PM - HOME PAGE ITALIANA PM-TELEMATIC PUBLISHING PSYCHO-BOOKS


PM-TP
PSYCHOMEDIA
Psycho-Books




Gianfranco Ravaglia

L'INTENZIONE RITROVATA
Intenzioni e vissuti nel lavoro analitico




CAPITOLO 5
Emozioni, vissuti e difese



1. Emozioni

Il termine “emozione” merita un esame accurato perché compare in teorie diversissime con significati altrettanto diversi, mentre il termine “vissuto”, che in genere è utilizzato in modo abbastanza vago, in queste pagine è impiegato in un'accezione molto specifica. Vorrei quindi iniziare con qualche precisazione su come non tratterò l'argomento relativo alle emozioni.

Non osserviamo mai delle emozioni, ma solo delle persone che agiscono in modi che conveniamo di etichettare come emotivi; non è quindi il caso di discutere su "cosa siano" le emozioni, poiché esse non vanno intese come "oggetti dati" su cui riflettere, ma come il risultato di un nostro modo di considerare le azioni delle persone. Ai fini del presente lavoro risultano di scarsa importanza anche le varie classificazioni delle emozioni, così come le ricerche volte a distinguere le componenti biologiche e quelle culturali delle espressioni emotive.

Le costruzioni teoriche non servono a "rispecchiare" la realtà, ma ad affrontare un particolare problema relativo ad una certa fetta di realtà. Il nostro problema (ovvero il rapporto fra difese, emozioni e vissuti) richiede un concetto di emozione molto essenziale, che lasci spazio alle necessarie puntualizzazioni relative al rapporto fra emozioni e difese e fra emozioni e vissuti.
Nulla vieta che si propongano teorie in cui la componente cognitiva e quella espressiva dell'emozione vengono tenute distinte. Si può ad esempio affermare che "Da un lato, la valutazione cognitiva gioca un ruolo causale nell'insorgere di molte emozioni; dall'altro, queste ultime hanno un ruolo causale nel formarsi delle cognizioni" (Johnson-Laird e Oatley, 1988, p.119). In tal modo però nella teoria vanno specificate le relazioni causali fra componenti cognitive e non cognitive, collocate presumibilmente a livelli d'analisi diversi e comunque non al livello d'analisi della persona.

Per elaborare teoricamente i dati analitici nel modo più essenziale, senza presupposizioni metafisiche e con un riferimento costante alla persona, tratterò il concetto di emozione come un concetto teorico, collocato al livello d'analisi della persona e tale da riferire ad un'unica azione personale vari elementi osservativi relativi a piani diversi: quello introspettivo (cognizioni e sensazioni), quello fisiologico e quello comportamentale. Ciò appare ragionevole, se si tiene presente che le emozioni sono "esperienze complesse, le cui componenti cognitive di eccitazione, espressive e comportamentali non sono del tutto isolabili, bensì parti di un'intero, che contribuiscono a rendere l'intero ciò che esso è" (Calabi, 1996, p.277).

Una volta collocate le emozioni fra le azioni della persona e una volta accettata l'idea di poter identificare un'emozione in base alla presenza di costruzioni cognitive e/o di sensazioni, e/o di reazioni fisiologiche e/o di comportamenti manifesti, siamo solo all'inizio del cammino. Non abbiamo ancora chiarito quali azioni consideriamo come "emotive". Il problema potrebbe sembrare semplice, ma presenta notevoli difficoltà, se si esaminano i vari tentativi di definire le emozioni. Facilmente si cade in un circolo vizioso, come quello di definire uno "stato emotivo" come condizione dell'organismo in esperienze cariche di "tonalità affettive", per poi definire l'"esperienza affettiva" come "un'esperienza emotiva piacevole o spiacevole, debole o intensa" (Hilgard, 1953, Glossario). Il DSM-IV, nel Glossario dei termini tecnici definisce così il termine "affetto": "Modalità di comportamento rilevabile all'osservazione che è espressione di una condizione di sentimento soggettivamente sperimentata (emozione)..." (A.P.A., 1994, p.823). Il termine "sentimento" non è però incluso nel glossario.

