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Pietro Roberto Goisis e Gioia Gorla
UNO SPAZIO PER TOMMASO SENISE

4.1. Giuseppe Senise - intervento alla Giornata in ricordo di T.L.S. - 7/7/1998*



Buon giorno e benvenuti. Vorrei prima dare il significato che mi sembra possa avere una presenza e un parlare da parte della famiglia in questa occasione, e poi dire le cose che ho in mente.
Credo, in realtà, che il significato da dare a questa nostra presenza sia un po' in questi termini: é chiaro che se si parla di una persona che non c’è più, tendenzialmente, in qualsiasi situazione, anche di tipo professionale, chiunque intervenga parla degli aspetti professionali e degli aspetti affettivi. Devo dire che credo che in questo caso la cosa abbia, vorrei che avesse, un altro significato. Nel senso che le persone che con me hanno parlato di mio padre hanno sempre messo insieme i due aspetti: l’aspetto di conoscenza, di tecnica, di professionalità in senso stretto e l’aspetto di affettività. Credo quindi che nel momento in cui noi oggi lo ricorderemo così (credo che molti degli intervenuti ricorderanno le due cose), questo non sia solo perché lui non c’é; credo che questo sia anche legato al suo modo di vivere la professione, quindi non é, spero e penso, il fatto se volete banale, che quando ci si ritrova in situazioni come queste, obbligatoriamente si deve dire qualche cosa di professionale e qualche cosa di affettivo. Credo che nel suo caso il professionale e l’affettivo fossero molto insieme, cosa che dovrebbe essere normale nel lavoro dello psicanalista. Credo che in fondo uno che fa lo psicoanalista dovrebbe aver imparato che il controllo e la conoscenza dei suoi sentimenti servono a esprimerli più liberamente; però voi sapete che questo non é vero in tutti quelli che fanno il vostro mestiere. Credo, invece, che nel caso di mio padre questo sia stato vero, credo che sia stato capace di mettere insieme le due cose e quindi il fatto che tutti tornino a ribadirle ogni volta abbia questo senso.
Allora adesso dico le cose che volevo dire: le cose che volevo dire sono...beh, faccio una premessa. Qui c’é una lavagna di carta, che é più adatta al tipo di interventi che io faccio di solito, perché io non sono uno psicoanalista, io mi occupo di consulenza aziendale ed é più facile per me parlare in un convegno di qualità totale, che non parlare in un convegno di psicoanalisti. Non é il mio mestiere. Non posso dire che non ne so, nel senso che credo di sapere delle cose che derivano soprattutto dalle cene degli psicoanalisti. Io ho incominciato a frequentare cene di psicoanalisti quando ero adolescente e ho continuato a frequentare cene di psicoanalisti insieme a mia moglie, che fa la psicoanalista. Lì ho imparato una serie di cose che evidentemente mi ricordo e quindi so che cosa fate di mestiere, so di che cosa discutete, so quali sono le beghe interne ai vostri Istituti etc. Ricordo con grande piacere alcune cene, nell’estate in cui io facevo la maturità, allo "Scugnizzo", che era una pizzeria che stava, e c'é ancora, credo, sulla circonvallazione esterna ,con Zapparoli, con Diego Napolitani, con Fornari, con Sigurtà, con altri. Alla fine si imparano un po' di cose. Però non sono uno psicoanalista e non ho letto il libro di mio padre, quello sulla adolescenza. Le cose che voglio dire sono due, sono due capitoli. Il primo capitolo é la psicoanalisi vista da uno che ha vissuto con lo studio in casa per tanti anni. Studio in casa, quando io ero adolescente, era quello di papà; studio in casa, adesso, perché c’é in casa quello di Simonetta, mia moglie. L’altra cosa che voglio dire é in relazione a che cosa ho capito del rapporto di mio padre con i ragazzi e come mi sembra di poter mettere in relazione il modo in cui entrava in rapporto con i ragazzi, con il modo in cui entrava in rapporto con noi.
