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Pietro Roberto Goisis e Gioia Gorla
UNO SPAZIO PER TOMMASO SENISE

3.1. Pietro Roberto Goisis, Il modello Senise e gli adolescenti: come é stato, come é, come potrebbe essere *



Un giorno, qualche anno fa, Tommaso Senise, addolorato dalla scomparsa di una persona che era cara ad entrambi, mi disse queste parole: “Ognuno di noi può stare bene solo se é in pace con i propri lutti”. Questa sua frase all’ apparenza semplice e quasi banale, come spesso apparivano i suoi pensieri tanto erano efficaci e facilmente comprensibili, é risuonata a lungo e positivamente nella mia mente. Quando qualche mese fa mi é stato proposto di preparare questo contributo, all’ improvviso, mi é tornata in mente nel momento in cui mi accorgevo di accettare con piacere ed entusiasmo la proposta dei colleghi dell’ Istituto di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente. Se, al di là della gratificazione narcisistica che ogni “esibizione” porta con sé, ero così contento di poter parlare di Senise e del suo lavoro, considerando il dolore ed il senso di vuoto provato alla sua morte, allora voleva dire che anche nei confronti di questo lutto avevo trovato la mia pace. Il pensiero mi si é fatto ancora più preciso quando mi sono reso conto che questo ricordo di Senise, così come quello organizzato dalla S.P.I., dal Centro di Psicologia Clinica e dal Progetto A, avviene a distanza considerevole dalla sua scomparsa, avvenuta nel febbraio del 1996. Per farla breve, ho pensato che davvero le persone che avevano avuto un rapporto personale e professionale con lui hanno avuto bisogno di un buon periodo di tempo per ritrovare quella pace interiore indispensabile anche solo a ricordarlo.
E’ mia intenzione oggi parlare non solo degli aspetti più personali ed emotivi del lavoro di Tommaso Senise, ma anche di quelli più squisitamente tecnici e teorici. Ho notato, infatti, come nel parlare del suo lavoro non si riesca, come é comprensibile, a separarsi dalla sua persona, ma anche come tutto ciò non renda piena giustizia e riconoscimento all’ importanza scientifica del suo fondamentale contributo alla comprensione ed al trattamento degli adolescenti. Anche il titolo del mio intervento necessita di una breve spiegazione: cercherò, infatti, di evidenziare quelli che sono stati gli aspetti più significativi del lavoro di Senise, parte alla quale dedicherò la maggior parte del tempo, per tentare, inseguito, di collocare la sua metodologia nell’attualità ed, infine, in un possibile futuro.
E’ un compito impegnativo, ma nel quale non mi sento solo, dal momento che avverto la presenza ideale al mio fianco di tutti quei colleghi che hanno lavorato con Senise, che da lui hanno imparato, con i quali ho condiviso esperienze e riflessioni. Oltre a Maria Pia Gardini ed a Marzia Mori Ubaldini, che sono qui con me, penso a tanti altri come Enrico de Vito, Maria Teresa Aliprandi, Eugenia Pelanda, Riccardo Quarti, Eliana Segre, Luciana Pisciottano, Angelo Moceri, Erminia Bonati ed altri che posso, purtroppo, avere dimenticato od omesso. Siamo tanti ideali fratelli e sorelle; ci fa piacere sentirci accomunati, pur nelle nostre diversità, dal fatto di avere avuto un maestro come Tommaso. Penso che tale background ci abbia come protetto, impedendo la nascita di dispute per il riconoscimento di eventuali primogeniture o l’evidenziarsi di laceranti gelosie e rivalità.
