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Dibattito post-congressuale (in quattro parti)
avvenuto dopo il

I Convegno Nazionale SEPI-Italia (Milano, 16 Marzo 2002)
Integrità e integrazione in psicoterapia

Editing a cura di Tullio Carere-Comes e Paolo Migone

Interventi: Giorgio Alberti, Sergio Benvenuto, Tullio Carere-Comes, Giovanni Liotti, Paolo Migone, Diego Napolitani

Quarta e ultima parte (gennaio 2003)

Torna al Dibattito precongressuale (in due parti)


[Nota: Questa parte del dibattito inizia con il commento di Tullio Carere al lavoro di Diego Napolitani “Da quale vertice si confrontano modelli e processi?”, presentato al I Convegno SEPI-Italia di Milano (16-3-2002) e pubblicato in Il futuro della psicoterapia tra integrità e integrazione, a cura di G.G. Alberti e T. Carere-Comes (Milano: Franco Angeli, 2003, pp. 53-61)]

Tullio Carere, 5 gennaio 2003:

Caro Diego, il filo conduttore del tuo lavoro mi sembra essere il confronto tra un <<integralismo “integrazionista” che mira a conciliare tendenze contrastanti valorizzandone il comune denominatore>> e una <<integrazione complessa, non integrista né integrazionista. Il grande modello che ci occhieggia sin dall’antichità è il dialogo maieutico (ancora una metafora ostetrica, di nascimenti) non inteso come un farti dire quel che io già so, ma un darti risposte che eccitino tue nuove domande che io raccolgo con stupore.>> Il primo modello è ispirato a un bisogno di semplificazione, cioè di riduzione del complesso al semplice, mentre il secondo è rispettoso della complessità dell'esperienza umana, e conforme a quel "mestiere impossibile" che è la psicoanalisi.

A prima vista siamo d'accordo. Io non mi sento integralista - anzi diffido non meno di te di ogni forma di integralismo - e non conosco nessun integralista nella SEPI (che se mai ha il difetto di essere sin  troppo pluralista, col rischio di diventare un semplice contenitore delle pratiche più diverse). Però so bene che molti scambiano per integralismo quel filone della ricerca nel campo dell'integrazione psicoterapeutica che è noto come "approccio dei fattori comuni", e quindi penso che proprio a questo tu ti riferisca. C'è una specie di riflesso automatico per cui non pochi, al solo sentir nominare I fattori comuni, associano la parola "integralismo", con tutta la connessa nuvola semantica di appiattimento, semplificazione, uniformizzazione. E non serve che io mi affanni a spiegare che la ricerca di fattori comuni non significa affatto negazione delle differenze, al contrario. Per esempio creare una comunità europea non significa di per sé cancellare le specificità locali, anzi: vuol dire in primo luogo darsi una base di regole e istituzioni comuni che meglio permettano agli europei di incontrarsi, comunicare, capirsi e rispettarsi reciprocamente - cosa che in ultima analisi valorizzerebbe, e non deprimerebbe, le differenze.

Mi aspetterei da te il massimo interesse per ciò che accomuna, visto che ti sta tanto a cuore il dialogo: come sarà mai possibile dialogare se in primo luogo non si comunica? E come si potrà mai comunicare se non esiste una base minima comune di esperienze, concetti per pensare queste esperienze, parole per esprimere questi concetti? Ma forse mi dirai che il dialogo "maieutico" non ha bisogno di comunicazione: l'ostetrica non deve comunicare con il bambino, deve solo metterlo al mondo. Però, Diego, io vorrei solo dialogare con i miei colleghi, non ho l'esigenza di essere messo al mondo da loro. Sono d'accordo, l'ostetrica è una delle figure possibili del dialogo psicoterapeutico (terapeuta-paziente o terapeuta-terapeuta), ma è solo una di queste figure. Quando il dialogo è egemonizzato dall'ostetrica, si salvi chi può, come in quei dialoghi platonici in cui Socrate procede come un tritasassi e al malcapitato interlocutore non resta che balbettare "e come no?" quando Socrate si ferma per riprendere fiato (ricordo che al liceo usavamo proprio questa formula, oudé ti, come no, per fare il verso a chi partiva per una tangente maieutica).

Del resto, se vogliamo orientarci in questa complessità, qualche semplificazione è inevitabile. La metafora maieutica è una di queste, e come tutte le semplificazioni può essere utile, a patto che non si allarghi troppo. Se l'ostetrica accetta di essere una delle figure del teatrino della terapia, va benissimo; ma se pretende di essere la figura dominante, o addirittura la figura esclusiva, è scontato che si scontrerà con tutte le altre, e soprattutto con quelle che come lei pretendono l'egemonia. In primo luogo con lo "scienziato" (galileiano-popperiano) e con il "medico" (che ha o aspira ad avere nella sua borsa una procedura per ogni disturbo). 

Non si tratta di trovare un "minimo comun denominatore" tra l'ostetrica e il medico (e tutte le altre: il padre, la madre, l'artista...), ma di riconoscere che diverse figure sono chiamate a entrare in scena in risposta ai diversi bisogni relazionali attivati dal processo della terapia. Ricordi la "democrazia degli affetti" di Fornari? Di qualcosa del genere mi sembra che abbiamo bisogno: una collaborazione paritetica tra diverse figure "coinemiche" che rinuncino a tiranneggiarsi o a farsi fuori l'una con l'altra. E poi forse, in futuro, quando il diritto a esistere del medico, dell'ostetrica e di tutte le altre figure sarà finalmente riconosciuto, si potrà anche pensare a una forma di organizzazione che aiuti a capire quando è il momento dell'entrata in scena del medico, quando  quello dell'ostetrica e di tutti gli altri. Nel frattempo sarà già molto se riusciremo a ottenere che i fautori dell'approccio maieutico, quelli dell'approccio galileiano e tutti gli altri si siedano attorno allo stesso tavolo senza prendersi a male parole e senza cercare di sopraffarsi l'un l'altro. Conto molto, Diego, sulla tua presenza a questo tavolo. Un caro saluto, Tullio 

Diego Napolitani, 12 gennaio 2003:

Caro Tullio, ti soffermi su una figura e su un momento del mio discorso, quello relativo alla maieutica che reifichi fino al punto di parlare di ostetriche che minacciano di egemonizzare il campo relazionale litigando con medici, maghi, e con "tutti gli altri". La metafora da me usata non intende "tritare sassi" ma dare uno spessore esemplificativo a tutto il discorso precedente che parte dalla domanda: "Quale bisogno porta il paziente in analisi?" Ritengo che il senso comune, fuori da ogni ideologia, ci consenta di accomunarci tutti per questa domanda. Quando usavo l'immagine della tela tagliata di Fontana avanzavo l'ipotesi che l'artista ponesse con questa sua opera una domanda implicita a chi andava a "visitarlo" e che il comportamento di costui gli avrebbe dato una risposta consona solo se fosse consistita in un commentario che lo avrebbe in qualche modo aiutato ad andare avanti nel suo personale processo di differenziazione. Ma se la "visita" si fosse risolta in un rimedio dell'oggettivo squarcio, quali che fossero gli strumenti e le tecniche adoperate, Fontana, come persona, si sarebbe sentito mutilato della sua espressività.  Quel che io sostengo è che per lo più la sofferenza mentale non è vissuta dal suo portatore come una sua propria "costruzione" di cui egli stesso ha smarrito il senso, ed in questa insensatezza egli la vive appoggiandosi all'equazione sofferenza = malattia (ovvero incapacità, debolezza, perdita irrimediabile e simili). In questa ottica il nostro "visitare" il paziente dovrebbe consistere in un'osservazione non del suo  comportamento a sé stante, ma della relazione che sin dal primo contatto si va creando tra noi. Tra le maglie di questa relazione può apparire prima o poi il filo d'Arianna che ci consente di uscire dal labirinto della sua esistenza e quindi della nostra stessa relazione. Il filo d'Arianna è il senso (la direzione) della sua fin lì insensata domanda d'analisi: afferrare questo filo è costruire una domanda.

Per tutti coloro che non interrogano la domanda perché già "sanno" sia la natura della domanda sia la risposta confacente, non si pone il problema: se li invitiamo ad un dialogo questionante loro sentono questo invito come una manciata di sabbia negli occhi. E chi non sopporta una messa in discussione del proprio fondamento si dichiara di fatto un "fondamentalista". So che nell'affermare che lo stile esistenziale di ciascuno è l'esito di una sua co-costruzione col proprio mondo esprimo una mia scelta che consiste nella  mia adesione ad una visione complessa dei processi, in particolare di quelli di cui ci occupiamo professionalmente: un sistema è complesso (e non "semplicemente" complicato, come qualcuno nella corrispondenza - non ricordo chi - ha ingenuamente insinuato) quando presenta emergenze non prevedibili, e quindi non controllabili nei termini di quella "regolarità" scientifica applicabile a fenomeni "regolari" e quindi prevedibili nella loro consequenzialità lineare. Lo studio e il maneggiamento di fenomeni complessi richiede l'utilizzazione di concetti costruiti sulla coniugazione di causa e caso, di oggettivismo e soggettivismo, di chiusure sul già stato e di aperture sul non ancora, di definizioni in "K" e di fede in "O" (per ricordare il Bion che tu citi così spesso). Si tratta di muoversi nell'ambito di una nuova epistemologia che non tratti il pensiero scientifico sperimentale come "moderno" rispetto ad un pensiero fenomenologico indicato come "post-moderno", pensieri che nella tradizione occidentale si rifiutano squalificandosi reciprocamente.

La "sfida della complessità" consiste proprio nel prospettarsi un pensiero non rigidamente ancorato ad alcun fondamento con pretesa di stabilità metastorica, di assolutezza di una propria verità universale. Il dialogo in questo ambito ha già un suo accordo di fondo, un metalinguaggio che fa da comune denominatore agli idiomi personali e disciplinari di ciascuno, necessariamente diversi. Non credo che ci sia un terreno comune tra chi circoscrive il proprio orizzonte nell'ambito di un pensiero sperimentale e chi lo circoscrive in quello esperienziale-fenomenologico: l'unico eventuale terreno comune potrebbe essere rappresentato da una domanda partecipata sulla natura, i vincoli, le garanzie e i limiti di ogni fondamento. Non mi  sembra di aver colto in nessuno dei partecipanti allo scambio epistolare da te tanto appassionatamente promosso e sostenuto un interesse su questo tema. Temo che la ricerca di "fattori comni" nelle diverse pratiche psicoterapiche o si risolve in enunciati del tutto generici o eccita dichiarazioni di fedeltà nei propri "credo" che si trasformano facilmente in dichiarazioni di guerra contro gli "infedeli". Può, secondo te, essere indicativo di una profonda diffidenza il fatto che nessuno abbia fatto cenno al mio lavoro, da te inviato a tutti? Ti saluto caramente, Diego.

Tullio Carere, 14 gennaio 2003:

Caro Diego, ti ringrazio molto del tuo messaggio, che attendevo con impazienza. Ho bisogno della tua 'sfida della complessità' per bilanciare quella scientifico-sperimentale, galileiano-popperiana, finora dominante nel nostro dibattito. Tu scrivi:
>Caro Tullio, ti soffermi su una figura e su un momento del mio discorso, quello relativo
>alla maieutica che reifichi fino al punto di parlare di ostetriche che
>minacciano di egemonizzare il campo relazionale litigando con medici, maghi,
>e con "tutti gli altri". La metafora da me usata non intende "tritare sassi"
>ma dare uno spessore esemplificativo a tutto il discorso precedente che
>parte dalla domanda: "Quale bisogno porta il paziente in analisi?" Ritengo
>che il senso comune, fuori da ogni ideologia, ci consenta di accomunarci
>tutti per questa domanda. Quando usavo l'immagine della tela tagliata di
>Fontana avanzavo l'ipotesi che l'artista ponesse con questa sua opera una
>domanda implicita a chi andava a "visitarlo" e che il comportamento di
>costui gli avrebbe dato una risposta consona solo se fosse consistita in un
>commentario che lo avrebbe in qualche modo aiutato ad andare avanti nel suo
>personale processo di differenziazione. Ma se la "visita" si fosse risolta
>in un rimedio dell'oggettivo squarcio, quali che fossero gli strumenti e le tecniche
>adoperate, Fontana, come persona, si sarebbe sentito mutilato della sua espressività. 

Perché dici che reifico la figura dell'ostetrica? In realtà concordo pienamente con te sul fatto che la metafora maieutica dà <<spessore esemplificativo a tutto il discorso precedente che parte dalla domanda: "Quale bisogno porta il paziente in analisi?">>. E sono quasi completamente d'accordo anche sul fatto che ogni nostro discorso deve partire da questa domanda. Dico 'quasi' perché a mio parere la domanda andrebbe leggermente corretta, usando il numero plurale: "Quali bisogni porta il paziente in analisi?". (Avrei anche un'altra piccola correzione da proporre: "Quali bisogni porta il paziente in terapia?" il senso di questa seconda correzione sarà più chiaro fra poco). Se vogliamo stare nel sapere di non sapere che fonda il dialogo socratico (e lo caratterizza in modo più radicale, a mio parere, della metafora maieutica che pure gli appartiene), la prima cosa che abbiamo il dovere di non sapere è se ciò che porta un determinato paziente in analisi è un bisogno solo o una pluralità di bisogni. Se ammettiamo che l'essere umano può essere spinto a cercare l'incontro con i suoi simili da una molteplicità di bisogni, reali o immaginari, attuali o arcaici, infantili o adulti, coscienti o inconsci, psicologici o spirituali, e che l'uno o l'altro di questi bisogni può essere prevalente in qualsiasi momento della sua storia, allora dovremo in primo luogo cercare di capire qual è il bisogno, o più probabilmente la costellazione di bisogni, che muove il nostro paziente in un dato momento; e in secondo luogo dovremo chiederci quali risposte sarà possibile, giusto e opportuno tentare di dare a questi diversi bisogni. 

Senza imbarcarci in una teoria generale dei bisogni, basterà osservare (come è stato fatto in un dibattito recente su Psychomedia che forse hai seguito) che ogni paziente porta in terapia o in analisi delle richieste sia esplicite sia implicite. E' stato osservato in quel dibattito che il terapeuta di formazione analitica tende a privilegiare la richiesta implicita, mentre quello di formazione cognitivo-comportamentale privilegia la richiesta esplicita. In parole semplici: ogni paziente porta in terapia (o in analisi) dei 'disturbi' dei tipi più diversi, e chiede di esserne liberato. Il terapeuta cognitivo-comportamentale tende a prendere alla lettera questa richiesta (esplicita), e a rispondere di conseguenza in un modo che la metafora del medico mi sembra descrivere adeguatamente, cioè 'somministrando' quelle procedure che la ricerca empirica ha mostrato efficaci per la cura di quei disturbi (di qui il suo forte interesse per la diagnostica). Al contrario, il terapeuta di formazione analitica tende a rispondere nel modo che tu così bene descrivi:
> Quel che io sostengo è che per lo più la sofferenza mentale non è vissuta
> dal suo portatore come una sua propria "costruzione" di cui egli stesso ha
> smarrito il senso, ed in questa insensatezza egli la vive appoggiandosi
> all'equazione sofferenza = malattia (ovvero incapacità, debolezza, perdita
> irrimediabile e simili). In questa ottica il nostro "visitare" il paziente
> dovrebbe consistere in un'osservazione non del suo  comportamento a sé
> stante, ma della relazione che sin dal primo contatto si va creando tra noi.
> Tra le maglie di questa relazione può apparire prima o poi il filo d'Arianna
> che ci consente di uscire dal labirinto della sua esistenza e quindi della
> nostra stessa relazione. Il filo d'Arianna è il senso (la direzione) della sua
> fin lì insensata domanda d'analisi: afferrare questo filo è costruire una domanda. 
> Per tutti coloro che non interrogano la domanda perché già "sanno" sia la
> natura della domanda sia la risposta confacente, non si pone il problema: se
> li invitiamo ad un dialogo questionante loro sentono questo invito come una
> manciata di sabbia negli occhi. E chi non sopporta una messa in discussione
> del proprio fondamento si dichiara di fatto un "fondamentalista".
 
Rifiutando l'equazione sofferenza = malattia, l'analista non è interessato a curare un disturbo (reificato da un manuale diagnostico-statistico in una serie di entità psicopatologiche, a ciascuna delle quali corrisponderà idealmente un  appropriato trattamento empiricamente supportato), ma a cogliere il significato di un malessere nel vissuto relazionale, e soprattutto in quello spazio privilegiato che è la relazione analitica. Però, Diego, ti domando: se noi non vogliamo essere tra <<coloro che non interrogano la domanda perché già "sanno" sia la natura della domanda sia la risposta confacente>>, non ti sembra che, per coerenza con il nostro non sapere, dovremmo dubitare in primo luogo del nostro 'sapere' che il senso della domanda sia quello implicito, cioè quello indagato dagli analisti piuttosto che quello preferito dai comportamentisti? Perché non ammettere che una certa persona in un certo momento della sua vita possa venire da noi per avere proprio quello che esplicitamente ci chiede, cioè, per esempio, essere liberata nel più breve tempo possibile dai suoi attacchi di panico? E non è possibile che proprio curando un disturbo riusciremo a capirne meglio il significato profondo così come, inversamente, proprio indagando il significato profondo di un disturbo riusciremo a curarlo? Non è possibile, in altre parole, che tra le due dimensioni della domanda, quella esplicita e quella esplicita, si possa stabilire una dialettica costruttiva, un circolo virtuoso in cui il lavoro su un piano facilita, invece di ostacolare, il lavoro sull'altro? Nel nostro 'non sapere' non dovremmo almeno ammettere questa possibilità?
 
> So che nell'affermare che lo stile esistenziale di ciascuno è l'esito di una
> sua co-costruzione col proprio mondo esprimo una mia scelta che consiste
> nella  mia adesione ad una visione complessa dei processi, in particolare di
> quelli di cui ci occupiamo professionalmente: un sistema è complesso (e non
> "semplicemente" complicato, come qualcuno nella corrispondenza - non ricordo
> chi - ha ingenuamente insinuato) quando presenta emergenze non prevedibili,
> e quindi non controllabili nei termini di quella "regolarità" scientifica
> applicabile a fenomeni "regolari" e quindi prevedibili nella loro consequenzialità lineare.
> Lo studio e il maneggiamento di fenomeni complessi richiede l'utilizzazione
> di concetti costruiti sulla coniugazione di causa e caso, di oggettivismo e
> soggettivismo, di chiusure sul già stato e di aperture sul non ancora, di
> definizioni in "K" e di fede in "O" (per ricordare il Bion che tu citi così
> spesso). Si tratta di muoversi nell'ambito di una nuova epistemologia che
> non tratti il pensiero scientifico sperimentale come "moderno" rispetto ad
> un pensiero fenomenologico indicato come "post-moderno", pensieri che nella
> tradizione occidentale si rifiutano squalificandosi reciprocamente.

Su questo sono d'accordo con te: occorre muoversi verso il superamento di queste dicotomie che non rendono giustizia alla complessità dei fenomeni di cui ci occupiamo. Sul modo di questo superamento invece non mi è del tutto chiaro che cosa hai in mente. Quando parli di coniugazione di causa e caso, soggettivismo e oggettivismo, K e O, ho l'impressione che tu intenda superare le dicotomie trasformandole in opposizioni dialettiche. Se è questo che intendi, siamo sulla stessa linea di ricerca.

> La "sfida della complessità" consiste proprio nel prospettarsi un pensiero
> non rigidamente ancorato ad alcun fondamento con pretesa di stabilità
> metastorica, di assolutezza di una propria verità universale. Il dialogo in
> questo ambito ha già un suo accordo di fondo, un metalinguaggio che fa da comune
> denominatore agli idiomi personali e disciplinari di ciascuno, necessariamente diversi.

Mi piacerebbe sapere qualcosa di più di questo accordo di fondo e di questo metalinguaggio.

> Non credo che ci sia un terreno comune tra chi circoscrive il proprio
> orizzonte nell'ambito di un pensiero sperimentale e chi lo circoscrive in
> quello esperienziale-fenomenologico: l'unico eventuale terreno comune
> potrebbe essere rappresentato da una domanda partecipata sulla natura, i
> vincoli, le garanzie e i limiti di ogni fondamento. Non mi  sembra di aver
> colto in nessuno dei partecipanti allo scambio epistolare da te tanto
> appassionatamente promosso e sostenuto un interesse su questo tema.
> Temo che la ricerca di "fattori comuni" nelle diverse pratiche psicoterapiche
> o si risolve in enunciati del tutto generici o eccita dichiarazioni di fedeltà nei propri
> "credo" che si trasformano facilmente in dichiarazioni di guerra contro gli "infedeli".