Allora lo studio in casa, lo studio in casa...beh mi viene da dire che in verità noi abbiamo avuto prima la casa nello studio, poi lo studio in casa, nel senso che quando siamo venuti a Milano nel '48, da Napoli, abbiamo vissuto per tre anni nell’Ospedale Psichiatrico di Affori dove avevamo una villetta e io ho dei ricordi abbastanza vivi di quel periodo: in particolare ci sono due sentimenti che sono molto precisi. Un sentimento di paura per gli infermieri (era un ospedale psichiatrico del '48, quindi chi fa il vostro mestiere sa che cosa era) ....... io ricordo con precisione la faccia di un infermiere che era un incubo per me e invece ricordo con grande affetto i pazienti, o, meglio, i matti perché si chiamavano matti, non pazienti. In particolare mi ricordo delle scene: c’era un matto che, tutte le volte che io arrivavo davanti alla rete (perché loro erano chiusi dietro ad una rete), si metteva seduto su una panchina e faceva tutta la panchina saltellando sul sedere. Mi ricordo una processione di matti che mi accompagnava a casa una volta che si é messo a piovere ed io ero fuori con la bicicletta. Poi i ricordi si trasformano in grande affetto, me li ricordo come delle persone simpatiche e gradevoli che mi volevano molto bene. Fra l’altro l’infermiere era un fatto preciso, perché mi ricordo anche una guardia che si chiamava Dotti, che faceva la guardia, però era uno molto dolce, aveva il Galletto, mi portava con il Galletto a comprare il gelato. Quindi questo fatto, che ricordi alcuni con affetto, altri invece con paura, credo che sia significativo.Credo che questi sentimenti fossero in parte legati all’intuito di un ragazzino, che probabilmente sentiva l’affetto di cui i “matti” avevano bisogno quando si trovavano lì un bambino e glielo riversavano sopra; dall’altra credo che fossero frutto di come a casa si parlava dei “matti” e quindi del fatto che probabilmente a casa nostra si parlava dei matti con affetto, si parlava dai matti con comprensione, si parlava dai matti con una modalità che é rimasta dopo ed é uno dei frutti dell’avere lo studio in casa. Si parlava dai matti con un grande rispetto per la devianza: erano matti, ma insomma, va beh, sono persone. Credo che questa fosse la cosa che si trasferiva e che penso per fortuna mi é rimasta dentro. Quindi, prima c’era la casa nello studio, poi dopo, invece, siamo passati allo studio in casa. La prima casa era anche un po' piccola, quindi lo studio era proprio fisicamente molto presente: non si poteva fare rumore in certi momenti, etc. Lo studio in casa che cosa, secondo me, porta a un figlio? é chiaro che é uno studio diverso da quello di un dentista, quindi cosa succede? Succede che dopo un po' tu quelle persone che vengono le conosci, perché le telefonate arrivano a casa, le telefonate arrivano mentre si mangia, allora ..."questa qui adesso é lunga"... Allora dici: "aspetta che ti copro il piatto......". Alla fine diventano delle persone che si conoscono, noi adesso, nella nostra casa con lo studio di Simonetta, abbiamo Giulio. Ai tempi di papà ce ne era qualcun altro; ci sono dei ragazzi che sono parte della nostra vita, diventano una specie di fratelli. Ecco, nel caso nostro io non so, poi io sono del 45’; quando parlo della mia adolescenza parlo di un periodo abbastanza lontano, forse l’elaborazione teorica non era avvenuta del tutto, forse c’erano delle rotture di setting un pochettino più elevate, però diciamo che molti di questi ragazzi venivano a casa nostra, ce li ritrovavamo qualche volta anche al mare, perché, durante le vacanze estive, qualcuno che aveva litigato con la famiglia, veniva a trovare papà per parlare. Ce ne é qualcuno presente anche in questa sala... sono dei rapporti che sono diventati molto forti, sono dei rapporti che sono andati avanti e sono dei rapporti in cui...bisogna anche tranquillizzare sul segreto professionale. Noi ci sentiamo tenuti in famiglia al segreto professionale. Io, mi ricordo, sapevo che c’era un ragazzo che veniva nella mia scuola che andava da papà, ma é chiaro che mi sentivo tenuto al segreto professionale in maniera rigidissima; insomma nessuno mi avrebbe mai fatto rivelare questa cosa...questo per tranquillizzare tutti! Dicevo semplicemente che avere in casa uno studio di psicoanalista ti mette in contatto con questi personaggi che ti accompagnano a lungo, anche se non ne sai quasi nulla, però poi pian pianino incominci a conoscerli e anche questo, secondo me, contribuisce a rendere tolleranti, a far avere un atteggiamento verso la sofferenza psichica, o la devianza in genere, che credo che faccia bene nella vita in generale.