Tommaso Senise ha cominciato ad occuparsi di adolescenti nel 1952, poco dopo il suo trasferimento a Milano dalla natia Napoli, dapprima presso il Centro Medico Psicopedagogico dell’ Ente Nazionale per la Protezione della Madre e del Fanciullo, poi dal 1957 nel Gabinetto Medico Psicopedagogico del Centro di Rieducazione per Minorenni della Lombardia - Ministero di Grazia e Giustizia. Credo che l’ ambito nel quale ha preso origine questa esperienza, soprattutto per il contesto nel quale é avvenuta, serva per meglio comprendere il lungo cammino fatto da Senise, insieme a tutto il suo gruppo di lavoro, alla ricerca dell’ atteggiamento mentale corretto per stabilire il rapporto più idoneo possibile sia con l’ adolescente, sia con l’ ambiente al quale l’ adolescente stesso si trova legato. Così lo racconta nel libro del 1990: “ Proprio la necessità operativa di rispondere a molteplici e diverse richieste provenienti dal Tribunale minorile, dal Giudice tutelare, dal ragazzo e dalle figure educative a lui più vicine, (ai genitori ed agli insegnanti in seguito), fece sì che gli specialisti si sforzassero di individuare una metodologia idonea ed imparassero ad adottare un linguaggio la cui efficacia era tanto più incisiva quanto più era comprensibile all’ altro. Occorreva, dunque, continua Senise, saper immaginare in che modo il linguaggio, verbale e non, era ricevuto e decifrato. Si verificò che esso poteva essere scelto e usato appropriatamente solo se si aveva la libertà emotiva di attingere - ora in se stessi, ora nell’ altro - a pensieri, desideri, affetti, mediante un ascolto empatico-identificatorio, e, successivamente, se si aveva la capacità di offrire all’ altro, secondo i suoi mezzi comunicativi, ciò che di lui si era compreso. Nacquero così le prime relazioni scritte per l’ adolescente, nelle quali era utilizzato un linguaggio parlato e scritto, dove contenuto cosciente, affetti e stato d’ animo tendevano ad essere in sintonia tra loro. Queste relazioni erano lette e discusse con l’ adolescente, ma dovevano essere comprensibili anche alle diverse figure istituzionali che avevano in carico l’ adolescente o che dovevano prendere gravi decisioni per lui.”
Da qui iniziò la messa a punto sempre più perfezionata di una metodologia di presa in carico, successivamente applicata anche nell’ ambito del lavoro clinico pubblico e privato, tale da potersi occupare delle due principali attività della mente in questo particolare periodo evolutivo: definire la propria identità e trasformare gli affetti ed i sentimenti infantili in affetti ed in sentimenti adulti. Nacque la “Psicoterapia breve di individuazione”, originariamente definita come ‘Analisi del Sè’. Mi sembra importante, a questo proposito, evidenziare un dato cronologico relativo alla produzione scientifica di Senise, cioè che, a parte dei limitati contributi relegati negli atti di qualche convegno, la prima esposizione della sua metodologia di intervento appare solo nel 1981 nel famoso articolo pubblicato sulla rivista ‘Gli Argonauti’ e sul libro di Giovanni Lanzi, successivamente ampliata e rielaborata nel 1984 e diventata un corpo unico nel 1990 con la pubblicazione del libro. E’ un dato questo che colpisce, da un lato se confrontato con le sconfinate e precoci produzioni che ci ritroviamo ad osservare specialmente in ambiti universitari, dall’altro se pensiamo a quanto tempo sia trascorso prima che Senise abbia deciso di esporsi pubblicamente ed a quanto poco materiale ufficiale rimanga a nostra disposizione relativo alla sua produzione teorica. Ma soprattutto pensando al divario esistente tra la limitata pubblicazione ufficiale e le migliaia di fogli di appunti scritti da chi lo poteva ascoltare come supervisore, formatore o relatore. E’ come se di un musicista o di un cantante noi avessimo a disposizione pochi dischi sul mercato e tantissime registrazioni private. Credo che abbiano influito su di ciò elementi personologici suoi propri (una certa pigrizia, una spiccata modestia associata al pudore ed alla timidezza), ma anche e soprattutto la difficoltà della materia che era trattata.
Questa é stata e continua ad essere sicuramente la sfida più complessa e difficile nella relazione con l’ adolescente in difficoltà. Noi ci troviamo di fronte ad una persona che sta cercando di ritrovare il proprio percorso di individuazione, ma per il quale l’ interrogativo “chi sono?”, presente in ogni adolescente, assume un tratto angoscioso e la risposta diventa tanto più confusa quanto più precaria é l’ immagine che egli ha di sé. E noi, di fronte a lui, impegnati nel compito di conoscerla, per indurre nella sua organizzazione psichica un uso migliore dei suoi processi di individuazione, possiamo disporre solo del materiale che ci viene portato e messo a disposizione sul tavolo della nostra stanza di lavoro. Dobbiamo così in primo luogo far sì che ci scelga come strumenti da utilizzare per uso più conveniente di questo materiale. “La prima operazione -dice Senise- é una corretta identificazione a lui, empatica e globale, ma più selettiva e puntuale nell’ ambito e nel limite della sua relazione tra Io soggetto ed Io oggetto; la seconda é di promuovere in lui una controidentificazione a noi, identificati con lui, dando luogo così ad un effetto specchio, già di per sé fondante per una relazione psicoterapeutica. Infatti, in tal modo, il luogo ed il tempo della seduta diventano un momento privilegiato di riflessione e di investigazione da parte dell’ Io soggetto sull’ Io oggetto. Per un certo tempo noi rispecchieremo all’ adolescente, il più esattamente possibile, l’ immagine che egli ha di se stesso e gli rifletteremo, per quanto in noi, le modalità investigative attraverso le quali é giunto o giunge a quell’ immagine di sé”. Questo preciso, minuzioso e continuo lavoro di identificazione e controidentificazione tra terapeuta ed adolescente é sempre stato per me perfettamente e metaforicamente rappresentato dall’ immagine di un trenino che attraversava la vetrina di un famoso negozio milanese di giocattoli purtroppo chiuso da qualche mese; era una bella e robusta locomotiva con due vagoncini che viaggiando su di un binario rettilineo posto in primo piano continuava incessantemente a spostarsi da un respingente all’ altro, avanti e indietro, avanti e indietro. Binario che nel nostro caso non assume e mantiene una posizione statica, ma che si sposta e si disloca a mano a mano che il lavoro terapeutico procede e l’ adolescente evolve.