Credo che potremmo inizialmente caratterizzare le emozioni come "reazioni" della persona, distinguendole così dalle intenzioni (che sono "pro-azioni" o "orient-azioni"). Sottolineo che stiamo parlando ancora in prima approssimazione. La persona non recepisce stimoli in modo passivo, ma elabora qualsiasi informazione sulla base dell'idea del mondo e di sé che si è fino a quel momento costruita. L'idea che le emozioni vengano "compiute" più che "possedute" (Schafer, 1976, p.357) oltre che ragionevole può anche risultare liberatoria, e almeno questo sembra essere l'idea di Bannister: "Io non mi considero più una vittima delle mie "emozioni". Esse possono tormentarmi, ma le accetto come parte essenziale di me, implicate in tutto ciò che ho pensato" (1977, p.35). Infatti, lo stesso squillo del telefono fa sentire il signor X incuriosito ed il signor Y disturbato. Chiaramente la ricezione degli stimoli è più passiva nella misura in cui gli stimoli sono poco importanti ed è più attiva e strutturante nella misura in cui gli stimoli sono importanti. Tuttavia la persona distingue anche l'importanza o non importanza degli stimoli in base all'idea del mondo e di sé che si è fatta.

Possiamo quindi considerare un’emozione come l'insieme delle azioni (o microazioni) che la persona fa (nella propria testa, nel proprio corpo e con il proprio corpo) recependo, elaborando, rispondendo ad una situazione (esterna o interna) e registrando anche le proprie reazioni. L'intenzione può invece essere considerata come ciò che la persona fa di sua iniziativa (nella propria testa, nel proprio corpo e col proprio corpo) nei confronti di un dato segmento di realtà. In altre parole, possiamo considerare come emozione l’azione con cui una persona "accoglie"(o “respinge”) una certa situazione e possiamo considerare come intenzione l’azione con cui una persona "aggredisce" una certa situazione. Emozione e intenzione quindi non sono due "dati" ma due modi di considerare la persona in azione. In fondo siamo noi ad affermare che X reagisce (emotivamente) con entusiasmo ad un'offerta di lavoro o che esprime la sua intenzione di impegnarsi nel lavoro proprio dimostrandosi interessato ad una particolare proposta. Le due espressioni non sono in conflitto perché non descrivono un oggetto (che quindi deve essere un'emozione oppure un'intenzione). La prima coglie un segmento di realtà ristretto in cui uno stimolo viene accolto da una persona in un certo istante; la seconda coglie un segmento di realtà più ampio in cui una persona si definisce e si orienta in una certa direzione per poi rispondere in un certo modo ad un particolare stimolo. Entrambe le formulazioni sono vere, anche se ognuna può essere più o meno utile a seconda di ciò che vogliamo capire.

Questa distinzione fra emozioni e intenzioni può sembrare poco chiara, ma voglio ricordare che se davvero evitiamo di trattare le emozioni e le intenzioni come "entità" o "oggetti", non ha senso voler precisare "dove finisce" un'emozione e "dove inizia" un'intenzione, così come si stabilisce che a metà della tal pagina finisce un paragrafo e ne inizia un'altro. Fra le mille microazioni in cui si sviluppa l'azione di rispondere ad una telefonata, possiamo (per dare un nostro ordine ai fatti) evidenziare una sottoclasse che riconduciamo al concetto di emozione (sorpresa, curiosità, diffidenza, ecc. relativa all'ascolto di qualche squillo) e possiamo evidenziare un'altra sottoclasse che riconduciamo al concetto di intenzione (di sapere, di non voler sapere, di impedire che scatti la segreteria,ecc.). Noi abbiamo dato un ordine ai fatti, ma nella "realtà" qualcuno ha udito un suono, ha costruito qualche fantasia, ha alzato un braccio ed ha afferrato il ricevitore e detto "Sì?". In senso stretto non ha nemmeno "risposto ad una chiamata".
Le emozioni sono spesso considerate uno "stato" della persona; però quello "stato", di fatto è un processo dinamico, è una risposta diffusa e personale ad una certa situazione, è una specifica forma di adattamento. Le emozioni, come le intenzioni non sono "stati" in senso stretto, ma sono un modo di descrivere ciò che la persona fa fra sé e sé (e quel che sente di ciò che fa) e ciò che la persona fa con le persone e con le cose. Altre volte le emozioni sono considerate pure esperienze soggettive, ma tale scelta è pericolosa perché operare una riduzione dell'emotività al piano soggettivo conduce facilmente a discussioni inconcludenti sulle "relazioni" (causali) fra fattori fisici ed emozioni o fra emozioni e comportamenti.

