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Gianfranco Ravaglia

L'INTENZIONE RITROVATA
Intenzioni e vissuti nel lavoro analitico




CAPITOLO 6
Lavoro analitico e percorso analitico


1. Identificazione delle difese


Il cliente non porta mai i suoi veri problemi all'analista, dato che ha organizzato la sua vita in modo tale da evitarli; i "problemi" che porta sono in realtà alcune conseguenze spiacevoli delle soluzioni che egli ha dato nell'infanzia al suo vero problema: "come gestire emozioni dolorose?". Egli inconsapevolmente conferma ogni giorno la sua vecchia strategia difensiva in ogni situazione che potrebbe riportarlo a vecchie emozioni tuttora considerate intollerabili (vissuti). Per mantenere il suo atteggiamento difensivo produce produrre nuove forme di sofferenza, e in alcuni casi si rivolge ad un analista per liberarsi da queste sofferenze, ma senza alcuna intenzione di rinunciare alle difese che inconsapevolmente agisce.
Se l'analista rifiuta questa richiesta irrealistica del cliente ed evita di presentarsi nel ruolo di colui che "dà benessere" si pone nella condizione di poter aiutare davvero il cliente a riappropriarsi delle sue intenzioni difensive e a verificare la possibilità di rinunciarvi.

Una studentessa (che chiamerò Ida) mi raccontò durante il primo colloquio una storia molto confusa di fidanzati che l'avevano delusa e di interminabili discussioni famigliari con la madre e la sorella più piccola. L'unica cosa chiara era la sua tendenza a recriminare e a sentirsi in qualche modo non capita, non accolta. Il problema "ufficiale" che voleva risolvere con l'analisi era il suo impulso a mangiare dolci nei momenti di massimo sconforto. Mi sembrò di capire che non manifestava una vera bulimia. Non vomitava, non faceva diete strane ed i suoi "sfoghi" erano occasionali e tali da non incidere sul peso corporeo. Il vero elemento di disturbo era piuttosto l'inclinazione a recriminare e a cercare alleanze (mutevoli) con sorella, madre, fidanzati, nuovi fidanzati e amiche per sentirsi confermata nel ruolo della vittima. In tale situazione le fragili alleanze venivano sovvertite e l'amica-confidente diventava oggetto di recriminazioni nelle interminabili telefonate con un'altra amica. In questo, però, Ida non trovava nulla di strano dato che si riteneva semplicemente una persona sensibile con un sincero bisogno di rapporti profondi nei quali potersi sentire capita; inoltre era più che disponibile a ricambiare le cortesie ascoltando le lamentele interminabili delle amiche.
Suggerisco a Ida di immaginare che una pillola possa bloccare i processi fisiologici che rendono possibili le discussioni di cui mi ha parlato. La pillola non cambia le persone, i loro atteggiamenti, le loro aspirazioni. Impedisce semplicemente di discutere, recriminare, accusare, giustificare. La invito poi ad immaginare di essere a casa e di aver ingerito una pillola dopo averne fatta ingerire una anche alla madre ed alla sorella. Ammette di fare molta fatica ad immaginare loro tre (e soprattutto la madre) a parlar d'altro o a tacere. La invito allora ad occupare la sedia vuota su cui aveva "visto" la madre; appena occupa il posto della madre comincia a piangere.
Calandosi in quella parte Ida identifica l'antico dolore della madre ed il suo bisogno d'affetto sistematicamente soffocato proprio con la recita ossessiva del ruolo materno. Infatti, la madre di Ida dispensa abbondantemente cure materiali alle figlie rifiutando però qualsiasi manifestazione affettiva proprio perché in questo modo finirebbe per entrare in contatto con i propri bisogni di bambina.
A questo punto posso dire ad Ida che quando mangia i dolci non fa altro che obbedire alla madre: la madre si sente al sicuro se può accontentare la figlia con dei dolci anziché con il contatto fisico ed emotivo.
Ida aveva iniziato il colloquio sentendosi vittima di qualche occasionale "raptus alimentare", sentendosi "coinvolta" nelle discussioni famigliari e bisognosa di “confronto” con le amiche. Il lavoro svolto, anche se ovviamente limitato e non risolutivo, ha comunque permesso a Ida di mettere a fuoco il desiderio di un contatto fisico con la madre e l'impossibilità di soddisfarlo. La "ristrutturazione" del suo "sintomo" come "devianza consentita dalla madre" ha reso possibile l'avvio di una esplorazione dei suoi sentimenti, soprattutto di quelli esclusi grazie a comportamenti "strani" come mangiare senza reale piacere o necessità, fare discussioni senza senso e telefonate interminabili.

Un'altra giovane cliente (Sonia) aveva "portato" al colloquio il "problema" di sentirsi "importante ma sbagliata" in famiglia. Parlava di cose gravi (frustrazioni e rifiuti materni molto pesanti) con lucidità e acutezza psicologica, ma con totale distacco. Con lo stesso distacco parlava di storie sentimentali complicate da cui era sempre uscita sostanzialmente con il ruolo di quella "incapace di combinare qualcosa" coi ragazzi. Le feci notare il distacco con cui stava esibendo un quadro clinico davvero preoccupante. Le chiesi se cercasse di convincere anche me che lei era una ragazza "sbagliata" e immediatamente capì che si sentiva stranamente "in pace" stando in quel ruolo. Lavorando su una fantasia (quella di comunicare ai genitori una serie di successi in vari ambiti della sua vita sociale) si sentì, inaspettatamente, del tutto ignorata. Il problema quindi divenne quello di non sentirsi affatto importante per i genitori e di presentarsi come persona "sbagliata" proprio per ottenere almeno dei rimproveri o dei commenti carichi di preoccupazione. Con questo sostanziale capovolgimento, non solo affiorò il senso di non considerazione, ma i comportamenti "sbagliati" furono riclassificati come intenzionali.

Un'altra cliente di mezza età molto legata alla madre con la quale gestiva una piccola azienda famigliare portò in analisi il problema della sua scarsa efficienza sul lavoro che la madre non mancava mai di sottolineare. Iniziò il primo colloquio affermando che non riusciva a fare di più e che era eccessivamente avvilita dalle critiche materne. Il problema su cui arrivammo a lavorare fu invece un altro: "faceva la stupida" in modo da provocare e punire la madre per la sua freddezza.
In altri casi può risultare difficile capovolgere nel corso del primo colloquio i termini del problema "ufficiale". Allora è comunque importante modificare almeno gli aspetti più irrazionali del quadro di riferimento entro il quale il cliente si pensa e definisce i suoi problemi. Con un giovane professionista angosciato da scrupoli relativi al suo lavoro non fui in grado di indicare il vero tema da affrontare, ma dal colloquio emerse almeno la comprensione del fatto che con quelle ansie assurde si scollegava da emozioni più profonde e dolorose. In questo modo egli capì che non avrei dovuto "guarirlo" dall'ansia, ma aiutarlo ad affrontare le emozioni da cui fuggiva proprio con l'ansia.

Queste considerazione sui veri e falsi problemi da affrontare nel percorso analitico portano a concludere che è importante stabilire con il cliente un progetto o contratto o obiettivo di lavoro, e che in ciò è fondamentale non stabilire alcuna collusione con il desiderio di "ricevere" una cura per qualche "sintomo" o "incapacità" o "tendenza".

La questione può essere chiarita dal resoconto di una seduta di supervisione. Una giovane psicologa (che chiamerò Laura) mi riferisce il lavoro fatto con una cliente che chiamerò Carla in circa un anno di analisi e con risultati ritenuti soddisfacenti, data la attuale capacità di Laura di lavorare anche sul piano fisico con emozioni intense e di garantire una sua calda "presenza" ai clienti nei momenti critici. Il punto debole della formazione di Laura era fondamentalmente l'analisi dell'intenzionalità difensiva, e faceva supervisione proprio per andare oltre il lavoro sull'espressione emotiva e individuare le bugie e le manipolazioni dei clienti. Carla aveva iniziato l'analisi in un periodo di depressione nel quale, pur non avendo interrotto l'esame di realtà, aveva compromesso seriamente la sua efficienza nei rapporti sociali. Era una studentessa lavoratrice che non studiava e che non lavorava. In un anno era uscita dalla depressione e si era trovata un lavoro più soddisfacente che le lasciava anche tempo per preparare gli esami. Si sentiva meglio con se stessa ed aveva conosciuto un ragazzo con cui desiderava costruire un rapporto stabile. Le emozioni profonde erano state sfiorate e la mappa delle relazioni famigliari era stata tracciata a grandi linee. Ora si trattava di lavorare in profondità per trasformare un miglioramento in un cambiamento. Laura a questo punto avvertiva che qualcosa non era sotto controllo.
L. E' una ragazza brillante, molto intelligente. Piace facilmente agli uomini, ma non ha mai sperimentato il piacere sessuale. Con il ragazzo con cui sta ora, di fatto subisce il rapporto sessuale. Con me ha un rapporto apparentemente buono, ma sento che in realtà non lavora "con me". Con il ragazzo litiga ogni volta che si parla di convivenza ed evita di stare davvero "con lui". E' sfuggente. Più mi impegno a lavorare sul qui ed ora con me o sulla sua attuale relazione sentimentale, meno riesco a trovare qualcosa su cui far leva per andare avanti. Inoltre salta una seduta appena qualcosa sta per affiorare.
GF. Hai iniziato l'analisi per lavorare sulla depressione?
L. Sì
GF. Ora però Carla non è depressa; hai chiarito con lei l'obiettivo per cui proseguite il lavoro?
L. Non abbiamo stabilito formalmente uno specifico obiettivo, ma di fatto abbiamo deciso di lavorare sulle sue difficoltà con la sessualità. Lei vuole che l'aiuti a lasciarsi andare con il suo ragazzo e a sperimentare la sessualità con piacere.
GF. Qui c'è una confusione. Sei caduta nella trappola in cui tocca a te farle sentire delle cose che a lei non importano. Il tuo compito è quindi assurdo perché non hai più il ruolo di chi aiuta ad analizzare e ad affrontare un problema "sentito", ma hai il compito di far provare ad una cliente qualcosa che lei solo astrattamente ritiene di "dover provare". Devi paradossalmente farle venire una voglia che non ha. L'unico problema interessante su cui si potrebbe lavorare è invece un altro: perché mai vuole sperimentare il piacere sessuale (di cui non sa nulla) anziché il piacere dell'alpinismo?
L. Ho capito: il vero problema non riguarda i rapporti sessuali con il suo partner, ma il fatto di darsi il dovere di desiderare qualcosa che non desidera.
GF. Io credo che qualcosa desideri. Sbaglia a cercarlo in un uomo ed evidentemente si illude di poter "meritare" quel che cerca facendo la brava a letto. Se lavori su ciò che davvero desidera, su ciò che desidera e non può trovare, puoi condurla al suo dolore. Se mette a posto le sue cose da bambina, prima o poi avrà voglia di vivere almeno nel presente una vita soddisfacente e scoprirà che il sesso è prezioso.

Questo modo di ridefinire la richiesta di aiuto dei clienti sgombra il terreno da una questione sulla quale per decenni analisti e psicoterapeuti hanno fatto aspre (e sterili) discussioni: alcuni hanno in vari modi sottolineato l'importanza dell'analisi del passato per il superamento delle difficoltà attuali, mentre altri hanno in vari modi replicato denunciando la sterilità del lavoro "archeologico" per la soluzione di problemi che comunque esistono nel presente.
Effettivamente è riduttivo qualsiasi lavoro sul qui ed ora che trascuri che qui ed ora il cliente sente e comunica in modi che erano ragionevoli solo "là ed allora". E' però poco convincente anche l'idea secondo cui le frustrazioni dell'infanzia agirebbero causalmente dopo tanti anni sul comportamento adulto.
Sia l'orientamento che privilegia il presente, sia quello che privilegia il passato colgono un aspetto essenziale dei problemi affrontati in analisi. Credo che si possa salvare il meglio di queste due prospettive proprio sostenendo che nel presente il cliente si difende dai vissuti, cioè dalle emozioni del passato non elaborate.

I passaggi obbligati del lavoro analitico inteso in questo modo sono i seguenti:
a) lavoro analitico (cognitivo) volto a chiarire che il cliente non "ha" dei disturbi ma attiva intenzionalmente delle difese che producono certi disturbi;
b) lavoro analitico (esperienziale) volto ad individuare che le azioni difensive impediscono l'emergere di sensazioni o emozioni penose;
c) lavoro analitico (cognitivo) volto a chiarire che il cliente si sta attivamente difendendo da certi vissuti (cioè da emozioni non relative al presente, ma "già sue" e non ancora integrate);
d) lavoro analitico (esperienziale) volto ad elaborare gradualmente i vissuti dolorosi e a verificare che essi nella vita adulta sono tollerabili e non più devastanti;
e) esplicita definizione del percorso analitico come percorso di integrazione di vissuti; il cliente nella vita quotidiana deve abituarsi a interrompere le azioni già comprese come difensive anche se ha paura, in modo da proseguire ed approfondire il lavoro avviato nelle sedute;
f) a questo punto si registra una svolta nell'analisi: il cliente utilizza le sedute prevalentemente per verificare con l'analista il processo che lui stesso sta gestendo (l'interruzione delle difese e la scoperta di una dimensione emotiva più profonda di quella a lui nota); in questa fase, si precisano aspetti non ancora messi a fuoco, si esaminano eventuali difficoltà, si affrontano nuove manifestazioni difensive;
g) il cliente entra in una fase di lutto; pur sapendo benissimo di essere un adulto che in condizioni di sicurezza fa una propria ricerca, si sente molto vulnerabile, soffre per piccole cose, vive intense sensazioni di solitudine, piange spesso; in analisi viene aiutato con il lavoro fisico a piangere in modo completo (con lacrime e singhiozzi che attraversano tutto il corpo); in questa fase si chiariscono ulteriormente le sfumature dei vissuti e certe raffinatezze delle difese; il rapporto con l'analista ora è prevalentemente di collaborazione;
h) si sviluppa un circolo virtuoso: il cliente ha sempre meno paura di emozioni sempre più forti; il pianto è facile, frequente e intenso, ma le sensazioni di centratura e stabilità aumentano; con il pianto l'ipertonia muscolare (corazza caratteriale) si riduce ed il cliente sente maggiormente il proprio corpo e diventa più disponibile a sperimentare un genuino contatto fisico con le persone; il cliente affronta con più efficacia le situazioni sociali perché non teme più in esse risvolti emotivi capaci di attivare vissuti, dato che convive stabilmente con essi; la maggior centratura si traduce anche in scelte costruttive e successi personali; se si verificano nuove situazione dolorose vengono affrontate con una maggiore serenità di fondo;
i) gli interventi dell’analista diventano sempre meno rilevanti e anche se il cliente a volte riattiva delle difese, sa come recuperare il contatto emotivo; egli accetta il dolore come componente inevitabile di tutta la sua esistenza, ma sente che la sua vita è preziosa e che egli è in grado di fare molte cose buone;
l) conclusione del rapporto analitico.