Mi sembra che questo sia stato il tema centrale dell’ elaborazione teorica e tecnica di Senise, quello che ha permesso di creare l’ atmosfera adeguata per la relazione empatica e di fiducia con l’ adolescente: “se tu ti affidi a me e mi dici le cose che ti riguardano e che pensi, io ti dirò subito quello che a me viene da pensare su di te e sul tuo mondo interno”, garantendo quell’ immediatezza, spontaneità e naturalezza tali da poter mettere a proprio agio l’ interlocutore. Il terapeuta, con questo modo di procedere, diventa uno strumento di individuazione, sul quale l’ adolescente fa un investimento narcisistico vivendolo come una parte di sé.
Tommaso Senise arrivò a formulare una schema operativo ottimale nella presa in carico dell’ adolescente, schema che credo sia ben noto, ma che riassumo per completezza di informazione:

1. richiesta telefonica della consultazione;
2. colloqui con i genitori;
3. colloqui con l’ adolescente;
4. esami testologici;
5. restituzione all’ adolescente dei risultati dell’ indagine, elaborazione del progetto;
6. colloquio di restituzione ai genitori;
7. colloquio con l’ adolescente per commento all’ incontro con i genitori.

Ogni tappa aveva una sua logica ed in tutte era indispensabile che il trenino continuasse a viaggiare tra i respingenti. Penso che la preferenza che Senise aveva per dei colloqui separati con i genitori, per lo meno al primo incontro, si inserisca proprio nella specificità della sua modalità relazionale. Egli aveva bisogno e voleva stabilire una buona relazione anche con loro e per far ciò doveva favorire un clima di identificazione e di controidentificazione anche con le loro posizioni, con le loro problematiche e difficoltà, spesso incompatibili con quelle del figlio adolescente. Così, negli incontri separati, poteva essere più libero di mettere in atto e sviluppare i processi empatici necessari al buon andamento della consultazione.
Un altro tema centrale del suo lavoro é quello dell’ uso del transfert. Nella mia esperienza, di allievo prima e di formatore poi, questo é sempre stato un punto molto delicato e controverso. Io credo che la confusione sia derivata dalla differenziazione che egli faceva tra la psicoanalisi classica e la sua metodologia di intervento sull’ adolescente. Infatti, avendo egli scelto una modalità di approccio relazionale favorente i processi di controidentificazione selettiva rispetto a quelli transferali, é chiaro che diventasse poi difficile riportare la relazione all’ interno di un setting finalizzato allo sviluppo di un transfert strutturato. Senise riteneva che la terapia psicoanalitica classica non fosse adatta nel momento della conoscenza e dello stabilirsi di una buona alleanza di lavoro. Così motivava le sue ragioni: “la crisi adolescenziale in se stessa comporta continui movimenti transferali che il soggetto fa prevalentemente nei confronti dei suoi genitori, verso i quali rivive, durante il corso di poche ore o minuti, movimenti emotivi, risposte affettive e situazioni conflittuali differenti, in un’ oscillazione di modalità relazionali appartenenti ora al presente, ora a fasi evolutive del passato. A loro volta, i genitori stessi sono coinvolti in questo movimento transferale e rispondono ad esso con propri atteggiamenti oscillanti tra modalità antiche e attuali, per lo più sfasate rispetto al movimento transferale del figlio. Questo spesso sta alla base dei disturbi di comunicazione più ricorrenti tra adulti e adolescenti”.(é ben rappresentato dalla difficoltà che spesso un genitore ha nel trovare la giusta posizione nel rapporto con un figlio che prima lo manda al quel paese, poi gli si siede in braccio, poi non lo saluta uscendo da casa) Egli riteneva che tale facilità a fare traslazioni fosse una delle modalità attraverso le quali l’ adolescente normalmente evolve. E’ chiaro quindi come secondo Senise non fosse il caso di inserire all’ interno di una relazione terapeutica un meccanismo potenzialmente così difficile da controllare proprio per il suo continuo variare. Io penso inoltre che, per lo spiccato amore per la libertà dell’ altro che lo distingueva, temesse, nel condurre una psicoanalisi