E' infatti impensabile trovare dei fattori comuni o un terreno comune se non accettiamo di mettere in gioco i fondamenti epistemologici dei diversi discorsi che segmentano il nostro campo. Ma il tuo modo di intendere la complessità non mi è del tutto chiaro. Per certi aspetti il tuo approccio mi sembra capace di accogliere le contraddizioni in modo propriamente dialettico, cioè in quel modo in cui i contrari sono superati e nello stesso tempo conservati, ciascuno nella sua legittimità. Per altri invece trovo la tua posizione poco dialettica, come quando descrivi <<l'affanno definitorio della diagnostica, l'ancoraggio alle "prove" statistiche, l'avvitamento sui meccanismi di guarigione e sull'efficacia "oggettiva" delle pratiche d’aiuto, l’apparente trionfo della psicofarmacologia e delle psicoterapie comportamentiste e linearmente cognitiviste>> (nel breve testo che mi hai mandato ieri). In questi, che sono i tratti salienti del 'modello medico-scientifico', sembra che tu non veda un aspetto parziale, ma del tutto legittimo e anzi necessario della ricerca nel nostro campo, bensì una sorta di errore o deviazione, qualcosa da rifiutare in blocco per tornare a fare della "buona analisi". Spero di sbagliarmi: se tu non condannassi come scientistico il modello medico-scientifico in quanto tale, ma solo la sua pretesa egemonica, allora saremmo d'accordo. 

> Può, secondo te, essere indicativo di una profonda diffidenza il fatto che
> nessuno abbia fatto cenno al mio lavoro, da te inviato a tutti?

L'impressione, che spero errata, di una tua posizione liquidatoria non dialettica né dialogica nei confronti dell'atteggiamento scientifico tradizionale, galileiano-popperiano, può avere allontanato i colleghi finora intervenuti da un confronto con te. Ma spero che saranno loro a risponderti. Un carissimo saluto anche da me, Tullio 

Paolo Migone, 15 gennaio 2003:

Scrive Diego a Tullio:
>Può, secondo te, essere indicativo di una profonda diffidenza il fatto che
>nessuno abbia fatto cenno al mio lavoro, da te inviato a tutti?
 
Risponde Tullio a Diego:
>L'impressione, che spero errata, di una tua posizione liquidatoria - non
>dialettica né dialogica - nei confronti dell'atteggiamento scientifico
>tradizionale, galileiano-popperiano, può avere allontanato i colleghi finora
>intervenuti da un confronto con te. Ma spero che saranno loro a risponderti.
 
Caro Diego, ti ringrazio della tua e-mail fatta circolare da Tullio, che, come sempre, ho letto con interesse. Per la verità io avevo letto il tuo scritto e avevo fatto un commento, seppur breve, nella mia e-mail del 5-1-2003. Ricopio comunque quel brano della mia e-mail del 5-1-2003, correggendo anche un errore di battitura che solo ora vedo:
>Riguardo alla casualità o al ruolo del cosiddetto "caso", citato da Diego 
>Napolitani nella sua relazione, ritengo sia una variabile come un'altra 
>(oltretutto con grandi utilità evoluzionistiche, guarda "caso", altrimenti 
>i giochi rischierebbero di essere sempre gli stessi), e che (come peraltro 
>mi sembra di capire intenda lo stesso Diego) "l’irrazionalità [va] intesa 
>non come non-razionalità ma come oltre la razionalità articolata in 
>categorie definite", in altre parole la complessità ha le sue regole "complesse" e "definite".
>La sfida del (talvolta necessario) riduzionismo scientifico non è mai 
>stata quella di cercare di capire meno, ma casomai di capire qualcosina di più.

Un caro saluto. Paolo

Giovanni Liotti, 15 gennaio 2003:

Mi fa tanto piacere avere l'opportunità di dire a Tullio che ha espresso molto bene quello che anche io avrei detto a Napolitani se non fossi stato simultaneamente troppo impegnato nella polemica con Tullio stesso. Mi riferisco a queste notazioni di Tullio, con le quali concordo e la cui sintetica chiarezza ammiro:
"Perché non ammettere che una certa persona in un certo momento della sua vita possa venire da noi per avere proprio quello che esplicitamente ci chiede, cioè, per esempio,essere liberata nel più breve tempo possibile dai suoi attacchi di panico?  E non è possibile che proprio curando un disturbo riusciremo a capirne meglio il significato profondo così come, inversamente, proprio indagando il significato profondo di un disturbo riusciremo a curarlo? Non è possibile, in altre parole, che tra le due dimensioni della domanda, quella esplicita e quella esplicita, si possa stabilire una dialettica costruttiva, un circolo virtuoso in cui il lavoro su un piano facilita, invece di ostacolare, il lavoro sull'altro?"

Aggiungerei che accogliere la richiesta esplicita del paziente, quando essa sia eticamente accettabile e non paradossale o contraddittoria, ed anche quando si intuisce che esistono dietro essa importanti e diversi bisogni impliciti da esplorare, può costituire un significativo atto empatico, può facilitare una indispensabile alleanza terapeutica, e così via.

Un altro tema: Se non ho risposto prima alle sollecitazioni di Diego Napolitani  è anche perché non avevo la forza ed il tempo di aprire un altro fronte polemico, relativo all'uso troppo libero del pensiero metaforico nel dialogo con i Colleghi e nelle argomentazioni teoriche, un uso o forse un abuso che a volte si ravvisa fra i sostenitori della priorità dell'ermeneutica nel lavoro psicoterapeutico.

Credo che le metafore, anche se belle, debbano però essere distinte in base ad almeno quattro classi non estetiche: 1) utili per la migliore comprensione ed estensione di una qualsiasi struttura di significato; 2) non pertinenti rispetto a tale scopo; 3) fuorvianti; 4) capziose.

La metafora della maieutica mi sembra appartenere alla prima categoria.  Ma questa è un'impressione gravata da un giudizio di parte. Infatti, come credo sapete bene, il modo per definire la più consigliata e consigliabile modalità di dialogo clinico nelle terapie cognitive consiste nel chiamarlo "dialogo socratico". La metafora del taglio di Fontana, invece, e senza pregiudizi di parte, così ad occhio, rispetto al tema del nostro dialogo mi sembrava appartenere alla terza o forse alla quarta categoria. Ho avuto la tentazione di argomentare questa impressione. Però non volevo, e non voglio, impegnarmi in una polemica sull'uso troppo liberale del pensiero metaforico. Per un poco, di polemiche ne ho avuto abbastanza. A presto, Gianni

Tullio Carere, 17 gennaio 2003:

On 15-01-2003, Giovanni Liotti wrote:
> Mi fa tanto piacere avere l'opportunità di dire a Tullio che ha espresso
> molto bene quello che anche io avrei detto a Napolitani se non fossi stato
> simultaneamente troppo impegnato nella polemica con Tullio stesso. (…)
> Aggiungerei che accogliere la richiesta esplicita del paziente, quando essa
> sia eticamente accettabile e non paradossale o contraddittoria, ed anche
> quando si intuisce che esistono dietro essa importanti e diversi bisogni
> impliciti da esplorare, può costituire un significativo atto empatico, può
> facilitare una indispensabile alleanza terapeutica, e così via.

Grazie a Diego, che ha permesso a Gianni e a me di ritrovarci uniti nel disaccordo con lui.

> Un altro tema: Se non ho risposto prima alle sollecitazioni di Diego
> Napolitani  è anche perché non avevo la forza ed il tempo di aprire un altro
> fronte polemico, relativo all'uso troppo libero del pensiero metaforico nel
> dialogo con i Colleghi e nelle argomentazioni teoriche, un uso o forse un
> abuso che a volte si ravvisa fra i sostenitori della priorità
> dell'ermeneutica nel lavoro psicoterapeutico.
> Credo che le metafore, anche se belle, debbano però essere distinte in
> base ad almeno quattro classi non estetiche: 1) utili per la migliore
> comprensione ed estensione di una qualsiasi struttura di significato; 2) non
> pertinenti rispetto a tale scopo; 3) fuorvianti; 4) capziose.
> La metafora della maieutica mi sembra appartenere alla prima categoria.
> Ma questa è un'impressione gravata da un giudizio di parte. Infatti, come
> credo sapete bene, il modo per definire la più consigliata e consigliabile modalità
> di dialogo clinico nelle terapie cognitive consiste nel chiamarlo "dialogo socratico".

Grazie a Socrate, che ha permesso a Diego, a Gianni e a me di trovarci d'accordo almeno in una cosa.

> La metafora del taglio di Fontana, invece, e senza pregiudizi di parte, così ad occhio, 
> rispetto al tema del nostro dialogo mi sembrava appartenere alla terza o forse alla quarta categoria. 

E infine grazie a Fontana, che forse con i suoi tagli ci permetterà di illuminare un punto di fondamentale incomprensione tra i due schieramenti. Non credo, Gianni, che questa metafora sia da mettere nella terza o quarta categoria della tua classificazione. Per me è una metafora di primissimo ordine, e mi dispiace che Diego nel suo scritto non l'abbia sviluppata un po' meglio, come invece aveva fatto a voce al Congresso di Milano. Se non ricordo male, in quell'occasione Diego aveva detto che al centro di ogni uomo c'è un taglio di Fontana: il taglio come metafora della mancanza primaria, essenziale e costitutiva dell'essere umano.

Per tentare di capirci si può provare a ripartire da Kierkegaard, il capostipite di tutti i terapeuti di orientamento ermeneutico-esistenziale. Kierkegaard aveva scritto nel 'Concetto dell'angoscia' che il nevrotico, grazie alla sua angoscia, è più vicino alla verità della persona normale, perché l'angoscia lo porta nelle vicinanze o sull'orlo di quel vuoto su cui l'esistenza umana sta sospesa. Se non si fugge da quell'orlo, la scelta è radicale: la disperazione o la fede. La disperazione se si crede che l'annientamento di tutto ciò che conta nella vita ordinaria sia la fine di tutto; la fede se si intravede nella perdita di sè una possibilità di rigenerazione e rinascita, come già indicavano i nostri progenitori sciamani. La bioniana F in O non è altro che questo. 

Su questo sfondo, Gianni, puoi capire il senso della metafora di Diego. La sofferenza nevrotica, da un punto di vista esistenziale, ha la sua radice nell'angoscia fondamentale della mancanza, nel 'taglio di Fontana', appunto. Cercare di 'curare un disturbo' in un'ottica medica equivale, in questa prospettiva, a perdere di vista il suo senso profondo, il suo significato esistenziale: come mettersi a cucire il taglio di Fontana. 

Diego sbaglia, secondo noi, se pensa che il lavoro al livello della domanda implicita escluda quello al livello della domanda esplicita: per noi i due livelli non solo non si escludono, ma possono molto utilmente integrarsi, come abbiamo visto. Però ha ragione, secondo me, di richiamare l'attenzione su quella dimensione fondamentale del lavoro terapeutico che la metafora del taglio di Fontana mi sembra ben indicare, e che non mi sembra invece trovare un riscontro adeguato nell'orizzonte medico-scientifico. Il fatto che per ora ci intendiamo bene sulla necessità di una circolazione virtuosa tra i livelli esplicito ed implicito della domanda è già un risultato importantissimo. Forse arriveremo, prima o poi, a intenderci anche su di un'altra polarità, quella tra un approccio scientifico classico, fondato sulla corroborazione/falsificazione di congetture, e approccio che possiamo chiamare del nuovo paradigma scientifico della complessità, fondato sullo studio delle condizioni facilitanti quegli eventi imprevedibili che Stern chiama i 'now moments'.

Tornerò su questo punto rispondendo a un tuo messaggio precedente, quello in cui mi dici:
> Attendo da te di conoscere, magari nel prossimo congresso in rete, quali
> forme di integrazione di diverse teorie e prassi, derivanti da diverse
> tradizioni  psicoterapeutiche, siano state ottenute finora col metodo
> ermeneutico o con quello che tu definisci metodo dialogico (anche su ciò che
> si può definire "dialogo" abbiamo opinioni assai diverse)

Giovanni Liotti, 18 gennaio 2003:

Caro Tullio, lieto anche io e grato a Napolitani per l'occasione di soffermarci su alcuni punti di accordo. Anche a me la metafora del "taglio" di Fontana,  ESTETICAMENTE, piace (e ricordo bene l'intervento di Napolitani a Milano). Tuttavia usarla come metafora della psicopatologia e della psicoterapia continua a sembrarmi quanto meno fuorviante. Non è affatto evidente che si possa estendere dalla mancanza di continuità dell'esperienza caratteristica della condizione umana alla sofferenza "nevrotica".  Mi parrebbe dunque opportuno chiedersi perché alcuni, a partire dall'universale "taglio", sviluppino sofferenza "nevrotica" (o borderline o psicotica) ed altri no, prima di suggerire, attraverso la metafora, il sospetto che le tecniche terapeutiche capaci di ridurre tale sofferenza equivalgano a "cucire" il taglio.

La "mancanza primaria, essenziale e costitutiva" di ogni essere umano c'è tanto nei nostri pazienti quanto in chi non ha bisogno alcuno di aiuto psicoterapeutico.  Inoltre, suggerire che la psicoterapia debba equivalere alla cura d'anime, e spingere a guardare in quel vuoto per conquistare una fede, mi sembra una petizione di principio. Né credo che invocare l'autorità di Kierkegaard dimostri ipso facto che, come tu baldanzosamente affermi, "il nevrotico, grazie alla sua angoscia, è più vicino alla verità della persona normale, perché l'angoscia lo porta nelle vicinanze o sull'orlo di quel vuoto su cui l'esistenza umana sta sospesa".

Mi sai fornire una ragione per cui io debba credere a questa tesi, anziché a quella di alcuni esponenti del pensiero Buddhista, che asserisce il contrario ("Si deve essere qualcuno prima di diventare nessuno", dice qualche Buddhista a proposito di quel "vuoto" che è "taglio di Fontana" e "porta della verità"? )? Le mie superficiali letture dei mistici Sufi, appassionati cantori delle "Mancanza", mi hanno permesso di trovare anche lì abbondanti argomenti a favore dell'idea che il nevrotico sia, in genere, più lontano dalla Verità della persona normale, e debba diventare una persona normale prima di addentrarsi nel cammino mistico (mentre nessuno si sogna di far diventare nevrotico un normale, come pedaggio preliminare da pagare per l'iniziazione mistica). E dico questo avendo ben presente il caso di mistici che sono partiti da una nevrosi (ma per loro fortuna non da una psicoterapia), a cominciare dall'illustre esempio di San Francesco.

Ma giustamente Petrella a Milano si è seccato per tutto questo parlare di misticismo in un convegno sulla psicoterapia. Ed io ne parlo, qui come a Milano, solo per rifiutare con crescente decisione la commistione, basata su argomenti derivanti dalle tradizioni mistiche, fra i due aspetti dell'esperienza umana "vuoto esistenziale su cui sporgersi per arrivare alla verità" e "disturbo nevrotico" commistione che tu e Napolitani invece sembrate trovare convincente o desiderabile. Ne parlo per rifiutarla non da una posizione scientista, ma da quella di un essere umano che i mistici ha avuto motivo di leggerli e stimarli.

Se non esiste motivo per cui psicoterapeuti e mistici debbano credere ciò che tu ami credere, e cioè che "la sofferenza nevrotica, da un punto di vista esistenziale, ha la sua radice nell'angoscia fondamentale della mancanza", se cioè alcuni psicoterapeuti e alcuni mistici POSSONO LEGITTIMAMENTE credere che abbia radice da tutt'altra parte (ad esempio nel fatto di essere stati vittime di abusi e neglect nell'infanzia), tutto l'argomento che mira a suggerire la tesi <<curare un disturbo nell'ottica medica =  cucire il "taglio di Fontana">> appare capzioso. Non è che usando tanto liberalmente le metafore, anche quelle belle, si convince chi è di diversa e meditata opinione. Non è, mi pare, mai accaduto nell'intera storia dell'umanità. Ci vogliono ben altri argomenti. Un caro saluto, Gianni

Tullio Carere, 20 gennaio 2003:

On 18-01-2003, Giovanni Liotti wrote:
> Caro Tullio, lieto anche io e grato a Napolitani per l'occasione di soffermarci su
> alcuni punti di accordo.
> Anche a me la metafora del "taglio" di Fontana,  ESTETICAMENTE, piace (e
> ricordo bene l'intervento di Napolitani a Milano). Tuttavia usarla come
> metafora della psicopatologia e della psicoterapia continua a sembrarmi
> quanto meno fuorviante. Non è affatto evidente che si possa estendere dalla
> mancanza di continuità dell'esperienza caratteristica della condizione umana
> alla sofferenza "nevrotica".  Mi parrebbe dunque opportuno chiedersi perché
> alcuni, a partire dall'universale "taglio", sviluppino sofferenza
> "nevrotica" (o borderline o psicotica) ed altri no, prima di suggerire,
> attraverso la metafora, il sospetto che le tecniche terapeutiche capaci di
> ridurre tale sofferenza equivalgano a "cucire" il taglio.
>   La "mancanza primaria, essenziale e costitutiva" di ogni essere umano
> c'è tanto nei nostri pazienti quanto in chi non ha bisogno alcuno di aiuto
> psicoterapeutico.  Inoltre, suggerire che la psicoterapia debba equivalere
> alla cura d'anime, e spingere a guardare in quel vuoto per conquistare una
> fede, mi sembra una petizione di principio. Né credo che invocare l'autorità
> di Kierkegaard dimostri ipso facto che, come tu baldanzosamente affermi,
> <<il nevrotico, grazie alla sua angoscia, è più vicino alla verità della
> persona normale, perché l'angoscia lo porta nelle vicinanze o sull'orlo di
> quel vuoto su cui l'esistenza umana sta sospesa>>.
> Mi sai fornire una ragione per cui io debba credere a questa tesi, anziché a
> quella di alcuni esponenti del pensiero Buddhista, che asserisce il
> contrario ("Si deve essere qualcuno prima di diventare nessuno", dice
> qualche Buddhista a proposito di quel "vuoto" che è "taglio di Fontana" e
> "porta della verità"? )? Le mie superficiali letture dei mistici Sufi,
> appassionati cantori delle "Mancanza", mi hanno permesso di trovare anche lì
> abbondanti argomenti a favore dell'idea che il nevrotico sia, in genere, più
> lontano dalla Verità della persona normale, e debba diventare una persona
> normale prima di addentrarsi nel cammino mistico (mentre nessuno si sogna di
> far diventare nevrotico un normale, come pedaggio preliminare da pagare per
> l'iniziazione mistica). E dico questo avendo ben presente il caso di mistici
> che sono partiti da una nevrosi (ma per loro fortuna non da una
> psicoterapia), a cominciare dall'illustre esempio di San Francesco.

Caro Gianni, prima di tutto, permettimi di correggere una tua impressione: la tesi che il nevrotico sia più vicino del normale alla verità è di Kierkegaard, non è una mia 'baldanzosa affermazione'. Quello che io penso è che sia basilare confrontarsi con la 'mancanza essenziale', che uno ci arrivi per via 'normale' o per via 'nevrotica'. Il 'nevrotico', inteso come la persona afflitta da disturbi che conveniamo di chiamare nevrotici, può essere costretto a questo confronto dalla sua sofferenza, mentre il 'normale', non avendo questa motivazione, può più facilmente sottrarvisi.

La letteratura sullo sciamanismo registra sistematicamente il fatto che il candidato sciamano è di regola un giovane più o meno disadattato o psicopatico, e i dati della letteratura psicoanalitica non sono molto differenti (il candidato 'normale' è spesso definito 'normopatico', con il sottinteso che un candidato 'normale' difficilmente diventerà un buon analista). Confrontarsi con quel 'taglio' è doloroso o, inversamente, solo il dolore fisico o mentale permette di fare una esperienza vissuta sulla propria pelle di quel 'taglio'. Chi ha la 'fortuna' di 'star bene', per aver provato sulla propria pelle solo taglietti superficiali, difficilmente sentirà la necessità ineludibile di confrontarsi con quel vuoto senza fondo. 

Quanto alla tesi buddhista "You have to be somebody, before you can be nobody", la condivido pienamente, ma non la trovo in contraddizione con quanto afferma Kierkegaard. E' una tematica che in campo psicoanalitico è stata affrontata soprattutto da Erikson (bisogna aver costruito un ego sufficientemente solido e compatto per potersi permettere di metterlo in gioco). Personalmente conosco diverse persone portatrici di disturbi minuziosamente elencati nel DSM-IV, che sono tuttavia incomparabilmente più consapevoli e mature della media dei cosiddetti 'normali'. L'equivoco, probabilmente, consiste nel confondere il 'normale' con il 'sano'. Il 'normale', nel senso di ciò che nella società 'normale' è considerato 'normale', corrisponde per lo più a ciò che io chiamerei 'normaloide' o 'normopatico'. 

Di conseguenza, la categoria della 'normalità' è per me molto poco significativa. Quello che mi interessa molto di più è se una persona è o non è impegnata in un processo di formazione o maturazione permanente, e nel caso sia portatrice di disturbi o problemi di qualsiasi natura (come tutti noi poco o tanto siamo), mi interessa soprattutto capire in che modo questi disturbi o problemi si inquadrano nel processo esistenziale globale di questa persona. Non cercherei mai di 'normalizzare' una persona prima di aver capito a sufficienza il significato del suo problema o disturbo nel suo processo maturativo.