Ovviamente un reale percorso analitico non è lineare come questo schema. Gli interventi dell'analista non sono programmabili perché vengono effettuati sulla base del particolare materiale analitico portato in seduta dal cliente e sulla base della comprensione che di volta in volta l'analista riesce ad avere. Lo schema delinea semplicemente il filo conduttore del lavoro analitico che comunque resta un'avventura piena di imprevisti, di momenti creativi e di errori dell’analista, di aperture e di chiusure del cliente, in cui matura in modo del tutto particolare sia il cambiamento interiore del cliente, sia il rapporto personale fra cliente ed analista.
Nei disturbi narcisistici si ha a che fare con una marcata capacità di svuotare di senso anche le esperienze emotivamente più forti, e quindi la sollecitazione di risposte emotive, se non viene impedita a monte (con una barriera di indifferenza) viene vanificata a valle (cioè trasformata in una collezione di sensazioni isolate oppure idealizzata come esperienza "speciale"). Con tale distacco o finto coinvolgimento il cliente resta sulla sua torre d'avorio; in tale posizione si sente superiore ed irraggiungibile, ma più in profondità irrilevante e calpestabile. Se l'analista non coglie questo nucleo profondo dell'intima realtà di queste persone, e si dedica ad una "cura", finisce per colludere con l'indisponibilità del cliente al coinvolgimento personale. Anche se comprende questo dramma non può contare su “tecniche” che garantiscano la costruzione di un rapporto umano, ma se rinuncia a priori a questo obiettivo si preclude sicuramente la possibilità di favorire un reale cambiamento.
Analoghe difficoltà si incontrano nel lavoro con personalità borderline, con le quali il contatto umano sembra più facilmente raggiungibile, ma è fondamentalmente aleatorio. Le emozioni intense vengono accolte e "bruciate", perché il coinvolgimento personale è temuto oppure è desiderato solo come confusa esperienza simbiotica. Focalizzare il lavoro sull'allentamento della corazza può distogliere sia il cliente che l'analista dall'effettivo problema costituito dalla sostanziale inaccessibilità al contatto umano. Il cliente borderline si sente autorizzato ad annullare in qualsiasi momento l'impegno nella relazione e a rinunciare alla coerenza nelle sue azioni. Tutto è provvisorio anche se ogni emozione è sentita e manifestata come se fosse profondamente accettata.
Ovviamente non tutti i clienti hanno strutture difensive così difficili da affrontare, ma anche in presenza di difese meno compatte il lavoro analitico non è mai la ripetizione di qualche procedura. Anche i sintomi più lievi o le difese più semplici proteggono le persone da ciò che temono e costituiscono un elemento del loro complessivo rapporto con la realtà. Il lavoro sulle difese è quindi sempre la ricerca di un cambiamento che il cliente vuole realizzare ma che sente come una minaccia per il suo equilibrio.

Il lavoro corporeo non bilanciato da un lavoro cognitivo sull’intenzionalità difensiva può condurre a situazioni di stallo. Il lavoro cognitivo è molto importante perché le persone provano emozioni entro i limiti dati dalla loro valutazione (conscia o inconscia) dei fatti. L'aspetto cognitivo del percorso analitico va sviluppato essenzialmente in due direzioni: nella prima si porta il cliente a capire che egli agisce anche quando tende a credersi vittima o spettatore di qualcosa che "gli capita"; nella seconda si porta il cliente a capire che egli agisce in un certo modo perché ha certe convinzioni o vuole mantenere certe illusioni.
Qualsiasi affermazione irrazionale va immediatamente smontata ricorrendo a controesempi, dimostrazioni per assurdo, ecc. Infatti, se l’analista “lascia passare” una convinzione autosvalutativa, un pregiudizio o un’illusione, implicitamente conferma il progetto difensivo del cliente.
La componente cognitiva del lavoro analitico non va però intesa come una specie di intervento rieducativo. Il cliente non è una persona che "sbaglia" perché non ha sviluppato delle competenze o perché non è sufficientemente informato sui fatti. Il cliente agisce in base ad intenzioni inconsapevoli diverse da quelle dichiarate. Il lavoro analitico consiste proprio nel chiarimento delle convinzioni e delle intenzioni difensive che limitano la vita del cliente. Quando le difese vacillano e i vissuti “affiorano”, il lavoro analitico viene condotto soprattutto a livello esperienziale. Occorre lavorare sulle emozioni perché il cliente capisca quanto è arrabbiato (o triste, o spaventato) e perché capisca cosa si propone di ottenere o di evitare. Qualsiasi tipo di intervento va bene se è rispettoso del cliente e finalizzato alla scoperta delle ragioni per cui il cliente agisce in certi modi.

L’analisi, nell'accezione del termine qui suggerita, è un procedimento secondo cui, sulla base del materiale offerto dal cliente, l'analista chiarisce aspetti disconosciuti dal cliente. Il lavoro è centrato sulle difese e può chiarire l’intenzionalità delle difese e l’oggetto delle difese (cioè i vissuti). Questo lavoro analitico di tipo essenzialmente cognitivo conduce quindi al lavoro sui vissuti. L’analista non aspetta che "affiori del materiale inconscio", ma interviene attivamente per consentire al cliente di riconoscere i suoi atteggiamenti difensivi e di elaborare vissuti non integrati.
L'analista procede quindi in un clima di rispetto e secondo una logica della ricerca di ciò che può render conto degli aspetti irrazionali rilevabili nel comportamento e nella comunicazione del cliente. A questo punto si potrebbe osservare che non è affatto scontato il criterio in base a cui definire razionale o irrazionale una certa azione o un particolare atteggiamento. L'analista, ovviamente, è propenso a lavorare su ciò che considera irrazionale, ma prima di suggerire un lavoro in una certa direzione espone la sua idea, impressione o valutazione al cliente. Se anche al cliente "non tornano i conti", analista e cliente possono collaborare costruttivamente.

Va precisato che in ogni seduta si sceglie sempre cosa analizzare. La scelta va fatta per evitare la classica analisi caotica che Reich (1945, cap.III) ha con tanta sollecitudine ed efficacia criticato. Reich suggeriva di lavorare prima di tutto sulle difese caratteriali (e secondo un certo ordine prestabilito, riferito all’ordine del “blocchi dell’armatura”) piuttosto che sui "contenuti" delle comunicazioni. Tuttavia le sue indicazioni vanno un po' riesaminate. Certe difese, come ad esempio la scissione, vanno affrontate prima delle difese caratteriali perché riescono a vanificare qualsiasi lavoro analitico.
Vari sono i contributi che indicano come un lavoro sulle modalità della comunicazione linguistica dei clienti possa costituire una buona occasione per individuare un implicito loro modello (limitato e irrazionale) della realtà. Ad esempio, Bandler e Grinder (1975) hanno suggerito un procedimento basato sugli assunti della grammatica trasformazionale che può venir utilizzato in approcci molto diversi fra loro (relazionali, gestaltici o analitici); altri utili "setacci teorici" adatti a identificare le comunicazioni difensive, sono ad esempio l'analisi delle transazioni nei "giochi" interpersonali di Berne (1964), il concetto di "disconoscimento dell'azione" di Schafer (1976), o l'esame delle svalutazioni (finalizzate a negare certe parti della persona), così come viene svolto nella terapia gestaltica (Perls, 1973).
Le comunicazioni dei clienti comunque non vanno "corrette" come se fossero compiti in classe, ma analizzate in quanto manifestazioni difensive. Ogni segmento del lavoro analitico è completo quando inizia con l'analisi di una difesa e si conclude con il raggiungimento di quel "luogo interno" da cui il cliente tende a fuggire.
C'è ovviamente una condizione non "tecnica" di questo processo: il fatto che l'analista conosca e non tema il luogo in cui deve condurre il cliente. Se non si sente tranquillo nel dolore non porterà nessuno in quel luogo.


2. Vissuti e regressione

Il concetto di regressione è difficile da trattare per via delle varie definizioni con cui è stato proposto e delle varie discussioni che si sono sviluppate in ambito psicoanalitico sugli aspetti regressivi della relazione transferale, sui pericoli della regressione in analisi e sulla gestione del transfert nella psicoanalisi e nella psicoterapia psicoanalitica.
Nella sua accezione meno tecnica, si considerano regressivi i comportamenti che riproducono modelli precedenti della vita dell'individuo. In questo senso, la regressione può anche rientrare nella normalità e, direi, anche negli aspetti positivi della normalità, dal momento che tutti consideriamo troppo controllati gli adulti "che non riescono più ad essere bambini". In psicoanalisi, tuttavia il concetto di regressione è stato introdotto nello studio dei meccanismi di difesa come ritorno a tappe dello sviluppo libidico precedenti, soprattutto a quelle caratterizzate da una "fissazione".
Si parla quindi di fissazione e regressione nello sviluppo nevrotico del bambino o di fenomeni regressivi nelle nevrosi e nelle psicosi. Sono considerate regressive le relazioni transferali (analitiche o extra-analitiche, lievi o gravi) in cui alla reale relazione interpersonale viene sovrapposta un'altra relazione significativa e problematica dell'infanzia. "Per la terapia psicoanalitica la regressione è necessaria e infatti sia la situazione che il nostro atteggiamento ne facilitano lo sviluppo (...) Tuttavia, la maggior parte degli analisti ha un certo concetto del grado ottimale di regressione; scegliamo pazienti che, per lo più possano regredire solo temporaneamente e parzialmente. Tuttavia ci sono alcune differenze d'opinione su questo punto" (Greenson, 1967, p.74).

Anche se il lavoro sui vissuti ricollega la persona a sensazioni ed emozioni dell'infanzia non elaborate, non va mai inteso come una sollecitazione di esperienze regressive. Infatti perché il "recupero dei vissuti" sia utile occorre che il cliente non sospenda l'esame di realtà. Non ha alcuna importanza il semplice accesso ad emozioni non integrate, mentre è decisamente preziosa la loro elaborazione e questa è possibile solo se sono in funzione le competenze cognitive ed affettive della persona adulta. Il lavoro sui vissuti non deve essere, quindi, una semplice regressione, dato che le esperienze regressive sono esperienze in cui il soggetto in qualche misura si scollega dalla realtà e "sprofonda" nel suo passato”.

A volte i clienti, sia in seduta, sia nell'elaborazione quotidiana del lavoro analitico adottano la regressione come difesa, nel senso che entrano in uno stato di disperazione "cieca"; trasformano il pianto in "crisi di pianto", si percepiscono "incapaci" di uscire da quell'emozione e stanno malissimo senza però vivere la reale sofferenza che deriva dall'accettare che un certo dolore riguarda davvero la loro vita reale (passata). Stanno malissimo, ma quasi in uno stato di "sospensione" del tempo e in attesa che la sofferenza "scompaia".

Queste manovre non sono utili e possono essere pericolose. Se si presentano, vanno semplicemente interrotte e chiarite. Il chiarimento della loro funzione difensiva costituisce un buon modo di prevenire una loro ricomparsa, mentre un eventuale fraintendimento della loro funzione e una risposta compassionevole ed "accettante" può avviare un’escalation in cui il cliente pretende e ottiene ulteriori risposte (pseudo)empatiche a pseudosofferenze da lui prodotte in modo "autoipnotico". Quando un cliente piange "senza riuscire a smettere" o "si sente scomparire in un baratro" occorre impedirgli di sprofondare in un tunnel che non porta da nessuna parte, interrompendo la manovra (ovvero smascherandola come artificiosa) Il pianto cessa immediatamente (cosa che non succederebbe nel caso di una vera sofferenza) e il cliente torna alla realtà, scollegato comunque dal vissuto doloroso, ma anche "fuori dal polverone". Il vissuto doloroso, andrà recuperato in un'altra occasione.
Può risultare molto frustrante per il cliente il fatto che l'analista si sottragga ad una manovra difensiva così drammatica, ma è davvero opportuno essere drastici per non trovarsi intrappolati nelle sabbie mobili della pseudosofferenza. E' ovvio comunque che gli interventi schietti ed aspri, vanno fatti solo se l'analista è davvero ben disposto verso la persona mentre "attacca" le sue manovre (e se queste sono davvero manovre). Infatti il cliente mette in scena una pseudosofferenza "cieca" solo perché da qualche parte ha davvero paura del suo vero dolore. Se l'analista non è più che sereno, disinteressato e amorevole verso il cliente non può permettersi il lusso di certi interventi diretti, perché il cliente li avvertirebbe (giustamente) come distruttivi. Il modo migliore di interrompere tali manovre regressive consiste nel manifestare un incondizionato rispetto per la persona e per il dolore ipotizzabile, ma non espresso, e nel manifestare al contempo un drastico rifiuto di qualsiasi coinvolgimento nella trappola regressiva.

I vissuti sono esperienze individuali uniche, che però possono essere distinte in due gruppi. Tale distinzione rinvia grosso modo a quella fra personalità nevrotiche e personalità con disturbi narcisistici, borderline o comunque gravi.
Il bambino che ormai si muove e comunica, teme il rifiuto e la solitudine. Il lattante forse non ha un vero timore, ma sperimenta uno stato d'allarme quando si trova in prossimità di una condizione dolorosa di tensione, insoddisfazione, insicurezza. Quando il lavoro analitico riattiva antichi vissuti, i clienti sentono vari tipi di dolore, da quelli più "maturi" collegati a ricordi definiti e riconducibili a esperienze di rifiuto, a quelli più primitivi, descrivibili come sofferenza acuta ma più vaga ed indistinta. Nella misura in cui una persona utilizza difese primitive, fugge da vissuti primitivi terrificanti e indefiniti di disagio e di vuoto. Negli altri casi i vissuti sono molto dolorosi e temuti, ma vengono riconosciuti ed esplorati con meno difficoltà.
Quando un cliente riesce a sentire un'antica emozione di abbandono, tristezza, disperazione e anche ad esprimere il dolore nel pianto, tenendo comunque ben presente che è un adulto che ricorda (anzi, "ri-sente"), è nella condizione di attuare un processo utilissimo: riesponendosi ad emozioni classificate come intollerabili in un presente in cui ha risorse che nel passato non aveva, può riclassificare il vissuto temuto come esperienza dolorosa, ma tollerabile, e cessare di temere ed evitare tutte le emozioni "pericolosamente" simili a quel vissuto.

Una cliente (che chiamerò Beatrice) era abbastanza avanti nell'analisi e aveva ormai lasciato i sintomi dichiarati inizialmente; era in grado di gestire relazioni adulte, ma non si sentiva ancora libera di esprimere fino in fondo i suoi sentimenti. Quando "rischiava" un profondo coinvolgimento diventava meno diretta, più prudente e sentiva di perdere qualcosa sul piano dell'autenticità. Aveva un quadro sostanzialmente chiaro della situazione, ma doveva ancora verificare la tollerabilità degli aspetti più profondi dei suoi vissuti.
B. Trovo difficile sbloccare questa situazione. Mi è tutto chiaro, ma faccio fatica a lasciarmi andare.
GF. Cioè?
B. A chiedere qualcosa di significativo. A espormi in una richiesta affettiva diretta, senza fare manovre. Arrivo ad un certo punto e poi freno, anche con persone che sicuramente mi risponderebbero con calore. Quindi anche con te e con gli amici. La difficoltà non è solo con i genitori, che invece risponderebbero in modo strano perché non capirebbero nemmeno le mie parole.
GF. Allora non temi il semplice rifiuto.
B. No.
GF. Cosa temi?
B. Di sgretolarmi.
GF. Ma sei consapevole di temere una sensazione e non una effettiva eventualità?
B. Certo! Però ho egualmente paura e decido di frenare prima di prendere una decisione.
GF. Se riprendiamo la metafora delle "parti", c'è una Beatrice che vive nel mondo degli adulti e che è intelligente, ma che non arriva a decidere nulla e c'è un'altra Beatrice che sente e decide.
B. Sì. Beatrice adulta non viene interpellata.
GF. Allora la interpello io: sei solo intelligente o vuoi anche bene a Beatrice?
B (intelligente). Le voglio anche bene.
GF. Posso allearmi con te e ottenere la tua collaborazione per il bene di Beatrice?
B (int.). Sì.
GF. Hai presente il cambio della guardia nelle caserme? Arriva la nuova guardia e l'altra smonta. Tu fai lo stesso: quando subentra “Beatrice spaventata”, smonta “Beatrice intelligente”. Se solo riuscissi a ritardare la sua uscita di scena, per un breve intervallo di tempo ci sarebbero entrambe: saresti sia spaventata che capace di capire che senti paura ma non c'è pericolo. Le due parti non resterebbero separate. Potresti sia sentirti male che sentirti al sicuro.
[Mentre parlo Beatrice si commuove; non capisco perché un esempio così banale come quello da me fatto abbia prodotto una risposta emotiva]
GF. Che c'è?
B. Non so, ma mi piacerebbe sentirmi presente ed al sicuro anche quando sto così male. Continua a parlare. Mi fa star male il silenzio. E' come se fossi piccola e … mia madre è andata via.
GF. Non dissociarti dall'emozione e nemmeno dalla consapevolezza di essere qui al sicuro. Cosa vuoi fare?
B. Posso chiamare la nonna. Se chiamo ammetto di aver paura e di aver bisogno.
GF. Fallo!
B. Nonna! … Nonna! …
GF. Cosa senti?
B. Mi sento morire.
GF. D'accordo. Resta con questa sensazione; accettala senza smarrirti in essa. Chiama ancora; cerca di far uscire la voce che avevi da bambina e di fare i gesti di quella bambina spaventata, mentre sai di essere grande e di essere qui.
B. Nonna! …[sale il pianto; allunga la mano per stringere la mia; mi tira verso il divano sul quale è seduta, mi abbraccia e piange con lacrime e singhiozzi profondi].
GF. Sentiti piccola e sentiti anche la persona di oggi che decide di sentirsi come quando era piccola. Ora sei tu ad avere cura di te. Io sono solidale con quello che stai facendo anche se non sto facendo molto. Puoi sentirti morire sapendo che non morirai.