Prima di considerare l'obiezione che in questo modo tutto è troppo vago, voglio affermare che tutto ciò è davvero vago, perché la persona non fa mai nulla di semplice. Quando vogliamo capire meglio un'emozione dobbiamo specificare ciò che la persona fa, ma non dobbiamo in alcun modo circoscrivere il concetto di emozione, per non sprofondare nelle sabbie mobili delle definizioni circolari o nelle sabbie mobilissime del problema (filosofico) mente-corpo. La quasi-definizione da me proposta (o qualche sua riformulazione più adeguata) ha il pregio di non separare la persona dalle sue emozioni ed inoltre consente di sgombrare il terreno da questioni irrilevanti per il lavoro analitico consentendo una più limpida riflessione sul rapporto fra emozioni, vissuti e difese.

Il rigetto di una lettura causale dell'azione comporta una messa in discussione del concetto di motivazione (e di "pulsione") tanto impiegato in psicoanalisi ed in psicoterapia. Le teorie motivazionali, pur formulate in termini diversissimi, concordano nell'attribuire a qualche tipo di motivazione la capacità di "spingere" un individuo (o organismo o mente) che altrimenti starebbe fermo. Per Kelly, le spiegazioni motivazionali sono da considerare alternative a quelle scientifiche, perché vengono introdotte quando il ricercatore non riesce a dare una spiegazione razionale del comportamento; certe ipotetiche determinanti interne sembrano così spiegare comportamenti non ancora compresi razionalmente e ci rendono "vittime delle dinamiche psichiche" (1977, p.1 e p.16).
Non è molto sensato che io dica che ho appena svuotato il bicchiere di birra che avevo qui sul tavolo a causa della pulsione della sete. Di fatto ho prima finito la frase che stavo scrivendo, mentre se fossi stato al cinema probabilmente avrei aspettato fino all'intervallo. Dunque bevo perché tenendo conto di tante cose, fra cui la sensazione della sete, decido di bere, e non perché qualcosa (in me) mi fa bere. Quando dico che “qualcosa” (la sete) mi fa bere, sottolineo in base ad una semplicistica e gratuita lettura causale una delle ragioni per cui io ho scelto di agire.
Questo rigetto delle teorie della motivazione non è dogmatico né vuole offendere il senso comune. Spesso si usa il concetto di motivazione per sottolineare la presenza di uno stimolo rilevante per il comportamento. Nulla da obiettare a ciò. Gli stimoli "esistono" (frasi ascoltate, stati fisiologici, ecc.). Tuttavia ogni stimolo viene elaborato dalla persona così come essa si è definita fino a quel momento. Non è ragionevole sostenere che X ha picchiato Y perché questi lo aveva offeso o perché egli era ubriaco. I due stimoli sono indiscutibilmente rilevanti (a meno che X picchi sempre e comunque tutti). Però non causano niente. Non tutte le persone offese reagiscono con violenza, ma solo quelle persone che in quella circostanza intendono attuare quella azione, dopo aver elaborato in modo particolare vari stimoli, tra cui la frase offensiva. Se si trascura che le persone agiscono si finisce sempre per ipotizzare che qualcosa le faccia agire, magari una pulsione, un'offesa o un bicchierino di troppo.

