Linehan,1993; Liotti,2001). L'uso di due trattamenti, per esempio di una psicoterapia individuale e di una farmacoterapia, può essere favorevole inducendo dei circoli virtuosi.
Se si segue il circolo virtuoso accade che si pensi che la farmacoterapia, rimuova o attenui i sintomi cognitivi, affettivi ed impulsivi ed aiuti a mitigare il caos interiore ed interpersonale. I pazienti diverrebbero quindi meno difficilmente accessibili alla cura psicoterapica ed alla possibilità di instaurare un'alleanza terapeutica. La psicoterapia può quindi intervenire per aiutare il paziente ad esplorare criticamente i significati negativi attribuiti al farmaco (che sono responsabili della scarsa compliance) e può migliorare l'adesione al trattamento farmacologico. Ma che cosa garantisce di non incorrere in un circolo vizioso? Per esempio che la proposta di farmacoterapia, attivi sintomi cognitivi, affettivi negativi e riattivi il caos interiore ed interpersonale. I pazienti diverrebbero allora difficilmente accessibili alla cura psicoterapica.
La psicoterapeuta potrebbe tentare di invitare il paziente ad esplorare criticamente i significati negativi attribuiti al farmaco per migliorare l'adesione al trattamento farmacologico ma il paziente potrebbe percepire questo negativamente con un intollerabile senso di costrizione.
Come possiamo conquistare il circolo virtuoso ed affrancarci da quello vizioso?
Un punto di forza è quello di investire sull'alleanza terapeutica.
Secondo il modello cognitivo-evoluzionista per raggiungere gli obbiettivi terapeutici si deve impostare il rapporto su collaborazione e pariteticità. il comportamento sociale è regolato da cinque sistemi di controllo a base innata(Liotti,1994):richiesta di cura,offerta di cura, sessualità,lotta per il rango, cooperazione paritetica; nel corso della relazione terapeutica possono attivarsi tutti e cinque i sistemi motivazionali interpersonali, è però il sistema paritetico collaborativo quello che permette di arrivare ad una solida alleanza terapeutica.(Liotti, 1994, 2001)
Le osservazioni di antropologia evoluzionista e di studio delle caratteristiche cognitive che differenziano i primati dagli altri mammiferi e l'uomo dagli altri primati, indicano che la tendenza innata alla cooperazione paritetica, embrionale nelle altre specie, raggiunge uno sviluppo straordinario nell'uomo (Tomasello, 1999).
La cooperazione paritetica porta a percepire l'altro come simile a sé nell'intenzionalità e capace di condividere un obiettivo.
Il terapeuta dovrebbe attivamente sollecitare l'emergere di questo SMI.
Un ostacolo al raggiungimento dell'alleanza terapeutica nei DDPP è rappresentato dall'attivazione disfunzionale di un MOI insicuro di attaccamento e, nei DBP dall'attivazione della disorganizzazione dell'attaccamento proprio nel momento in cui nella relazione verrà attivato intensamente il SMI dell'attaccamento.
Il terapeuta si troverà ad affrontare un test difficile di "allarme senza sbocco": Il paziente percepirà il terapeuta sia come fonte di aiuto che di paura; ne seguirà un peggioramento dei sintomi ed un deficit meta-rappresentazionale (delle funzioni autoriflessive della coscienza). La possibilità di rivolgersi ad un secondo terapeuta permetterà di superare simili criticità.
L'indicazione prioritaria per l'intervento articolato in un doppio setting integrato riguarda i pazienti con attaccamento disorganizzato (DBP e Disturbo dissociativo).
Perché una co-terapia funzioni è necessario che si prendano in considerazione delle regole fondamentali che porteranno all'integrazione e non all'agire parallelo dei due setting(Liotti, 2005). Inoltre gli interventi devono facilitare lo sviluppo delle tre aree di funzionamento mentale lese dalle esperienze di disorganizzazione dell'attaccamento:
1regolazione delle emozioni
2integrazione di stati mentali contraddittori in strutture sintetiche o gerarchiche
3capacità di riflettere sugli stati mentali
(Falcone-Maraffa-Carcine,2003;Beteman e Fonagy,2004)
E' necessario che terapeuti concettualizzino il caso clinico ed il processo terapeutico sulla base di un linguaggio comune, al di là delle specifiche teorie cliniche che guidano il singolo intervento. Si andrà costruendo così, in un clima di reciproca fiducia, una cooperazione paritetica fra i due terapeuti che coinvolgerà il paziente emancipandolo a soggetto anch'esso cooperante.
Il farmacologo deve avere competenze psicoterapeutiche,conoscere la storia e contesto di vita attuale del paziente per poter validare le emozioni del paziente, aiutandolo a riconoscerne senso e valore prima di intervenire farmacologicamente per modularle.
Lo psicofarmacologo si esprimerà preferibilmente in termini dimensionali, per esempio proporrà di favorire una migliore regolazione delle emozioni,
del tono dell'umore, più che categoriali di contrastare la malattia abbattendo i sintomi. Terrà conto che emozioni apparentemente simili fra loro, se sono mediate da diversi sistemi motivazionali, acquistano proprietà diverse, questo indirizzerà la scelta del farmaco, ad esempio il sentimento di vuoto che viene percepito nell'arresto del Sistema Esplorativo, mediato da neuroni dopaminergici, può essere confuso con la tristezza da separazione (Sistema Attaccamento) e curato poco adeguatamente con antidepressivi.
I neurolettici di nuova generazione, intervenendo sui sintomi positivi, così come su quelli negativi, agendo alcuni anche come modulatori del tono dell'umore, meglio si prestano ad un intervento che preveda un aproccio globale e la prevenzione considerando le caratteristiche personologiche del singolo paziente.
Si tratta di instaurare una modalità di cooperazione che solleciti l'emergere delle risorse sia del paziente che dei terapeuti per il raggiungimento di uno scopo condiviso.

Concludendo: nella cura dei pazienti con disturbo di personalità l'alto tasso di drop-out porta a considerare la continuità terapeutica come un obiettivo prioritario che non va mai dato per acquisito ma che è da riconfermare per tutto il tempo della cura. L'alleanza terapeutica va raggiunta stimolando l'emergere del sistema cooperativo paritetico che investe il paziente di un ruolo attivo e responsabile.
La necessità di un doppio setting emersa nella pratica clinica dei terapeuti dediti alla cura di questi pazienti ha trovato una spiegazione teorica e delle line guida nell'ambito della teoria etologica-evoluzionista (Liotti et al.2005).
La teoria inoltre ben si concilia con un ottica dimensionale della cura ed aiuta lo psicofarmacologo a focalizzare l'attenzione al paziente, alle sue caratteristiche individuali e al contesto in cui vive,in un approccio globale bio-psico-sociale.

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