Del resto sono convinto, Gianni, che anche tu ti muovi allo stesso modo. Quello che mi disorienta e non capisco, nelle discussioni con te, è che tu sembri considerare il lavoro terapeutico essenzialmente in senso 'medico', cioè come diagnosi di un disturbo secondo le categorie di una psicopatologia e cura del medesimo mediante procedure terapeutiche empiricamente supportate, tenendo quindi la 'psicoterapia' accuratamente distinta dalla 'cura d'anima': se una cura d'anima avviene in corso di psicoterapia, si direbbe che avvenga solo come effetto collaterale non cercato e non voluto.  Mi sembra, insomma, che la tua filosofia 'terapeutica' sia del tutto agli antipodi della filosofia 'analitica' di Diego. Peraltro il tuo frequente citare la letteratura spirituale e mistica mi ha fatto più volte pensare che tu non sia affatto come quei materialisti che semplicemente negano qualsiasi valore alla spiritualità e alla mistica, ma piuttosto come certi credenti, per esempio cattolici, che si preoccupano di tenere ben distinti il campo profano della terapia da quello sacro della religione, per evitare commistioni imbarazzanti per la loro fede, o per il timore di dover cedere al campo laico temi che considerano di competenza esclusiva di quello religioso.

Temo che il solo toccare questi temi delicati ti farà infuriare. Mi spiacerebbe molto, visto l'accordo che abbiamo appena trovato su altri temi.  Ma ho bisogno di chiarire questo punto centrale: che cosa fai tu di tutta quella parte del lavoro che Diego chiama analitico, e io ancora terapeutico (ma nel senso in cui la filosofia antica o il buddhismo sono stati considerati forme di terapia)? Io non penso che quel lavoro debba essere fatto necessariamente in una psicoterapia o psicoanalisi: secondo me può essere fatto anche in una scuola buiddhista e persino nella Chiesa cattolica, ma rimane il fatto che per la maggior parte dei laici oggi quelle vie non sono più praticabili e, come già osservava Binswanger, sono sempre più numerosi coloro che oggi portano le domande fondamentali all'analista, piuttosto che al prete.

Se potessimo intenderci sul fatto che c'è un lavoro culturale fondamentale per ogni essere umano (il confronto con il 'taglio') che può essere fatto in diversi contesti, e che oggi molti preferiscono fare in un contesto psicoterapeutico/psicoanalitico piuttosto che chiesastico, indipendentemente da, o forse proprio grazie alla presenza di problemi o disturbi definibili come 'nevrotici' o altrimenti psicopatologici, allora potremmo esplorare le differenze che passano tra il fare questo lavoro in ambito laico piuttosto che chiesastico. Penso, o mi illudo, che saremo d'accordo su un paio di cose: questo lavoro è fondamentale; non si può fare da soli, ma c'è bisogno di guide, maestri, compagni di strada. Ma  saremo in disaccordo sul fatto che questo lavoro possa o non possa essere ospitato all'interno di una relazione psicoterapeutica o psicoanalitica (in questo caso, mi interesserà molto conoscere i motivi del disaccordo). Ma senza fare altre ipotesi, mi fermo e aspetto un tuo chiarimento. Un saluto affettuoso. Tullio

Paolo Migone, 20 gennaio 2003:

On 20/01/2003, Tullio Carere wrote:
>Quello che io penso è che sia basilare confrontarsi con la 'mancanza essenziale', 
>che uno ci arrivi per via 'normale' o per via 'nevrotica'. Il 'nevrotico', inteso come 
>la persona afflitta da disturbi che conveniamo di chiamare nevrotici, può essere 
>costretto a questo confronto dalla sua sofferenza, mentre il 'normale', non 
>avendo questa motivazione, può più facilmente sottrarvisi.

Pur non potendo fare, per mancanza di tempo, un intervento più completo sull'interessante dibattito stimolato dalle ultime e-mail di Tullio, voglio fare un brevissimo commento. Mi sono trovato ancora una volta in disaccordo sulla linea argomentativa di Tullio, e naturalmente molto d'accordo con le e-mail di Gianni Liotti. Ma, anche allo scopo di chiarirmi se ho capito bene il ragionamento d Tullio, vorrei chiedergli alcune cose.

Tu, Tullio, dici che è "basilare confrontarsi con la 'mancanza essenziale'," quindi (qualunque cosa significhi questa "mancanza essenziale", su cui non entro perché è irrilevante al mio discorso) fai una affermazione apodittica, in un certo senso mistica, "astorica", e quindi anche non dialettica, mi sembra, in quanto assumi l'esistenza di cose fisse, vere per tutti, al di là della esperienza di ciascuno nel confronto con al realtà e trasversalmente alle culture e ai periodi storici. Ma non è questa la critica che qui voglio approfondire (che però è di per sé importante, per la verità, se ho capito bene la posizione di Tullio, anche perché riguarda l'annosa questione, se mi posso esprimere così, del rapporto tra filosofia e scienza, che per me è il vero disaccordo tra noi).  Quello che qui vorrei fare è solo capire meglio in che senso parli del "normale " e del "nevrotico", come se tu sapessi già, appunto ancora a priori, che cosa sono (non arrabbiarti se non ritieni che ti capisco, faccio del mio meglio, credimi, può darsi che abbia dei limiti io).  Infatti secondo me il "normale" e il "nevrotico" non esistono in quanto tali, sono delle convenzioni sociali, dettate dalla maggioranza sociale di una cultura in un dato periodo storico, tanto è vero che in un paese  i normali sono quelli che in un altro paese vengono considerati nevrotici e così via.

Quindi se tu affermi che il nevrotico "può essere costretto a questo confronto [con la "mancanza essenziale"] dalla sua sofferenza, mentre il 'normale', non avendo questa motivazione, può più facilmente sottrarvisi", sembri decidere già a priori chi sia normale e nevrotico, a seconda se prova più o meno la cosiddetta 'mancanza essenziale', e quindi si gira in tondo, o sbaglio? Un affettuoso saluto, sempre rigorosamente non dialettico. Paolo

Giovanni Liotti, 21 gennaio 2003:

Caro Tullio, grazie per la precisazione circa le affermazioni di Kierkegaard, precisazione che riporto fra parentesi:
(Prima di tutto, permettimi di correggere una tua impressione: la tesi che il nevrotico sia più vicino del normale alla verità è di Kierkegaard, non è una mia 'baldanzosa affermazione'. )
 
Io avevo scritto:
"Né credo che invocare l'autorità di Kierkegaard dimostri ipso facto che, come tu baldanzosamente affermi, ... etc. etc...." Ora capisco che invece si trattava di una baldanzosa affermazione di Kierkegaard, e che l'autorità era la tua.
 
Autorità che evidentemente permette di trascurare le statistiche. A meno che tu non disponga di statistiche che sostengano affermazioni del tipo: 
"Il 'nevrotico', inteso come la persona afflitta da disturbi che conveniamo di chiamare nevrotici, può essere costretto a questo confronto dalla sua sofferenza, mentre il 'normale', non avendo questa motivazione, può più facilmente sottrarvisi".

Il dolore morale normale, non nevrotico, in genere non basta per il confronto? Il limite della gioia normale non rivela al 'normale' la mancanza esistenziale? Sei sicuro che ciò avvenga meno spesso che nel 'nevrotico'?  Disponi di medie di nevrotici e normali rispetto alla ricerca di risposte al vuoto esistenziale? Ma le statistiche sono noiose e traditrici. Bello, invece, fare affermazioni così, associandole a metafore o a vaghe citazioni di letteratura sugli sciamani e gli psicoterapeuti. Il problema è solo convincere quelli che chiedono prove, non geniali intuizioni o sottili elucubrazioni, ma a forza di ripetizioni  magari li si convince lo stesso.

Va bene, dunque,  procediamo per elucubrazioni senza prove. Riporto la tua, e poi scriverò la mia:
"Confrontarsi con quel 'taglio' è doloroso o, inversamente, solo il dolore fisico o mentale permette di fare una esperienza vissuta sulla propria pelle di quel 'taglio'. Chi ha la 'fortuna' di 'star bene', per aver provato sulla propria pelle solo taglietti superficiali, difficilmente sentirà la necessità ineludibile di confrontarsi con quel vuoto senza fondo."

Dunque, elucubro io di conseguenza, un buon genitore farà bene a sforzarsi di rendere nevrotico il proprio figlio, a procuragli bei taglioni grandi ché i taglietti superficiali non fungono, per non privare la prole della facilitazione a quel vitale, necessario confronto col 'vuoto' e la 'mancanza'. Sotto con gli incesti e le botte e le umiliazioni, padri e madri degeneri che vi sforzate di dare ai vostri figli la dubbia 'fortuna' della normalità! O volete rischiare di lasciarli lì ad evitare il confronto importantissimo col vuoto senza fondo?

Ma poi mi accorgo che alle statistiche tieni anche tu, e parli di medie, come nella frase che segue:
"Personalmente conosco diverse persone portatrici di disturbi minuziosamente elencati nel DSM IV, che sono tuttavia incomparabilmente più consapevoli e mature della media dei cosiddetti 'normali'."

Con una tale statistica a sostegno, circa le incomparabilmente desolanti "medie" dei normali, insisto sulla necessità di inserire in appositi libri, da consegnare ai padri quando vanno a registrare un neonato all'anagrafe, consigli su come rendere i propri figli portatori di disturbi minuziosamente elencati nel DSM-IV, così che con maggiore probabilità la prole possa poi sviluppare i beni della consapevolezza e della maturità.

Ma ecco verso la fine della tua mail una importante precisazione, che distingue fra sani-nevrotici ed infelici normaloidi (resi ovviamente tali dalla società, che ne fa sempre di cotte e di crude):
"L'equivoco, probabilmente, consiste nel confondere il 'normale' con il 'sano'. Il 'normale', nel senso di ciò che nella società 'normale' è considerato 'normale', corrisponde per lo più a ciò che io chiamerei 'normaloide' o 'normopatico'."

Se a te questa sembra una buona base per lavorare sull'integrazione delle psicoterapie, io non mi sognerò di obiettare alcunché. Vedi Tullio, ho finora cercato di scherzare (spero che tu abbia colto affettuosa ironia e non malevolo sarcasmo o spocchia nel mio scherzo) per arrivare a dire qualcosa di serio. Non è che io pensi che sia bene cucire il taglio di Fontana con tecniche di tipo "medico", nè che sia male farlo, né che le tecniche suddette abbiano il potere di farlo (propendo invece a credere che non lo abbiano, e che la sofferenza 'nevrotica' sia tutt'altro che il vuoto esistenziale di cui tu parli). Penso che dobbiamo sostenere le nostre affermazioni (AFFERMAZIONI, non tecniche terapeutiche!) facendole passare attraverso il vaglio di esperimenti controllati, osservazioni ripetute, statistiche, confronti con i risultati di altre discipline scientifiche come neuroscienze ed etologia, e così via. Altrimenti, senza tale vaglio, non solo sarà da attendersi, ma sarà DESIDERABILE che ad ogni affermazione come le tue sul 'vuoto' e il metaforico 'taglio' se ne oppongano numerose altre (non una sola altra, non una antitesi, ma numerose altre). Con tanti saluti all'integrazione (il risultato, certo lo ricordi, che Benvenuto considerava desiderabile: la molteplicità non integrata).

Penso infine che i tuoi appelli al bisogno umano di senso generale ed universale dell'esistenza NON centrino (senza apostrofo) alcun nucleo comune alle varie tradizioni psicoterapeutiche, e quindi siano irrilevanti rispetto al processo di integrazione delle psicoterapie.

Quanto alle mie propensioni in fatto di fedi religiose e di spiritualità, visto che avanzi supposizioni, ti dirò che mi considero un aspirante cristiano o un mezzo cristiano, pur con grandi simpatie per l'ebraismo (adoro quasi tutti, da Moni Ovadia a Martin Buber a Singer), le versioni zen del buddhismo e le correnti sufi dell'islam. E resto convinto che tutto ciò non c'entri (con l'apostrofo) nulla, ma proprio nulla, con il processo di integrazione delle psicoterapie.

Ti ascolto insomma, se tu tiri e ri-tiri fuori l'immagine dello psicoterapeuta che aiuta il paziente (e il non-paziente-che-non-trova-più-la-strada-del-prete) a confrontarsi col vuoto esistenziale senza fondo, ma resto ogni volta più che mai convinto che con tale immagine non faciliterai l'integrazione di nulla, e neppure coglierai quanto già sta accadendo sulla strada dell'integrazione. Un caro saluto, Gianni

P.S. Incoraggio di regola i miei pazienti a coltivare, se me la dichiarano, la loro propensione verso religioni e spiritualità, ovunque questa propensione li porti che non siano sette, culti strani tipo Dianetics e raeliani, e altra paccottiglia new age. Gli consiglio preti, rabbini, imam, maestri di meditazione buddhista, e altra roba nobilitata dal tempo, insomma. Mi rifiuto invece decisamente di fargli io da maestro o guida spirituale, quando me lo chiedono (è successo due o tre volte), mostrando loro che hanno palesemente sbagliato indirizzo. Come tu sai, io di mestiere faccio il medico, specializzazione psichiatria, specializzazione operativa psicoterapia. Bye.

Tullio Carere, 23 gennaio 2003:

On 20-01-2003, Paolo Migone wrote:
> Tu, Tullio, dici che è "basilare confrontarsi con la 'mancanza
> essenziale'," quindi (qualunque cosa significhi questa "mancanza
> essenziale", su cui non entro perché è irrilevante al mio discorso) fai una
> affermazione apodittica, in un certo senso mistica, "astorica", e quindi
> anche non dialettica, mi sembra, in quanto assumi l'esistenza di cose
> fisse, vere per tutti, al di là della esperienza di ciascuno nel confronto
> con al realtà e trasversalmente alle culture e ai periodi storici.

Caro Paolo, riesci sempre a sorprendermi con le tue posizioni post-moderne, soprattutto quando ti dici d'accordo col modernissimo Gianni. Io ho detto: "Quello che io penso è che sia basilare confrontarsi con la 'mancanza essenziale'", ma non ho detto che tutti dovrebbero pensarlo. Se per te non esiste una mancanza primaria o essenziale, ma esistono solo mancanze specifiche e settoriali (come difetti di holding, di autoregolazione emotiva o di serotonina), vuol dire che tra di noi potremo intenderci su queste mancanze particolari, ma non su quella di base (ammesso che esista una cosa del genere). Tu non credi che esistano alcune caratteristiche che definiscono l'Homo sapiens come tale, indipendentemente dalla cultura di appartenenza e dal periodo storico. E' un'opinione rispettabile, anche Sergio Benvenuto la pensa come te. Invece io mi sento più vicino a Gianni nella convinzione che ogni essere umano, in qualsiasi luogo e tempo, ha bisogno per esempio di un'esperienza di attaccamento sicuro per sviluppare una personalità equilibrata.

Condivido poi con Gianni e Diego la convinzione che ogni uomo, in ogni epoca e cultura, ha bisogno di 'dialogo socratico' per superare l'ignoranza del credere di sapere. E' vero che le nostre concezioni del dialogo differiscono per aspetti importanti, e questo permetterebbe a Sergio di affermare che tra di esse esistono solo 'somiglianze di famiglia', e non caratteristiche essenziali in comune. Io invece penso che un vero dialogo sia solo quello che si fonda su un 'non sapere', cioè su un vuoto di sapere: precisamente la 'mancanza primaria ed essenziale' tanto temuta dagli 'ignoranti', che si aggrappano a ogni sorta di saperi per paura che gli manchi il terreno sotto i piedi. 

> Ma non è questa la critica che qui voglio approfondire (che però è di per sé
> importante, per la verità, se ho capito bene la posizione di Tullio, anche
> perché riguarda l'annosa questione, se mi posso esprimere così, del
> rapporto tra filosofia e scienza, che per me è il vero disaccordo tra noi).
> Quello che qui vorrei fare è solo capire meglio in che senso parli del
> "normale " e del "nevrotico", come se tu sapessi già, appunto ancora a
> priori, che cosa sono (non arrabbiarti se non ritieni che ti capisco,
> faccio del mio meglio, credimi, può darsi che abbia dei limiti io).
> Infatti secondo me il "normale" e il "nevrotico" non esistono in quanto
> tali, sono delle convenzioni sociali, dettate dalla maggioranza sociale di
> una cultura in un dato periodo storico, tanto è vero che in un paese  i
> normali sono quelli che in un altro paese vengono considerati nevrotici e così via.
> Quindi se tu affermi che il nevrotico "può essere costretto a questo
> confronto [con la "mancanza essenziale"] dalla sua sofferenza, mentre il
> 'normale', non avendo questa motivazione, può più facilmente sottrarvisi",
> sembri decidere già a priori chi sia normale e nevrotico, a seconda se prova
> più o meno la cosiddetta 'mancanza essenziale', e quindi si gira in tondo, o sbaglio?

Nel passo che hai citato io scrivevo: <<Il 'nevrotico', inteso come la persona afflitta da disturbi che conveniamo di chiamare nevrotici…>>. Come vedi, anche per me la nevrosi è ampiamente una questione convenzionale. Ma non del tutto. Per esempio un disturbo ossessivo resta un disturbo ossessivo, fonte di sofferenza personale, in qualsiasi tempo e luogo, anche se in una certa cultura certe manifestazioni ossessive possono essere apprezzate e portare dei vantaggi. In realtà io mi sento più vicino a Gianni che a te nell'affermare una differenza sostanziale, e non convenzionale, tra 'sofferenza sana' e 'sofferenza patologica' (non mi è mai piaciuta la parola 'normalità'). In breve: la sofferenza in tanto è sana in quanto è tollerata e indagata nel suo significato, in tanto è patologica in quanto è evitata con difese ossessive o isteriche, proiettata in allucinazioni o deliri, scaricata sul corpo o sul prossimo, eccetera. Queste sono modalità tipiche dell'Homo sapiens di non assumersi la responsabilità della sofferenza che gli tocca. Il fatto che certe culture favoriscano o notino certe forme di patologia piuttosto che altre non modifica in modo sostanziale questo dato.

D'altra parte, sono più vicino a te nella diffidenza per tutte le distinzioni tra normale e nevrotico. Masse sterminate di normaloidi si intontiscono di giorno di lavoro, alla sera davanti alla TV, nel fine settimana in discoteca, in birreria o allo stadio. La differenza tra questa normalità e la patologia convenzionale (da DSM) mi sembra stia essenzialmente nel fatto che nel primo caso le difese funzionano abbastanza bene, cioè sono compatibili con un adattamento sufficientemente buono alle condizioni di vita di questa società, mentre nel secondo caso le difese sono più o meno difettose. Per questo ho detto che il nevrotico (in senso convenzionale: colui che non riesce a costruire un adattamento sufficientemente buono a questa società) è più vicino alla verità (del suo disagio) del normale (cioè di colui che grazie a un buon adattamento è più lontano dalla percezione del suo disagio di quanto non sia il nevrotico).  Questa osservazione corrisponde al dato ben accertato da molti studi che il candidato sciamano è preferibilmente reclutato tra giovani disadattati e al dato (aneddotico) che i 'normopatici' non sono i candidati ideali alla professione di psicoanalista. In conclusione, mi sembra che su queste cose la mia posizione sia più o meno intermedia tra la tua (culturalista) e quella di Gianni (cognitivista). Saluti, dunque, dialettici, da Tullio

Diego Napolitani, 26 gennaio 2003:

Caro Tullio, mi rivolgo a te personalmente per tutti i motivi che si sono andati sviluppando nel nostro dibattito, ma anche agli altri –in specie a Gianni Liotti e Paolo Migone– che vi hanno comunque partecipato. Tu cogli pienamente il valore che ho inteso dare al “taglio” di Fontana:

Varela ne parlerebbe come di una “metafora forte”, cioè di una struttura narrativa in cui è incorpata (“embodied”) una “verità” esperienziale o empirica. Di questa “verità” tu cogli l’essenza e per lo meno in parte ne partecipi. Gianni, no: lui crede fermamente in un’altra visione, quella per cui il “taglio” è una ferita o la sua cicatrice. E di fronte alla “cosa” è perfettamente adeguata una mente (una cultura, una scienza, una tecnica) ad essa corrispondente; il resto è mistica, estetica, o quant’altro che, comunque godibile o patibile in altri segmenti dell’esistenza, non devono ibridarsi con la mente cosale, pena un ottenebramento del rapporto con l’oggetto di osservazione e di cure.