Quando si trattano le emozioni come effetti di qualche "causa" interna si trascura inevitabilmente anche la componente cognitiva delle emozioni, la quale costituisce un aspetto fondamentale sia nella elaborazione della situazione data sia nella definizione della risposta emozionale. Se non sapessi che gli orsi possono essere pericolosi, saltellerei di gioia vedendo uno di quei bei batuffoloni di pelo in un bosco e gli correrei incontro. Senza una storia di esperienze vissute e di valutazioni di tali esperienze, nulla di quel che "sentiamo" sarebbe comprensibile.
La dovuta attenzione agli aspetti cognitivi delle emozioni ci libera anche dalla perversa dicotomia fra ragione ed emozione. Quando si dice che una persona è "emotiva" e che un’altra è "razionale" si dice una stupidaggine poiché tutti siamo emotivi e tutti siamo (in qualche misura) razionali. Se si vuol parlare di persone più o meno orientate a manifestare emozioni, si resta peraltro molto in superficie, dato che non si distingue fra le persone "emotive" che manifestano un’emotività genuina ed altre che manifestano una emotività tanto rumorosa quanto fasulla. Lo stesso dicasi per la definizione di persone "razionali". O con essa si intende semplicemente che una persona è normalmente intelligente, oppure si intende che è una persona molto controllata, gelida, impassibile. In questo caso, però, la "ragione" non c’entra nulla, poiché tali comportamenti sono altamente emozionali anche se in senso difensivo, e sono anche … irrazionali. Per questo risulta più che condivisibile l’osservazione di Bannister, secondo cui la tradizionale contrapposizione in psicologia di ragione ed emozioni "ha impedito un'elaborazione adeguata del concetto di persona (...) Se avessimo considerato la persona anziché la coppia di omuncoli costituita dalla ragione e dall'emozione, avremmo potuto vedere l'uomo come un agente attivo piuttosto che come il passivo oggetto delle influenze ambientali o di incontrollabili forze interne" (1977, pp.24-25).


2. Vissuti

Molte teorie dello sviluppo psicologico infantile (compreso quello neonatale) si collocano a mio avviso tra gli aspetti più sconcertanti della psicoanalisi e della psicoterapia. Ho sempre avuto molte riserve sulla ragionevolezza di tante speculazioni fatte "su basi cliniche", e mi conforta quindi che anche autorevoli studiosi e psicoanalisti abbiano espresso delle dure obiezioni ad alcune di tali "ricostruzioni". E' d'obbligo a questo proposito un richiamo alle osservazioni di Emanuel Peterfreund, il quale ha criticato le varie concezioni "adultomorfiche" della maturazione psicologica del bambino basate su concetti discutibili come il narcisismo primario, l'onnipotenza infantile, la "normale" fase autistica e quella simbiotica, la posizione schizoparanoide e quella depressiva, e cosi` via. Rispetto alla questione delle modalità dell'esperienza nella prima infanzia, Peterfreund ha affermato che le risposte che la psicoanalisi ha preteso di dare "non sono affatto delle risposte" (1978, p.431) dato che le caratterizzazioni dell'infanzia sono offerte dalla psicoanalisi nel quadro di riferimento del mondo degli adulti.

Al di là di ciò, va comunque sottolineata la relativa indipendenza del lavoro analitico dalla psicologia dell’età evolutiva. Infatti, le conoscenze più solide relative alla vita interiore dei bambini sono indispensabili per l'analista, ma non costituiscono il completo quadro di riferimento per i problemi che egli deve formulare e risolvere, che sono essenzialmente due: "perché un cliente manifesta certi disturbi?" e "cosa può aiutarlo a cambiare?". Molte teorie dello sviluppo infantile sono così fuse con le teorie dell'analisi semplicemente perché si presuppone che le cause dei disturbi attuali stiano in qualche aspetto del passato, e che il chiarimento di tali aspetti possa causare la "guarigione". Tutta questa impostazione teorica e clinica esclude qualsiasi possibilità di concepire i disturbi come risultati di processi intenzionali e di concepire il cambiamento come una ridecisione consapevole relativa al proprio rapporto con gli altri ed al proprio progetto di vita.