Un'altra cliente (che chiamerò Silvana) nel corso di una seduta, lavorando sulla rabbia cominciò a piangere sentendosi piccola di fronte alla madre avvertita come minacciosa.
GF. Lascia che ci siano queste sensazioni. Puoi descriverle?
S. Mi sento … sento che mi disintegro [piange].
GF. Hai letto abbastanza libri per sapere che non ti disintegrerai. Cosa senti se non scompari dalla scena disintegrandoti in mille pezzi?
S. [Il pianto diventa più profondo e meno agitato, poi si esaurisce] E' difficile stare in questa sensazione: mi sentivo sola, fragile, irrilevante.
GF. "Disintegrandoti" stavi male ma ti distaccavi dal dolore di essere irrilevante e di sentirti sola ed incapace di gestire la tua solitudine. Per quanto orribile, questa solitudine è una delle prime e delle più importanti sensazioni della tua vita. E' necessario che tu l'accetti e ci conviva. Tutti abbiamo bisogno di un appoggio solido per muoverci, per darci la spinta e andare avanti. Il punto d'appoggio deve essere solido. Il tuo punto d'appoggio è proprio questo tuo vissuto di bambina; è orribile, ma solido quanto una collezione di bei ricordi. Appoggiati alla tua storia e così ti potrai dare la spinta giusta per muoverti nel presente.

Un'altra cliente molto giovane ha descritto con queste parole un antico vissuto "affiorato" dopo una visita della madre nel corso della quale si era sentita non considerata: "Non era la sensazione di essere abbandonata, che già conosco e che mi gestisco bene ormai; era un senso di freddo, la testa che gira, come se mi mancasse la solidità corporea, come quando in TV fanno vedere un'immagine che si frantuma in tanti pezzi. Questa cosa è peggio della solitudine. Non ho voluto sentirla e ho "staccato". Non mi ero mai sentita così".
In questo caso, un lavoro già avviato su antichi vissuti si è sviluppato ulteriormente con il recupero di aspetti più profondi e drammatici di tali vissuti ed anche di difese più primitive di frammentazione. Il lavoro analitico non deve lasciare spazio a queste difese; esse sono pericolose se il cliente "ci si perde" e sono inutilizzabili se, come in questo caso, vengono avvertite come troppo penose e fatte scivolare via. Con la cliente dell'esempio precedente in cui la difesa primitiva era stata utilizzata in seduta è stato possibile accedere al dolore interrompendo l'operazione difensiva. Nel caso di questa cliente invece la difesa è affiorata a casa ed è risultata a sua volta intollerabile ed esclusa con un'altra difesa ("staccare" il contatto con le sensazioni). In questo caso, quindi mi sono limitato a chiarire la differenza fra vissuti di vuoto, di freddo, di insicurezza e difese dai vissuti, come quella di annullare un'immagine dolorosa mandandola in frantumi. Ho quindi rinnovato il mio consiglio di mantenere il contatto con i vissuti quando affiorano, evitando di "andare in mille pezzi" o di "staccare".

Un'altra cliente, che chiamerò Stefania, con cui avevo lavorato molto su vissuti spaventosi, mi ha descritto con queste parole la sua ormai acquisita capacità di recuperare ed integrare certe emozioni evitando di attuare scissioni.
S. Ho sentito ancora la mia "voragine" e ho pianto. E sentivo davvero nella bocca la voglia di succhiare il latte da un seno. Tuttavia anche se stavo piangendo col mio ragazzo mi era chiaro che niente ora poteva colmare quel vuoto. Poi mi è sembrato di disintegrarmi, ma non mi ci sono persa. Quando mi capita di piangere così, Enzo mi dice che sono più bella.
GF. E' molto importante per te sentire che vorresti disintegrarti, non esserci più e non sentirti più così, e però mantenere comunque il contatto, verificare che puoi tollerare qualsiasi emozione e verificare la forza di cui oggi disponi.

Si sa che il lavoro analitico è pericoloso se l’analista non considera adeguatamente il transfert, se non ha sufficiente empatia, se commette degli errori gravi nella valutazione dei problemi del cliente o nella scelta degli interventi. Ciò vale per qualsiasi tipo di analisi. Tuttavia ci sono pericoli specificamente associabili a certi tipi di analisi, in quanto i percorsi analitici caratterizzati da interventi attivi dell’analista e dalla sollecitazione di forti emozioni possono portare (se non ben gestiti) a situazioni regressive.
Si potrebbe quindi ritenere pericoloso il lavoro analitico centrato sull’intenzionalità delle difese e sull’elaborazione dei vissuti. Tuttavia sono convinto del contrario. Il filo conduttore del lavoro analitico è la comprensione di a) cosa fa il cliente, b) cosa evita facendo ciò che fa e c) cosa succede se smette di fare ciò che tende a fare. In questi tre passaggi, il cliente è assolutamente padrone degli sviluppi dell’analisi. Si può dire che l’analista ha in mano il volante, ma il cliente controlla il freno e l’acceleratore. Niente viene fatto (o almeno niente deve venir fatto) "sul" cliente dall’analista ed il cliente guarda il suo incubo (da lontano o da vicino), si sporge, si sbilancia o si ritrae a sua discrezione; si tuffa quando si sente pronto e comunque dopo aver capito la situazione.
Inoltre, le cose che il cliente esplora sono i vissuti (dolore, solitudine, abbandono, impotenza, vuoto, ecc.) e non le difese primitive (confusione, dissociazione, frammentazione, disconoscimento, ecc.). E’ il cliente che a volte tenta di scappare dai vissuti con difese di questo tipo, ma l’analista blocca la manovra e aiuta il cliente a capire cosa ha fatto, riportando la sua attenzione a ciò che ha sentito prima di scollegarsi; così riporta l’attenzione sul dolore (recente o antico). Certo ci sarebbe pericolo se l’analista considerasse un pianto cieco o un inizio di dissociazione come un recupero di un vissuto primitivo e incoraggiasse il cliente ad esplorare la cosa. Questo però sarebbe un errore gravissimo.

Il pericolo del lavoro sui vissuti non è quindi paragonabile a quello costituito da gravi frustrazioni esterne. A volte persone instabili o apparentemente solide "crollano" quando un improvviso mutamento nella loro vita le fa "sbattere" in una situazione dolorosa che esse associano ad un vissuto da sempre tenuto a distanza. In questi casi, tali persone possono ricorrere a difese drastiche e attivare forme primitive di ritiro dal contatto o manifestare “agiti” difensivi e distruttivi. Questo accade ed i giornali sguazzano nel raccontare almeno gli episodi che possono catturare la curiosità morbosa dei lettori. Il lavoro analitico, invece, non è costituito da interventi volti a forzare il confronto con i vissuti. Si può utilmente essere attivi ed anche provocatori nell’indirizzare l’attenzione in una certa direzione, nel chiarire una difesa e indicare l’emozione temuta, ma si lascia al cliente il compito di fare o rinviare un lavoro di tipo esperienziale. Tale lavoro va sempre proposto e mai imposto aggirando la consapevolezza del cliente. Se un cliente mi raccontasse un incubo in cui era solo, in una stanza buia e non riusciva a gridare, troverei stupido spegnere la luce e chiudere a chiave quella persona nello studio dopo essere uscito. Gli chiederei se vuole lavorare su quella situazione e gli potrei anche proporre di "tornare nel sogno", chiudere gli occhi e cercare le parole più difficili da pronunciare. Questo lavoro potrebbe condurre ad un dolore antico, ma non produrrebbe reazioni difensive estreme: se il cliente valutasse come ingestibile l'emozione si limiterebbe ad aprire gli occhi e ad interrompere il lavoro. In tal caso il lavoro proseguirebbe con la valutazione dell'esperienza fatta e sarebbe comunque utile.

A questo punto, vorrei prendere in considerazione quello che mi sembra il rischio che effettivamente si corre facendo un lavoro analitico sui vissuti, e che dipende soprattutto dal tipo di formazione dell'analista. Per fare analisi non è indispensabile né una particolare intelligenza né una conoscenza enciclopedica della psicoterapia. E’ indispensabile non aver paura del dolore. Non è sufficiente un’analisi personale se questa non ha portato ad una profonda confidenza con il dolore dell'infanzia e con quello comunque presente nella vita adulta.
Se si conduce un lavoro analitico sui vissuti senza aver deciso una resa totale ed incondizionata al dolore (a quello inevitabile, ovviamente) si possono commettere errori gravi. I clienti sentono benissimo se l’analista li sta invitando a fare un’esperienza che lui stesso ha fatto o farebbe, oppure se li sta invitando a fare una cosa che lui ritiene solo teoricamente tollerabile. Niente può disturbare il rapporto di fiducia più del sentirsi trattati come cavie o come "semplici clienti". Oltre a ciò, se l’analista ha paura e si identifica nel cliente, può risultare ambivalente ed incongruente nella comunicazione e incoraggiare a parole un lavoro sui vissuti che scoraggia con messaggi corporei di preoccupazione.
Il cliente ha bisogno di sentire che l'analista non ha paura della sofferenza. Infatti il suo primo tuffo nel dolore dopo l'abbandono di una difesa significativa avviene in parte sulla base della fiducia nell'analista. Un analista può lavorare sui vissuti dei clienti solo se non ha paura dei propri vissuti e del dolore inevitabile nell'esistenza umana. Non c'è tecnica che possa aiutare un analista ad ottenere fiducia. I clienti sono chiusi, ma non stupidi e sanno se la loro "guida" ha o non ha paura. Quindi, per ottenere questa fiducia un analista deve conoscere il proprio dolore quanto basta per non temerlo più e per accettarlo come elemento costitutivo del proprio percorso esistenziale.


3. Vicinanza e sostegno

Voglio usare il termine "vicinanza" per riferirmi a quell'insieme di atteggiamenti, comportamenti ed anche emozioni con cui l'analista accompagna il cliente nel suo viaggio fra i vissuti. In qualche modo, si può dire che tutto questo costituisce un "sostegno" dell'analista al cliente. Tuttavia il termine "sostegno" viene usato spesso per indicare altre cose che, secondo me, l'analista non dovrebbe fare (né aver voglia di fare). Il termine "sostegno" ha infatti già una sua storia in psicoterapia e, quasi sempre anche se non sempre, rinvia a orientamenti teorico-clinici poco compatibili con quelli ai quali faccio riferimento.

La distinzione fra psicoterapia "di sostegno" e psicoterapia "espressiva", ha una collocazione specifica nell'ambito della psicoterapia psicoanalitica. Semplificando si può dire che mentre la psicoterapia espressiva mira ad una presa di coscienza di conflitti inconsci, la psicoterapia di sostegno si propone di realizzare un miglior adattamento del cliente proteggendolo da tale presa di coscienza; il lavoro di sostegno può essere orientato anche al rafforzamento delle difese per migliorare il "funzionamento globale" del paziente quando si diano controindicazioni per la psicoterapia espressiva (Kernberg, 1984, p.172). L'idea di "rafforzare le difese", suona davvero come una condanna, e credo che sia una brutta idea, anche se so quanto sia difficile il lavoro analitico con persone gravemente disturbate. Un'analisi tentata e non riuscita non è comunque uno spreco, e lascia sia degli elementi di riflessione che continuano a "lavorare nel cliente", sia dei buoni ricordi sul piano umano. Una psicoterapia condotta in un quadro di accettazione del progetto difensivo, invece, non rende a priori possibili dei cambiamenti davvero significativi. Tra l’altro, anche la psicoterapia di sostegno può fallire e non garantisce affatto dei risultati anche se limitati.

Va comunque detto che la contrapposizione fra orientamento espressivo e di sostegno non è utile per chiarire e qualificare il lavoro analitico sui vissuti qui delineato, proprio perché quest'ultimo prescinde dagli assunti fondamentali della teoria freudiana. Da un punto di vista psicoanalitico, credo che l'orientamento da me delineato non possa essere considerato né una psicoterapia espressiva né una psicoterapia di sostegno, ma piuttosto una psicoterapia sbagliata; tuttavia, l'abbandono della metapsicologia consente agli psicoanalisti nuove possibilità di dialogo costruttivo con gli altri orientamenti analitici.

Spesso il "sostegno" si traduce nell'idea di "dare" qualcosa ad un cliente considerato in qualche modo "deprivato" o "leso" e quindi bisognoso di un aiuto compensativo. Se si ritiene che l'analisi possa essere intesa come un lavoro di chiarificazione ed un'occasione, per il cliente, di ridecidere vari aspetti del suo modo di porsi rispetto alla realtà, qualsiasi "sostegno" è fuori luogo. In questa prospettiva, si deve concordare con la lapidaria affermazione di Downing: "Il terapeuta non si sforza di diventare un 'buon genitore': fa semplicemente terapia" (1995, p.246). Egli sottolinea in più occasioni che lo scopo dell'analisi è quello di favorire un processo di elaborazione interiore del cliente.

Potremmo dire la stessa cosa in altri termini distinguendo fra l'illusione di poter "dare" qualcosa ad un bambino (che non c'è più) e la capacità di aiutare un cliente adulto (realmente presente) che è impegnato in un compito personale difficile (elaborare i suoi vissuti). Ciò che aiuta il cliente in questo caso è il fatto di incontrare comprensione autentica da parte di un'altra persona che per esperienza sa cosa significhi attraversare certi incubi e che gli mostra solidarietà ed anche fiducia nelle sue risorse adulte. Il "sostegno" necessario nel lavoro sui vissuti è quindi un sostegno nell’accezione quotidiana del termine (vicinanza, partecipazione, guida). L'analista può e deve essere vicino al cliente finché questi non è abbastanza esperto e convinto delle sue capacità da poter continuare da solo a convivere col dolore.
Questo punto è molto delicato perché la linea di confine che separa la vicinanza e l'assunzione di un ruolo "materno" (compensativo) è molto sottile. Ad esempio, nel lavoro corporeo il contatto fisico fra terapeuta e cliente non è (e non dovrebbe essere) escluso come nella psicoanalisi. Un cliente in lacrime può aspettarsi da uno psicoanalista al massimo un fazzoletto di carta, mentre può anche aspettarsi da un terapeuta reichiano un abbraccio. L'abbraccio in sé non è un problema, e non complica le confusioni di tipo transferenziale che sono comunque presenti e su cui inevitabilmente si lavora. Va però chiarito che qualsiasi contatto fisico può essere utilizzato dal cliente per distorcere il senso di una espressione emotiva in corso. Mi è capitato di notare che alcuni clienti nel momento in cui, piangendo, cercavano e ottenevano un contatto fisico, finivano per "concludere" (interrompere) il pianto. Chiedendo il significato di quello che accadeva, ho capito che essi fraintendevano difensivamente il significato del contatto fisico ricodificando una vicinanza fra adulti nei termini di una gratificazione adulto-bambino.
Se un bambino piange perché si sveglia di notte e si sente solo, quando accorre la madre smette di piangere, perché la madre che mancava ora è presente. In questo caso egli smette di piangere perché fa un'esperienza realmente riparativa. Esperienze riparative possono esserci anche fra adulti: la ragazza che piange perché il fidanzato ha troncato una discussione ed è andato via, non ha motivo di continuare a piangere se questi torna e si scusa. E' diverso invece il caso tipico che si presenta nelle sedute: il cliente piange affrontando un dolore che nasce dalla mancanza di persone diverse dall'analista. Il contatto fisico con l'analista non può quindi per definizione essere "riparativo", ma solo testimonianza di una solidarietà: un adulto è vicino ad un altro adulto che sta elaborando (autonomamente) il dolore di una personale (irrimediabile) vicenda. E' quindi logico che in un abbraccio correttamente percepito, il pianto si approfondisca o si completi; non che si "esaurisca", dato che la presenza dell'analista non compensa nemmeno parzialmente il dolore in questione.