Nel P.S. di Gianni della sua ultima mail egli esplicita molto chiaramente questo concetto affermando:
<<Incoraggio di regola i miei pazienti a coltivare, se me la dichiarano, la loro propensione verso religioni e spiritualità, ovunque questa propensione li porti che non siano sette, culti strani tipo Dianetics e raeliani, e altra paccottiglia new age. Gli consiglio preti, rabbini, imam, maestri di meditazione buddhista, e altra roba nobilitata dal tempo, insomma. Mi rifiuto invece decisamente di fargli io da maestro o guida spirituale, quando me lo chiedono (è successo due o tre volte), mostrando loro che hanno palesemente sbagliato indirizzo. Come tu sai, io di mestiere faccio il medico, specializzazione psichiatria, specializzazione operativa.>>

Torniamo da qui al problema del bisogno, singolare o plurale, implicito o esplicito. È fuori da ogni dubbio che ogni organizzazione vivente presenta bisogni tanto più differenziati quanto più differenziati sono i processi che ne garantiscano sopravvivenza e riproduzione in una meccanica prevalentemente adattativa, e che oltre a questi l’uomo porta bisogni esistenziali molteplici e variamente espressi. Quali tra questi sono di competenza specifica dello psicoterapeuta (accolgo questa dizione, da te preferita)? Cominciamo col ragionare per estremi: qual è il “bisogno” di un suicida? Quello di realizzare questa sua intenzione “insana” o di sopravviverle? È ovvio che se lui mettesse in atto questa sua intenzione nel mio studio io interverrei per contrastarla, ma così facendo asseconderei un mio bisogno, quello del comune senso etico e forse, ancor più, quello della tutela della mia figura sociale. Ma se questa persona mi desse il tempo e il modo di cogliere il senso del suo comunicare a me, in quanto suo analista o terapeuta, questa sua intenzione, si aprirebbe tra noi un interrogativo: il suo immolarsi ha per sue vicende personali il medesimo valore del bruciarsi di un monaco buddista a Saigon, o, a veder bene, del deliberato suicidio del Cristo sulla croce, o è il suo modo estremo di sancire un suo fallimento esistenziale, senza più alcuna fede nel suo divenire? Ed io sono per lui il testimone eccellente di un suo trascendersi “eroico” o sono la personificazione del mondo che deve essere inghiottito dal suo lasciarsi inghiottire dal nulla?

Possiamo forse convenire che questo tipo di interrogativi non ce li poniamo solo nei casi estremi, ma credo che essi sorgono in tutti i casi nei quali si può intravedere una sorta di suicidio sincopato, o differito, che può riguardare la maggior parte dell’esistenza mentale o solo alcuni suoi segmenti. Come l’atto totalizzante del suicidio è una costruzione (negativa o positiva a seconda del giudizio che ne diamo), così anche i suicidi parziali o “cronici” sono altrettante costruzioni. Per meglio dire “co-costruzioni” dell’individuo e del suo ambiente (interno/esterno). Siamo in genere portati a vedere in un oggetto prodotto dall’uomo, definito nel tempo e nello spazio (un manufatto, un’opera d’arte, un libro), la realizzazione di una sua “costruzione”, e “dimentichiamo” quanto l’intera esistenza si produca come una costruzione operata da ogni singolo con il materiale culturale tradizionale relazionale che egli trova dentro e intorno a sé. In questa prospettiva il sintomo è elemento strutturale di quella complessità che è l’intera esistenza storica dell’individuo, ne è un elemento portante come ogni trave lo è in una struttura architettonica. È nel modo con cui si guarda a questa “trave” che si dipartono due filosofie o due ordini di pratiche tra loro divergenti: si tratta di cambiare la “trave” come si fa con un paio di scarpe logore o si tratta di guardare a quel che conveniamo definire “sintomo” come un luogo in cui si condensa la problematicità irrisolta di un’intera esistenza?

Gianni Liotti afferma che se un paziente gli chiede di riguardare alla sua esistenza egli connota questa come una domanda “spirituale” e gli dice, se insiste, che ha sbagliato indirizzo nel venire da lui “medico psichiatra operativo”. Io, che non riesco a distinguere il mentale dallo spirituale, dico ad un paziente che mi chiede di togliergli il sintomo che questo costituisce la materia a partire dalla quale possiamo riguardare tutta la sua architettura, e che se lui non è sufficientemente “paziente” per intraprendere questo percorso, può rivolgersi a tecnici (farmacologi, ipnotisti, comportamentisti) capaci di cambiare la trave senza guardare all’insieme della sua “costruzione”. Si rende allora conto di avere “sbagliato indirizzo” nel venire da me.

In questa ottica guardo all’esperienza di mancanza: come ogni altra esperienza vissuta, anche questa è una costruzione, e non l’esito determinato da cattive pedagogie o da eventi traumatici. Nel taglio di Fontana leggo una ri-costruzione poetica della costruzione della mancanza, ma se Fontana rimanesse costretto nella sua stessa costruzione, se diventasse “l’uomo-del-taglio”, egli non porterebbe le  sue costruzioni in qualche galleria d’arte ma in un manicomio, in una galera, o tra le mani di qualche “strizza-cervelli”. L’uomo “sintomatico” è il ragno che resta preda della sua stessa tela, per il quale non si pone il problema di eliminare quella specifica tela in cui resta costretto, ma di facilitare in lui l’uso di quelle sue proprie risorse per le quali riesce ad emergere dalla sua tela per sviluppare la sua attitudine costruttiva senza rimanere letteralmente irretito nelle sue stesse costruzioni.

Mi fermo qui, aspettando di vedere quanto questa mia costruzione (pur sempre una co-costruzione) tocchi la tua (non certo quella rispettabilissima ma divergente di Liotti o Migone) grazie a ponti percorribili o a “fattori comuni”. Con grande stima, Diego.

Tullio Carere, 26 gennaio 2003:

On 21-01-2003, Giovanni Liotti wrote:
>…Dunque, elucubro io di conseguenza, un buon genitore farà bene a sforzarsi
> di rendere nevrotico il proprio figlio, a procuragli bei taglioni grandi ché
> i taglietti superficiali non fungono, per non privare la prole della
> facilitazione a quel vitale, necessario confronto col 'vuoto' e la
> 'mancanza'. Sotto con gli incesti e le botte e le umiliazioni, padri e madri
> degeneri che vi sforzate di dare ai vostri figli la dubbia 'fortuna' della
> normalità! O volete rischiare di lasciarli lì ad evitare il confronto
> importantissimo col vuoto senza fondo?…(spero che tu abbia colto
>affettuosa ironia e non malevolo sarcasmo o spocchia nel mio scherzo)
 
Caro Gianni, è un quesito interessante: il brano citato, assieme agli altri che lo precedono e seguono, è un esempio di sarcasmo o di affettuosa ironia?  Potremmo chiederlo a dodici giudici indipendenti ed elaborare statisticamente le loro risposte. Ma non lo facciamo, perché (a parte la difficoltà pratica di avere dodici giudici a disposizione per stabilire il significato di ogni parola che ci scambiamo) il risultato, quale che sia, ci sembrerebbe irrilevante a fronte del fatto che la tua intenzione cosciente era di essere affettuosamente ironico, mentre la mia percezione cosciente è stata di un messaggio sarcastico. Se dunque noi vogliamo dialogare, non ci affideremo a osservatori esterni, esperimenti controllati e statistiche per dirimere i nostri contrasti, ma sospenderemo la certezza delle nostre intenzioni e percezioni e nel vuoto di sapere così realizzato procederemo al lavoro propriamente dialogico, che si sviluppa pressappoco così: "Io volevo essere affettuosamente ironico, ma se tu mi hai sentito sarcastico forse il sarcasmo c'era davvero, senza che me ne rendessi conto"; e dall'altra parte:
"Quel messaggio mi è sembrato indiscutibilmente sarcastico, ma se tu dici che voleva essere affettuosamente ironico, forse il sarcasmo ce l'ho messo io, perché la tua ironia, pur affettuosa, ha ferito la mia esagerata sensibilità". 

La chiave del dialogo è dunque il non sapere, la sospensione di ogni presunzione di sapere, e non l'esperimento controllato o la statistica.  Lasciamo stare il fatto che il vuoto di sapere, temutissimo da tutti coloro (gli "ignoranti") che lo obliterano con i loro presunti saperi, è per me lo stesso vuoto centrale o essenziale che anche la metafora del taglio di Fontana richiama — se questa metafora non ti piace, non insisto. Mi accontento del fatto che tra te, Diego e me almeno un terreno comune è stato individuato, ed è quello indicato dalla formula del 'dialogo socratico'. In questo dialogo si possono privilegiare diversi aspetti — come quello maieutico, preferito da Diego — ma nessuno potrà negare che il 'sapere di non sapere' ne è il fulcro e il fondamento. Non possiamo dire di praticare questa forma di dialogo (il dialogo per antonomasia) se non ne accettiamo la premessa essenziale.

Con questa premessa, veniamo al punto che sollevi:
> Penso che dobbiamo sostenere le nostre affermazioni (AFFERMAZIONI,
> non tecniche terapeutiche!) facendole passare attraverso il vaglio di
> esperimenti controllati, osservazioni ripetute, statistiche, confronti con i
> risultati di altre discipline scientifiche come neuroscienze ed etologia, e
> così via. Altrimenti, senza tale vaglio, non solo sarà da attendersi, ma
> sarà DESIDERABILE che ad ogni affermazione come le tue sul 'vuoto' e il
> metaforico 'taglio' se ne oppongano numerose altre (non una sola altra, non
> una antitesi, ma numerose altre). Con tanti saluti all'integrazione (il risultato, certo
> lo ricordi, che Benvenuto considerava desiderabile: la molteplicità non integrata).

Nel dialogo ciascuno porta le proprie evidenze, perché qualsiasi argomentazione deve appoggiarsi a qualche evidenza, altrimenti è aria fritta. Ciò che caratterizza il vero dialogo, rispetto ad altre forme di comunicazione (come ad esempio la polemica o il proselitismo), è il fatto che ciascuno, per il fatto stesso di partecipare a un dialogo, rinuncia alla pretesa che le proprie evidenze siano necessariamente vere, o che il proprio metodo di determinarle sia il migliore o debba valere per tutti. In particolare, è necessario che ciascuno sia disposto a riconoscere e mettere in gioco o in questione le credenze metafisiche sottese a ogni tipo di procedimento. Per esempio, la fonte principale di evidenze per molti islamici è il Corano, per molti occidentali la scienza sperimentale, eccetera. Naturalmente è possibile costruire delle comunità di individui che condividono gli stessi valori o credenze, ma queste sono appunto comunità di credenti, non comunità dialogiche.

Questo significa che, se vogliamo scegliere una modalità dialogica di comunicazione, occorrerà rinunciare all'idea che per "sostenere le nostre affermazioni" dovremo farle passare al vaglio di esperimenti controllati, statistiche, e in genere la metodica che è propria delle 'scienze di base'.  È vero, questa idea è condivisa da molti membri della cd 'comunità scientifica', ma non dalla maggioranza degli psicoterapeuti, e nemmeno da quei terapeuti che, pur condividendo l'idea che la psicoterapia debba avere un fondamento scientifico, hanno un'idea di scienza radicalmente diversa da quella galileiana-popperiana. Questo naturalmente lo sai bene, ma la tua obiezione, più volte espressa, è che solo la scienza 'moderna' offra  il terreno su cui i terapeuti di diversi orientamenti possano incontrarsi e comunicare, mentre coloro che rifiutano questo terreno (ermeneutici, postmoderni o 'caotico-complessisti') non sanno produrre altro che pluralità inintegrabili. Come scrivevi in un mail precedente:
>   Ti chiedo ancora solo di tollerare che io voglia dar valore ad un fatto:
> procedendo sulla base del metodo scientifico alcuni abbozzi di integrazione
> di teorie derivanti da diverse tradizioni terapeutiche si sono già trovate.

Lo tollero senza difficoltà, e a mia volta ti chiedo di tollerare che io usi l'espressione 'modello medico-scientifico' (o modello medico tout court) per indicare il tuo modello di riferimento (del resto tu stesso dichiari che <<di mestiere faccio il medico, specializzazione psichiatria, specializzazione operativa Psicoterapia>>). I motivi della mia richiesta sono i seguenti: [1] ho bisogno di una denominazione per riferirmi al tuo approccio, nel confronto con altri approcci, e 'modello medico' è l'espressione più frequentemente usata in letteratura per indicare un approccio focalizzato sulla specificità dei disturbi e dei relativi trattamenti, come ad esempio nella definizione di Wampold: "In this model theoretical explanations for disorders, problems or complaints are formulated, treatments contain specific ingredients that are theoretically purported to be necessary for change, the therapist focuses on these specific ingredients, and researchers attribute the benefits of psychotherapy to these ingredients". [2] Non mi è possibile usare per il tuo approccio l'espressione 'metodo scientifico' (come preferisci fare tu), perché esiste una vasta schiera di terapeuti e ricercatori (per esempio Napolitani e Stern) convinti che il modello scientifico da te propugnato, quello sperimentale galileiano-popperiano che è proprio delle scienze di base, non sia adatto a descrivere un fenomeno complesso come è la psicoterapia (o la psicoanalisi). Esistono quindi almeno due modelli scientifici che si contendono il primato nel nostro campo, quello sperimentale e quello della complessità (con una forte tendenza alla delegittimazione reciproca).

Come tra gli aderenti al 'modello medico' si sono già realizzati alcuni abbozzi di integrazione teorica (osservi giustamente), anche nell'altro campo si realizzano ampie convergenze (gli aderenti al paradigma della complessità condividono un  'accordo di fondo' e un 'metalinguaggio', notava Diego). Nella polarità prevedibilità/imprevedibilità il paradigma moderno enfatizza la prevedibilità, quello della complessità predilige l'imprevedibilità. Anche nei sistemi complessi, tuttavia, si delineano delle configurazioni ricorrenti, degli 'isomorfismi', corrispondenti in psicoterapia ai 'fattori comuni' che si possono osservare nella PRATICA di terapeuti aderenti a teorie diverse, incompatibili e inintegrabili. Il tipo di integrazione che si delinea in questo campo è ben diverso dall'integrazione teorica che si realizza in campo medico-scientifico, essendo piuttosto una integrazione 'pratica'. Propongo di iniziare quanto prima una nuova tornata nel nostro dialogo commentando un paio di lavori di Sergio Benvenuto sui temi della teoria caotico-complessista che invierò a coloro che avranno voglia di discuterli (nell'occasione, proporrò anche l'entrata di altri terapeuti o studiosi in questo gruppo di discussione).

Noterò en passant che, come al modello medico-scientifico ('modello Liotti') si contrappone il modello scientifico della complessità (Maturana, Varela, ecc.), così al modello medico-procedurale ('modello Alberti') si contrappone il modello contestuale (Frank, Strupp, Luborsky, ecc.), in cui si afferma che il modello medico-procedurale è superato e deve essere abbandonato proprio sulla base delle evidenze fornite dalla ricerca empirica. Sicché, Gianni, esistono almeno due aree di integrazione psicoterapeutica (il modello della complessità e il modello contestuale) che si contrappongono all'integrazione promossa dal modello medico-scientifico. Se poi siamo disposti a rinunciare alla delegittimazione reciproca e vogliamo provare a dialogare, mettendo da parte ciascuno la pretesa di non mettere in discussione le proprie premesse metafisiche, entriamo in un'area di integrazione sovraordinata a tutte le precedenti, quella del 'dialogo socratico' fondato sul sapere di non sapere.

> Penso infine che i tuoi appelli al bisogno umano di senso generale ed universale
> dell'esistenza NON centrino (senza apostrofo) alcun nucleo comune alle varie tradizioni
> psicoterapeutiche, e quindi siano irrilevanti rispetto al processo di integrazione delle psicoterapie.

Quello che dici è vero se ti riferisci a quel tipo di integrazione che è detta teorica, come notavo sopra. È un  tipo di integrazione importante, ma non è l'unica. Io personalmente trovo più interessante l'integrazione pratica, quella che si realizza nonostante le teorie delle diverse scuole.  Per esempio è vero che la ricerca di tipo meditativo-spirituale non appartiene alla tradizione del comportamentismo, e tuttavia io ho osservato che molti terapeuti di scuola comportamentista sentono il bisogno di inserire nelle loro pratiche esercizi meditativi, specialmente di tradizione buddhista (alcuni hanno cominciato anche a integrare queste pratiche sulla loro base behaviorista, come la Linehan, che non per caso per mettere assieme due cose teoreticamente incompatibili ha dovuto collocarsi in una prospettiva dialettica).

Più in generale, sono convinto che i miei "appelli al bisogno umano di senso generale ed universale dell'esistenza" possono anche "non centrare alcun nucleo comune alle varie tradizioni terapeutiche", ma centrano il cuore stesso del lavoro psicoterapeutico, come osserva Diego nel messaggio che ho appena ricevuto e che vi trasmetto assieme al mio:
> In questa prospettiva il sintomo è elemento strutturale di quella complessità
> che è l’intera esistenza storica dell’individuo, ne è un elemento portante
> come ogni trave lo è in una struttura architettonica. È nel modo con cui si
> guarda a questa “trave” che si dipartono due filosofie o due ordini di
> pratiche tra loro divergenti: si tratta di cambiare la “trave” come si fa con
> un paio di scarpe logore o si tratta di guardare a quel che conveniamo
> definire “sintomo” come un luogo in cui si condensa la problematicità
> irrisolta di un’intera esistenza?

In altre parole sono convinto che anche chi pretende di occuparsi solo di risposte mediche a sintomi e sindromi sia costretto dalla logica stessa della relazione psicoterapeutica a occuparsi anche, poco o tanto, di ciò che quel sintomo o quella sindrome significa per l'intera esistenza della persona che ne è portatrice. Certamente le due filosofie di cui parla Diego sono ben distinte sul piano teorico, ma credo che lo siano molto meno su quello pratico. Il dialogo è impossibile se ognuno se ne sta ben chiuso nella propria teoria, ma si apre se ricordiamo, come ci insegnava il nostro comune maestro, di non sapere nulla.

Scusandomi per la lunghezza di questa risposta, mando un affettuoso saluto a te, Gianni, e a tutti coloro che hanno avuto la pazienza di seguirmi fin qui. Tullio

Giovanni Liotti, 26 gennaio 2003:

Caro Tullio, sono contento di aver letto nella tua ultima mail un inizio di definizione dei contributi all'integrazione (di diverse tradizioni psicoterapeutiche) avvenuti all'interno della posizione ermeneutica (o, se preferisci, del paradigma della complessità). Da tempo pensavo che fosse opportuno che qualcuno cominciasse a definire con precisione in cosa consistano, questi contributi. Grazie dunque per averlo fatto: ora mi è chiaro che si riferiscono all'idea centrale della co-costruzione (mi sono divertito a dichiarare perché non concordo se non in minima parte con questa idea della co-costruzione in un certo passo del mio ultimo libro, ma questa è un'altra e qui irrilevante storia).

Mi dispiace di aver dovuto usare ironia o sarcasmo, decidano pure i dodici giudici indipendenti, per ottenere che tu offrissi questa definizione, ma adesso che lo hai fatto penso che ne valesse la pena ("... è un esempio di sarcasmo o di affettuosa ironia? Potremmo chiederlo a dodici giudici indipendenti ed elaborare statisticamente le loro risposte...")

Mi chiedi  in cambio "...di tollerare che io usi l'espressione 'modello medico-scientifico' (o modello medico tout court) per indicare il tuo modello di riferimento". Senza dubbio lo tollero. Le obiezioni più forti al riguardo le faceva Paolo, non io. Non è poi tanto questione di nomi, quanto di idee e metodi. Dunque, tu mi informi sul fatto che:
"... gli aderenti al paradigma della complessità condividono un  'accordo di fondo' e un 'metalinguaggio', notava Diego). Nella polarità prevedibilità/imprevedibilità il paradigma moderno enfatizza la prevedibilità, quello della complessità predilige l'imprevedibilità. Anche nei sistemi complessi, tuttavia, si delineano delle configurazioni ricorrenti, degli 'isomorfismi', corrispondenti in psicoterapia ai 'fattori comuni' che si possono osservare nella PRATICA di terapeuti aderenti a teorie diverse, incompatibili e inintegrabili.  Il tipodi integrazione che si delinea in questo campo è ben diverso dall'integrazione teorica che si realizza in campo medico-scientifico, essendo piuttosto una integrazione 'pratica'."
 
Bene, il discorso quadra. Mi sento molto a mio agio fra gli integratori di teorie, mentre mi sentirei a disagio se qualcuno mi annoverasse fra gli integratori di "pratiche" (con i quali senz'altro dialogo con piacere e curiosità: mi incuriosisce sapere come facciano a integrare qualcosa di diverso dalle idee). A questo riguardo, fornisci un esempio:
"Per esempio è vero che la ricerca di tipo meditativo-spirituale non
appartiene alla tradizione del comportamentismo, e tuttavia io ho osservato
che molti terapeuti di scuola comportamentista sentono il bisogno di
inserire nelle loro pratiche esercizi meditativi, specialmente di tradizione
buddhista (alcuni hanno cominciato anche a integrare queste pratiche sulla
loro base behaviorista, come la Linehan, che non per caso per mettereassieme due cose
teoreticamente incompatibili ha dovuto collocarsi in una prospettiva dialettica)."

C'è un recente libro di John Teasdale, psicologo cognitivista di Oxford, su altre applicazioni cliniche delle tecniche buddhiste di "mindfulness" oltre a quelle propugnate da Linehan per i borderline (applicazioni alla cura della  depressione ricorrente, in particolare). La cosa interessante è che io avevo percepito una integrazione teorica precedente all'integrazione pratica in questo campo. Per l'esattezza, le teorie della metacognizione (derivanti, attraverso Flavell, dalla ricerca di Piaget) avevano offerto ai cognitivisti clinici, secondo quel che avevo capito, degli spunti comuni di riflessione rispetto ad ALCUNE teorie della psicologia buddhista. Da cui l'integrazione teorica prima, e l'uso di tecniche buddhiste dopo. Chi sa come stanno in realtà le cose, anche qui abbiamo opinioni diverse.