classica, a quei tempi ancora ancorata al concetto dell’ alto numero delle sedute settimanali ed, ovviamente, dell’ intensità della relazione transferale, di privare l’ adolescente degli spazi emotivi e temporali indispensabili ai suoi percorsi evolutivi. Inoltre, ammetteva di provare un certo disagio nell’ avvertire l’ altro indifeso nella sua dipendenza eccessivamente regressiva. Ciononostante egli riteneva che la psicoanalisi fornisse gli strumenti indispensabili per sviluppare una tecnica adeguata e formare dei terapeuti affidabili, in grado di evitare i rischi sopracitati, non favorendo regressioni pericolose o interruzioni precoci e traumatiche. L’ interpretazione resta uno degli strumenti principali, ma non quella di transfert classica, bensì quella del significato delle emozioni, degli affetti, delle pulsioni, che l’ adolescente sviluppa nei confronti dei personaggi che di volta in volta porta in seduta.
Ma, allora, cosa bisogna fare quando un movimento transferale, comunque e nonostante tutto, inevitabilmente, si mette in atto e si evidenzia ? Ecco, credo che questo sia il vero equivoco che é sorto a proposito dell’ uso o meno dell’ interpretazione di transfert all’ interno della psicoterapia breve di individuazione. L’ indicazione tecnica é quella di non favorire lo sviluppo di una relazione basata esclusivamente sul transfert e per fare ciò é necessario anzitutto che le evidenziazioni del transfert siano immediatamente interpretate, perché é proprio attraverso l’ interpretazione che il transfert trova la sua collocazione originaria. Al contrario, la ‘non interpretazione’ dell’ evidenza transferale ne facilita lo sviluppo e la crescita. Utilizzo di nuovo le parole di Senise: “Cosa faremo di fronte a tale evenienza? (il determinarsi di un movimento transferale) In linea di massima interpreto quanto di transferale il paziente comunica restituendo immediatamente l’ emozione, l’ affetto, la pulsione, traslati, all’ oggetto originario a cui si riferiscono, enfatizzando, se necessario, la mia estraneità e differenziazione da quell’ oggetto. (“Guarda che non sono tuo padre !”) Ciò é di solito sufficiente a ripristinare la relazione controidentificatoria.”.
Un altro punto che mi sembra importante sottolineare é quello dell’ inserimento dell’ indagine testologica all’ interno della fase di consultazione. Può darsi che questo appaia ai giorni nostri ormai acquisito e quasi scontato, ma se pensiamo al fatto che il tentativo di utilizzare i test all’ interno della relazione inizia più di quarantanni fa, forse riusciamo a coglierne meglio l’ aspetto innovativo e rivoluzionario. Ma perché tutto ciò si realizzi in maniera efficace é necessario che vengano soddisfatti alcuni criteri minimi. In primo luogo il test non deve essere utilizzato alla stregua di un esame di laboratorio nella pratica medica, ma deve essere realmente inserito ‘dentro’ la relazione terapeutica; in questo senso é indispensabile che la situazione testologica venga proposta quando l’ adolescente ha ben compreso la finalità di individuazione del rapporto terapeutico. E’ importante cogliere eventuali segnali di resistenze inconsce, consapevoli che é meglio rinunciare all’ indagine testale piuttosto che averne a disposizione una che non può essere utilizzata, perché realizzata in assenza di una reale disponibilità emotiva. Un adolescente andrebbe sempre preservato da ‘occasioni perdute’, dato che spesso i suoi treni passano una sola volta per le nostre stazioni.
Senise ritiene ottimale una situazione nella quale il terapeuta e il testista siano due persone differenti, perché, a suo avviso, svolgono due funzioni mentali complementari, ma differenti per scopi, strumenti e situazione relazionale. Il terapeuta aiuta il ragazzo a definire un’ immagine di sé più prossima a quella reale, il testista ne mette a fuoco il funzionamento mentale, attraverso l’ uso che fa dei meccanismi di difesa. E’ facile intuire come sia indispensabile una stretta collaborazione e conoscenza tra le due figure professionali, maturata possibilmente attraverso una lunga esperienza di lavoro in comune, affinché tale integrazione possa avvenire con successo.