Per questi motivi (e non quindi per una pregiudiziale propensione alla "neutralità") evito quasi sempre di offrire il contatto fisico ad un cliente e mi rendo disponibile solo se è il cliente a chiederlo, magari con un piccolo gesto; anche in questo caso, comunque, cerco di sentire e capire se c’è un fraintendimento. Ovviamente queste considerazioni valgono solo nel caso di un pianto di dolore e non per manovre vittimistiche condite di lacrime.
Non c'è una regola per il contatto fisico fra cliente e analista, a parte quella secondo cui esso, come ogni altro aspetto dell'analisi va favorito solo nella misura in cui è utile al cliente. L'analista è in una posizione controtransferenziale quando offre contatto perché ne sente il bisogno (come, d'altra parte, quando nega contatto perché si sentirebbe a disagio). Non c'è nemmeno una regola per valutare quando le richieste (di contatto fisico o di altro tipo) di un cliente vadano accolte. Se l'analista è abbastanza centrato può basarsi sulle sue sensazioni, sulla percezione della congruenza fra la situazione data, le modalità della richiesta ed il contenuto della richiesta.

Una cosa che sicuramente aiuta l'analista a restare centrato nel rapporto analitico è il tener presente che l'analisi non è una finzione, ma un rapporto reale fra persone reali, anche se è un rapporto finalizzato ad un particolare obiettivo. "Persone reali" significa anche persone fondamentalmente distinte. Noi possiamo avvicinarci, amarci in qualsiasi modo (tra cui quello che è possibile ed auspicabile in un rapporto analitico), ma ci avviciniamo e ci amiamo proprio perché siamo separati e impossibilitati a fonderci. Anche fra amanti, quando si pensa all'orgasmo come ad un momento di fusione, o fra genitori e figli quando si sottolinea la profonda reciproca "appartenenza", si scorda spesso che nei momenti più intensi di intimità, ognuna delle due parti sperimenta la fusione o l'appartenenza dal lato della propria soggettività. Siamo irrimediabilmente soli nel percepire, nel decidere, nell'avvicinarci alla nostra morte spendendo la nostra vita giorno per giorno. Quindi, siamo, in questo senso, soli anche nel lavoro analitico.

L'errore delle terapie centrate sull'idea del "sostegno", in ultima analisi tocca sia le terapie basate sulla logica del "danno da riparare", sia tutte le forme di "ottimismo" terapeutico orientate a "promuovere esperienze emotive", a "superare la razionalità" (!) o a "sconfiggere le inibizioni". Fondamentalmente colludono con la generica aspirazione al "benessere" tipica dei clienti ed evitano di promuovere la capacità di affrontare la realtà così come è, cioè sia dolorosa che appagante.
La critica agli orientamenti "ottimistici" in terapia, va ovviamente estesa a quelle "quasi terapie" di stampo New Age o a quelle integrazioni fra psicoterapia e tecniche di "rilassamento" ormai tanto diffuse, soprattutto nelle versioni di gruppo. Il lavoro analitico procede con modalità e scopi che richiedono una certa indipendenza dell'analista da preoccupazioni di altro genere. Un buon lavoro sulle emozioni produce anche rilassamento perché il cliente interrompe delle attività difensive (anche sul piano muscolare), ma l'analisi non ha come obiettivo specifico le esperienze di rilassamento. Anche altri aspetti dell'analisi (fatta individualmente o in gruppo) non dovrebbero essere utilizzati allo scopo di fornire gratificazioni sostitutive. Downing sottolinea come un certo tipo di "accoglienza" nella terapia corporea possa costituire un implicito ostacolo all’elaborazione del dolore: "Nel lavoro con il corpo può essere anche troppo facile, se il terapeuta lo vuole, sistemare le cose in modo che, con una certa costanza e regolarità, alla fine della seduta il paziente si senta bene. Abbracci e sorrisi; frequenti esortazioni alla vitalità del corpo; ricompense non verbali, a seduta inoltrata, per i resoconti sugli stati piacevoli, ma non per gli altri; abuso del contatto fisico di sostegno (…) Per quanto effettuati con le migliori intenzioni, questi interventi non recano beneficio. Il vero compito del terapeuta è semplicemente aiutare il paziente a rivelare ciò che in quel momento ha dentro di sé (sensazioni di piacere o dolore, di vitalità o esaurimento, e via dicendo) e poi fargli lasciare la seduta con quei sentimenti che continuano dentro di lui" (1995, p.322).

L'analisi non è terapia proprio perché procede "in negativo". Essa facilita cioè la consapevolezza di difese intenzionali che producono una sofferenza secondaria; rende superflue tali difese facilitando un'elaborazione del dolore. Il lavoro analitico dà benessere non in quanto "dà" realmente benessere ma in quanto aiuta il cliente a "togliere" quel malessere che egli produce. Tuttavia, alcuni interventi "in positivo" risultano utili nel percorso analitico: ad esempio certi esercizi di bioenergetica, ma anche certi tipi di lavoro con la fantasia, possono effettivamente indurre una percezione profonda dell'interezza e piacevolezza del proprio corpo e questo produce un realistico senso di solidità. Tali tecniche sono, soprattutto in certi casi, non solo accettabili, ma anche raccomandabili. Restano tuttavia inutili se non sono collegate ad un lavoro "in negativo" (analisi delle difese sia sul piano psicologico che sul piano fisico) e ad un recupero dei vissuti non integrati. L'analisi aiuta ad affrontare la vita, a superare la paura, a convivere col dolore ed a scoprire possibilità di piacere anche più profonde del "benessere", ma non alimenta l'illusione che la vita possa essere un'oasi felice in cui la sofferenza è solo un incidente di percorso da "sistemare" in qualche modo.


4. Lutto, pianto e piacere

Il lavoro analitico sui vissuti è una ricerca del dolore che non è stato “integrato” o “elaborato” o che, in altre parole, non è stato riconosciuto, accettato, espresso e gradualmente superato. Il dolore con il tempo si affievolisce se la persona si abitua a conviverci. L’idea che la vita ancora da vivere sia inaccettabile senza ciò che si è perso o è diventato impossibile, con il tempo lascia spazio all’idea che ciò che resta sia comunque prezioso, se il dolore per la perdita o la mancanza è stato sentito ed espresso.
Quando un cliente soffre manifestando dei sintomi, sta evitando il suo reale dolore, perché una limpida accettazione del dolore è incompatibile con qualsiasi sintomo. Quindi, in tale circostanza, l’analista non deve proporsi di "ridurre il dolore”, ma deve cercare quello vero chiarendo le difese che ostacolano il percorso. Di questo si è già parlato. Ciò che ora merita di essere chiarito è che una singola esperienza di autentico dolore in una seduta non è il punto d’arrivo del lavoro analitico, ma il punto di partenza del lavoro del lutto vero e proprio. Il dolore che l’analisi tende a riportare alla luce è relativo ad un rapporto interpersonale significativo e ad un’epoca di grande vulnerabilità. Quindi, anche se non riguarda la morte di qualcuno è tanto profondo quanto l’esperienza di lutto (in senso stretto) che si fa quando qualcuno muore. Anche in questi casi non si piange qualche minuto, ma si piange per un periodo di tempo abbastanza dilatato, "ad ondate". Spesso, dopo mesi le persone in lutto riprendono a sperimentare quotidianamente un ventaglio relativamente completo di emozioni, mentre per tutto il periodo di lutto il pensiero è comunque rivolto al tema della mancanza e il sentimento predominante è quello della tristezza. In analisi succede la stessa cosa.

L’esperienza analitica del lutto non è regressiva perché viene gestita con le risorse adulte. Per un certo periodo di tempo, quindi, il cliente è "preso" dalla consapevolezza e dall’emozione di questo aspetto della sua vita (passata). Piange frequentemente per piccole cose e spesso piange anche senza sollecitazioni esterne per la situazione che occupa la sua mente: "...un processo di lutto è qualcosa di diverso dal semplice senso di tristezza avvertito qualche volta in una serie di sedute. Un processo di lutto è più profondo e complicato. Tende a svolgersi più fuori delle sedute che durante le sedute" (Downing, 1995, p.322).
Questo periodo di lutto non scorre in modo lineare perché viene interrotto da vecchie o nuove difese. Il compito dell’analista è quello di tenere il cliente sul suo binario affinché possa percorrerlo in tutta la sua lunghezza evitando frenate brusche (scissioni), deviazioni (autocompiacimento e trasformazione del dolore in vittimismo), "addomesticamenti" (trasformazione del dolore in lieve tristezza), ribellioni (manifestazioni di rabbia che annullano il senso di impotenza e perdita), ecc.
Quando il periodo di lutto è stato attraversato con sufficiente trasparenza, il cliente sperimenta nuove sensazioni, cioè sperimenta sia livelli più profondi di gioia quando è contento, sia livelli più profondi di dolore quando è triste. E’ più coinvolto nelle cose che fa, sente meno il bisogno di puri "passatempi", è meno interessato a rapporti superficiali e sente un affetto più profondo verso le persone della sua vita. Non si arrabbia facilmente e di fronte alle frustrazioni riesce ad "accusare il colpo" ed a tentare di migliorare le cose piuttosto che protestare o serbare rancore.

Nella fase successiva al lavoro del lutto il pericolo maggiore è costituito da una riedizione modificata dell’ottimismo, perché il cliente rischia di credere che l’analisi lo abbia portato a "star bene". E’ quindi decisamente il caso di sottolineare che il dolore non è finito con l’elaborazione analitica del dolore dell’infanzia. Quel vecchio dolore può in qualche misura ritornare in situazioni nuove non gravi ma molto simili e, anche situazioni nuove possono essere, in quanto tali, un'occasione più che sufficiente di dolore. Persino nei periodi migliori il dolore è presente, almeno come “sfondo” e si è consapevoli del fatto che la morte è comunque inevitabile. In questa fase dell’analisi, con il lavoro su questo "nuovo ottimismo", si costruisce ciò che può evitare delle ricadute: queste, infatti, sono praticamente inevitabili quando il cliente si trova ad affrontare una grande pena dopo aver creduto "da qualche parte" che tutto dovesse andar sempre bene.

L’accettazione del dolore come dimensione costitutiva dell’esistenza, non è quindi un lusso per analisti con inclinazioni filosofiche, ma coincide con l’accettazione della realtà. La realtà è quella che è: si vive sperimentando cose bellissime e orribili, poi si muore. Se non si ha chiarezza sul fatto che l’esistenza umana è questa e che noi abbiamo le risorse per attraversarla senza vacillare, si finisce prima o poi per recuperare le vecchie difese. Infatti, le difese non sono delle spine che l’analisi toglie, ma sono competenze. Esse restano a disposizione della persona e possono (più o meno inconsciamente) essere riattivate in qualsiasi momento. Perché questo non accada occorre che la persona abbia una convinzione profonda e sentita della sua capacità di tollerare il dolore e di vivere una vita comunque significativa. Solo a questa condizione non tradirà mai né se stesso né altre persone per risparmiarsi un’esperienza inevitabilmente dolorosa. Continuo a trovare il film di Frank Capra La vita è meravigliosa come il più convincente trattato sull’argomento. Un analista dovrebbe fare il lavoro di un normale angelo custode di seconda classe, consistente non già nel confermare la ribellione al dolore e nemmeno nel convincere che il dolore non è poi così grande, ma nel mostrare che lo si può affrontare per non distruggere le cose più preziose della vita.

Il lutto come lavoro cognitivo e come esperienza soggettiva.
Un aspetto fondamentale del lavoro cognitivo del lutto riguarda il rimodellamento della nostra idea della realtà e di noi stessi, in quanto la persona o la speranza o l’illusione che è venuta a mancare contribuiva alla nostra immagine del mondo e della nostra persona. Diventa necessario ripensare tutto senza "quella cosa"; diventa necessario scoprire che ciò che resta è ancora in qualche modo "coerente" e accettabile. E’ chiaro che questo lavoro cognitivo interseca il processo emotivo di adattamento alla mancanza di qualcosa. Quando ad esempio un cliente scopre di non essere la persona "indipendente" che credeva di essere, si deve adattare all’idea che gli altri possano anche essere importanti per lui. Ciò rende possibile la vulnerabilità ai rifiuti, all’indifferenza, alle delusioni. Dato che chi si è inventato di essere "indipendente" ha già una storia di solitudine dolorosa, in questa rielaborazione cognitiva sperimenta ripetutamente il senso di abbandono da cui era fuggito costruendo un'immagine non realistica di sé.

Nel periodo del lutto, quindi, la persona si confronta ripetutamente con il vissuto non integrato e gradualmente, sentendo l’emozione apparentemente "intollerabile", riesce a scoprire che dopo tanti anni egli può, da adulto, restare integro anche quando il dolore sembra lacerante. In questo modo egli si procura con le sue forze l’unica rassicurazione ottenibile nel percorso analitico: una rassicurazione che non riguarda la possibilità di non soffrire, ma la capacità di tollerare il dolore. Questa esperienza è decisiva per il superamento dell’unica cosa che può davvero "scomparire" grazie ad un buon lavoro analitico: la paura. L’analisi non cambia il mondo, ma solo la nostra paura di non poter affrontare il mondo. L’analisi ci libera dalle difese, non dalla nostra storia passata o dalle difficoltà che dovremo incontrare; ci libera dalla decisione di tradire noi stessi e gli altri quando c’è una difficoltà.

Il lutto sul piano comportamentale
In un periodo di lutto le persone conducono una vita normale in quanto il lutto, a differenza della depressione, non implica un rifiuto della realtà o una svalutazione di sé e degli altri. Il dolore non ci fa sentire meno amore per le persone care o meno interesse per le attività e le situazioni a cui diamo abitualmente valore. Certamente il lavoro del lutto ci impegna e ci rende meno disponibili, ma non ci rende ostili o indifferenti agli altri. In una situazione di lutto in cui una persona può permettersi di non lavorare, probabilmente non si cercherà delle occupazioni, ma se deve fare delle cose può farle con una concentrazione ed un impegno almeno sufficienti. L’irritabilità, la fuga nel sonno, le trascuratezze verso le altre persone, non sono atteggiamenti e comportamenti rivelativi di una situazione di lutto, ma di una difesa dal lutto. Quando si è addolorati si tende a non cercare persone, ma se si è con qualcuno si accetta il conforto ricevuto e si condivide il pianto. Non si ha voglia di scherzare, né di "far finta di niente", né di "disperdere" il dolore con lamentazioni vittimistiche e compiaciute. Chi appena "sta male" cerca qualcuno con cui "sfogarsi" vuole disperdere le sue sensazioni e non vuole accettare ed esprimere ciò che sente.

Il lutto sul piano fisiologico
Il pianto è l'espressione naturale del dolore. Le lacrime scorrono perché il dolore è sentito, ma lo rendono gradualmente meno aspro, così come la corrente di un fiume leviga i sassi. Anche se la consapevolezza e la sensazione del dolore già elaborato permangono nel tempo, l'intensità del dolore si riduce attraverso il pianto, col passare del tempo. Per questo, piangere aiuta a dire addio a ciò che si accetta come definitivamente mancante (qualcosa di perduto o di irraggiungibile). Le persone temono il pianto sia perché temono di sentire il dolore, sia perché non accettano di rinunciare definitivamente a qualcosa di perduto. Risulta quindi perfettamente comprensibile la frase di una paziente di Irvin Yalom: "Mi sono sentita bloccata per tanto tempo nella terapia: l'unica volta che ho avuto le ali è stato quando ho pianto" (Yalom-Elkin, 1974, p.199). Infatti ci si "blocca" e si rinuncia a "volare" (cioè a vivere intensamente la propria esistenza) proprio per non accettare il dolore.