Sappiamo ormai bene che tu, e Diego, e tanti altri considerate il  "...bisogno umano di senso generale ed universale dell'esistenza"  come "...il cuore stesso del lavoro psicoterapeutico, come osserva Diego nel messaggio che ho appena ricevuto e che vi trasmetto assieme al mio". Io, e alcuni altri, pensiamo invece che a portare i pazienti in psicoterapia sia il bisogno di attribuire senso  a particolari e dolorose esperienze di relazione, e ad alcune limitate classi di emozioni non comprese, non elaborate, non regolate. Non di attribuire un senso universale all'esistenza umana. Anche qui, chi sa come stanno in realtà le cose.

Diego Napolitani riassume così le sue impressioni al riguardo:
> “In questa prospettiva il sintomo è elemento strutturale di quella complessità
> che è l’intera esistenza storica dell’individuo, ne è un elemento portante
> come ogni trave lo è in una struttura architettonica. È nel modo con cui si
> guarda a questa “trave” che si dipartono due filosofie o due ordini di
> pratiche tra loro divergenti: si tratta di cambiare la “trave” come si fa con
> un paio di scarpe logore o si tratta di guardare a quel che conveniamo definire “sintomo” 
> come un luogo in cui si condensa la problematicità irrisolta di un’intera esistenza?"
 
Voi, con Quelo (benevola ironia e citazione di una non lontana trasmissione televisiva del Guzzanti figlio), rispondete alla domanda:  "la seconda che hai detto". Io, e qualche altro, rispondiamo invece: "la prima!". Naturalmente, tu pensi che sia illusorio che si possa davvero sostituire la sola trave:
"... sono convinto che anche chi pretende di occuparsi solo di
risposte mediche a sintomi e sindromi sia costretto dalla logica stessa
della relazione psicoterapeutica a occuparsi anche, poco o tanto, di ciò che
quel sintomo o quella sindrome significa per l'intera esistenza della persona ..."

Certo, con una trave più solida sostituita a quella scricchiolante l'ala pericolante dell'edificio diventa praticabile anche a chi viveva solo nelle altre ali, e l'intera economia della casa se ne giova. Probabilmente, di conseguenza, "l'intera esistenza della persona" che abita lì ne risente in modo significativo. Io però, che aiuto a sostituire la trave in un'ala, le altre ali dell'edifico neppure sono invitato a visitarle, di solito, e di solito non lo faccio (per alcune, anche se invitato, rinvio al rabbino al prete all'imam al maestro Zen). Al massimo, visitando il punto dell'edificio pericolante, chiedo: "oltre che qui, sente altri sinistri scricchiolii in altre parti di casa sua?" E, se mi dicono "no", non mi infilo non invitato nelle altre stanze. 

Infine, non ho altro da obiettare alla tua credenza:
" Certamente le due filosofie di cui parla Diego sono ben distinte
sul piano teorico, ma credo che lo siano molto meno su quello pratico",

se non quanto ho già detto sul dubbio che ho, che cioè un animale come Homo Sapiens le cui pratiche (e le cui stesse percezioni") tanto dipendono dalla teorie possa integrare le prime senza aver prima integrato le seconde.  Se le teorie, E NON SOLO LE LORO FORMULAZIONI  VERBALI, sono davvero distinte temo proprio che lo restino anche le pratiche.

Circa il tuo richiamo al vecchio caro Socrate, ricordo bene che il nostro comune maestro ci insegnava a non avere certezze, non a non avere teorie (ipotesi, congetture, etc.),  il che d'altronde sarebbe assolutamente impossibile oltre che decisamente indesiderabile (persino per il mistico prima almeno che arrivi al Grande Satori, e mi sa che nè tu né Diego ci siete arrivati, io comunque, come è ovvio per tutti, no). Proprio come dice oggi la scienza occidentale, diceva ieri il vecchio Socrate. Per questo si fanno esperimenti, per confutare le teorie, proprio come faceva Socrate chiedendo "ma tu che prove hai di questa cosa che con tanta certezza affermi?". E così trasformava le certezze in teorie. Le certezze purtroppo, prima di diventare teorie, non sono oggetto di esperimenti. E se si dubita del metodo sperimentale, beh.. allora facciamo quattro chiacchiere di fronte ad un buon bicchiere di rosso, no? Che è sempre piacevole, e talora genera interessanti teorie che magari poi qualcuno vaglierà etc. etc. Ma che ostinato che sono, sempre qui a ripetere la solita solfa, e mi illudo pure di dialogare. Au revoir, mon dialogique ami. Gianni

Sergio Benvenuto, 26 gennaio 2003:

Cari amici, anche io, come Diego, sono stato molto impressionato da un paragrafo scritto da Liotti. Un paragrafo che Diego giustamente ha riportato per intero. Eccolo:
>Incoraggio di regola i miei pazienti a coltivare, se me la dichiarano, la
>loro propensione verso religioni e spiritualità, ovunque questa propensione
>li porti che non siano sette, culti strani tipo Dianetics e raeliani, e
>altra paccottiglia new age. Gli consiglio preti, rabbini, imam, maestri di
>meditazione buddhista, e altra roba nobilitata dal tempo, insomma. Mi
>rifiuto invece decisamente di fargli io da maestro o guida spirituale,
>quando me lo chiedono (è successo due o tre volte), mostrando loro che hanno
>palesemente sbagliato indirizzo. Come tu sai, io di mestiere faccio il
>medico, specializzazione psichiatria, specializzazione operativa.
 
Avevo scritto un paio di pagine di commento a questo paragrafo, profondamente rivelatore. Ma poi le ho cancellate. Perché in fondo tutti - Liotti stesso - immaginano il mio commento. Mi limito a riportare la parte finale del lungo testo cancellato:
"Certamente la psicoanalisi, come scienza, e' fallita. Ma temo - e lo dico anche grazie a Liotti - che FINORA lo siano anche le altre psicoterapie.  Però  noi, formati con la psicoanalisi, a fare scienza almeno CI ABBIAMO PROVATO. Per esempio, coltivando il mito [fallace] della "neutralità", tentando una "terapia" che non fosse una "pedagogia", che non incoraggiasse né consigliasse. Certo abbiamo fallito. Eppure va a nostro onore, ammettetelo, che almeno ci abbiamo provato..."

Giovanni Liotti, 26 gennaio 2003:

Caro Benvenuto, grazie per le cancellazioni. E grazie anche per l'illuminante paragrafo finale non cancellato. Ora finalmente ho capito in cosa consiste la neutralità della scienza. La prossima volta che uno scienziato, soprattutto se rigorosamente modernista,  mi consiglierà un buon ristorante, o mi incoraggerà, nel mio dubbio se prendere la metropolitana o l'automobile, a risparmiare il tempo del parcheggio optando per la prima,  strapperò davanti ai suoi occhi i suoi scritti scientifici. Evidente prova, il suo consiglio o incoraggiamento, che quel che scrive non è neutrale rispetto alle opinioni politiche dominanti nel Paese, rispetto ai diversi credi religiosi, rispetto all'ateismo, rispetto alle aziende tranviarie municipalizzate, e soprattutto rispetto ai ristoranti. Grazie! Gianni Liotti

Paolo Migone, 27 gennaio 2003:
On 23/01/2003, Tullio Carere wrote:
>...Tu non credi che esistano alcune
>caratteristiche che definiscono l'Homo sapiens come tale, indipendentemente
>dalla cultura di appartenenza e dal periodo storico. E' un'opinione
>rispettabile, anche Sergio Benvenuto la pensa come te. Invece io mi sento
>più vicino a Gianni nella convinzione che ogni essere umano, in qualsiasi
>luogo e tempo, ha bisogno per esempio di un'esperienza di attaccamento
>sicuro per sviluppare una personalità equilibrata...

Scusandomi del ritardo rispondo solo ora alle obiezioni di Tullio contenute nella sua e-mail del 23-1-03, anche se adesso vedo che il dibattito si è allargato e ha coinvolto altri temi. Io non intendevo dire, ovviamente, che non c'è niente in comune tra un uomo e un altro (altrimenti non potremmo neanche parlarci), volevo solo dire che definire questo fattore invariante come 'mancanza essenziale' rischia di essere troppo aspecifico, nel senso che questa affermazione può essere usata per dire tante cose, troppe (non è falsificabile, direbbe Gianni con Popper). Sarebbe come dire, per esempio, che ogni essere umano ha una 'mancanza essenziale' perché ha bisogno del rapporto con gli altri, altrimenti non avviene neanche lo sviluppo infantile. Parlare invece di 'bisogno di un'esperienza di attaccamento' è più specifico, perché si riferisce a una serie di conoscenze e di dati a cui si può far riferimento con maggiore precisione.

Riguardo invece alla seconda osservazione di Tullio, riguardo alla differenza tra 'sofferenza sana' e 'sofferenza patologica', rimango della opinione che può essere non corretto dire, come tu dici, Tullio, che
"il nevrotico (in senso convenzionale: colui che non riesce a costruire un
adattamento sufficientemente buono a questa società) è più vicino alla 
verità (del suo disagio) del normale (cioè di colui che grazie a un buon adattamento
è più lontano dalla percezione del suo disagio di quanto non sia il nevrotico)"

nel senso che questo (che fu uno dei miti dell'antipsichiatria, quello della rivalutazione della malattia mentale come portatrice di valori positivi) può non essere sempre vero, per cui non ne farei una regola generale (qui sono d'accordo con Gianni). E' pur vero, come tu dici, che il "candidato sciamano è preferibilmente reclutato tra giovani disadattati e... i 'normopatici' non sono i candidati ideali alla professione di psicoanalista", ma anche qui penso che non bisogna cadere nel rischio di facili sillogismi, ma solo capire come sono nate queste affermazioni e il loro grande valore euristico. Un caro saluto Paolo

Giorgio Gabriele Alberti, 26 gennaio 2003:

Cari amici, il nuovo dibattito è subito cresciuto, e per i tanti impegni non sono riuscito a seguirlo bene. Oggi ho riletto, e in parte letto ex novo, diversi dei mail ricevuti dall'inizio di gennaio. 

Noto in primo luogo che l'asse del dibattito sembra essersi spostato verso quella che appare la corrente ermeneutico-antiempirica del nostro gruppo, la quale si è arricchita dei contributi di Diego Napolitani, su cui poi Tullio ha inanellato diversi suoi interventi. Devo ammettere che non riesco tuttora a rappresentarmi tutte le facce argomentative che sono state toccate, anche se noto una perdurante differenziazione tra coloro che tengono al metodo scientifico galileiano-popperiano (Gianni e Paolo) e coloro che o vogliono affiancargli con pari dignità un alternativo metodo di conoscenza (euristico-ermeneutico) o addirittura rinunciano al metodo scientifico tradizionale (spregiativamente detto "medico", come nel '68 e nella visione più veterobasagliana) (Tullio, Sergio e Diego).

Forse semplifico un po', ma mi sembra però molto evidente che punti di riferimento concettuali per me fondanti anche in psicoterapia,e ancor di più nella ricerca di un percorso integrativo, come lo studio degli esiti e di efficacia e effectiveness, lo studio dei processi e la loro comprensione intersoggettivamente verificabile, a partire ovviamente da ipotesi falsificabili, su fatti osservabili di carattere clinico (per me è irrilevante se registrati in audiovideo, o no, purché ovviamente si tenga conto delle distorsioni che creano le registrazioni), sono stati messi in sordina a favore di un linguaggio gradevolmente metaforico e suggestivo ma poco rigoroso, a favore di una elegante nostalgia dell'assoluto, della spiritualità ultima delle cose, e di una nemmeno troppo celata disponibilità di sostituirsi alle figure che tradizionalmente mediano tra l'uomo e dio, tra l'uomo e il dolore inestirpabile della condizione umana, cioè i sacerdoti.

Devo dire che non mi sento portato a configurarmi come sostituto laico del prete, soprattutto perchè io non ho da dispensare delle certezze (sull'esistenza di dio, sulla sopravvivenza dell'anima dopo la morte, sul prevalere del bene sul male), nemmeno la certezza della nostra ignoranza sostanziale davanti al cosmo, al dolore, al male, all'ignoto. E poichè una tale sicurezza "gnostica" (da intendersi in senso ovviamente molto lato) deve necessariamente diventare uno degli attributi dello psicoterapeuta che, come disse Sergio in una prospettiva "topologica", "si mette al posto" del sacerdote, io non mi sentirei affatto pronto, nè mi piacerebbe farlo, perchè non desidero dispensare miti, se non in ben precise condizioni, ad esempio con un paziente delirante che ha bisogno di una conferma da cui possa partire un buon rapporto.

Ma se il discorso va in questa direzione, credo di dover cercare di capire un po' di più una posizione che mi resta lontana. Ed ecco che scopro un qualcosa che mi lascia perplesso. In primo luogo raccolgo la visione di Diego circa il rapporto tra sintomo e l'"intera esistenza storica dell'individuo":
"In questa prospettiva il sintomo è elemento strutturale di quella
complessità che è l’intera esistenza storica dell’individuo, ne è un
elemento portante come ogni trave lo è in una struttura architettonica. È
nel modo con cui si guarda a questa “trave” che si dipartono due filosofie o
due ordini di pratiche tra loro divergenti: si tratta di cambiare la “trave”
come si fa con un paio di scarpe logore o si tratta di guardare a quel che
conveniamo definire “sintomo” come un luogo in cui si condensa la
problematicità irrisolta di un’intera esistenza? "

Ecco, come è evidente da un successivo capoverso, Diego distingue i "tecnici (farmacologi, ipnotisti, comportamentisti) capaci di cambiare la trave senza guardare all’insieme della sua “costruzione”" dai terapeuti che non riescono "a distinguere  il mentale dallo spirituale". Ora, a me questa divaricazione appare estremamente problematica in quanto non credo che esistano, nemmeno più tra i comportamentisti più stretti, coloro che pensano che si possa estinguere il sintomo e sostituirlo con l'apprendimento di un comportamento più adattivo.  Tantomeno esistono tra gli psichiatri meno primitivi (che ormai sono la maggioranza) quelli che si illudono che i farmaci tolgano semplicemente i sintomi, quasi si trattasse, nel caso della farmacoterapia, di una scorciatoia che fa la stessa cosa della terapia psicologica ma più rapidamente. Al contrario, ogni psichiatra minimamente avveduto oggi tende a usare i farmaci insieme a interventi psicologici, più o meno articolati, sì da creare un processo complesso di cambiamento in cui sono presi in considerazione molti aspetti della realtà del paziente, dalla storia del paziente, alla struttura della sua personalità, al contesto familiare  e sociale, alle dinamiche e vicissitudini del rapporto individuale col terapeuta etc.  Tutti tendono a considerare la globalità del paziente, esattamente come raccomanda Diego, anche se, ovviamente, partendo da diversi modelli generali del paziente, della patogenesi e del cambiamento terapeutico.

E sul metodo d'intervento che lui propugna cosa ci dice Diego ? Nel penultimo capoverso esso è ben messo a fuoco:
"L’uomo “sintomatico” è il ragno che resta preda della sua stessa tela, per
il quale non si pone il problema di eliminare quella specifica tela in cui resta costretto, 
ma di facilitare in lui l’uso di quelle sue proprie risorse per le quali riesce ad emergere 
dalla sua tela per sviluppare la sua attitudine costruttiva senza rimanere letteralmente
irretito nelle sue stesse costruzioni."

E cosa significa ciò? Se ben intendo, che l'intervento passivizzante di tipo "chirurgico" va evitato a favore dell'intervento che promuove la mobilizzazione delle risorse dello stesso paziente e lo sviluppo di una sua attiva capacità costruttiva. Ora, a me sembra che ogni psicoterapia, dinamica, cognitiva, sistemica, esistenziale e così via, abbia esattamente questo scopo come finalità ottimale, e ciò può dirsi ogni qualvolta non prevalgano gli  interventi solo supportivi, che peraltro possono svolgere in via mediata un effetto motivante alla relazione terapeutica. Quindi, alla fine del suo argomentare Diego dice una cosa sacrosanta, ma ne restringe eccessivamente l'ambito d'uso, facendo, a mio avviso, un torto a molte terapie che non coincidono con quella che lui pratica.

A tratti ho avuto la sensazione che Diego riproponesse, pur sotto diverse spoglie, la distinzione tra l'intervento esclusivamente sintomatico e l'intervento etiologico, una sorta di riedizione della famosa antinomia tra l'oro e il metallo vile, tra ciò che mette pezze sintomatiche e ciò che risolve radicalmente il problema nevrotico. Ma mi sembrava che questa visione psicoanalitico-centrica, infondata in quanto non certo suffragata da adeguati studi di esito e processo, fosse stata superata. Si vede che mi sbagliavo. Con ciò voglio comunque ringraziare per tutti gli stimoli fin qui ricevuti, e ancora poco elaborati. Cordiali saluti a tutti, Giorgio

Tullio Carere, 28 gennaio 2003:

On 28-01-2003, G.G. Alberti wrote:
> …noto una perdurante differenziazione tra coloro che tengono al metodo scientifico
> galileiano-popperiano (Gianni e Paolo) e coloro che o vogliono affiancargli
> con pari dignità un alternativo metodo di conoscenza (euristico-ermeneutico)
> o addirittura rinunciano al metodo scientifico tradizionale (spregiativamente detto "medico",
> come nel '68 e nella visione più veterobasagliana) (Tullio, Sergio e Diego).

Caro Giorgio, nessuno ha usato l'espressione 'modello medico' in senso spregiativo. A meno che tu non pensi che Gianni disprezzasse sé stesso quando ha scritto: "di mestiere faccio il medico, specializzazione psichiatria, specializzazione operativa psicoterapia". Ma nemmeno gli avversari dichiarati del modello medico, come Wampold, lo disprezzano (hai forse trovato qualcosa di sprezzante nella sua definizione di questo modello che ho riportato nell'ultimo mail?): si limitano a sostenere che l'ipotesi base di questo modello ("procedure specifiche per disturbi specifici") è stata falsificata dalla stessa ricerca empirica cui i contestualisti si richiamano non meno dei sostenitori del modello medico.

Ma per carità, Giorgio, guardiamoci dal disprezzo, sia come sentimento provato per i sostenitori di teorie rivali, sia come sospetto di esserne oggetto da parte di altri. Non c'è nulla di sprezzante nel dire che il DSM, in quanto manuale diagnostico, è uno strumento medico — e il DSM tende naturalmente a un TSM (Manuale Terapeutico Statistico), in cui ogni disturbo del DSM troverà una procedura terapeutica appropriata. Il tutto basato sulla migliore ricerca empirica, a sua volta basata sugli stessi principi della ricerca medica e delle scienze di base. Permettere che il disprezzo (il proprio o quello attribuito ad altri) si inflitri nel nostro dialogo, significa solo renderlo ancora più difficile.

Ho tanto rispetto del modello medico che penso di farne il protagonista del prossimo Congresso SEPI: "Il modello medico e le sue alternative in psicoterapia" (abbandonando il precedente riferimento al dialogo che mi è stato giustamente criticato). Le alternative principali sono il modello contestualista (che si appoggia anch'esso alla ricerca empirica) e il paradigma della complessità (un paradigma scientifico diverso da quello galileiano). Dovremmo prendere atto dell'esistenza di queste grandi aree di integrazione (o almeno di aggregazione) e imparare in primo luogo a conscerci e rispettarci reciprocamente. Mentre il modello medico è ben noto a tutti, non si può dire lo stesso degli altri due modelli. Per questo ho proposto come base per la discussione prima il lavoro di Diego, e prossimamente due lavori di Sergio Benvenuto che penso non conosciate (uno intitolato "SEMPLICISTICA COMPLESSITA' - Per una discussione su Psicoanalisi e Teoria del Caos", l'altro intitolato "IL  FILOSOFO  NEL  GIARDINO  DELLE SCIENZE  COGNITIVE",  pubblicato in un numero recente della rivista Sistemi Intelligenti).

Quanto alle osservazioni che fai allo scritto di Diego, le trovo pertinenti e utili allo sviluppo della discussione. Le commenterò in un prossimo mail. Tullio

Giorgio Gabriele Alberti, 28 gennaio 2003:

Caro Tullio, apprezzo il Tuo impegno nel negare connotazioni negative e sprezzanti verso il modello che dici "medico" nel Tuo ricorrente parlarne, e può essere bene che alla specifica verbalizzazione Tu non ricordi di avere associato sentimenti di disprezzo. Tuttavia, mi resta in bocca un sapore di quel tipo, se non altro per come Tu in tutti questi mesi hai accostato il concetto di "modello medico" in prevalenza a concetti che per Te sono "disvalori" o almeno valori minori, come il rigore logico, la verifica empirica delle ipotesi, la portata più limitata della sua efficacia mutativa (del modello medico), la natura quasi non psicoterapeutica delle terapie brevi che troppo assomigliano agli esperimenti scientifici o farmacologici (dicesti, se ben ricordo che l'unica vera psicoterapia è quella senza limite prestabilito di tempo) soprattutto se manualizzate, e così via.