Io penso che nella posizione teorica di Senise abbiano influito anche degli altri elementi forse meno profondi, ma non per questo meno importanti. In primo luogo egli aveva una conoscenza dei test, ma, come spesso diceva, “non li sapeva fare”; in secondo luogo tendeva forse a delegare ad un altro una parte più ingrata, quella di dover dire delle verità magari più difficili da ascoltare. In un certo senso era anche lui a suggerirle, magari già le pensava, non per niente forniva alla testista le cassette registrate dei suoi colloqui con l’ adolescente, ma l’ inserimento dell’ ‘altro’ nella relazione terapeutica era come se lo legittimasse a parlarne con il ragazzo. Certamente é molto più facile per un terapeuta poter riferire e discutere di una relazione testale, se questa viene letta attraverso le parole e le interpretazioni di un altro. In questo senso mi pare evidente che la figura dello psicodiagnosta assuma un po' quella del ‘terzo’ (occhio, orecchio o persona), in grado di salvaguardare la positività e la relativa neutralità dell’ esperienza terapeutica.
Altrettanto importante diventa quindi la stesura della relazione testologica che deve essere fatta in maniera il più discorsiva possibile, utilizzando termini di facile comprensione anche da parte dell’adolescente, possibilmente integrata di temi e contenuti che derivano dai colloqui con il terapeuta. I colloqui di restituzione diverranno così ancora più efficaci ed incisivi, tali da permettere all’adolescente di riconoscersi il più compiutamente possibile nel ritratto che piano, piano si sarà venuto a delineare.
Con il libro del 1990, che in pratica rappresenta la raccolta, integrazione e sistematizzazione dei lavori precedenti, Senise non scrive più nulla sulla Psicoterapia Breve di Individuazione. Io vorrei quindi brevemente soffermarmi su altri due contributi significativi che ci ha lasciato. Il primo tema é sugli “Stati ‘come se’ in adolescenza”, presentato a Monza nel 1987 e, con successive aggiunte, a Firenze nel 1995. Sono due relazioni svolte con uno stile che egli aveva inaugurato proprio nel 1987, cioè quello teorico-clinico-autobiografico, e che avrebbe sempre utilizzato in ogni sua relazione successiva. I ricordi, le riflessioni e le interpretazioni sulle proprie vicende adolescenziali erano con schiettezza e naturalezza inserite negli interventi, tramite vignette, a conferma ed integrazione di riflessioni teoriche e presentazioni cliniche.
Due brevi cenni sui concetti. Le personalità “come se”, descritte da H. Deutsch, sono soggetti dall’ apparenza normale, dalle capacità intellettive integre, con espressioni emotive apparentemente normali e che tuttavia suscitano nell’ interlocutore una indefinibile sensazione che li porta a chiedersi “cosa c’é che non va ?”. C’ é in esse una vera perdita dell’ investimento oggettuale, una disposizione del tutto passiva verso l’ ambiente, con una notevole prontezza plastica a percepire i segnali del mondo esterno ed a modellarne di conseguenza se stessi ed il proprio comportamento. Il ‘come se’ deriverebbe da disturbi ed anomalie dei processi di identificazione della prima infanzia, indotti da eccessi o carenze di affetti che producono gli stessi effetti, se non adeguatamente investititi. La modalità difensiva adulta nelle relazioni è la reazione all’abbandono con modalità affettive non autentiche e con la sostituzione dell’oggetto perduto con un altro alla prima occasione.
Il “falso sé”, descritto da D. Winnicot, nasce dalla relazione originaria madre/bambino, dalla condiscendenza e dalla compiacenza necessarie a preservare l’ amore della madre. La madre “sufficientemente buona” reagisce alla gestualità spontanea del bambino, espressione di impulsi spontanei che indicano e rispecchiano l’esistenza di un vero sé potenziale, andando incontro alla sua onnipotenza e dandole un senso. La ripetizione innumerevoli volte di tale modalità permette di rinforzare l’Io debole del bambino. La madre “non sufficientemente buona” non è capace di sostenere l’onnipotenza del bambino; non risponde e sostiene il gesto del bambini, ma vi sostituisce il proprio, chiedendo di dargli un senso con la condiscendenza, stadio primario del ‘falso sè’, nel quale il bambino vive in modo falso, cerca di conservare l’amore della madre, di nascondere e proteggere il ‘vero sè’. Il falso sé serve a nascondere e proteggere il vero sé, non si sostituisce ad esso, non é un’altra identità. Esteso alle relazioni sociali, costituisce il compromesso necessario per un buon adattamento ambientale. Quando questa funzione protettiva viene meno, rischiando di soffocare il vero sé, allora diventa patologico, avvicinandosi al “come se”.