Adesso l’ultima parte: che cosa ho capito attraverso questo rapporto? Mi sembra di aver capito tre cose dal punto di vista del modo di approcciare i pazienti e non sempre di approcciare noi figli. Le tre cose credo che siano queste: una é una cosa che chiamerei il rispetto, ma anche la trasparenza, cioè rispettare l’individualità e avere allo stesso tempo la capacità di essere trasparente verso l’altro, il che si accompagna al rigore. Ieri sera, quando Simonetta mi ha detto: "ma tu cosa dici domani?", le ho detto che, rispetto al termine rigore, io avrei usato un certo modo per spiegarlo. E lei mi ha detto: "ma guarda che é la stessa cosa che é scritta sul libro di tuo padre". Poi, siccome lei é brava, é andata là, ha preso il libro e ha trovato anche la pagina in cui c’era scritto, per davvero. Però garantisco che io non l’avevo letto; mi é venuto in mente nel ragionare. Il rispetto per la persona, il rigore molto forte e l’affettività, l’affettività altrettanto forte. Come le ho capite? Le ho capite attraverso le telefonate, e attraverso i ragazzi che venivano da noi. L'affettività credo sia una cosa abbastanza chiara, evidente, lo sapete tutti, lo sanno quelli che lo conoscevano meglio; probabilmente ce la trasmetteva attraverso il modo in cui lui ci raccontava la storia della persona e, per esempio, attraverso il modo con cui rispondeva al telefono. Uno le cose le capisce dai toni, il modo in cui si incavolava. Le urlate di mio padre al telefono erano una cosa storica a casa nostra. Ogni tanto lui si alzava da tavola e mamma gli diceva: "non urlare, per favore", perché lo sapeva quando diceva: "é la mamma di quello lì, ""no, fai il bravo, non urlare". E questo vuol dire evidentemente affettività . Le urlate erano bestiali. Io credo che siano delle situazioni che se uno non ci é capitato in mezzo non se lo immagina che. Anche le parolacce, con l’urlata andavamo sul pesante. Qualche volta anche con i ragazzi, nel mio ricordo più con i genitori, ma non giuro che sia un ricordo corretto. Il discorso del rigore: ecco, il termine che io ho usato e che Simonetta ha detto che c’é sul libro, era il termine spietato. Secondo me mio papà era spietato nel mettere davanti a se stessi, spietato nel senso di non colludere, di dire: tu sei fatto così e non ti dico solo le cosa belle, ti dico anche le cose brutte. Sul libro c’é scritto, me l’ha fatto leggere questa mattina: "io sono uno specchio e come specchio sono anche cattivo, perché come specchio ti faccio vedere delle cose brutte di te, non ti faccio vedere solo quelle belle". Credo che in certi momenti lui fosse di una freddezza glaciale, quando diceva queste cose, che nascevano proprio dal rispetto, perché se uno deve dire le cose, le deve dire come stanno e deve essere capace di tollerare la difficoltà di dire cose difficili. Certo, io non ero dentro nello studio quando le diceva, però credo che fosse così. Credo che questa storia del rigore fosse legata proprio al rispetto: le due cose vanno molto insieme. Se non c’é rigore, non ci può essere rispetto e se non c’é il rispetto, finisce che non c’é neanche il rigore, perché tanto che cosa te ne frega, in fondo colludi un po' e le cose vanno bene.