Ora, se per ipotesi facessimo un'analisi dei rapporti tra questi concetti e quello di "modello medico", ad esempio con il differenziale semantico di Osgood, vedremmo probabilmente che essi sono collegati tutti tra loro, in una unica "nuvola" di significato prevalentemente negativo, ben distante da un'altra nuvola, di concetti riferibili all'irrazionalismo, quali misticismo, ne-scienza, intuizione etc., che complessivamente Tu hai mostrato di apprezzare molto di più.

Faccio questo esempio per dire che nel parlare di "modello medico" mi sembra che Tu gli associ prevalentemente concetti negativi, e ciò io non posso condividere, non tanto perché voglia difendere il cosiddetto modello medico, che mai ho propugnato, non riconoscendomici, ma perché i concetti cui Tu lo colleghi sono per me valori molto più preziosi di quelli dell'altra "nuvola concettuale", più vicina all'irrazionale. Tra l'altro, devo nuovamente sottolineare che la priorità di valore che assegno ai concetti razionali vale soprattutto per lo studio delle psicoterapie, e quindi della loro integrazione, e non primariamente per la pratica della psicoterapia, nella quale hanno grande rilevanza intuizione, sensazioni anche incerte e indimostrabili, improvvisazioni, deviazioni dagli schemi, paradossalità etc.

Quanto ai riferimenti al '68 e all'antipsichiatria, sarà un caso ma, Tu certo ricorderai, in quel clima culturale predominava una diffidenza, direi un'ostilità, spessa e tenace, contro tutto ciò che sapeva di scienza, rigore fattuale, dimostrazione logica, separazione dei fatti dalle interpretazioni, il tutto stigmatizzato come mistificazione della statistica, prodotto della cultura borghese antiproletaria, manipolazione delle multinazionali.  Anche allora (come ora nel Tuo pensiero) imperava la dialettica, e io ricordo abbastanza bene le diatribe sulla sostenibilità logica della dialettica hegeliana e marxista (forse ricorderai "Dialettica senza dogma" di Havemann, o "Materialismo dialettico e metodo scientifico" di Apostel, usciti come tascabili da Einaudi, che cercavano di conciliare l'inconciliabile, logica scientifica e dialettica). E tuttora credo che la conciliazione non sia avvenuta. E, caro Tullio, quanto i giovani psichiatri progressisti hanno tuonato contro il modello medico della malattia mentale! Allora io ero abbastanza di sinistra, ma tutta questa demonizzazione della scienza non l'ho mai condivisa.  Tra l'altro, sai come sono poi evoluti molti psichiatri antipsichiatrici?  Sono diventati epidemiologi, gestori di numeri, interpreti di indicatori numerici o comunque di concetti rigorosi.

La Tua posizione odierna mi appare quindi come molto somigliante a quelle, e non devi adombrarTi se forse nel giudicare il Tuo atteggiamento verso il cosiddetto "modello medico" gli attribuisco un grado di ostilità superiore a quella che realmente lo anima. Che Tu sia totalmente neutro o addirittura positivo verso il suddetto modello ho però molta difficoltà a credere, per quanto sopra Ti ho spiegato. Anzi, mi ruzzola in testa l'idea che Tu sia un sessantottino misticizzato un po' in ritardo. Cordiali saluti, Giorgio

Tullio Carere, 29 gennaio 2003:

On 28-01-2003, G.G. Alberti wrote:
> Caro Tullio, apprezzo il Tuo impegno nel negare connotazioni negative
> e sprezzanti verso il modello che dici "medico" nel Tuo ricorrente parlarne,
> e può essere bene che alla specifica verbalizzazione Tu non ricordi di avere
> associato sentimenti di disprezzo.
> Tuttavia, mi resta in bocca un sapore di quel tipo, se non
> altro per come Tu in tutti questi mesi hai accostato il concetto di "modello
> medico" in prevalenza a concetti che per Te sono "disvalori" o almeno valori
> minori, come il rigore logico, la verifica empirica delle ipotesi, la
> portata più limitata della sua efficacia mutativa (del modello medico), la
> natura quasi non psicoterapeutica delle terapie brevi che troppo
> assomigliano agli esperimenti scientifici o farmacologici (dicesti, se ben
> ricordo che l'unica vera psicoterapia è quella senza limite prestabilito di
> tempo) soprattutto se manualizzate, e così via.

Caro Giorgio, il bello dei dibattiti telematici è che scripta manent. Praticamente tutto quello che ci siamo detti da quasi due anni a questa parte è registrato sui nostri hard disk, e in ogni caso è stato editato a cura di Paolo e mia ed è reperibile su Psychomedia. Ti sarò grato se potrai trovare in questo voluminosissimo materiale una sola riga scritta da me da cui risulti "disprezzo" per il modello medico e i suoi valori. Vorrebbe dire che mi è sfuggito qualcosa di cui non sono consapevole, e sono sempre grato a chi mi aiuta a recuperare pezzi del mio inconscio.

Ciò di cui sono certamente consapevole non è il disprezzo, ma la fermissima opposizione a ogni pretesa di egemonia di quel modello sugli altri che si contendono il dominio del campo in cui tutti ci muoviamo. Certamente per me è un disvalore la pretesa che il rigore logico, la verifica empirica delle ipotesi, e tutto il pur rispettabilissimo e per me utilissimo armamentario del modello medico valgano di più dei valori del dialogo. Io rispetto la tua metafisica, basata sulla fede nei valori della ricerca sperimentale, né più né meno di quanto rispetti la metafisica di mio cognato islamico, basata sulla fede nei valori del Corano. Viceversa non rispetto l'oltranzismo scientista, convinto della superiorità dei propri procedimenti come gli unici capaci di emancipare l'umanità dall'oscurantismo delle superstizioni medievali, più di quanto rispetti l'oltranzismo islamico, convinto della propria missione di salvare il mondo corrotto dal razionalismo tecnicista e consumista dell'occidente.

Io capisco, Giorgio, quelli che come te sono convinti che se vogliamo parlare di psicoterapia, particolarmente in una prospettiva integrativa, dobbiamo usare un linguaggio "univoco, non ambiguo, comunicabile, intersoggettivamente verificabile", dobbiamo insomma sottoporci ai "criteri dell'attività scientifica" (come hai più volte scritto). Come ti ho già detto in un'altra occasione (permettimi di riportarti un passo di un nostro vecchio dialogo), tutto ciò è molto utile. Anzi, più che utile, a mio parere è necessario. E' necessario, ma non sufficiente. Perché non lo è? Ti potrebbe rispondere il primo Wittgenstein: il rigore definitorio è molto importante, ma è inadeguato a descrivere condizioni non fattuali, come l'etica e l'estetica (su cui quindi bisogna tacere). Il secondo Wittgenstein, come sai, ha riconosciuto che delle cose non fattuali (molte delle quali sono di pertinenza della psicoterapia) si può anche parlare: ma a patto di rinunciare al rigore definitorio un po' superegoico che era stato l'ideale dei suoi anni giovanili. Col rigore del linguaggio scientifico, ti direbbe Wittgenstein, potrai descrivere molti fatti rilevanti in psicoterapia, ma non coglierai mai molte cose essenziali. Questo significa che disprezzo il linguaggio della scienza, cioè di questo tipo di scienza? No, mi oppongo solo con tutte le mie forze al tentativo di far passare questo tipo di linguaggio, di "rigore", di "logica" come l'unico adatto a fondare una "psicoterapia scientifica", e soprattutto un dialogo tra aderenti a diverse tradizioni e persuasioni psicoterapeutiche. Ma con la stessa energia mi oppongo ANCHE a coloro che, dall'altra parte, tentano di affermare l'egemonia opposta, della "psicoanalisi" sopra la "psicoterapia", dell'ermeneutica sopra la scienza sperimentale, e via distinguendo.

Abbiamo appena accertato, nel dialogo con Diego e con Gianni, che l'unica cosa che veramente ci unisce è il comune richiamo al dialogo socratico. Se tu dici, come dici: "mi ruzzola in testa l'idea che Tu sia un sessantottino misticizzato un po' in ritardo", che cos'è: affettuosa ironia o sprezzante sarcasmo? Vogliamo dialogare? Se sì, il fondamento è sempre quello indicato da Socrate: la sospensione di ogni giudizio e di ogni pretesa di sapere, quindi di tutte le premesse metafisiche, islamiche o galileiane, che fondano i diversi saperi e soprattutto le diverse identificazioni. Nel vuoto di sapere così aperto, il dialogo può iniziare. Tutte le certezze, in questo spazio, sono derubricate a congetture. Ma se subito dopo si afferma che, di fronte a una congettura, l'unica alternativa al metodo sperimentale sono quattro chiacchiere davanti a un buon bicchiere di vino rosso, siamo da capo. A Socrate (e a me) il buon vino rosso non dispiaceva, e non dispiacevano gli esperimenti (come quando fece dimostrare il teorema di Pitagora a uno schiavo). Ma nessuno studioso di Socrate potrebbe affermare che il metodo sperimentale è il fondamento del suo metodo. Socrate, al pari di ogni persona che voglia dialogare, si basava non su esperimenti ma sul senso comune, cioè su ciò che accomuna i dialoganti, al di là delle rispettive ideologie (maomettane o baconiane), e sulla riflessione fondata sul senso comune.

Se vogliamo comunicare, dobbiamo cercare ciò che ci accomuna, prima di ciò che ci divide — poi valorizzeremo anche ciò che ci divide. L'unica cosa che può accomunare i membri delle litigiose tribù degli psicantropi è la volontà di dialogare, cioè di sospendere la pretesa di far valere l'egemonia dei propri giudizi, pregiudizi e credenze: i valori della metafisica sperimentale come quelli della metafisica ermeneutica, del primo come del secondo Wittgenstein, del modello medico come di quello contestuale, della pretesa che la ricerca empirica verifichi il modello medico oppure lo falsifichi, e così via. Siamo disposti a questa sospensione radicale di ogni assunto? Tullio

Sergio Benvenuto, 29 gennaio 2003:

Cari amici, noto che in fondo ognuno di noi scrive un PARAGRAFO CRUCIALE. Sia Diego che io abbiamo citato quello - ormai leggendario - di Liotti. Poi anche Tullio è stato colpito DALLO STESSO PARAGRAFO che ha colpito me, e cioè:
> noto una perdurante differenziazione tra coloro che tengono al metodo scientifico
> galileiano-popperiano (Gianni e Paolo) e coloro che o
> vogliono affiancargli con pari dignità un alternativo metodo di conoscenza
> (euristico-ermeneutico) o addirittura rinunciano al metodo scientifico tradizionale
> (spregiativamente detto "medico", come nel '68 e nella visione più
> veterobasagliana) (Tullio, Sergio e Diego).

Sono affermazioni provocatorie: Alberti non può aspettarsi altro che una valanga di smentite. Anch'io, come Tullio, non mi riconosco in questo schizzo caricaturale - e per varie ragioni. Non ho MAI scritto contro la medicina e nemmeno contro la concezione  della psicoanalisi come psicoterapia. Da molti anni non mi considero affatto ermeneutico, e quanto poi all'euristica, non è affatto ermeneutica (non direi nemmeno che è un metodo: è un valore, una funzione). (Quanto poi ai veterobasagliani - diamo a Cesare quel ch'è di Cesare - non erano anti-medicali, anche perché quasi tutti erano medici; erano piuttosto anti-istituzionali, il che è molto diverso.) Ma soprattutto credo che alcuni di noi facciano una grande confusione quando sembrano identificare "metodo medico" e "metodo scientifico". Mi pare che vi cada Liotti, ad esempio, quando nel suo ormai celebre paragrafo scrive "io di mestiere faccio il medico, specializzazione psichiatria, specializzazione operativa". Lo dice come se essere medici fosse di per sé una garanzia di scientificità.

I medici esistono da millenni, ben prima di Galileo, Harvey, Pasteur, ecc. - quindi non erano "scientifici" nel senso che applicavano teorie che noi oggi consideriamo validate (ci si chiede oggi come, per millenni, i medici abbiano curato; alcuni pensano che di fatto usassero placebo. Penso che sia però una risposta troppo semplice. La ricerca storica sulla medicina è ai suoi primi vagiti.) . Esistono poi anche medici alternativi, ad esempio omeopati. Conosco molti medici - anche psichiatri - che non sono omeopati ma che prescrivono lo stesso medicine omeopatiche perché, dicono, "i pazienti ci si trovano bene". Anche questi sono scientifici? (Preciso che considero l'omeopatia non molto migliore del cocktail Di Bella: non per un mio astio preconcetto contro di essa, ma perché ho letto delle ricerche dell'OMS che dimostrano la sua inefficacia).
Conosco molti biologi che considerano quasi spregevole lavorare in laboratori medici: "la vera scienza non è mai immediatamente applicativa, mentre i medici fanno solo ricerca finalizzata a terapie". Essi nutrono lo stesso disprezzo che in fondo Freud - lui stesso medico - nutriva nei confronti dei colleghi: "loro vogliono solo e subito curare" diceva, mentre per lui la psicoanalisi era prima di tutto un metodo di ricerca.

Ma da dove proviene questa bizzarra idea che "essere medici" sarebbe sinonimo di scientificità e di rigore? Secondo me proviene da un presupposto, o assioma, sulla nozione stessa di scientificità che va finalmente criticato. Vale a dire, prevale una visione EMPIRISTICA - che poi coincide con l'EMPIRIA - della scienza, che proprio Popper - si, proprio lui - ha giustamente scardinato. E' questo il suo merito storico: l'aver distrutto molti miti dell'empirismo positivista. Ma mi pare che oggi in Italia ci si riempia la bocca di Popper per tornare in realtà alla vecchia solfa empirista.
Oggi si decide dell'efficacia di un farmaco attraverso protocolli molto semplici: si somministra il farmaco X ad un certo campione di malati, e si somministra un placebo ad un campione simile, col sistema del double blind. Se il placebo da' miglioramenti nel 30% dei casi, e il farmaco testato da' miglioramenti nel 40% dei casi, allora si decide che il farmaco X è efficace. E' questa SCIENZA?
Si tratta certo di un utile metodo empirico, quasi di una convenzione, che ci permette di volta in volta di decidere quali farmaci considerare accettabili e quali no. Ma la vera scienza - almeno, quella che mi piace di più - comincia quando ci si pone il problema "PERCHE' e COME il farmaco X è più efficace del placebo?" Una domanda che però solo pochi si pongono - anche perché qui la risposta E' MOLTO PIU' DIFFICILE. (per non dire poi della questione, che quasi nessuno si pone: "PERCHE' IL PLACEBO E' ESSO STESSO EFFICACE?")  
Ad esempio, alcuni psichiatri praticano l'ipnosi perché hanno visto che, in alcuni casi, funziona. Fanno benissimo a farlo - non sono un moralista - ma fanno davvero SCIENZA? La fanno, o cercano di farla, quelli che si pongono il problema PERCHE' L'IPNOSI FUNZIONA?  Fu il caso di Freud, che pratico' l'ipnosi, pare con un certo successo. Ma se oggi ricordiamo Freud, e non qualche abilissimo ipnotista dell'epoca, è perché Freud ci ha anche proposto una TEORIA per spiegare l'efficacia dell'ipnosi (possiamo non accettare la sua teoria, ma almeno... è UNA TEORIA).

Del resto, molte attività sono terapeutiche senza essere non dico scientifiche, ma nemmeno mediche. Mi si dice che un certo numero di tossicodipendenti - non così grande come si crede, è vero - escono fuori dalla droga nelle comunità cattoliche tipo S. Patrignano. Che cosa significa, che Muccioli è galileiano-popperiano? D'altra parte esiste una medicina che si basa su solide teorie biologiche: ma questa solidità non le viene in genere dalla pratica medica in quanto tale - che è piuttosto feyerabendiana, "everything goes" - bensì dalla ricerca pura, che ogni tanto qualche cosa la scopre. Non mi si fraintenda ancora una volta: non dico che l'empiria medica sia negativa, essa certo applica regole di buon senso. Ma le grandi scienze - a cominciare dalla fisica - sono diventate tali proprio perché si sono emancipate dall'aderenza empirica. 

Ad esempio, non sono affatto d'accordo nel chiamare il metodo scientifico GALILEIANO-POPPERIANO. Mi chiedo se questa omologazione abusiva (tra il platonico Galileo e l'anti-platonico Popper) non dipenda da alcuni cliches che ci sono stati inculcati sin dalla scuola media, a loro volta ispirati dalla filosofia empirista classica (quella che il buon Popper - ripeto - ha confutato).

La leggenda di Galileo campione del metodo sperimentale e‚ stata definitivamente smantellata dall’analisi storiografica piu‚ moderna. Galileo non era più sperimentale dei suoi predecessori; i medievali scoprirono difatti un bel po' di cose, dalla bussola fino al cannocchiale (che Galileo ebbe l‚idea geniale di puntare sulla luna e non sulla finestra del vicino). La grandezza di Galileo fu capire il suo "TAGLIO DI FONTANA": che insomma si doveva edificare una fisica incommensurabile rispetto a quella precedente (non solo l‚aristotelica, ma anche la fisica dell’impetus) sulla base di un principio fondamentale nuovo: IL PRINCIPIO DI INERZIA. 

Ha pensato tutto o quasi a partire da questo principio contro-intuitivo. Tutti i suoi esperimenti sarebbero oggi dimenticati se Galileo - SENZA AVERNE ALLORA LA MINIMA PROVA - non avesse scommesso sul principio di inerzia. E' evidente che questo principio cozza contro tutta la nostra esperienza concreta! Sarebbe bello se, data una spinta all'auto, questa continuasse tranquillamente a camminare con moto rettilineo e uniforme, senza benzina! Ai benpensanti - allora non si chiamavano cognitivo-comportamentali - il principio fondamentale della fisica moderna sembrava un delirio post-moderno. La fisica aristotelica, invece, appariva molto piu‚ empirica. Eppure il "taglio di Galileo" ha prevalso sul buon senso aristotelico. 

La mentalità positivistica ha creato una serie di Telenovelas, vere e proprie leggende che oggi gli storici hanno demolito. Ad esempio, per secoli si e‚ raccontato che Galilei avrebbe fatto cadere dei gravi dalla torre di Pisa per dimostrare la validita‚ del principio di inerzia! Anche fisici eminenti hanno creduto a questa baggianata. Provate a gettare allo stesso tempo dei gravi di peso diverso dalla torre di Pisa: questi sicuramente NON arriveranno per terra allo stesso momento, come affermava in linea di principio la teoria di Galileo. Per ragioni che anche a non-fisici come noi dovrebbero apparire evidenti. Ma perché‚ la fortuna di questa leggenda? Per puntellare il mito empirista secondo cui Galileo diceva solo quello che aveva visto con i propri occhi. Ma all’epoca non C‚ERA ALCUN MODO di verificare il principio di inerzia. Esso e‚ come il taglio di Fontana: c‚ è e basta. Chi lo vede, potrà costruire una scienza. Chi non lo vede...

Né si fa scienza seria facendo "integrazione" come la intendono alcuni: evidenziando alcuni punti su cui sono d'accordo terapeuti di varie correnti. E' confondere la scienza con i pateracchi politici che conosciamo bene in Italia. IL DSM è un Manuale Cencelli della psichiatria, ma proprio per questo scientificamente povero. Se è questa l'integrazione, allora la lascio volentieri a chi ci crede (molti di voi hanno detto cose simili a queste che dico qui). 

Invece TUTTA LA STORIA DELLE SCIENZE SERIE mostra che esse solo di rado integrano teorie alternative: una teoria prevale, e l'altra viene spazzata via. Tutto qui. Grazie per la (lunga) attenzione, Sergio Benvenuto

Paolo Migone, 29 gennaio 2003:

On 28/01/2003, Tullio wrote:
<<...Ho tanto rispetto del modello medico che penso di farne il protagonista del prossimo Congresso SEPI: "Il modello medico e le sue alternative in psicoterapia" (abbandonando il precedente riferimento al dialogo che mi è stato giustamente criticato)...>>

Caro Tullio, mi fa piacere vedere che hai modificato il titolo del tuo prossimo convegno. A rischio di dire cose già dette e di annoiare tutti quanti, devo dirti però ancora il titolo potrebbe essere migliorato, concordo con quello che dice ad esempio Giorgio. Secondo me dovresti usare, al posto di "modello medico", una parola che sia chiara per tutti, che alluda ad esempio ad un modello medico antiquato, superato o frainteso, obiettivante, ecc. (es. quello del DSM-III). Il "modello medico", cioè scientifico (perché quello medico a mio parere di per sé non esiste, come già dissi), include benissimo tutte le altre cose che dici, soprattutto la intuizione, la complessità, la causalità circolare (vedi la fisiologia, che insegna proprio questo). La intuizione, soprattutto, è la regina del modello medico, come ogni buon medico anche di campagna sa, inoltre il cosiddetto "occhio clinico", e l'utilizzo del rapporto interpersonale in mille modi, lo sfruttamento dell'effetto placebo (concetto, quello di placebo, non a caso studiato dal modello medico), e quindi la psicoterapia "trasversale" alla Balint. Forse quello a cui tu alludi quando parli in senso critico del modello medico è il paradigma della Evidence Based Medicine (EBM), che alcuni propongono ora anche in psichiatria, in cui ad esempio nel suo statuto viene dichiaratamente bandita la intuizione o la "esperienza clinica", foriera di autoinganni e di autosuggestioni, e di basarsi solo sui dati disponibili dalla letteratura (intesa come Medline, cioè una selezione di riviste che pubblicano articoli con dati elaborati statisticamente), ragionando freddamente senza farsi "confondere" dai sentimenti o dal paziente in carne ed ossa che abbiamo di fronte. Secondo i fautori della EBM così si fanno, statisticamente parlando, meno errori (è il nostro amico Giovanni de Girolamo il portabandiera in Italia di queste posizioni). Ma, per come vedo io le cose, la EBM non è la Medicina, ma solo una parte di essa, la metà della luna per così dire, la medicina intesa come clinica è una disciplina molto complessa che include un sacco di cose (che andrebbero integrate - diresti tu - ma bisogna vedere cosa vuol dire integrare).