Nel lavoro sul ‘come se’, Senise ci ha offerto una opportunità importante, in primo luogo attraverso la ricostruzione del concetto, la sua evoluzione nella letteratura psicoanalitica, la sua precisa differenziazione dal ‘falso sé’, ma soprattutto la sua manifestazione nel corso dell’adolescenza, argomento solo vagamente accennato nella letteratura. Nel lavoro del 1987 egli ipotizzava che la posizione ‘come se’ implicasse il rapporto con un oggetto che ha bisogno di fare identificazioni proiettive; che il soggetto ‘come se’, passivo, venisse in qualche modo scelto dall’ oggetto, attivo; in un certo senso non troppo ‘responsabile’ di quanto andava accadendo. Nel 1995 modificò ed ampliò tale concetto introducendo il termine di ‘identificazioni intrusive’, con il quale definiva attività volontarie operate dal soggetto ‘come se’, finalizzate ad individuare la propria immagine così come l’ altro la recepisce o costituisce. L’ identità fittizia che ne risulta é così non solo il prodotto delle sue controidentificazioni proiettive, in risposta alle proiezioni altrui, ma anche delle sue attive identificazioni intrusive. Tale processo é ben espresso dalla determinazione con cui il soggetto ‘come se’ cerca di sentire che cosa l’ oggetto di identificazione (o di imitazione) si aspetta dal soggetto per poter essere così come l’ oggetto lo vuole.
Senise dice che “nella fase adolescenziale le condizioni ‘falso sé’ e ‘come se’ possono verificarsi con una certa facilità, specialmente la prima, a causa del significativo temporaneo disinvestimento dagli oggetti interni, della scarsa consistenza e coesione del sé, dell’ attività difensiva contro i processi di individuazione, dell’ intensità dei desideri inconsci di passività e dipendenza, della facilità all’ uso di meccanismi di difesa primitivi. Nell’ adolescenza l’ uso temporaneo di un ‘falso sé’ può agevolare l’ evoluzione normale, sottraendo il ‘vero sé’ ad attacchi che l’ Io non sarebbe ancora in grado di sopportare. Condizioni ‘come se’ sono invece sempre potenzialmente nocive; esse, per il tempo che durano, arrestano o rallentano i processi evolutivi; le controidentificazioni proiettive non hanno potere modificante sugli oggetti interni; sono estranee ad ogni esperienza autentica, possono indurre a condotte autolesive o delinquenziali, a volte a vissuti megalomanici o di onnipotenza”.
Il secondo tema é quello della mortificazione, definita come quell’ insieme di affetti depressivi determinati dalla delusione per lo scacco delle competenze da noi stessi in noi presupposte o, da altri, significativamente investiti, a noi attribuite. Secondo Senise, all’ origine di tutto ciò vi é un genitore che stimola il bambino a sviluppare le sue competenze e lo gratifica quando le costituisce, le elabora e le esprime o lo frustra (mortifica) quando é inadeguato, con oscillazioni tra il vivificante ed il mortifero. Più l’ investimento (l’ aspettativa, la proiezione) é congruo, cioè più il genitore ama il bambino in sé, il suo bene, la sua libertà, più la gratificazione é vitale e stimolante. Tanto più l’ investimento é di natura narcisistica, cioè non sul bambino in sé, ma sul bambino in quanto oggetto-testimonianza delle abilità materne-paterne o sul bambino come oggetto pregiato, dalla madre posseduto, tanto maggiormente la gratificazione non é efficace. Egli ritiene frequente che uno od entrambi i genitori sollecitino nei figli investimenti sulla competenza in funzione del successo più che sulla competenza in sé, favorendo la formazione di ideali competitivi che sono peraltro alimentati anche dagli stimoli sociali che provengono dalla scuola e dai media. Si strutturano così sentimenti di mortificazione misti tra vivificanti e competitivi che alimentano la patologia narcisistica, frequente e di varia intensità, sempre disturbante la normale evoluzione adolescenziale. Appare evidente come la grande attenzione che Senise presta alla relazione genitore-figlio sia ulteriormente confermata da queste riflessioni, nelle quali mi pare stimolante sottolineare le sovrapposizioni con le ipotesi etiologiche relative agli stati ‘come se’ e ‘falso sé’, specie per quanto riguarda il rischio dell’ evoluzione di patologie narcisistiche. Della sua posizione mi piace evidenziare lo stimolo per un atteggiamento genitoriale improntato, senza cedimenti sul rigore e la franchezza, all’ investimento sull’ amore per la libertà altrui. Credo che da qui sia discesa la straordinaria capacità relazionale che egli ha sviluppato con i ragazzi: ciò a cui un adolescente maggiormente aspira é proprio, infatti, sentirsi ed essere libero.