Stupisce il fatto che negli scritti di psicoterapia ed anche in quelli che non trascurano la centralità del lavoro del lutto manchino adeguati approfondimenti relativi all’aspetto fisiologico del lutto, cioè al pianto. Sappiamo (anche troppo!) come "si dovrebbe" fare sesso, o quale è la postura "ideale" in assenza di tensioni muscolari croniche, ma sul pianto si scrive poco. Raramente, nei resoconti clinici si specifica, riportando che un cliente piange, se egli lacrima, piagnucola, piange in modo trattenuto, piange con lacrime ma senza singhiozzi, piange con singhiozzi e poche lacrime, o piange con lacrime e singhiozzi. Maggiori osservazioni si trovano nei libri di vegetoterapia o bioenergetica, ma spesso l’esperienza del pianto, anche se riconosciuta nella sua qualità umana, viene intesa come un processo di "scarica" della tensione.

Il ruolo del pianto nel lavoro del lutto chiarisce perché in analisi il lavoro fisico sia così importante. Quando ad esempio si lavora sulla rabbia e si invita un cliente ad esprimere fisicamente la rabbia, l’obiettivo non può essere quello di fargli "scaricare" la rabbia (che non è un pacco pesante), ma di aiutarlo a percepire, ad esempio, che "sotto" la sua indifferenza sente molta ostilità. Se la seduta viene però focalizzata su questo aspetto è incompleta e in questo caso il cliente non arriva a sentirsi più centrato o più sereno, pur avendo fatto una scoperta interessante. Al limite rischia di sentire la voglia di litigare inutilmente con le persone anziché ferirle con la sua tipica indifferenza. Se invece egli arriva a capire e sentire che con la rabbia voleva modificare una situazione non modificabile, perché è una situazione del passato, conclusa, da accettare, egli accede al dolore da cui è fuggito sia con l’indifferenza, sia con la rabbia. La difesa gelida copre la rabbia e la rabbia copre il dolore. Con questa consapevolezza e con il pianto il cliente può "liberarsi" di qualcosa: non del dolore, ma dello sforzo costante di controllare il pianto. Questo ha poco a che fare con l’energia, poiché si compie un lavoro fisico maggiore dando pugni che singhiozzando nel pianto, e ciò conferma che la questione fondamentale sta nell’insight e nell’integrazione dei vissuti e non nello "sfogo" o nella "scarica" di qualcosa.
Ovviamente va precisato che il pianto in sé non serve a nulla. Se si piange in una condizione depressiva non si arriva da nessuna parte; se si piange per un capriccio o per colpevolizzare qualcuno non si fa altro che impegnare il corpo in un’azione difensiva rispetto all’espressione del dolore (e quindi del pianto di dolore).
Sarebbe interessante capire perché fin dalla nascita e in culture diverse e persino in una parte del mondo animale (Masson, 1995) il dolore si esprima con il pianto e non in altri modi. Resta comunque il fatto che solo il pianto nella sua interezza esprime adeguatamente sul piano fisiologico un dolore profondo.

Il pianto può essere bloccato in vari modi. Il più efficace e radicale consiste nel non entrare in contatto con il dolore, mantenendo emozioni difensive, convinzioni, illusioni, scissioni, ecc. tali da far sì che la persona non si senta addolorata. Se la persona invece arriva a sentire il dolore, ma non si lascia andare al pianto, può interrompere il processo agendo in vari modi: dicendo certe parole e non altre, evitando certe azioni (ad esempio quella di cercare un contatto fisico), facendo certe azioni (ad esempio distrarsi leggendo qualcosa).
Se la persona è arrivata al pianto può frenare "a valle" piuttosto che "a monte" l’adeguata espressione fisica del dolore. A questo proposito le tensioni muscolari capaci di frenare il pianto sono moltissime. La tensione dei masseteri è fondamentale, ma chi trattiene il pianto contrae anche i muscoli della fronte, della nuca, del collo, della gola, il diaframma, e praticamente tutto il corpo. La pressione su alcuni muscoli può produrre un aumento della contrazione e poi un rilassamento che agevola il pianto. Le tensioni più profonde però non possono essere allentate né con appropriati movimenti né con interventi esterni e possono essere sciolte solo con la vocalizzazione. Basta che la persona che ha già le lacrime agli occhi e che non tiene più la bocca serrata lasci uscire un filo di voce (un lamento) perché si liberino i singhiozzi del pianto.
Quando il pianto è in atto, può comunque essere smorzato o bloccato. Se il cliente teme di andare fino in fondo può interrompere il lamento o renderlo breve (cioè vocalizzare solo nella prima fase dell’espirazione). In questo caso occorre rassicurare il cliente sulla sua capacità di mantenere il contatto con quell'emozione e suggerirgli di lasciar uscire la voce per tutta l’espirazione. In tal caso il cliente arriva ai singhiozzi profondi che coinvolgono tutto il corpo, dalla testa al bacino. Un trucco attuato inconsapevolmente da alcuni clienti per attuare un’involuzione del processo consiste nel vocalizzare sull’inspirazione anziché sull'espirazione: prendendo aria emettono voce producendo una condizione fisica un po’ paradossale che può anche spaventarli. In questi casi occorre interromperli e riportarli alla vocalizzazione normale. Però in genere a questo punto il cliente è già lontano dall’emozione ed è inutile tentare dei recuperi. In ogni caso la confidenza col pianto si realizza gradualmente e quando si osserva una particolare interruzione del processo è opportuno accettare la cosa e chiarirne il senso anche spiegando al cliente come abbia bloccato l'espressione emozionale. E' anche importante chiedere come sia stata vissuta l'esperienza. Immancabilmente i clienti rispondono che sentivano di non farcela, che avevano l'impressione di perdere la loro compattezza, di scomparire, di morire. Parlano cioè della loro paura del dolore. I bambini piangono liberamente fra le braccia dei genitori, ma hanno il terrore di soffrire senza essere sostenuti dai genitori. Se sentono il bisogno di piangere proprio per un rifiuto dei genitori, inevitabilmente trovano il modo di fuggire dal contatto con l'emozione dolorosa. La paura del dolore diventa paura del pianto. In analisi è importante chiarire queste cose e ristabilire la capacità di piangere per superare quella paura.

Il pianto non è una manifestazione fisiologica da apprendere, ma da riapprendere. Se il pianto non fluisce liberamente non c’è modo di andare in fondo al processo del lutto. Non c’è nemmeno modo di andare in fondo ad altre cose, poiché le tensioni croniche contro il pianto interferiscono anche con una postura equilibrata e con l’orgasmo.
L’idea reichiana che la corazza muscolare costituisca "funzionalmente" una difesa dall’orgasmo è davvero discutibile. Io credo che costituisca una difesa dal pianto. Chi sa affrontare il pianto sa anche come godersi la sessualità poiché non esistono "problemi sessuali". Quelli che vengono identificati come problemi sessuali e che con molta fantasia vengono trattati "sessuologicamente" sono sintomi, ovvero dislocazioni nell'ambito del comportamento sessuale di azioni difensive rispetto al dolore. Certe persone hanno problemi con lo studio e nessuno suggerirebbe ad essi di consultare uno "studiologo". La sessuologia ha molto successo perché le persone vogliono tornare a far sesso in modo tecnicamente corretto mantenendo le stesse mancanze di contatto sul piano emotivo.
Anche nel caso di precoci esperienze frustranti o dolorose relative al desiderio sessuale genitale, il problema non è "sessuale" e l’eventuale esplicita repressione non è mai una semplice “repressione sessuale” ma un’aggressione ed una mancanza di rispetto per l’intera persona. I bambini soffrono terribilmente se vengono svalutati nella scoperta del loro piacere. Nessuno è esente da qualche grave o lieve ferita di questo tipo. Si tratta di ferite reali che riguardano persone reali, non segmenti del loro corpo, anche quando nell’inevitabile reazione difensiva viene coinvolta una parte del corpo o un’area dell’espressione di sé come il sesso. La situazione, come ogni situazione dolorosa va capita ed il dolore va elaborato. Ciò vale per esperienze dolorose legate alla sessualità come per quelle legate ad altri aspetti della persona.

L'esperienza del pianto induce un ammorbidimento di tutto il corpo, una respirazione profonda, e l’onda che scuote tutto il corpo nei singhiozzi ha un andamento molto simile a quello dell’orgasmo, anche se soggettivamente non è accompagnata dal piacere sessuale. Il lavoro fisico sul pianto è il miglior contributo ad una buona sessualità perché consente sia di superare le difese dal dolore, sia di allentare molte tensioni fisiche la cui cronicizzazione ostacola l’orgasmo. Ovviamente la vegetoterapia e la bioenergetica prevedono molti esercizi fisici capaci di sollecitare e rilassare tutti i gruppi muscolari, e in genere si tratta di esercizi utili anche se non "sbloccano" l’orgasmo senza un adeguato lavoro sui vissuti.

L’esito del lavoro del lutto
Il lavoro del lutto porta serenità, non gioia. La serenità raggiunta consente di riprendere la vita con un atteggiamento aperto e costruttivo ed anche con la disponibilità a sperimentare esperienze gioiose. L’esito del lavoro del lutto si articola in tre risultati: a) la possibilità di ricollegarsi in seguito senza angoscia, anche se con una certa tristezza, al ricordo di ciò che si è perso, b) l’assenza di tensioni e di conflitti con se stessi, c) la capacità di tornare a coinvolgersi nei rapporti interpersonali e negli impegni della vita.

A volte, quando il processo del lutto è stato avviato, i clienti raccontano di aver pianto a casa, ma senza trovare nel pianto alcun sollievo. In questi casi, indagando con attenzione sul modo in cui il cliente ha maturato ed elaborato le sensazioni di solitudine, spesso si scopre che il pianto non era sentito come l'espressione della consapevolezza di una perdita, ma come una reazione (di rabbia, oppure di incredulità) all'idea della perdita. Piangere con pensieri del tipo "ma è mai possibile che la mia vita sia tanto triste?!" costituisce una reazione difensiva e non una resa ad un'evidenza accettata e sentita. Piangere pensando che qualcosa "non doveva accadere" significa restare in contatto con l'idea di come le cose “sarebbero dovute accadere” e non con i fatti realmente accaduti.

C'è anche un altro modo di "piangere senza piangere davvero" che spesso costituisce una deviazione da un processo di lutto realmente avviato. Il cliente inizia ad elaborare dei vissuti dolorosi che riconosce come suoi. Il pianto lo aiuta ad "abituarsi all'idea" che certe cose "accadano davvero". Quindi non reagisce, non sente incredulità o vittimismo. Accettando questa situazione di "perdita" avverte anche di sentirsi più presente, più solido. Qui ha la possibilità di stravolgere il lavoro del lutto: il cliente si abbandona al pianto come se esso fosse una medicina che lo farà "star bene"; è addirittura contento di sentirsi così fragile, arrendevole al dolore proprio perché si fa l'idea che quella sia "la cura giusta". In questo slittamento il cliente matura una nuova illusione secondo cui l'elaborazione del dolore antico darà luogo ad una sorta di invulnerabilità al dolore. Questo ottimismo irragionevole riduce la consapevolezza del fatto che l'accettazione dell'antico dolore non costituisce una specie di astuta tattica per giungere al lieto fine (che c'è solo nelle favole), ma costituisce un ingresso nella "realtà reale", ovvero nella realtà in cui il dolore non è un errore occasionale, ma parte costitutiva dell'esistenza, così come la gioia. Accettare per la prima volta il dolore ha senso solo come primo passo di un processo di accettazione della vita intera, ovvero di tutto ciò che di meraviglioso e terribile è accaduto e può accadere. Quando i clienti piangono in questo modo, fanno un po' come quelli che leggono in fretta per arrivare alla fine di una storia: non vogliono conoscere ma vogliono "aver letto" un libro. Non integrano o assimilano realmente qualcosa. Il pianto in questo caso non si completa (e non si "conclude") proprio perché viene usato strumentalmente.

Altre volte il pianto si sviluppa sulla base di un fraintendimento, come quando i clienti "riescono" a piangere solo in seduta o con la moglie o con il marito. Essi sono disposti a ricollegarsi con un antico rifiuto solo facendosi accogliere da qualcuno. In realtà fraintendono il senso della "vicinanza" attuale considerandola un fatto riparativo anziché una testimonianza di comprensione che un adulto manifesta ad un altro adulto che piange per certe sue perdite irrimediabili. In questi casi la situazione va chiarita se non si vuole che il cliente passi il resto della vita a piangere inutilmente addosso a qualcuno.

Una cliente (che chiamerò Serena) aveva di recente scelto di separarsi dal suo compagno; mi telefona dicendomi che da due giorni non fa altro che piangere. Al telefono ha la voce di chi sta piangendo.
GF. E' successo qualcosa?
S. Ho rivisto il mio ex e ho capito quanto stia male. Allora ho sentito che la storia è davvero finita. Ho visto in lui me bambina sempre lasciata sola, ceduta a qualche parente incaricato di accudirmi, spostata come un pacco.
GF. Lasciando il tuo ragazzo avevi mantenuto un certo distacco per non soffrire troppo, per non ritrovare il tuo vecchio dolore. Ora hai percepito in modo più profondo il dolore del ragazzo che hai lasciato, ed anche il dolore di te bambina. Questo ti spaventa e cerchi di scollegarti in un altro modo: proprio esasperando la drammaticità della tua emozione. Non mi stai comunicando un dispiacere, ma una cosa epica. Accidenti, non far altro che piangere per due giorni vuol dire che si tratta di una cosa grande! Magari “grandiosa”! E così trasformi nuovamente il pianto in un’esperienza non realmente tua.
S. Credo di capire
GF Le emozioni vere possono essere molto profonde, ma mai incontrollabili; le emozioni non possono sopraffare le persone perché sono proprio le persone a "fare" le emozioni.
S. OK. Grazie.
La correttezza dell'intervento è confermata dalla reazione della cliente. Se dite qualcosa del genere a qualcuno che è realmente triste e sta semplicemente elaborando un dolore molto profondo, vi risponde di togliervi dai piedi. Quando invece interrompete un pianto "finto" (rabbioso, incredulo, "epico", ecc.) la persona prova gratitudine perché non solo si stava proteggendo, ma stava anche sprecando qualcosa.

Le possibilità di fare dei pianti "inutili" sono moltissime e credo sia impossibile fornire un elenco completo. L'analista può distinguere la situazione in cui un cliente sta realmente elaborando un lutto da quelle in cui semplicemente bagna dei fazzoletti considerando, se considera con la dovuta attenzione alcune cose.
In primo luogo, la propria sensazione quando il cliente piange o racconta di aver pianto. Se un dolore è autentico ci sentiamo immediatamente partecipi. Altrimenti possiamo sentirci distaccati, o addirittura disturbati. Se (e solo se) non abbiamo paura del dolore e siamo capaci di elaborare le nostre sofferenze, possiamo fidarci di questa prima sensazione e cercare di capire cosa non è a posto.
In secondo luogo va tenuto presente che il pianto è un'emozione calda, profonda, limpida come la gioia (anche se di segno diverso) e quindi si sviluppa in modo naturale lasciando poi la persona triste ma presente e serena. Se il pianto lascia la persona spossata, avvilita, amareggiata, se sfuma immediatamente o non finisce mai, oppure se non è comprensibile non può essere l'espressione di uno stato d'animo genuino, ed è sicuramente l'esito di una manovra difensiva. Ovviamente, un pianto va interrotto ed analizzato solo quando l'analista ha sia sentito che compreso la situazione e non quando ha solo la vaga impressione di una stonatura.