Le alternative che tu poni al modello medico, cioè il "modello contestualista" e il "paradigma della complessità", per me sono parole che non dicono veramente qualcosa di nuovo per quanto riguarda i nostri discorsi. Ci mancherebbe altro che il modello medico ignorasse il contesto! Riguardo alla complessità, essa ha le sue regole, e gli "adoratori" americani del modello medico stai sicuro che ci navigano ben dentro alla cosiddetta teoria della complessità, qualunque cosa essa significhi, pur di capire qualcosa in più dei fenomeni complessi! (perché, esiste forse qualcosa di semplice? Chi lo pensava?). Anche la teoria del caos ha le sue regole, come peraltro diceva lo stesso Diego a meno che io non l'abbia frainteso. 

Anche tu conosci bene Bob Holt, e sai che difficilmente esiste qualcuno più "positivista" di lui. Ebbene, negli ultimi 10-15 anni non fa altro che studiare la chaos theory, in modo quasi ossessivo, ne è entusiasta, e la trova perfettamente in sintonia con il suo credo scientifico. E Holt, come sai, molti anni prima di diventare il successore di Rapaport si era scontrato contro Allport che proponeva il metodo idiografico contro quello nomotetico, e disse che il metodo idiografico era solo una reazione romantica ad una concezione di scienza già allora superata (si era nel 1962, e nel 1998 ha ribadito le stesse cose nella introduzione che volle scrivere alla riedizione di quel suo lavoro che pubblicai nella mia area su Internet).

Tu non eri ancora nel nostro gruppo di Bologna nel 1994 quando facemmo litigare Holt per un giorno intero con Gianni Vattimo sull'ermeneutica, ma avrai visto il dibattito nel libro: anche lì Holt non ne faceva passare una a Vattimo, e ribadiva il suo credo scientifico, che naturalmente includeva quella che viene chiamata teoria della complessità. Un affettuoso saluto, Paolo.

Tullio Carere, 29 gennaio 2003:

On 29-01-2003, Paolo Migone wrote:
> Caro Tullio, mi fa piacere vedere che hai modificato il titolo del tuo prossimo 
> convegno. A rischio di dire cose già dette e di annoiare tutti quanti, devo dirti però
> ancora il titolo potrebbe essere migliorato, concordo con quello che dice ad
> esempio Giorgio. Secondo me dovresti usare, al posto di "modello medico", una
> parola che sia chiara per tutti, che alluda ad esempio ad un modello medico
> antiquato, superato o frainteso, obiettivante, ecc. (es. quello del DSM-III).
> Il "modello medico", cioè scientifico (perché quello medico a mio parere di
> per sé non esiste, come già dissi), include benissimo tutte le altre cose che
> dici, soprattutto la intuizione, la complessità, la causalità circolare (vedi
> la fisiologia, che insegna proprio questo).

Caro Paolo, l'espressione "modello medico", per come si affermata nella letteratura, NON include affatto tutto ciò che appartiene all'attrezzatura di un 'buon medico' (intuizione, complessità, causalità circolare incluse) ma corrisponde alla filosofia dominante della odierna medicina scientifica, i cui principi sono stati riassunti da Wampold nei punti che qui ricopio ancora una volta: "In this model theoretical explanations for disorders, problems or complaints are formulated, treatments contain specific ingredients that are theoretically purported to be necessary for change, the therapist focuses on these specific ingredients, and researchers attribute the benefits of psychotherapy to these ingredients". È una formulazione del tutto priva di accenti critici, meno che mai sprezzanti, che mi sembra corrispondere con buonissima approssimazione al tipo di psicoterapia cui Gianni e Giorgio fanno costante riferimento (tu un po' meno).

Ma in sostanza mi sembra che siamo d'accordo: il modello medico corrisponde infatti precisamente al paradigma della Evidence Based Medicine (EBM). È ben vero che, come dici, "la EBM non è la Medicina, ma solo una parte di essa, la metà della luna per così dire" — infatti non mi stancherò di ripetere che il "modello medico" non si riferisce alla totalità della medicina, ma solo a un suo aspetto parziale. Il modello contestuale e il paradigma della complessità si occupano, per usare la tua metafora, dell'altra metà della luna. Tullio 

PS: Quanto a Bob Holt, col passare del tempo ha un po' attenuato il suo positivismo. La sua parabola è simile a quella di Stern, che è partito da posizioni scientifiche classiche ed è approdato alla teoria del caos (ma lo strappo di Stern è molto più netto: tu stesso ci hai ricordato che ora Stern cita Husserl e Heidegger, come autori rilevanti per la ricerca sui 'now moments').

Giovanni Liotti, 29 gennaio 2003:

Caro Benvenuto, l'aver scritto qualcosa di leggendario (secondo la tua altrettanto leggendaria capacità di esprimere giudizi) mi induce a trascurare il pur grande valore che attribuisco alle cancellazioni, tue e mie,nella nostra corrispondenza, e a fornirti un esempio clinico riguardante le mie suddette leggendarie affermazioni. Spero così di farti cosa gradita: potrai, auspico, divertirti molto a leggere cosa c'è dietro le mie celebri sentenze, a produrre molti altri "lo dice come se..." di altrettanto indubitabile pregnanza quanto il tuo ultimo: 
<<... Liotti, ad esempio, quando nel suo ormai celebre paragrafo scrive "io di mestiere faccio il medico, specializzazione psichiatria, specializzazione operativa". Lo dice come se essere medici fosse di per sé una garanzia di scientificità.>>

Vorrai cortesemente scusarmi se preferisco produrre questo esempio di come è nato, dalla mia esperienza clinica, il contenuto del mio ormai celebre paragrafo, piuttosto che commentare le tue dottissime argomentazioni su Galileo, Popper, il metodo sperimentale, la medicina, e tanto altro. Non avendo scelto io di usare in questa discussione il termine "modello medico", e avendo solo accettato che lo usasse Tullio nella sua ricerca di un titolo e di un modo per categorizzare le opinioni di alcuni suoi interlocutori, non avendo tirato io in ballo Galileo, né preso io l'iniziativa di accostare il Gran Toscano a Popper, non avendo io mai citato come particolarmente rilevanti le ricerche sull'efficacia (sì invece quelle sul processo), non mi considero la persona adatta per un tale commento. Mentre invece sono di certo la persona adatta per alimentare le tue riflessioni sul mio celebre leggendario paragrafo.

Dunque, ecco uno dei due-tre casi in cui ho detto ad un paziente la celebre frase "io di mestiere faccio il medico, specializzazione psichiatria, specializzazione operativa psicoterapia" (per rispetto alle tue doti di giudizio e di stile, che poi è l'uomo, la cito nello stesso carattere che hai usato per evidenziarla, aggiungendo al tuo testo solo la parola originaria "psicoterapia" da te omessa e non di sicuro per un lapsus).

Una paziente che il DSM indurrebbe a considerare sofferente di un disturbo dissociativo, mi rivela un giorno di avere incontrato Gesù. Ne è evidentemente entusiasta. E' tornato sulla Terra, e sta raccogliendo intorno a sé coloro che lo riconoscono. Lei si sente bene come non mai, a partecipare alle riunioni di un piccolo gruppo di privilegiati discepoli che il misterioso personaggio ha cominciato a riunire attorno a sé. Rimpiange la religiosità della sua infanzia, che per tanti anni ha trascurato, ed è felice di questa straordinaria occasione per recuperarla e renderla matura. Di certo guarirà da ogni male, e la psicoterapia non le sarà più necessaria. Solo, ogni tanto ha un dubbio, che quasi non osa confessarmi: e se il misterioso personaggio fosse un millantatore? 

Non sto a dirti come io sia arrivato alla decisione di rispondere direttamente ed esplicitamente alla sua domanda e al suo dubbio: tanto tu già sai che il mero fatto che ci sia arrivato dimostra l'eroismo del tentativo della psicoanalisi di essere scientifica ed obiettiva, nel confronto con la primitiva ascientificità influenzante ed indirizzante dei miei metodi comportamentisti. Le rispondo: "Per togliersi il dubbio, potrebbe chiedergli di dire il Pater Noster in aramaico, lingua che di certo Gesù conosce bene". 

Non so come, lei accoglie il suggerimento. Nella settimana che segue, chiede al misterioso personaggio, durante una riunione del gruppo di discepoli, la grazia e la gioia di ascoltare da lui il Pater Noster in aramaico. Nella seduta successiva mi racconta la sua delusione: il misterioso personaggio si è arrabbiato moltissimo, è parso palesemente imbarazzato, poi si è rifiutato di parlare aramaico dicendo che è un gran peccato mettere alla prova la divinità. Dopo di che l'infelice signora comincia a chiedermi, visto che so smascherare i truffatori, di essere io la sua guida spirituale: ormai non può più rinunciare ai benefici della religione, che ha sentito nell'incontro col truffatore, e io secondo lei dovrei aiutarla a recuperare una Fede autentica. E qui ahimé io vieppiù rivelo la mia pochezza, l'assenza di neutralità e di scientificità, etc. etc. che tu hai così generosamente rilevato, sia pure con garbo grande e senza calcare la mano in alcun modo nei tuoi  giudizi sacrosantamente negativi. Infatti le rispondo che se crede che la religione possa aiutarla, dovrebbe consultare un prete per farsi guidare in tale recupero. Io posso seguirla indipendentemente dalla sua ricerca di fede, o al massimo, e per così dire, affiancarmi ad essa senza interferirvi se la sua ricerca si svolge in un ambito che abbia superato la prova dei secoli (una qualunque religione ultracentenaria, appunto). Non posso invece guidarla io in tale ricerca, in quanto "io di mestiere faccio il medico, specializzazione psichiatria, specializzazione operativa psicoterapia". Sono certo che, se mi fossi laureato in Psicologia, e specializzato in Psicologia Clinica, le avrei invece detto "io di mestiere faccio lo psicologo, specializzazione psicologia clinica, specializzazione operativa psicoterapia", rifiutando con lo stesso argomento di fare un mestiere non mio. In un'altra occasione, essendo il mio paziente ebreo, di fronte ad analoghe richieste gli ho consigliato di parlarne col suo rabbino. Ad un musulmano parlerei di certo dell'opportunità di rivolgersi ad un imam. E così via.

Vedi ora con ancora maggiore chiarezza spero, rispetto a quando hai letto il mio celebre paragrafo, di che tradimento della neutralità scientifica e di quale interferenza con la vita spirituale delle persone sono capace. Quel che è peggio, è che considero pure incidentale, rispetto a tradimenti e interferenze di questo genere, il fatto che mi sia laureato in medicina: a chi mi chiedesse di fargli da guida spirituale, direi la stessa cosa con una laurea in psicologia. Insomma, ho proprio l'intenzione di dire chiaramente ai miei pazienti, i quali sembrassero equivocare al riguardo, che non sono un prete, un rabbino, un imam, un guru, etc. ma ... e via con la leggendaria affermazione riciclabile in pieno anche da uno psicologo.

Scusa se ho ripetuto tante volte lo stesso concetto.  Forse dipende da uno strano fatto: durante gli scambi di questa discussione, mi sono tornati spesso in mente i versi di una canzone di Guccini (di epoca basagliana, ma questo non è rilevante), quella in cui il protagonista afferma di aver scoperto , in una certa situazione,"... tutto il fascino di un dialogo fra sordi". Chi sa perché. Un caro e grato saluto, Gianni Liotti

P.S.: Sarà per la faccenda di Guccini, ma sento l'impulso a ricordare che il mio leggendario paragrafo era  parte di una risposta ad una richiesta di Tullio sulle mie personali  convinzioni religiose, che secondo lui erano loro le responsabili della mia riluttanza a riconoscere il valore del lavoro "in O", nonché la "mancanza esistenziale fondamentale" e la necessità che lo psicoterapeuta la affronti. Guarda cosa succede a rispondere a domande personali ...

Giovanni Liotti, 30 gennaio 2003:

Caro Tullio, anche a me è venuta qualche idea in merito al titolo che hai proposto per il prossimo congresso SEPI-Italia, in cui tanto onore attribuisci al modello medico da dedicargli le prime parole di apertura.

<<Ho tanto rispetto del modello medico che penso di farne il protagonista del
prossimo Congresso SEPI: "Il modello medico e le sue alternative in psicoterapia">>

Trovo solo adesso il tempo per scriverti su queste idee, perché come sai sono stato occupato da altri temi. Poiché parlare di "modello medico" nel titolo, senza aggiungervi specificazioni atte ad evitare "effetti alone" di significato, potrebbe suscitare qualche aspettativa negativa fra gli psicologi che leggessero il titolo stesso, credo che dovresti darti la pena di ripensarlo. Inoltre, per ragioni varie, sembra che chi, almeno fra gli intervenuti al primo congresso, dovrebbe poi contribuire a presentare le tesi del "modello medico" possa sentirsi a disagio sotto quel cappello (io porto di tutto, quanto a cappelli, dalla coppola alla tuba, fedele al detto che l'abito non fa il monaco, né lo sciamano, ma latri hanno le loro preferenze legittime). Corri dunque il rischio che nessun contributo a favore del suddetto modello pervenga al dibattito, il che non sarebbe carino per l'integrazione.

Noto che qui si è cominciato a parlare di disprezzo dopo aver parlato di spocchia, di intolleranza, di sarcasmo, di leggende, e così via. Come dire, di bene in meglio. Per rimediare e dimostrare concretamente — non solo a parole come poi eloquentemente hai fatto in altre mail successive — che non intendevi disprezzare ma anzi onorare il "modello medico", potresti a mio avviso accostarlo nel titolo ad un modello che hai nominato invece in una tua mail precedente. In quella mail, che cito a memoria e perdona le imprecisioni, mi parlavi della necessità che ogni sicoterapeuta ricordi che alle origini della sua disciplina c'è lo sciamanesimo. Di certo nominavi con onore e rispetto il mestiere dello sciamano. Io ho ribattuto che preferivo il mestiere di medico, e ne è nato il mio celebre leggendario paragrafo. Pur essendo subito a tutti evidente (in particolare a Benvenuto) che avrei potuto tranquillamente nominare il mestiere di psicologo per segnalare che non intendevo pagare il prezzo di fare lo sciamano (o il guru, o la guida spirituale, etc. etc.) per arrivare all'integrazione delle psicoterapie, qualche equivoco sembra esserci stato, tipo "ecco, medicina eguale scienza, superiorità della medicina, arroganza e potere medico, ignoranza delle complessità dell'epistemologia, Freud era medico ma non faceva queste cose", e così via (ma non credo che l'equivoco sia stato di Benvenuto). Dunque, per:

(1) dissipare consimili equivoci, (2) dimostrare che onori egualmente il modello medico ed altri modelli che ti sono cari, e (3) evitare che si dimentichi che l'origine di certe contrapposizioni fra noi discutenti è sul ruolo ed il valore da assegnare alle origini sciamaniche appunto degli interventi sulla psiche umana rispetto ad un tipo di tale intervento che è attuale in medicina ed in psicologia (quello delle sigle DSM, TSM da te proposta, EBM, etc.) per tutti questi motivi, dicevo, perché non pensare ad un titolo del tipo: "Modello sciamanico, modello medico ed alternative ad essi in psicoterapia"? Un cordiale saluto, Gianni

Giorgio Gabriele Alberti, 30 gennaio 2003:

Caro Tullio, mi dispiace che il mio discorso sul Tuo atteggiamento verso il metodo scientifico abbia determinato le indignate reazioni Tua e di Sergio. Non intendevo certamente offenderTi, ma manifestare il mio dissenso su come tratti la questione del metodo della ricerca integrativa, che peraltro ha già costituito un tema caldo nel recente passato, che caldo resta, almeno a mio vedere. Probabilmente le assonanze tra certe tue idee e quelle che ho visto all'opera nel passato, nell'antipsichiatria e della sinistra extraparlamentare italiana, hanno influito sul mio giudizio, ma ammetterai che una certa diffidenza per la scienza e la centralità attribuita  alla dialettica rappresentano una somiglianza impressionante tra Te e quella cultura.

D'altra parte, l'avverbio "spregiativamente" non andava inteso come denotazione di un sentimento vissuto (da Te) ma, come ho cercato di spiegare col mio successivo mail, come espressiva della diminuzione, della connotazione negativa del metodo scientifico che ho ravvisato nel Tuo modo di trattarlo. Se infatti non si tratta di disprezzo per tale metodo, si tratta però, almeno, di una sua svalutazione, che mi ha colpito e continua a colpire sfavorevolmente, come cercherò di motivare qui di seguito.

Tu scrivi con molta chiarezza nel Tuo mail del 29-1-2003:
"Certamente per me è un disvalore la pretesa che il rigore logico, la verifica empirica delle ipotesi, e tutto il pur rispettabilissimo armamentario del modello medico valgano di più dei valori del dialogo".

In questa frase sta, ai miei occhi, tutta la portata delle nostre divergenti idee circa il metodo scientifico, che io vedo molto più ampio e articolato di come lo vedi Tu. Infatti, è fondamentale rilevare che il metodo scientifico non esclude il dialogo, RICHIEDE  il dialogo, cioè il confronto delle idee e dei loro creatori e portatori, il confronto delle esperienze e delle osservazioni.

Basta leggere le memorie di grandi scienziati, magari su periodi e ambienti particolarmente fecondi per lo studio e la ricerca, per capire quanto queste persone parlassero, discutessero e anche disputassero prima di andare a definire un'ipotesi, o una teoria, e poi eventualmente un esperimento o una qualche forma di raccolta di osservazioni di fatti spontanei (nelle scienze non sperimentali) per verificarla (o meglio corroborarla). Ma, appunto, il metodo scientifico non si ferma qui, si avvale di modi particolari di osservazione della realtà, oggettiva o soggettiva;  basti pensare, p.es. alla divaricazione tra l'osservazione nell'acceleratore di particelle e nella ricerca etologica.

Inoltre, nei casi di spiegazioni confliggenti, alternative l'una all'altra e, ovviamente, falsificabili, fa appello anche all'evidenza, e a diversi livelli, dalla semplice conta di eventi, o dal disegno di un animale da poco scoperto, a sofisticate valutazioni sui grandi numeri, quindi con ausilio statistico, fino a dati, immagini e altro, ottenibile grazie ad apparecchiature le più complesse. Per inciso, ma non casuale, esiste anche una ricerca psicologica, che non è certo irrilevante per il nostro tema psicoterapeutico.

Il metodo scientifico è tutto questo (e probabilmente anche molto di più) e non si può ridurre alla ricerca semplicistica di significatività statistiche che, se non si fondano su un ragionamento a monte, su approfondimenti che Tu potresti definire dialogici (a una, a due, a più persone) possono sì essere fallaci e mistificanti. Né può ridursi al credere esclusivamente alle cosiddette evidenze empiriche, perché vi sono scienze del tutto non empiriche, come la matematica e la logica simbolica.

Né lo si può ridurre a sola linearità e semplicità, in quanto sono nel pieno alveo del metodo scientifico tanto la teoria generale dei sistemi (per esempio von Bertalanffy), che ha introdotto l'idea di circolarità (sulla base dei concetti cibernetici di feed-back e feed-forward), che oggi taluni preferiscono vedere come cuore di una complessità che sfuggirebbe al metodo scientifico, quanto la teoria delle catastrofi (Thom) che è primariamente una teoria matematica atta, se ben ricordo, a spiegare certe osservazioni di discontinuità e cambiamento, quanto anche la matematica dei frattali, tanto utile a modellizzare i fenomeni della materia vivente, quanto la teoria del caos. Quando si contrappone il dialogo al metodo scientifico si fa, secondo me, un grave torto al secondo perché lo si rimpicciolisce alla sua caricatura scientista e deprivata di ogni scintilla di intelletto e anima, che invece le sono propri.

Direi anzi che una rappresentazione così ridotta e riduttiva del metodo scientifico, una sua trasfigurazione scientista, può servire a chi voglia affermare un metodo alternativo di produrre la conoscenza, sia esso la rivelazione divina, la  unione mistica con dio, la visione immediata (dai sensi e dalla ragione) del noumeno, o piuttosto un metodo che Tu recentemente hai detto "ricerca euristica" (e sulla cui esistenza in quanto metodo autonomo alternativo al metodo scientifico ed empirico, sono stati avanzati molti dubbi, non solo da me ma anche recentissimamente da Sergio, che giustamente ricorda che non è un metodo ma una funzione o valore - mentre io lo definirei l'aspetto creativo della ricerca scientifica). In questo senso quindi ho ravvisato una sostanziale "diminutio" del concetto di metodo scientifico.