Qui si conclude il contributo che Senise ha potuto dare in vita, proprio quasi fino all’ ultimo, dato che le più recenti riflessioni sugli stati ‘come se’ precedono di pochi mesi la sua scomparsa.
Poco tempo fa, dopo l’ estate, ho avuto l’ occasione e la fortuna di vedere l’ ultimo film di Marcello Mastroianni, il ‘Mi ricordo, sì, io mi ricordo’ nel quale ripercorre la propria vita artistica (film che consiglio vivamente a tutti quelli che amano il cinema e la vita) ed a me sono balzate agli occhi molte analogie tra le loro due figure. Ad un certo punto nel film Mastroianni parla della professione dell’ attore, di come alcuni sostengano che sia un lavoro faticoso, dominato dalla sofferenza; egli invece dice che per lui é un gioco, che recitare é un grande piacere, una grande emozione, che é un mestiere fatto per divertirsi, un mestiere meraviglioso, dove ti pagano per giocare e tutti, se hai un minimo di qualità, ti battono le mani. Senise nel 1988 diceva, parlando del suo lavoro e della formazione: “...in questa amata, meravigliosa e impossibile professione gli esami non finiscono mai e i più importanti non riguardano il grado di conoscenza della letteratura specifica, ma il grado di conoscenza e consapevolezza di noi stessi e del significato delle nostre relazioni. In questi indispensabili esami in cui siamo esaminatori ed esaminandi, bisogna che siamo indulgenti e comprensivi, perché altrimenti con molta disinvoltura il nostro inconscio occulterà ciò che di noi non ci é gradito conoscere.”. Penso che tutti e due siano stati capaci, come diceva Luciana Nissim di Senise, di godersi la vita, magari anche attraverso la sfrontatezza di chiedere come ultimo desiderio ‘un toscano ed un bicchiere di whisky’.
Questo é tutto ciò che Tommaso Senise ci ha lasciato in eredità. Come tutto ciò che ci viene tramandato, io credo che vada trattato ed utilizzato senza che diventi simulacro o tabù. In primo luogo vorrei evidenziare quando il modello Senise diventa, a mio avviso, poco utilizzabile e quali rischi si corrono a volerlo utilizzare senza tener conto del tempo che passa e delle evoluzioni che la nostra disciplina attraversa.
Il modello é scarsamente applicabile al trattamento di adolescenti psicotici, dato che richiede l’ esistenza di un Io sufficientemente strutturato, in grado di potersi scindere consapevolmente in una parte osservante ed in una osservata. Penso che in questi casi, appena si delinei un quadro clinico del genere, vadano presi degli accorgimenti che consentano l’ organizzazione di una terapia più adeguata al caso.
Un altro punto controverso riguarda la rigida applicazione del modello. Già Senise metteva sull’ avviso relativamente al fatto che il suo, pur essendo uno schema ‘ottimale’ di funzionamento, non era da applicare in maniera fideista. Esistono infatti numerose variabili, a partire dalle caratteristiche stesse della personalità dei terapeuti, che possono favorire delle modifiche. A mio avviso é molto importante che la consultazione abbia tempi i più brevi possibili. Gli adolescenti hanno bisogno di risposte rapide: vivono a velocità supersonica; ma soprattutto io credo che la rapidità consista principalmente nell’ essere capaci di restituire il più precocemente possibile quanto di loro si fa’ chiaro in noi, a mano a mano che lo comprendiamo. Non applicare rigidamente il modello vuol dire anche essere capaci di modificarlo se condizioni particolari, esigenze, bisogni, difese od altro ci danno delle indicazioni (a me é successo che un adolescente mi abbia permesso di incontrare i suoi genitori dopo un anno di tempo, quando io oramai avevo dato per impossibile, seppur necessario, questo evento). E’ ovvio che uno schema di riferimento é assolutamente indispensabile, specialmente agli inizi di ogni professione, ma crescere, maturare, imparare, vuol dire anche essere capaci di sviluppare modalità autonome di funzionamento.