Un lutto non elaborato è come un debito non pagato; si sente la necessità di escludere dalla consapevolezza ciò che non è stato accettato e superato e si teme che qualcosa ci possa far tornare al compito non affrontato; la persona o la situazione non "salutata" incombe sul presente e viene vagamente percepita come un possibile elemento disturbante, sia che si tratti di una persona che ci ha respinti nel lontano passato (ed in questo caso il lutto riguarda un vissuto), sia che si tratti di una persona che ci ha lasciato o che ci ha deluso nella vita adulta, sia che si tratti di un lavoro perduto o di un progetto non realizzato. A causa di ciò, la persona che evita il lutto ha costantemente paura di sentire "troppo", di coinvolgersi, di provare sentimenti.

Nel percorso analitico qui delineato, si punta direttamente al cuore del problema e si cerca di realizzare obiettivi molto difficili: l'assoluta trasparenza nel contatto, la completa elaborazione del lutto ecc. Un tale percorso analitico può anche risultare lungo e comunque non può essere breve. Per raggiungere un insight o sperimentare qualche emozione e ottenere dei miglioramenti può bastare anche un tempo limitato, ma per scoprire la propria capacità di affrontare la realtà, anche nei suoi lati più spiacevoli, senza condizioni e senza limitazioni, occorre fare i conti con "strati" successivi di paura e quindi con il riaffiorare di antiche difese, magari con qualche variante. Tuttavia, c’è una considerazione confortante da fare: in vari tipi di analisi del profondo può capitare che un quadro clinico molto pesante resti immutato per molto tempo prima di un miglioramento, mentre nel lavoro analitico sui vissuti alcuni sensibili miglioramenti si hanno molto presto.
Innanzitutto la massiccia ristrutturazione cognitiva dovuta all’analisi delle difese libera abbastanza in fretta il cliente dall’idea di essere malato e lo fa sentire più a caccia di una soluzione che in preda ad una paralisi. Inoltre, fin dai primi approcci alle emozioni difensive ed ai vissuti, i clienti acquisiscono un minimo di familiarità con sensazioni ed emozioni "nuove" che ravvivano la qualità della loro vita.
Il lavoro più sistematico di analisi delle varie manovre difensive e dei vissuti si realizza quindi in un quadro relativamente positivo, per di più con la precisa convinzione, da parte del cliente, di star facendo cose pertinenti e sensate di cui egli ha verificato la ragionevolezza e l’utilità. In un certo senso il lavoro analitico sui vissuti ha i vantaggi delle terapie brevi e delle analisi del profondo. Come una terapia breve dà qualche frutto in tempi ragionevoli, ma a differenza delle terapie brevi non si pone un obiettivo limitato.
Il percorso analitico, dopo la fase della “mappatura” delle difese, consiste essenzialmente in un “addestramento” alla gestione del dolore antico (quello che nell’infanzia era stato intollerabile e che non era stato elaborato) ed in un’accettazione del dolore attuale e futuro, che costituisce una componente inevitabile dell’esistenza umana.

Il percorso analitico quindi ha delle premesse semplici ma scomode: nell’infanzia le persone non ricevono normalmente dalle figure genitoriali il sostegno di cui hanno bisogno e quindi anziché imparare ad affrontare la vita e ad esprimere le loro potenzialità imparano da soli a sentire poco, a non capire ciò che sentono, ad interagire con i loro simili con poca empatia, ad agire distruttivamente ed irrazionalmente. Nei casi più fortunati arrivano a stare abbastanza male da chiedere aiuto. In questi casi, se realmente aiutati possono ritrovarsi e possono utilizzare le loro risorse per affrontare in modo costruttivo gli aspetti meravigliosi e terribili della loro vita costruendo un’esistenza intensa e priva di illusioni.

L’analisi non serve come esperienza riparativa per ciò che non si è ricevuto, né come “cura” di qualche malattia. La strategia difensiva costruita nell’infanzia porta a vivere per non soffrire. Lo scopo del percorso analitico può essere, più che una riduzione dei sintomi e un aumento del benessere, il superamento delle convinzioni e delle paure che limitano l’espressione delle potenzialità individuali. Quando la vita starà per finire non rimpiangeremo ciò che non abbiamo avuto, ma ciò che non abbiamo fatto e moriremo in pace sapendo di aver vissuto “abbastanza”, cioè sapendo di aver costruito un’esistenza realmente “appartenente” a noi.


5. Empatia, interpretazione e realtà

Le considerazioni fin qui svolte richiedono alcune note supplementari relative al concetto di empatia che è al centro di molte discussioni.

I clienti in analisi non resistono solo al contatto con emozioni e vissuti dolorosi, ma al crollo di un'immagine infantile ed ottimistica della loro persona e della loro esistenza. Ogni cliente da qualche parte sa che l'analisi lo condurrà ad affrontare il fatto che esistere non equivale a stare in una favola in cui le difficoltà sono semplicemente un temporaneo interludio fra un progetto di appagamento ed un immancabile lieto fine. Perché il cliente sia disponibile ad avventurarsi in cambiamenti emozionali che sono anche esistenziali occorre che percepisca la presenza dell'analista come persona che lo riconosce come persona; occorre che senta di essere capito nel suo bisogno di illudersi, nella sua paura di arrendersi e nella sua capacità di tollerare il cambiamento.
Possiamo quindi considerare l'empatia come una condizione di possibilità per il lavoro sui vissuti. L'empatia deve essere accettazione della persona, ma non “gratificazione del cliente o "comprensione per le difese"; deve essere rispetto per le resistenze, ma non collusione (come nella "compassione" per forme difensive di sofferenza). Il cliente desidera essere confermato nella sua immagine e rassicurato nel suo sogno: empatia significa proprio non riconoscerlo nell'immagine riduttiva che esibisce e deluderlo circa la possibilità di realizzare le sue illusioni.
Credo sia quindi opportuno considerare l'empatia come un'azione emotiva più intensa e cognitivamente complessa di un sentimento di benevola attenzione. "L'empatia ... non consiste nel riflettere semplicemente gli aspetti superficiali delle comunicazioni del paziente. Implica un processo di immersione nel suo mondo interiore (...). Dato che cognizione e affetto sono inseparabili, l'empatia è simultaneamente un processo cognitivo e affettivo" (Safran-Segal, 1990, p.101).

L'empatia, intesa come capacità di comprendere ciò che sente un'altra persona è fondamentalmente un concetto assurdo, poiché solo l'altra persona può comprendere ciò che sente. Tuttavia il concetto di empatia può intendersi come la capacità di sentire qualcosa di simile o analogo a ciò che un'altra persona sente. Quindi, posto che noi sentiamo le nostre emozioni e non quelle degli altri, possiamo essere più o meno capaci di farci un’idea di ciò che gli altri sentono. In qualche misura questa capacità è comune a tutti, ma al di là di un livello minimo di empatia scontato negli uomini, e persino negli animali più vicini a noi, la capacità empatica è molto diversa nelle diverse persone. Per questo forse non è il caso di pretendere una spiegazione dell'empatia, ma della mancanza di empatia.
A questo proposito credo che nella misura in cui siamo a nostro agio con tutto lo spettro delle nostre emozioni e abbiamo elaborato i nostri vissuti quanto basta per non temerli, risultiamo anche liberi dall'intenzione difensiva di fraintendere o trascurare i sentimenti delle altre persone. In altre parole credo che l'empatia sia proporzionale alla nostra tolleranza per i nostri vissuti e che la mancanza di empatia sia intenzionale e difensiva, ovvero sia un'azione e non un'incapacità; rifiutiamo di recepire correttamente le emozioni altrui quando temiamo che esse risveglino certi nostri vissuti o che ci coinvolgano in modalità che temiamo. A riprova di ciò si può osservare che la capacità empatica dei clienti cresce in analisi nella misura in cui essi elaborano i loro vissuti.

Si deve riconoscere agli indirizzi ermeneutici in psicoterapia e soprattutto in psicoanalisi un importante ruolo demistificante rispetto ai fraintendimenti naturalistici della soggettività individuale ed alle spiegazioni causali e oggettivanti. Al di là di questo ruolo critico, tuttavia, l'orientamento ermeneutico corre il rischio opposto, ovvero quello di ratificare un percorso analitico non controllato.
Le frustrazioni che implacabilmente colpiscono ogni ricerca di certezze in psicoterapia (ma anche nelle varie scienze ed in filosofia) sono aggirate quando si finge di poter fare a meno di una conoscenza sistematica e di essere soddisfatti di "tenere aperta la conversazione". La critica serrata di Richard Rorty ad ogni "sistema" conoscitivo e ad ogni progetto epistemologico si traduce in un progetto ermeneutico inteso come non fondazionale ma orientato ad una ricerca di connessioni fra discipline, culture ed orientamenti. In questo modo l'obiettivo diventa quello di rendere disponibili "maniere di parlare nuove, migliori, più interessanti e più fruttuose" (1979, p.276).

Si può stabilire una certa corrispondenza fra i progetti epistemologici, filosofici e scientifici "ottimistici" (dal cogito cartesiano all'Enciclopedia della scienza unificata) e le difese che nella vita quotidiana salvano (al prezzo di ansia, depressione o svalutazione) l'idea di un appagamento possibile; si può anche vedere una analoga corrispondenza fra i minimalismi ermeneutici e le forme di controdipendenza in cui si afferma di non desiderare nulla di più che essere lasciati in pace con quel che si ha e si è. Tuttavia, sia nella vita quotidiana, sia nella ricerca conoscitiva, noi desideriamo più di quello che possiamo afferrare e se conviviamo con l'aspetto doloroso di questa tensione possiamo evitare sia le operazioni difensive ordinarie, sia quelle intellettualmente più sofisticate. Nell'ambito conoscitivo, la convivenza con questo senso del limite ci consente di procedere nella formulazione e nel controllo di teorie nonostante la realistica consapevolezza di non essere mai giunti in un porto sicuro.

Donald Spence sostiene che quando uno psicoanalista crede d'aver colto una verità storica ha in realtà colto una verità narrativa, dato che più il processo conoscitivo è complesso, più tendiamo a "costruire" la realtà in base alle nostre aspettative, convinzioni pregiudiziali e ipotesi implicite. Per questa ragione, "le interpretazioni possono essere efficaci senza necessariamente essere "vere" in senso rigorosamente storico" (1982, p.272).
Tale esito pragmatico della rilettura ermeneutica dell'analisi è tuttavia molto pericoloso, proprio perché rischia di favorire qualche forma di "benessere" nei clienti piuttosto che un reale cambiamento. Credo che nessuna vera ridecisione sia possibile per un cliente se questi non sa di difendersi, da cosa si difende, da quando e perché.

Schafer, proponendo una rilettura della psicoanalisi in termini ermeneutici scrive: "Ogni resoconto del passato è una ricostruzione guidata da una strategia narrativa, che detta come selezionare, da una moltitudine di particolari possibili, quelli che possono essere riorganizzati in un altro racconto che abbia un filo e che esprima il punto di vista desiderato sul passato" (1983, p.188). Per Schafer ciò vale per qualsiasi narrazione, compresa quella psicoanalitica risultante dal lavoro interpretativo: "I resoconti del presente (il qui ed ora) sono ricostruzioni proprio come i resoconti del passato, solo che hanno per protagonisti atti di percezione invece che di ricordo. Se si accetta che ogni percezione è essa stessa una costruzione (...) il presente percepito può non essere guardato come una realtà semplicemente data, evidente, esistente prima della narrazione" (p.189). Che la realtà non sia semplicemente "data" è ovvio anche per la filosofia della scienza, ma il punto debole delle concezioni "narrativistiche" dell'analisi sta nella loro difficoltà a stabilire una linea di confine fra narrazioni pertinenti ed implausibili.
Come lo stesso Schafer ammette, "da queste osservazioni non consegue che tutte le strategie interpretative, freudiane o non freudiane, meritano uguale attenzione o rispetto: sono infatti convinto che si possa dimostrare ... che alcune di queste strategie sono più penetranti, coerenti, complete e trasformatrici di altre" (1983, p.197). A questo punto, però si deve tornare al problema del controllo delle ipotesi (o delle "narrazioni").

Scano, Mastroianni e Cadeddu, riprendendo alcune tesi avanzate da Popper, sottolineano che "Il metodo della scienza, qualunque sia il suo ambito di ricerca, è quello congetturale: elaborare teorie come tentativi congetturali di risoluzione di problemi. Questo è anche il metodo della comprensione ermeneutica: non contatto diretto con un soggetto unico e singolare da comprendere per adesione immediata, per partecipazione al suo significato irripetibile; ma con l'elaborazione di teorie, di congetture. (...) Coloro che intendono distinguere la comprensione ermeneutica dall'osservazione oggettiva delle scienze naturali si riferiscono ad un metodo che non esiste..."(1995, pp.291-293) in quanto, solo quando un problema è stato formulato è possibile raccogliere delle osservazioni.
Il lavoro analitico, quindi, pur sviluppandosi in modalità da inventare di volta in volta, ha come fine la chiarificazione di ciò che il cliente effettivamente fa, di ciò che davvero evita e delle sue reali capacità di cambiamento. L'analista interviene creativamente ed imprevedibilmente, ma i suoi tentativi conducono ad una descrizione dell'assetto delle difese e ad una identificazione dei vissuti evitati; tali esiti vengono controllati dall'analista e dal cliente. Per questo, la lettura analitica dell'attivazione delle difese nell'infanzia, del mantenimento di tali difese, del lavoro analitico sulle difese e dei risultati del lavoro analitico, non può essere considerata come la narrazione "più gradita" fra le tante possibili, ma come un resoconto obiettivo e controllato (anche se incompleto e imperfetto) delle ragioni per cui una persona ha costruito determinate difese e delle ragioni per cui, sulla base delle esperienze fatte in analisi, ha deciso di modificare certi atteggiamenti ed il modo di considerare la sua intera esistenza.


6. Sul concetto di psicoterapie “riuscite”

Spesso, nei saggi, nei convegni e nelle lezioni gli analisti e gli psicoterapeuti parlano del modo “giusto” di trattare (o “curare”!) i disturbi psicologici. Le stesse persone, però, nella loro testa, molto spesso ragionano sui “casi non risolti” o sui “fallimenti”, o più semplicemente sulle psicoterapie che non si sono concluse nel modo sperato o previsto. Molto raramente (se non consideriamo il periodo iniziale di supervisione) tali persone si confrontano con altri sui percorsi analitici o psicoterapeutici non riusciti.
Per gli analisti e gli psicoterapeuti giovani o meno giovani ma psicologicamente non ben centrati, le psicoterapie non riuscite sono a volte un incubo, un colpo inferto alla loro idea difensiva di essere persone accettabili solo se utili ai “pazienti”, oppure sono una prova della loro “inadeguatezza” o “insignificanza” o “colpevolezza”. Per altri, egualmente non centrati, tali esperienze restano come delle ingiustizie subite da parte di clienti brutti, sporchi e cattivi. Per altri (quelli ancor meno centrati) tali esperienze sono solo un nome in meno sulla loro agenda.
Per gli analisti più centrati, le esperienze non riuscite di lavoro analitico sono invece un dispiacere che non li offende e non li deprime, ma che li accompagna come altri dispiaceri della loro vita. Sono anche, come devono essere, un’occasione di riflessione ed un’esperienza che deve essere almeno utilizzata per evitare che gli errori commessi non vengano commessi in futuro.
Non voglio tuttavia esaminare ora le difese tormentose o feroci degli analisti e degli psicoterapeuti poco centrati che non riescono a volersi bene e non voglio nemmeno descrivere il dispiacere degli analisti che continuano a volersi bene anche quando il loro lavoro non produce buoni risultati. Voglio piuttosto esaminare i fattori che determinano le principali difficoltà o gli eventuali insuccessi nel lavoro analitico.