Qui è opportuna una digressione sul cosiddetto modello medico, che Tu intendi, se ho ben capito, come un coordinare rimedi specifici a disturbi specifici. A mio parere anche questa definizione è riduttiva, almeno nella misura in cui non mi appare possibile ridurre l'essenza del modello patogenetico e terapeutico medico alla biunivocità tra specifiche malattie e specifici rimedi. Basta pensare ai farmaci ad amplissimo spettro di azione ed uso come l'aspirina e il cortisone, o al concetto di stress, così trasversale in tanti diversi processi patogenetici.

Del resto - e tornando alla psicoterapia - come è vero che questa specificità non è tutta l'essenza della medicina, è specularmente vero, sempre a mio parere, che una certa specificità, almeno per grandi categorie, è propria invece della psicoterapia, in quanto appare innegabile che vi siano differenze tra i metodi di cura psicologica opportuni nel trattamento delle psicosi, o delle personalità borderline, o delle nevrosi ossessive o delle nevrosi fobiche, e che al di là di aspetti psicoterapeutici comuni vi sono aspetti differenti legati non solo all'individuo ma anche al tipo di patologia.

Ora, per tornare al tema principale, è in questo senso della sua diminuzione di portata, di spessore dialogico (per usare la Tua terminologia), di adeguatezza alla complessità della realtà, se vuoi di raffinatezza logica, che trovo che Tu tratti il metodo scientifico con sostanziale irrispetto.

Inoltre, mi sembra che Tu lo ridefinisca in modo che si conformi a quella che mi appare la Tua tesi di fondo: mettere dialogo e metodo scientifico in due diversi ambiti, fare del dialogo un metodo di acquisizione della conoscenza uguale e forse addirittura superiore al metodo scientifico (riduttivamente ridimensionato beninteso) e poi gestire il  loro rapporto con la dialettica. Ma anche su questo, mi spiace, sono in grave imbarazzo: la gestione dialettica delle divergenze in generale non mi sembra fattibile con chiarezza, e cercherò di mostrare perché.

Torniamo all'ipotesi che si possa gestire dialetticamente il metodo dialogico e il metodo scientifico (come Tu lo intendi). Se ad esempio dialogo e metodo scientifico portassero putacaso a conclusioni diverse e inconciliabili, come pensi di poter decidere quale delle due è la giusta ? Supponi di rispondere: con la dialettica. E io chiedo: quali criteri decisionali segue la dialettica, in base a cosa, dialetticamente parlando, si stabilisce quale delle due conclusioni è la giusta ? Non credo che Tu possa indicare tali criteri (ma forse Tu li conosci e allora sarò curioso di sapere).

Dalle mie vecchie letture, se ben le ricordo, ho ritenuto che nel pensiero hegeliano e marxista la dialettica è una metafora plausibile dello sviluppo del pensiero, piuttosto che della materia. Che ciò tuttavia non toglie che si tratti di una rappresentazione metaforica, priva di rigore soprattutto predittivo. La dialettica funzionerebbe cioè a posteriori, come ricostruzione e non come previsione, mancando così un obiettivo fondamentale del metodo scientifico, la costruzione di rappresentazioni della realtà che permettano, tra l'altro, la previsione dei suoi stati futuri, in modo deterministico o statistico. Non focalizzandosi sulla dialettica, ma sull'ermeneutica, Migone ha detto, non ricordo bene se nella sua relazione a Milano o nel nostro dibattito, che l'ermeneutica arriva fino a un certo punto, ma che poi è necessario l'appello all'evidenza che permette di andare più a fondo.

Ora, mutatis mutandis, quindi applicando questa tesi alla dialettica invece che all'ermeneutica, io credo che l'unico modo per decidere sarebbe il ricorso all'evidenza, che ci toglierebbe dalle ambiguità della dialettica. Ma in questo modo si ritorna a un metodo unico di produrre conoscenza, e cioè a un vero, autentico metodo scientifico che porta in sé tanto il dialogo, il rispetto della complessità (e della circolarità), quanto l'argomentazione logica e l'esame osservativo della realtà (anche questo con tutta la complessità connessa al carattere costruito della percezione).

Forse riesco a questo punto a darTi un'idea della mia reazione a certe Tue proposte con un  esempio: dire che per conoscere la psicoterapia (e le psicoterapie) serve oltre al metodo scientifico anche il dialogo socratico o l'ermeneutica, o (come dicevi tempo addietro) la "ricerca euristica", è per me come dire che per curare un malato, che so, di polmonite, ci vuole oltre che un medico anche uno sciamano. E non perché anche uno sciamano non potrebbe contribuire utilmente, ma perché un buon medico E' ANCHE  uno sciamano, fa già la parte dello sciamano, e forse anche qualcosa di più.  Si tratta cioè di una proposta che si pone come alternativa mentre tutte le competenze sono già presenti nel medico (ovviamente non parlo di certi medici della mutua). Fuor di metafora, dire che per capire le psicoterapie ci vuole anche il dialogo significa che Tu pensi che lo scienziato non dialoga, dire che ci vuole l'ermeneutica vuol dire che lo scienziato non interpreta e non va al di là dell'apparenza, dire che ci vuole l'euristica vuol dire che lo scienziato non ha mai un'idea originale.

Ma tutto ciò, spero converrai, non è sostenibile, in quanto gli scienziati, specie se veri e seri, dialogano, approfondiscono e interpretano, e hanno anche ottime e creative idee. Spero con ciò di essermi spiegato, e Ti - e Vi saluto cordialmente, Giorgio

Tullio Carere, 31 gennaio 2003:

On 30-01-2003, Sergio Benvenuto wrote:
> 3) Ho anch'io un titolo in mente per il convegno di Tullio - ovviamente nel  mio inammissibile gergo post-moderno: CURARE PAZIENTI - AVER CURA DI SOGGETTI. DUE POLI DELLA PRATICA PSICOTERAPEUTICA?
 
Permettetemi due libere associazioni. La prima è una citazione di Renzo Giraldi da una lista PM:
> La differenza della psichiatria dalle altre discipline mediche, e della psicologia dalle altre
> scienze è che l'uomo è soggetto e oggetto del medesimo discorso. (…)
> Come diceva Lacan non può esistere una scienza dell'uomo, perché l'uomo è il
> soggetto e non l'oggetto della scienza.
 
La seconda è una citazione di Einstein inviatami da Luca Panseri:
> "Dove il mondo cessa di essere il palcoscenico delle nostre speranze e dei
> nostri desideri per divenire l'oggetto della libera curiosità e della
> contemplazione, lì iniziano l'arte e la scienza. Se cerchiamo di descrivere
> la nostra esperienza all'interno degli schemi della logica, entriamo nel
> mondo della scienza; se, invece, le relazioni che intercorrono tra le forme
> della nostra rappresentazione sfuggono alla comprensione razionale e
> purtuttavia manifestano intuitivamente il loro significato, entriamo nel
> mondo della creazione artistica; ciò che accomuna i due mondi è
> l'aspirazione a qualcosa di non arbitrario, di universale" Albert Einstein

Come potete immaginare, a me va benissimo pensare alla psicoterapia come a una cosa con due poli, perché naturalmente la relazione tra i due poli non può che essere dialogica e dialettica. Ma conoscendo l'insuperabile avversione di qualcuno di voi per il numero due, faccio il possibile per evitare le entità binarie, producendo, quando posso, elenchi di almeno tre entità. In ogni modo, se il titolo proposto da Sergio incontrasse il favore della maggioranza, sarebbe subito aggiudicato. In caso contrario, vi prego di considerare la seguente alternativa ternaria: MODELLO MEDICO, MODELLO CONTESTUALE, PARADIGMA DELLA COMPLESSITÀ IN PSICOTERAPIA.

Qualche spiegazione. [1] Il 'modello sciamanico' proposto da Gianni non può andare, perché anche se lo sciamano è il progenitore comune di medici, scienziati e sacerdoti, solo una minoranza irrilevante di terapeuti oggi si riconoscerebbe in quel modello, mentre la grande maggioranza si distribuisce tra i tre che ho nominato. 

[2] Contrapporre il modello medico al modello dialogico è stato un errore che ho già ammesso. Sicuramente il dialogo non è estraneo al discorso scientifico, anche se non direi che ne è il fondamento.  Ho corretto l'errore chiarendo che il dialogo attraversa numerosi discorsi, incluso quello scientifico, ma li supera poi tutti, nella misura in cui richiede la sospensione delle premesse di ogni discorso particolare — incluso quello scientifico. Come potrebbero dialogare i due mondi che Einstein indica con i nomi di scienza e arte, se le pretese avanzate dalle due parti, di ridurre l'arte alla scienza (trasformando tutte le intuizioni in congetture da sottoporre a esperimento) o la scienza all'arte (trasformando tutti i concetti in metafore) non fossero abbandonate, e con esse le pretese di egemonia della scienza sull'arte, e dell'arte sulla scienza? (Sono d'accordo, Giorgio, che il metodo scientifico non esclude il dialogo, e anzi lo richiede: e tuttavia è necessario che il dialogo SUPERI la scienza, altrimenti la scienza non potrebbe mai dialogare con l'arte).

[3] Sembra evidente, e basterà scorrere il nostro carteggio per convincersene, che per alcuni (gli abitanti all'incirca di una metà della luna) le scienze psicologiche e psichiatriche sono scienze come tutte le altre, che procedono sostanzialmente con gli stessi metodi della medicina e delle scienze di base. Se è così, sarà non solo logico, ma direi inevitabile, che il paradigma della Evidence Based Medicine (EBM) sia esteso alla psichiatria. Il 'modello medico' è l'espressione entrata nell'uso per indicare la coappartenenza senza soluzione di continuità tra scienze di base, psicologia, medicina e psichiatria. 

[4] Poiché tuttavia ognuno di noi mostra (giustamente) una insopprimibile avversione al sentirsi incasellato in una categoria qualsiasi, io definirei il modello medico come sopra, o con le parole più volte citate di Wampold, senza pretendere affatto che Gianni o Giorgio o Paolo vi si riconoscano. Anzi mi farà molto piacere se poco o tanto ne prenderanno le distanze, rivendicando il tasso di contestualismo e di complessità presente nei loro approcci. Se lo faranno, sarà solo musica per le mie orecchie, avendo io da sempre sostenuto che le differenze sono molto più marcate nelle teorie che nelle pratiche dei diversi autori. Mi basterà riconoscano che il modello medico è impetuosamente presente nella psicoterapia contemporanea, essendo la filosofia che sta alla base del movimento dei Trattamenti Empiricamente Supportati e di quasi tutta la ricerca empirica che è stata fatta fino a oggi in questo campo.

[5] Definirei poi il modello contestuale, come quello in cui si riconosce oggi una fetta assai consistente di clinici. La posizione di chi sta in quest'area è paradossale, perché non rifiuta i procedimenti della ricerca empirica, ma li usa ironicamente per invalidare il modello medico. Tipica, di questo modello, la meta-meta-analisi di Luborsky, che mostrerebbe la sostanziale irrilevanza delle diverse procedure psicoterapeutiche per la cura di disturbi specifici, con poche isolate eccezioni. 

[6] Definirei infine il modello della complessità, il cui esponente più illuminante è per me Gendlin. La realtà o cosa-in-sé è una 'intricacy' inconoscibile come tale. Ciò che conosciamo è solo il risultato delle nostre operazioni su questo noumeno caotico. Le nostre categorie conoscitive pertanto non sono altro che costruzioni, e lo scopo della terapia è quello di farci prendere coscienza delle costruzioni mentali in cui siamo rimasti intrappolati, per liberarci e recuperare la nostra costruttività o creatività originaria.

Ripeto ancora, anzi lo metto in maiuscole: NON INTENDO INCASELLARE NESSUNO, ma solo indicare le tre aree principali di aggregazione o integrazione psicoterapeutica all'inizio del terzo millennio. Io per primo non sento di appartenere ad alcuna di queste tre aree, ma di avere realizzato, o di andare realizzando, la mia personale e idiosincratica sintesi tra tutte e tre. Sarei soddisfattissimo se nessuno si riconoscesse in nessuna di queste aree in modo esclusivo, ma ciascuno mostrasse in che modo attinge all'una o all'altra, o in che modo le supera per approdare a una visione sovraordinata che forse nessuno dei tre modelli ha colto. Carissimi saluti, Tullio

Paolo Migone, 31 gennaio 2003:

A me sembra che quello che tu chiami modello contestuale (il tuo punto 5) è esattamente la stessa cosa di quello che tu chiamo modello medico. Per quanto riguarda quello che tu chiami "modello della complessità" (il tuo punto 6), per quello che ho sempre capito io questo è esattamente il modello cosiddetto scientifico (o medico che dir si voglia), adottato ad esempio anche da Freud che diceva sempre che la realtà (sia quella esterna che quella interna cioè l'inconscio) per sua natura è inconoscibile, e ciò che conosciamo è solo il risultato delle nostre operazioni o percezioni su di essa, le nostre costruzioni, ecc. Però tu sembri dire il nostro scopo è quello di "liberarci e recuperare la nostra costruttività o creatività originaria": su questo mi sembra che Freud (e tutti "noi scienziati") non saremmo d'accordo, nel senso che questo vale come mito, cioè non è possibile raggiungere mai qualcosa di "originario". Paolo

Tullio Carere. 31 gennaio 2003:

On 31-01-2003, Paolo Migone wrote:
> Caro Tullio, mi fa piacere sapere che non ti spaventano le polemiche o i toni a volte
> aspri, o il sarcasmo se poi si torna al normale clima emotivo, anzi, dopo
> magari ci si riflette su per comprendere come mai si è perso il controllo.
> Allora, incoraggiato da te, permetti anche a me un pizzico di benevolo
> sarcasmo. Tu dici da mesi che dovremmo mettere in gioco le nostre convinzioni
> più care, metterle tra parentesi, per poter dialogare ecc. Come sarebbe bello
> però se lo facessi anche tu! Cioè se anche tu ogni tanto provassi a mettere da
> parte le tue radicatissime convinzioni, che mi paiono irremovibili, ad esempio
> quella sulla tua definizione di modello medico o scientifico, che continui a
> ribadire nonostante sia diversissima da quella che alcuni di noi ripetono da
> tempo! Noi almeno non diciamo che bisogna dialogare rinnegando le proprie
> idee, per cui siamo più giustificati a tenerle.

Caro Paolo, perché dici che sono irremovibile sulla mia definizione di modello medico o scientifico? A me pare di essere d'accordo con te quando dici che c'è un modello, corrispondente al paradigma della Evidence Based Medicine (EBM), che corrisponde solo a una parte della medicina (o della scienza): una 'metà della luna', hai detto. Questo modello, che impronta il movimento dei Trattamenti Empiricamente Supportati e quasi tutta la ricerca empirica che è stata fatta fino a oggi in  psicoterapia, è comunemente detto 'modello medico'. Non mi formalizzo sul termine: possiamo anche chiamarlo Giuseppe, se preferisci, purché ci intendiamo — come infatti ci intendiamo — sul fatto che è un modello parziale, non è tutta la medicina, né tutta la scienza, meno che mai tutta la psichiatria o la psicoterapia.

Stabilito che siamo d'accordo su questo, che cosa c'è sull'altra metà della luna? Per cominciare, il 'modello contestuale'. Secondo questo modello i fattori terapeutici specifici, che secondo il modello medico curano i disturbi specifici descritti con raffinata e sofisticata minuzia, come appunto si fa nelle altre branche mediche, sono quasi irrilevanti in psicoterapia, perché quello che veramente cura sono i fattori contestuali (come la coerenza del metodo, indipendentemente dal suo contenuto, e l'alleanza terapeutica). Questa tesi è dimostrata sulla base della ricerca empirica, a dimostrazione del fatto che la ricerca empirica si può usare per dimostrare tutto e il contrario di tutto. Ma tu dici:
<<A me sembra che quello che tu chiami modello contestuale (il tuo punto 5) è esattamente la stessa cosa di quello che tu chiamo modello medico.>>
 
Se sono la stessa cosa, come mai sostengono cose opposte? Il modello medico si chiama così perché punta a fare le stesse cose della medicina 'normale', cioè a fare diagnosi il più possibile accurate e a somministrare procedure empiricamente supportate il più possibile mirate al disturbo in oggetto.  Invece il modello contestuale afferma che tutto questo è pressocché irrilevante, quello che veramente cura sono i fattori 'comuni', relazionali.  Siamo effettivamente sull'altra metà della luna, perché qui, per usare la terminologia di Sergio, non si curano pazienti, ma ci si prende cura di soggetti. Sull'altra metà, poi, c'è anche il paradigma della complessità. Ma su questo tu obietti:
> Per quanto riguarda quello che tu chiami "modello della complessità" (il
> tuo punto 6), per quello che ho sempre capito io questo è esattamente il
> modello cosiddetto scientifico (o medico che dir si voglia), adottato ad
> esempio anche da Freud che diceva sempre che la realtà (sia quella esterna
> che quella interna cioè l'inconscio) per sua natura è inconoscibile, e ciò
> che conosciamo è solo il risultato delle nostre operazioni o percezioni su
> di essa, le nostre costruzioni, ecc. Però tu sembri dire il nostro scopo è
> quello di "liberarci e recuperare la nostra costruttività o creatività
> originaria": su questo mi sembra che Freud (e tutti "noi scienziati") non
> saremmo d'accordo, nel senso che questo vale come mito, cioè non è
> possibile raggiungere mai qualcosa di "originario".

L'ideale della scienza moderna, quella che ha trasformato il mondo negli ultimi tre secoli, è di conoscere la realtà nel modo più oggettivo possibile. Ogni scienziato sa benissimo che la realtà ultima è inconoscibile, ciò che possiamo avere sono solo congetture non ancora falsificate. E tuttavia queste congetture sono quanto di più vicino possiamo ottenere all'ideale della conoscenza oggettiva, contrapposta a miti, favole, metafore e via dicendo. Il paradigma della complessità mette completamente in discussione questo ideale (o mito) dell'oggettività. Il capovolgimento è completo: a Stern, per esempio, o a Diego, l'oggettività interessa essenzialmente in quanto trappola, cioè in quanto è il modo in cui il soggetto si è alienato oggettivandosi. L'interesse qui si sposta diametralmente dalla conoscenza dell'oggetto alla liberazione del soggetto: al recupero della creatività originaria o dei 'now moments'. Infatti su questo tutti "voi scienziati" (moderni) non potete essere d'accordo (ma tu mi sembri abbastanza postmoderno da poterti collocare anche in questo punto di vista).

A parte la questione dei limiti invalicabili per uno scienziato moderno, in sostanza la tua argomentazione segue pressappoco la stessa linea di quella di Giorgio: esiste UNA SOLA scienza, che include anche i punti di vista contestuale e della complessità. Padronissimi di pensarlo, ma dovreste anche prendere atto che non tutti la pensano come voi. C'è una gamma di opinioni che vanno dalla fede nella scienza unica, dalla fisica alla psicologia — con il corollario che questa scienza unica è l'unico terreno su cui i terapeuti possano incontrarsi e dialogare — alla posizione lacaniana, per cui una scienza dell'uomo è impossibile, con molte posizioni intermedie e diversi paradigmi scientifici in cui c'è sempre meno oggetto e sempre più soggetto rispetto alle scienze classiche. Queste posizioni influenzano poi ovviamente il modo in cui concretamente lavoriamo. Per esempio, nel caso del seguace di Gesù redivivo citato da Gianni, dopo la felice riuscita del trucco del Pater in aramaico e il trasferimento dell'aspettativa messianica sul terapeuta, Diego, Sergio e io non avremmo certo mandato il paziente da un prete  o da un rabbino, ma saremmo stati molto soddisfatti della piega presa dagli avvenimenti e ci saremmo concentrati sulla vicenda transferale come su una eccellente occasione per lavorare in terapia sulla fantasia di salvazione di questo paziente.

Tu dici che sono ostinato. Se la mia ostinazione consiste nel non lasciarmi persuadere dal vostro concetto di scienza, hai ragione. Ma che voi non riusciate a convincere me, e io non convinca voi, lo darei per scontato. Il dialogo che io propongo è un'altra cosa. È quel tipo di comunicazione che può avvenire sulla base del fatto che ognuno rinuncia a far valere il proprio concetto di terapia, di integrazione o di scienza, accettando che ci siano diversi modi di intendere la terapia come scienza, e anche la terapia come arte. Dopodiché vediamo come tra questi diversi approcci, a prima vista incompatibili, si possa stabilire una comunicazione. Per esempio, potremmo confrontarci sul modo in cui ognuno di noi tratterebbe il paziente di Gianni affetto da aspettativa messianica, o quello di cui parla nel suo ultimo libro, come avevamo già pensato. Ma il presupposto non può che essere quello di una volontà di dialogo: NON il dialogo che è proprio della scienza classica, altrimenti siamo da capo, ma il dialogo capace di trascendere qualsiasi presupposto teoretico o ideologico. Cari saluti, Tullio.


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