Per quanto riguarda l’ utilizzo dei test, mi sembra importante ricordare come gli stessi debbano essere inseriti all’ interno del percorso della consultazione e come, soprattutto, non si possano assolutamente sostituire alla stessa o diventarne la parte dominante, per quanto ben somministrati, interpretati ed elaborati. Sono un grande strumento, un’ opportunità straordinariamente efficace, ma solo se possono essere complementari ai colloqui clinici e non tentano di esserne l’ abbreviazione o l’ oggettivizzazione.
A proposito della contrapposizione anche un po' polemica nei confronti dell’ utilizzo della psicoanalisi nel trattamento degli adolescenti, io credo che le posizioni ai giorni d’ oggi possano considerarsi modificate. Sono passati poco più di quindici anni, ma nel frattempo le posizioni teoriche e gli approcci clinici si sono alquanto evoluti. E’ probabile che il modello di Senise abbia dovuto, intorno agli anni 8O, attraversare una fase diciamo così adolescenziale, nella quale la propria identità come terapia doveva passare soprattutto attraverso una differenziazione per diversità rispetto allo strumento di riferimento, cioè quello analitico. Da allora, da un lato la Psicoterapia Breve di Individuazione ha definito un suo corpus specifico, dall’ altro la Psicoanalisi ha introdotto delle variazioni di tecnica e delle elaborazioni teoriche che permettono di considerare come ‘analitico’ anche un trattamento con un setting differenziato. Penso che anche il contributo di Senise abbia facilitato questo percorso ormai inarrestabile.
Per quanto riguarda il futuro, io sono sicuro che Tommaso sarebbe il primo a non essere soddisfatto di una eventuale staticità e riproduzione un po' passiva del suo modello. Penso, allora, che esistano due ambiti dove potersi muovere ulteriormente: il primo é quello formativo. In questo senso a noi, suoi allievi, ha anche insegnato ad insegnare ed il suo modello, proprio nel rigore di base che possiede, può essere uno straordinario strumento di formazione al trattamento degli adolescenti. Il secondo é quello dell’ andare laddove gli adolescenti si trovano e vivono; Giancarlo Zapparoli ci ha raccontato di essersi trovato un giorno a fantasticare con Senise, sulla possibilità di mascherarsi per poter accedere ai luoghi dei ragazzi, come le discoteche, e poterli incontrare fuori dagli studi dove normalmente stiamo noi. Sembrerebbe qualcosa a cavallo tra il gioco e la fantascienza, ma se pensiamo, e ne sentiremo parlare nel pomeriggio, al lavoro nelle scuole, a quanto di rivoluzionario ed innovativo ci sia stato e possa tuttora esserci in questo campo, forse davvero il nostro futuro può lasciar spazio anche alla nostra fantasia ed alla nostra creatività.
E’ un lavoro piccolo, minimale, poco evidente, spesso dominato dalla sensazione di aggiungere solo granelli di sabbia al deserto, ma, in realtà, in grado di dare frutti nel corso del tempo. A questo proposito vorrei concludere con le parole che Cechov nel primo atto dello Zio Vanja fa pronunciare al dottor Astrov.

“Va bene, ammettiamo pure che a volte può essere necessario tagliare dei boschi, ma perché distruggerli tutti? Muoiono miliardi di alberi, vengono distrutti i nidi degli uccelli, i rifugi degli animali; scompaiono per sempre paesaggi meravigliosi: e tutto questo perché? Bisogna essere dei barbari insensati per bruciare tanta bellezza, distruggere ciò che noi non siamo capaci di creare. L’ uomo possiede ragione e forza creativa per accrescere quanto gli é stato dato; però, fino ad oggi, non ha fatto che distruggere. I boschi sono sempre più piccoli, i fiumi inaridiscono, la selvaggina scompare; e la terra, giorno dopo giorno, diventa sempre più povera e brulla. Eh, tu mi guardi ironicamente; quel che ti dico non ti sembra affatto serio. Sì, forse sarà stravagante, ma quando passo accanto a un bosco che ho salvato dall’ accetta, o quando sento stormire il giovane bosco che ho piantato con le mie mani, io so che la bontà del clima dipende un poco anche da me, e che se l’ uomo -tra mille anni- sarà felice, un po' di questo merito sarà anche mio. Quando pianto una piccola betulla, e poi la vedo verdeggiare, cullarsi nel vento, la mia anima si riempie d’ orgoglio.”

Io so per certo che Tommaso Senise ha piantato molte piccole betulle nella sua lunga vita professionale.


*Relazione presentata alla Giornata di studio in ricordo di Tommaso Senise “Quale adolescente per la psicoterapia, quale psicoterapia per l’adolescente”, organizzata dall’Istituto di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente, Milano, 15/11/1997


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