Quando si pensa che un insuccesso sia dovuto alla “gravità” del disturbo del cliente, si fa a mio avviso una lettura dei fatti comoda per l’analista, ma non realistica e non ragionevole. L’unica caratteristica dei clienti che impedisce un buon esito del lavoro analitico è l’intenzione (adulta o difensiva, consapevole o inconscia) di non partecipare ad un lavoro analitico; per questo motivo è inutile tentare un lavoro analitico con un cliente in crisi psicotica acuta che non vuole mantenere il contatto con la realtà e occorre prima fare in modo che una terapia farmacologica riduca “meccanicamente” il panico e la confusione prima di poter contare su una (eventuale) collaborazione, almeno parziale. Per lo stesso motivo è spesso inutile tentare un lavoro analitico con una persona anche poco disturbata sul piano psicologico che fa sedute solo per accondiscendenza nei confronti di un famigliare o solo per “consumare” le ore previste in un corso di psicoterapia.
Se il cliente è intenzionato a lavorare sul proprio modo di affrontare la vita ha la possibilità di chiarire e cambiare i suoi atteggiamenti difensivi; tale risultato ovviamente ha come condizione che l’approccio dell’analista non sia superficiale e riduttivo e che l’analista riesca con quella particolare persona a sentire, capire e decidere ciò che serve per metterlo nella condizione di capirsi e cambiare.

Gli approcci utilizzati nello svolgimento di un percorso analitico o psicoterapeutico costituiscono una variabile significativa dei successi o degli insuccessi. Alcuni indirizzi psicoterapeutici poggiano su presupposti (a mio avviso) errati e producono solo quei “miglioramenti” superficiali ed aleatori che sono stati attribuiti a “qualsiasi psicoterapia” (cfr. AA.VV. 2000), perché essi escludono a priori la possibilità di lavorare per obiettivi significativi e mirano semplicemente ad una riduzione del “disagio” o al superamento di qualche sintomo isolato. Altri indirizzi sono epistemologicamente, teoricamente e tecnicamente deboli e a mio avviso improponibili. Altri indirizzi psicoterapeutici consentono invece di lavorare su aspetti importanti della personalità delle persone che cercano aiuto. Se un analista utilizza valide conoscenze ed esperienze ha quindi almeno la possibilità di aiutare qualsiasi cliente realmente intenzionato a farsi aiutare.

Non esistono indirizzi analitici o psicoterapeutici indiscutibilmente validi e nessuno di essi ha provato in modo convincente di produrre sempre e comunque dei risultati validi. Oltre a ciò, va detto che è tutt’altro che scontato che ci sia un criterio in base a cui stabilire se i risultati di un particolare approccio siano “validi”.
Anche gli indirizzi psicoterapeutici più arroganti, che pretendono di disporre di metodi basati su evidenze empiriche (“Empirically Supported Treatments” [EST] o psicoterapie “evidence based”), documentano i loro risultati riportando dati che a mio avviso depongono più a sfavore dei loro metodi che a loro favore. Voglio citare a questo proposito alcune righe tratte da un saggio decisamente critico (e molto accurato) sulle psicoterapie “validate empiricamente”. In esse, l’autore riporta i risultati di una ricerca che tentava di documentare l’efficacia di un approccio ritenuto evidence based: “I ricercatori hanno selezionato 130 pazienti depressi, 76 dei quali sono risultati adatti al protocollo di trattamento, per un tasso di inclusione del 58%. Dei 76 pazienti ammessi, 64 (81%) hanno completato il trattamento. Di questi 64, al termine del trattamento, 23 sono stati descritti ‘completamente guariti’ e 27 ‘parzialmente guariti’, per un tasso di guarigione completa di circa il 36% e un tasso di guarigione parziale leggermene maggiore (42%). A un follow up di un anno, per 16 di questi 50 casi di totale o moderato successo terapeutico si registrava una piena ricaduta, che riduceva quindi a 34 i trattamenti almeno parzialmente riusciti. (…) Se questo sia il resoconto di una terapia validata empiricamente o empiricamente disconfermata dipende da dove si fa cadere l’accento” (Westen, 2004, pp.39-40).
L’autore di questa importante rassegna critica relativa alle psicoterapie brevi manualizzate (basate su procedure standardizzate e ripetibili approntate per specifici disturbi) ritenute “di provata efficacia”, non ha rifiutato l’idea di una validazione empirica del lavoro psicoterapeutico, ma ha evidenziato le debolezze metodologiche dei presupposti che stanno alla base delle psicoterapie “evidence based”. Ha anche messo seriamente in discussione la concezione dicotomica secondo cui i trattamenti o sono supportati empiricamente o non lo sono. La ricerca in psicoterapia dovrebbe mirare a individuare strumenti validi da applicare nella pratica clinica in modi flessibili e adatti alla specifica realtà delle persone che chiedono aiuto, piuttosto che individuare procedure strutturate da affidare a “operatori paraprofessionisti istruiti a seguire fedelmente un manuale validato” (op.cit. p.79)

Si può aggiungere a questa spietata conclusione di Western un’altra considerazione: questi approcci terapeutici sono molto limitati nei loro stessi obiettivi (riduzione dei sintomi e degli stati emotivi disturbanti) e quindi è ragionevole pensare che anche i casi risultati soddisfacenti possano essere appena rilevanti. Molti indirizzi psicoterapeutici “tecnicistici” o riduttivi non si propongono di favorire cambiamenti personali profondi e concepiscono solo l’obiettivo di ridurre un po’ il “malessere” o di aumentare il “benessere”. Altre si propongono di modificare alcuni aspetti della personalità, ma trascurano comunque la profondità emotiva dei cambiamenti in questione (è questo il caso delle psicoterapie analitiche “intellettualistiche”) oppure trascurano la rilevanza delle convinzioni irrazionali personali (è questo il caso di molte psicoterapie “corporee”).
Si possono trovare molte ricerche interessanti sull’efficacia dei vari approcci psicoterapeutici (Migone, 1996 e 2005), ma qui voglio limitarmi a sottolineare che i criteri in base ai quali molti psicoterapeuti (anche autorevoli) considerano riuscita una psicoterapia sono tutt’altro che scontati e anche discutibilissimi.

Dal mio punto di vista il lavoro analitico ha un buon esito se la persona in analisi arriva a rendersi conto
a) di essersi attivamente impegnata (inconsapevolmente) nella produzione di un particolare sintomo o disagio psicologico,
b) di aver perseguito con tale impegno uno scopo difensivo,
c) di essersi protetta da determinate emozioni temute e di aver iniziato tale strutturazione difensiva nell’infanzia, quando doveva affrontare senza il supporto genitoriale situazioni troppo dolorose per le capacità del momento.
d) di aver mantenuto tale progetto difensivo anche nell’età adulta perché tale progetto era inconscio e non poteva essere sottoposto a critica e modificato.
e) di sentirsi in grado attualmente di utilizzare le risorse adulte per affrontare in modo costruttivo i vissuti dolorosi e le nuove esperienze dolorose, rinunciando a difese, chiusure e illusioni attualmente inutili
f) di poter quindi essere non solo libera di accettare il dolore inevitabile, ma anche di salvare con cura tutte le possibilità di essere felice, di provare riconoscenza per ciò che riceve, di sentire coinvolgimento e disponibilità all’impegno nella costruzione di rapporti e situazioni positive.

Raramente in psicoterapia, anche nei casi in cui vengono stabiliti come obiettivi “terapeutici” dei cambiamenti di personalità, si concepisce il cambiamento in questi termini e quindi i risultati cercati sono più modesti e circoscritti. Ciò ovviamente aumenta il numero di “successi” e di “guarigioni”, ma non giova né al reale miglioramento della qualità della vita dei clienti né alla comprensione teorica dei processi di cambiamento.
Con ciò non voglio dire che i sintomi non siano importanti, ma voglio ribadire che proprio perseguendo obiettivi più generali, i sintomi vengono comunque superati e a volte anche in tempi non meno brevi di quelli auspicati nelle “terapie brevi” focalizzate su disagi circoscritti.

La gravità dei disturbi dei clienti a mio avviso determina la difficoltà di un percorso analitico, ma non dovrebbe essere considerata una sorta di causa di un percorso non riuscito. L’utilizzazione di un approccio discutibile (che in genere si associa anche ad una formazione personale debole dello psicoterapeuta) a mio avviso determina l’esito insoddisfacente di un’analisi o psicoterapia sia nei casi ritenuti soddisfacenti, sia nei casi ritenuti insoddisfacenti. Tuttavia, un percorso analitico avviato da un analista emotivamente equilibrato che segue un approccio non superficiale, può concludersi bene in tempi brevi, lunghi o lunghissimi che dipendono dalla gravità delle difese attivate dal cliente (che sono tanto massicce e complesse quanto sono primitivi e drammatici i vissuti non integrati). Questo però non si verifica sempre, e a mio avviso i percorsi analitici non riusciti dipendono da limiti dell’analista. Limiti di comprensione, di empatia, di creatività. Tali limiti (inevitabili) incidono meno nel lavoro con clienti che manifestano disturbi di lieve o media gravità e complessità (ma possono incidere anche su tale lavoro relativamente semplice) e incidono ovviamente in misura maggiore nei casi più complessi, gravi e difficili da trattare.

Nei percorsi analitici in cui non sono riuscito a favorire un reale cambiamento ho sempre verificato in almeno qualche seduta che anche le persone più “difficili” avevano accesso ad emozioni profonde e pulite e che tale esperienza permetteva ad esse (almeno per un po’) di “sentirsi” e di concepire la loro vita in un modo radicalmente diverso dal solito. In tali momenti i sintomi erano non solo assenti ma erano ripensati come espressioni superficiali che nascondevano la realtà della loro vera dimensione soggettiva. Tali esperienze sono sempre state significative soprattutto perché rendevano possibile ai clienti l’idea di un vero cambiamento nell’esistenza personale, ben diversa dall’idea di eliminare certi disagi circoscritti.
Come non possiamo dire che una persona è stupida se riesce a fare almeno un ragionamento intelligente, così non possiamo nemmeno definire “malati incurabili” i clienti che riescono almeno in certe circostanze ad esprimersi ad un livello compiuto di contatto emotivo ed a comprendere ciò che sentono.
Purtroppo nei casi che non hanno avuto un esito soddisfacente, quei “momenti” non sono diventati per i miei clienti l’inizio di un cambiamento profondo e stabile. Tali microesperienze di cambiamento mi fanno tuttavia pensare che se con me quei clienti non hanno modificato in modo soddisfacente il loro stile di vita, con altri analisti possono aver in seguito trovato o potrebbero comunque trovare sollecitazioni più adatte alle loro esigenze.

Su ciò baso la mia convinzione che in generale le psicoterapie non riuscite costituiscano dei fallimenti dell’attività dell’analista (o dello psicoterapeuta) e non l’esito inevitabile di aspetti ”deficitari” dei clienti. Ciò può minare un discutibile orgoglio degli analisti e degli psicoterapeuti, ma credo sia meglio convivere con la consapevolezza dei propri limiti piuttosto che inventare limiti insuperabili da attribuire agli altri.


7. Il progetto di vita difensivo e il cambiamento possibile

Ciò che mi porta a volte ad immaginare che certe persone non abbiano i mezzi (psicologici) per cambiare, non è costituito dalla gravità di certi disturbi psicologici o dal fatto che alcuni clienti interrompono il lavoro analitico, ma dal fatto che molti clienti, arrivati ad un certo punto, sembrano arenarsi e accontentarsi di stare “abbastanza bene”. Sono persone che in una psicoterapia cognitiva o “breve” potrebbero essere considerate “guarite”, ma dal mio punto di vista “si sono sedute”: a parole vogliono “andare fino in fondo”, ma in realtà non fanno nulla per stare davvero in pace con loro stesse e con la realtà. Su questi casi vorrei un po’ ragionare, per capire se davvero i clienti sono come gli alberi (che, cresciuti storti, possono fiorire e dare frutti, ma non diventare dritti) oppure se si bloccano solo perché non ricevono le sollecitazioni giuste. Non penso che in questi casi ci siano limiti “strutturali” tali da ostacolare il cambiamento; penso piuttosto che certi progetti di vita difensivi siano così profondi, radicati, associati ad una visione rigida e limitativa dell’identità personale e della realtà, da rendere il lavoro analitico lento e difficile.

Dopo questa premessa vorrei chiarire meglio ciò che osservo nei casi in cui i clienti, dopo qualche miglioramento, evitano di impegnarsi per cambiamenti più profondi, che da un lato desiderano, ma da un altro lato ostacolano.
Di fatto, i clienti iniziano un percorso analitico per qualche disturbo personale che vogliono eliminare, senza per questo voler cambiare il loro modo di sentire, pensare, sentirsi e pensarsi. E’ mio il compito di chiarire e far “sentire” che quelle “circoscritte” aree di disturbo sono solo un aspetto di un disturbato (e limitativo, rispetto alle potenzialità individuali) modo di affrontare l’intera esistenza.
Se il lavoro analitico procede bene, il cliente può mantenere la capacità di stare in pace con se stesso anche in situazioni esterne dolorosissime. Il processo di “recupero” del contatto, della vitalità, della dignità personale e della voglia di costruire una buona esistenza non è semplice e si sviluppa in tempi non brevi, ma costituisce una bella avventura, anche se solo interiore. Tuttavia, alcune persone sembrano non avere questo desiderio di cambiamento.

In genere, la prima fase del lavoro analitico è la più facile e produttiva: le massicce ristrutturazioni cognitive (focalizzazione sull’intenzionalità difensiva e demolizione dei pregiudizi su presunte incapacità, comportamenti incontrollabili, atteggiamenti causati da particolari circostanze, ecc.) ed alcune minime esperienze emozionali riguardanti i vissuti non integrati incidono significativamente sui sintomi dichiarati (li spazzano via, li riducono o almeno li rendono comprensibili come aspetto di un più globale stile di vita) e migliorano facilmente la qualità della vita quotidiana.
A quel punto il lavoro si sviluppa in maniera più lenta, ma più approfondita: ci sono clienti che resistono a lungo (quelli che “capiscono ma non sentono” e quelli che sentono un mucchio di emozioni fasulle) e poi “mollano”, e ci sono clienti che procedono invece gradualmente e molto lentamente nei loro cambiamenti.
La terza fase del lavoro è la più critica: i clienti stanno meglio, hanno modificato alcune cose accettando in qualche misura il loro dolore e verificando che possono tollerarlo: non hanno quindi motivo di temere il dolore, il pianto, l’esperienza del lutto e sanno bene che l’apertura a questi sentimenti è compensata da una maggiore capacità di gioire in circostanze favorevoli e comunque di avere un buon rapporto con loro stessi. Alcuni vanno oltre e accettano di ripensare la loro identità, la loro vita ed il loro progetto di vita, ma molti cominciano a giocare a nascondino. Un po’ ci sono e un po’ non ci sono. E i tempi dell’analisi si allungano. La minor pressione di disagi psicologici, ansie, confusioni e sintomi facilita la tendenza a “rallentare”, ma non è solo questo il punto. Il punto è una difficoltà nella svolta qualitativa riguardante l’idea di chi si è e di cosa si può fare in un’intera vita accettando tutti i costi inevitabili di una vita “piena”.
I clienti che prolungano indefinitamente quella che ho indicato come la terza fase del percorso analitico, in pratica accettano solo condizionalmente il dolore della loro vita. Sono disposti a lavorare su di esso nelle sedute e ad accettarne una fetta anche nella loro vita quotidiana (risparmiandosi così sintomi e disagi di una certa rilevanza), ma non sono disposti ad accettare che l’esperienza del lutto possa costituire un aspetto rilevante e abituale dell’esistenza personale.
Vecchie ferite si riaprono in circostanze anche non gravi e nuove perdite o impossibilità si presentano nell’esperienza quotidiana. In tutti questi casi, se non si può combattere per cambiare qualcosa si può solo accettare che qualcosa non va come si vorrebbe, che ciò produce dolore e che il dolore conduce al pianto. Tali clienti accettano l’idea del dolore ma non la realtà del dolore che può presentarsi anche in momenti imprevisti ed in termini apparentemente “troppo” intensi. Essi quindi un po’ affrontano la loro vita ed un po’ la schivano.
In analisi portano quindi “residui” o “revisioni aggiornate” della loro attrezzatura difensiva: vecchi sintomi che “tornano” occasionalmente, atteggiamenti già analizzati e compresi come difese da certi vissuti dolorosi. Portano inoltre la “difficoltà” ad attuare cambiamenti veramente radicali nel loro modo di esprimersi e rapportarsi agli altri. Mi riferisco con ciò a persone che hanno accettato la sessualità che respingevano, ma non arrivano ad accettare la loro compiuta (e “sfacciata”) espressione sessuale, a persone che hanno rinunciato a comportamenti rabbiosi, lamentosi, pretenziosi, ma che “ogni tanto ci ricascano”, a persone che hanno verificato di poter essere combattive e determinate, ma che in situazioni critiche tornano nel loro angolo, timorose di affrontare persone sicuramente affrontabili.