Mentre pensavo alle cose da dire oggi, mi é venuto in mente di dire: "va beh,ma io insomma ho fatto l’adolescente con mio padre, è vero che lui faceva il terapeuta degli adolescenti, però faceva anche il papà degli adolescenti e come papà di adolescenti, com’era?". Secondo me era tutto diverso, nel senso che papà era un grande timido, timido apparentemente, voglio dire. Questo era quello che vedevamo noi. Sigurtà l’altra volta, quando eravamo al suo funerale, mi ricordo che disse: "vidi un signore inglese che stava su una barca che mi rivolse la parola". Ecco, quel signore inglese era mio padre. Lui aveva questo assetto un po' inglese nel non esprimere molto le cose e allora, rispetto a noi, é stato molto bravo nel rispettare le nostre individualità, ma ho il sospetto che delle volte il rispetto, (questo succede anche a me verso mio figlio Tommaso) il presunto rispetto delle individualità voglia dire che non hai voglia di entrare in conflitto, di metterti in gioco. Insomma, non sai dove finisce il rispetto e dove incomincia il non volersi troppo buttare. Secondo me, delle volte era il non volersi buttare, tanto, é vero che poi le cosa le diceva mamma. "Sai, papà ieri sera mi ha detto che..", "guarda che a papà questa cosa dispiace". Era più difficile che lo dicesse lui direttamente. Non voglio dire che lui non trasmettesse regole, ci ha trasmesso delle regole micidiali, credo, però, non direttamente. Era uno che agiva molto per implicito. Lui non era capace di esprimere delle richieste forti e non era neanche capace di esprimere fisicamente ,direttamente, un affetto forte.. Nei momenti difficili...vedo che tutti noi figli ricordiamo con disagio il fatto che ogni tanto, quando dovevamo dire delle cose in po' importanti, andavamo a parlare con lui nello studio e lui stava dietro alla scrivania, dall’altra parte. Il che era un po' imbarazzante, devo dire ,in certi casi, però era così: "dai vieni che ho un’ora libera". Un’ora libera......... era un casino.......................... Però adesso, ritornando al tema di questo mio intervento passando dal rapporto con noi a quello con i ragazzi, mi sembra di aver capito una cosa. Credo che non sia vero che mio padre si comportasse terapeuticamente in un certo modo, perché "era fatto così", perché era una persona affettuosa. Questo non é vero, non é vero per nessuno e non era vero neanche per lui. Non é che si comportasse terapeuticamente in un certo modo perché questo era il suo carattere. Questa é un’interpretazione superficiale, perché il setting era una cosa importante e la sua elaborazione teorica , la sua elaborazione professionale, la sua esperienza, il fatto che lui avesse interiorizzato in maniera molto forte le regole del gioco terapeutico, gli consentivano di esprimere con più libertà i sentimenti che esprimeva meno con noi. Io credo che per lui il setting fosse una situazione liberatoria, perché é quel posto che un po' ti protegge, un po' ti consente di esprimerti. Siccome con noi non c’era il setting, funzionava di meno. E' chiaro che anche quando ci chiamava nello studio il setting non c’era, perché era complicato. Allora, al di là dello scherzo, credo che questo sia un fatto importante. Credo che noi, dall’esterno, le persone che hanno visto i film di Woody Allen, o cose di questo genere, o hanno visto tanti psicoanalisti al cinema, credo che rischiamo di vedere nel setting una cosa rigida. Probabilmente succede anche a qualche psicoanalista, però credo che invece il concetto sia questo: se tu hai interiorizzato a fondo le regole del gioco, se non sono una cosa appiccicata, se sono parte delle tua vita, se sono una cosa veramente profonda, allora sono proprio quello che ti consente di liberare e di indirizzare le tue energie emotive, che sono fondamentali in questo mestiere.
Questo credo che sia ,per chiudere, quello che noi abbiamo vissuto, vedendo la cosa dall’esterno e credo che sia una fortuna. Io sono contento di avere ancora uno studio in casa, perché credo che questo vivere continuamente con queste persone che fanno questo mestiere che li porta così tanto in relazione, che ti portano dentro in casa delle storie complesse, credo che questo sia una cosa bella, soprattutto se chi ti porta in casa le storie lo fa in modo tale che tu capisci che si può esercitare sia il mestiere, sia l’affettività ,che le due cose vanno insieme, che le due cose sono compatibili e che anzi se tu fai bene il mestiere riesci anche ad essere molto libero nel viverle insieme.
Questo credo che sia stato il contributo di mio padre, che posso usare anche nel mio mestiere.
Ecco questo é quello che volevo dire.


*organizzata dal Centro Milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti - Società Psicoanalitica Italiana, dal Centro di Psicologia della Provincia di Milano e dal Progettto A di San Donato Milanese - 7/7/1998


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