Una cliente (che chiamerò Franca) che in alcuni anni di analisi aveva lavorato su aspetti molto delicati ed intensi della sua storia personale e che aveva anche consolidato un buon rapporto con se stessa, dopo un periodo difficile era tornata a chiudersi nelle sue tormentose preoccupazioni. Avevamo affrontato questa “crisi” lavorando sodo su vecchie ferite che la nuova situazione aveva riaperto e Franca aveva recuperato sensibilità e aggressività in misura sufficiente per affrontare costruttivamente la sua situazione lavorativa e sentimentale. Da alcuni mesi però era tornata ad essere presente “a metà”.
Franca inizia la seduta facendo una specie di esame di coscienza.
F. Non vado avanti. Faccio fatica ad aver cura di me, come se fossi seccata di me. Dovrei essere un genitore accogliente nei confronti di me stessa.
GF. Non “dovresti” fare un bel niente: non ci sono leggi in vigore sul tema in questione. Cosa ci guadagni ad essere seccata con te stessa?
F. Abbiamo già visto che ero crudele con me per essere vicina a mia madre almeno in quello.
GF. Da come ne parli, quel lavoro non ha messo radici. Non me lo tirar fuori come una risposta “giusta” in un’interrogazione al liceo! Perché ha voglia, oggi, di essere crudele con te? Cosa speri o sogni agendo in quel modo crudele?
F. (…) Non ho voglia di occuparmi di me perché vorrei che qualcun altro lo facesse.
GF. Allora senti il bisogno di aggrapparti a qualcun altro anziché fare la fatica di sostenerti?
F. Proprio così.
GF. OK. Oggi è il tuo giorno fortunato! [Spalanco le braccia] Aggrappati a me!
[Franca si lascia abbracciare e scoppia in un pianto profondo con lacrime e singhiozzi. Mentre piange le chiedo se ha sentito come sgradevole il mio abbraccio]
F. No!
GF. E allora come mai piangi? Se hai avuto la cosa buona che volevi, perché non hai sorriso, riso o ballato di gioia?
F. (!)
GF. Nessuno può più consolarti o rassicurarti quando ti senti bambina, anche se ti abbraccia di cuore, perché tu non sei più quella bambina. Nemmeno io ho abbracciato quella bambina, perché non c’è più. Ogni coccola di oggi va sul conto corrente dell’adulto e il conto della bambina resta in rosso. Non “devi” occuparti di te: non hai alcun dovere, ma è un fatto che tu hai in te quel dolore. O te ne occupi o ti incasini anche ciò che nella tua vita resta ancora da vivere. Se sprechi gli anni della tua vita adulta a cercare cose del passato, non le trovi e rovini ciò che oggi puoi fare, dato che in un modo o in un altro sei comunque cresciuta e sei in grado di gestire bene i tuoi quarant’anni (che comprendono cose di oggi e ricordi di ieri).
F. [Mi sorride] E’ tutto chiaro.
Franca sta ancora lavorando su queste cose. Fa una grandissima fatica a “mollare”. Lavora bene in seduta, ma a casa spesso continua a evitare il dolore che con me sente, accetta e classifica come tollerabile. Non è “ferma”, ma si prende tempo. Scherzando le dico che faremo le ultime sedute all’ospizio in cui trascorrerò la mia vecchiaia. Riesco ad immaginare che possiamo stabilizzare dei risultati positivi molto buoni, ma posso anche immaginare che dopo la conclusione del lavoro, Franca mi cerchi ancora dopo un periodo “difficile”. Mi è capitato con alcuni clienti e in tali casi ho visto che certe persone anche quando nel loro percorso analitico accettano il loro dolore ed il fatto che il dolore faccia parte della loro vita, prima o poi tornano a chiudersi di fronte ad una nuova sofferenza.

Queste difficoltà di percorso non sono solo frustranti, ma anche dolorose per me. Mi spiace che in questi casi le persone compiano un percorso di consapevolezza veramente profondo e non solo riguardante qualche circoscritto aspetto della loro esperienza (sintomi), ma mantengano sempre una riserva ed una disponibilità a distruggere qualcosa pur di non accettare sempre e comunque tutto il dolore che può entrare nella loro vita. Ho ripreso l’analisi con una persona che aveva vissuto bene per diversi anni, ma era tornata “indietro” quando un rapporto sentimentale era fallito e con una persona che era tornata indietro quando una grave malattia aveva prodotto “troppo” dolore.
Dico sempre ai miei clienti che, dal mio punto di vista, l’analisi è completata quando si sentono in grado di mantenere un buon rapporto con loro stessi anche in un campo di concentramento. Quando si conclude il lavoro, si concorda su ciò, ma a volte tali persone tornano a farsi del male.
Convivo quindi con l’idea che i risultati del lavoro analitico per quanto più profondi e stabili di quelli (davvero modesti e precari) delle psicoterapie sintomatiche possano essere incerti. Mi chiedo ovviamente cosa possa rendere il lavoro analitico più incisivo e stabile, ma sono giunto alla conclusione che senza tirare in ballo strane teorie sul “deficit”, le persone affrontano con difficoltà la loro infanzia e anche nella vita adulta hanno la possibilità di ritirarsi, chiudersi, difendersi rispetto al dolore. Hanno la “possibilità” e la “capacità” di fare ciò; non hanno una malattia inguaribile.
Compito dell’analisi per me è fare ciò che meglio si può per consolidare la capacità di rinunciare definitivamente alla strategia difensiva e di affrontare la vita come un’avventura, con la passione e la determinazione che permettono di ricavare frutti dolci anche da esperienze amare vissute in modo limpido. I limiti dell’analista (limiti di intelligenza, di conoscenza, di empatia, di esperienza e di pazienza) frenano o bloccano il percorso analitico dei clienti e disturbano soprattutto quel cambiamento profondo, radicale che è il cambiamento nell’orizzonte psicologico, nell’atteggiamento verso se stessi e verso gli altri, nel progetto di vita. I limiti vanno messi in conto: sia quelli dell’analista, sia quelli del cliente, ma, per fortuna, anche le capacità e la disponibilità dell’analista e del cliente contano qualcosa e producono dei risultati.

Le persone hanno molta paura di ripensarsi in termini realistici e non rassicuranti e di ripensare alla loro vita come ad un’esperienza senza sicurezze, piena di gioia e di dolore. Capiscono facilmente che l’esperienza del dolore li aiuta a sentirsi più vivi ed anche a godere maggiormente della loro vita, ma esitano a tuffarsi nella loro vita lasciandosi gratificare e ferire da tutto ciò che fa parte della loro vita. Stentano ad accettare che come l’espirazione non è possibile senza l’inspirazione, così la felicità intensa non è possibile senza una resa incondizionata al dolore ed alla morte. Restano attaccate alle loro pesantezze, a chiusure e sentimenti di rabbia e non accettano facilmente di perdonarsi e di perdonare, cioè di considerare in ogni istante che ciò che è perso è irrimediabilmente perso e che la cosa più sensata da fare è dedicarsi con passione a ciò che resta senza recriminazioni, senza confusioni e senza chiusure.
Il cambiamento che consente l’espressione compiuta di tutte le potenzialità individuali è questo, perché solo la resa alla morte consente l’espressione di tutto ciò che si può fare nella vita, la realizzazione di ciò che si sa fare, l’impegno per costruire ciò che si vuole vedere compiuto. Il cambiamento che resta stabile e che avvia il circolo virtuoso di un percorso esistenziale appassionato realizzato con cura e determinazione non è quindi la cura di qualche patologia, ma il superamento della paura, che solo nell’infanzia è paralizzante. Il cambiamento profondo equivale all’accettazione del fatto che l’infanzia è finita e che con essa sono finiti sia i sogni, sia gli incubi. Tale accettazione permette di riconoscere che ciò che resta è la realtà: una realtà amabile, godibile, che fa male e che fa davvero bene.

Non utilizzo i concetti di patologia e di terapia in relazione al lavoro analitico perché credo che i disturbi psicologici siano l’esito di attività difensive (da chiarire e modificare) e non siano patologie (da curare). Voglio quindi sottolineare che, dal mio punto di vista, l’analisi non solo non ha come obiettivo una “guarigione”, ma non ha nemmeno come obiettivo la “normalità”. Infatti, i normali modi di sentire, pensare ed agire costituiscono il terreno su cui si sviluppano i disturbi psicologici.
Il lavoro analitico fa prendere confidenza con emozioni più intense di quelli che "normalmente" vengono sentite o condivise. Facilita cioè un recupero di potenzialità che non venivano espresse proprio perché il progetto di vita era limitativo e riguardava fondamentalmente l'evitamento di emozioni classificate (nell'infanzia) come ingestibili. Il cambiamento, anche se attuato in modi diversi dalle diverse persone, è comunque caratterizzato da una maggior intensità nel contatto emotivo e da una maggior razionalità e costruttività nel comportamento. Cambiando il loro atteggiamento verso se stessi e verso la realtà, i clienti avvertono prima o poi un senso di insoddisfazione per i rituali sociali che condividevano con molte persone e che ora trovano "falsi", "irrispettosi" o "superficiali".

Normalmente le persone non manifestano sentimenti profondi. Ovviamente, sperimentano "da qualche parte" il dolore, il desiderio, l'amore, ma cercano di non saperlo e di non farlo sapere per non sembrare troppo fragili o troppo dipendenti. In genere le persone cercano di indurre gli altri a fare certe cose, ma raramente chiedono apertamente ciò che desiderano perché temono i rifiuti come quando erano bambini.
Le persone spesso reagiscono con rabbia alle frustrazioni o alle perdite. Così non cambiano la realtà, ma solo il loro contatto con la realtà. Allo stesso modo non si arrabbiano e non combattono quando c'è da combattere, per timore di "esagerare". Nelle situazioni più penose le persone non sanno piangere oppure lo fanno per vittimismo o per rabbia.
Si può quindi affermare che i rapporti interpersonali sono regolati da un criterio "normalmente" condiviso, secondo il quale è necessario evitare la consapevolezza del dolore e della morte. Il dolore e la morte ovviamente continuano a fare parte della vita, ma si preferisce ignorare questo fatto.
Nessuno consiglierebbe una psicoterapia ad una persona che ha tutto il tempo libero impegnato. Però quando le persone che hanno iniziato l'analisi per "un sintomo" cominciano a parlare di come riempiono il loro tempo libero, scoprono di avere il terrore del vuoto, del silenzio, della solitudine. E capiscono che molte "serate allegre fra amici", molte "riunioni importanti", così come la frenetica ricerca di avventure amorose servivano a non avere un attimo di "pace". Questo lascia pensare che normalmente il sesso, la vita sociale, l'impegno, o anche l'ansia per molte "cose da fare" coprano un "normale terrore".

Il piacere e l'amore rientrano marginalmente e raramente nei comportamenti sessuali, dato che i tipici corteggiamenti, gli innamoramenti ed anche le tensioni nelle coppie hanno come base la ricerca di "sicurezze" o l'angoscia per la solitudine o un progetto di vita distruttivo.
La creatività e il senso di responsabilità rientrano marginalmente e raramente nell'ambito lavorativo, dato che comunemente ci si impegna nel lavoro per ragioni del tutto diverse: l'affermazione personale, l'avidità, la paura di stare con se stessi, l'indisponibilità a stare troppo tempo in famiglia.
La curiosità e il desiderio di esprimere al meglio i talenti personali rientrano marginalmente e raramente nello studio (sia nello studio scolastico che nella ricerca intellettuale). Si studia per dimostrare qualcosa, per fare carriera, per non essere giudicati ignoranti, per sentirsi parte di un gruppo.
Ora, questi "bisogni" (di appartenenza, di sicurezza, di accettazione, di negazione dei conflitti, ecc.) per quanto comprensibili nei bambini, non lo sono nella vita adulta. Dobbiamo quindi ammettere una sostanziale continuità fra i disturbi psicologici "ufficiali", gli atteggiamenti manipolativi nei rapporti interpersonali, la superficialità nella vita emozionale, la mancanza di empatia, l'incoerenza nelle convinzioni, la manifestazione di comportamenti eticamente discutibili, l'adesione a conformismi o ribellismi rassicuranti. Anche se spesso i disturbi psicologici vengono contrapposti alla normalità, di fatto rivelano la stessa "logica emozionale" della "normale follia" di tutti i giorni. Certamente alcune persone stanno peggio di altre in seguito alla loro strategia difensiva, ma non c'è una netta linea di separazione fra "normalità" e disturbi psicologici. Un soldato che combatte una guerra di cui non capisce il senso è considerato normale mentre un soldato che dopo il congedo fa brutti sogni è considerato affetto da un disturbo post-traumatico. Presumibilmente il "disturbo" esprime un'indisponibilità ad accettare una certa realtà (interna oltre che esterna), ma la "mancanza di disturbi" può riflettere un distacco emotivo rispetto alla realtà. I cosiddetti disturbi psicologici potrebbero essere considerati fondamentalmente "eccessi di normalità".
La normalità è un incubo perché tutte le persone cominciano a soffrire prima di essere in grado di elaborare il dolore e quindi costruiscono inconsapevolmente, ma intenzionalmente, degli atteggiamenti difensivi “normali” che poi mantengono nella vita adulta. Se non si riconosce ciò, si inventano bizzarre spiegazioni per le "patologie" più normali della normalità.

Spero sia chiaro che non voglio riprendere le ideologie ottimistiche degli anni '60 e '70 che consideravano "liberatoria" e potenzialmente eversiva la devianza. Credo piuttosto che la devianza non sia affatto un’autentica devianza e che i disturbi psicologici gravi o lievi siano la punta di un iceberg costituito proprio dalla normalità.
Non voglio nemmeno riprendere i deliri di Reich e altri consistenti in una "denuncia" della normalità in nome di istanze di "liberazione" politica o "medica" o "naturale". La politica non può cambiare le persone, la medicina non può guarirle da malattie inesistenti e la natura non c'entra. Le invettive contro l'orrore della normalità riflettono più che altro una mancanza di consapevolezza delle difese agite da chi "contesta" la normalità ed una mancanza di empatia nei confronti delle persone. Tutti siamo in qualche misura autentici nei rapporti con gli altri e con noi stessi e siamo anche in qualche misura "normalmente falsi". Alcuni negano la realtà più di altri, ma questo non vale solo per quelli che vengono diagnosticati affetti da qualche “patologia psichica”.
Ciò che voglio esprimere non è un "rifiuto" della normalità, ma un dissenso dai dogmi "clinici" secondo i quali i disturbi psicologici andrebbero contrapposti all'adattamento sociale "normale" (che comprende una gestione normalmente irrazionale delle emozioni, del tempo e delle risorse personali).
La polarità su cui l'analisi interviene non è quella fra patologia e normalità, bensì quella fra potenzialità personali e atteggiamenti difensivi. Lo scopo del lavoro analitico non è quello di rendere "normali" le persone che sono "malate", ma è quello di lavorare con chi vuole riappropriarsi delle potenzialità personali inespresse.
Le potenzialità che il lavoro analitico può far recuperare riguardano l'accettazione della realtà (tragica, ma anche appassionante) dell'esistenza umana, la capacità di amare e rispettare se stessi e le altre persone, la determinazione ad elaborare il dolore inevitabile ed a prevenire il dolore che può essere evitato; in questo modo anche la gioia e la felicità vengono sperimentate più intensamente.


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