Il concetto di vissuto è un concetto fondamentale per una teoria dell'analisi poiché le difese riguardano situazioni presenti solo nella misura in cui queste rinviano a esperienze passate non integrate. Cercherò ora di riassumere il mio punto di vista sui vissuti.
a) Nell'infanzia le emozioni valutate come intollerabili, sono state evitate con l'attivazione di specifiche modalità difensive, cioè quelle che a parità di efficacia erano meno limitanti o controproducenti; tutto questo riguarda il passato e non determina nulla nel presente.
b) Nel presente si ha però la possibilità di "recuperare" situazioni passate in circostanze simili e si ha la possibilità di sentire il dolore associato ad esse. Si parla di vissuti quando nel presente si realizza un "ricordo sentito" di situazioni antiche non integrate.
c) Difese, sintomi, comportamenti irrazionali e distruttivi non sono causati da eventi del passato ma sono intenzionalmente attivati nel presente per evitare di entrare in contatto con vissuti dolorosi non integrati e quindi temuti. Indipendentemente dalla concezione dello sviluppo infantile adottata, un analista deve prima o poi fare i conti con dei vissuti estremamente penosi che il cliente continua ad evitare. Al di là delle spiegazioni o delle speculazioni sulla vita infantile, di fatto affiorano in analisi dei vissuti dolorosi. Il problema essenziale dell'analista è quello di aiutare i clienti ad elaborare i loro vissuti rinunciando alle operazioni difensive divenute superflue.
d) Le valutazioni (cognitive) di un'emozione (ad es. "non posso tollerare il dolore che provo quando mia madre non mi risponde") risultano "incollate" all'emozione come un'etichetta ad un pacco; se un adulto quindi "recupera" una "vecchia emozione" nel senso che “recupera” il vissuto di una vecchia situazione, ritrova anche la valutazione cognitiva di allora; come maneggeremmo con cautela un pacco con l'etichetta "fragile", anche se è già stato svuotato e riempito con degli abiti, così, attivando un vissuto, riattiviamo anche una vecchia valutazione cognitiva; l'intellettuale che teme di parlare in pubblico è presumibilmente alle prese con un vissuto di rifiuto più che con la possibilità di attuali manifestazioni di dissenso da parte dei colleghi, e valuta l'insostenibilità del rifiuto col cuore di un bambino, non con quello di un adulto.
e) Le difese intenzionalmente agite nel presente sono fondamentalmente quelle agite nel passato, perché le difese sono anche delle competenze e su questo terreno gli adulti sanno ciò che hanno imparato da piccoli. Chi "sa fare ad arrabbiarsi per scollegarsi da un dolore, in genere non riesce a svenire o a confondersi per raggiungere lo stesso scopo.
f) Le difese, non sono né necessarie, né automatiche, perché non sono causate da nulla. Sono agite nel presente perché nel presente la persona teme un vissuto classificato come intollerabile finché non verifica che dopo dieci, venti o quarant'anni esso è diventato tollerabile, anche se penoso.
g) Le difese quindi possono essere abbandonate quando si sono realizzate tre condizioni (delle quali due sono cognitive ed una è esperienziale): 1) quando la persona ha capito che agisce attivando delle difese, ovvero quando non crede più che le "capitino" certe cose o che "non riesca" a fare certe cose; 2) quando si confronta con un vissuto senza difendersi, verificando di sentire tristezza, impotenza, dolore, smarrimento, disperazione, ma verificando anche di non essere in pericolo come temeva; 3) quando, dopo aver ripetuto più volte l'esperienza, "cambia l'etichetta", cioè annulla la valutazione precedente ("intollerabile") e formula la nuova valutazione ("esperienza penosa ma tollerabile") che tiene conto dell'esperienza fatta con le nuove risorse di persona adulta.
h) Il lavoro analitico consente di capire e di sentire che determinate azioni difensive sono nel presente del tutto superflue. Circostanze del tutto nuove possono però risultare molto dolorose oppure possono riattivare vissuti più intensi di quelli già elaborati. Anche la persona che ha in qualche misura accettato dei vissuti dolorosi rischia quindi di agire nuovamente in termini difensivi, a meno che non abbia accettato la dimensione del dolore come una dimensione costitutiva di tutta la sua esistenza. Il passaggio dal piano "clinico" a quello "esistenziale" è quello che garantisce il mantenimento incondizionato di un atteggiamento adulto, razionale ed emotivamente limpido e profondo in qualsiasi circostanza.

Dopo aver suggerito in questi punti una specie di "definizione contestuale" del concetto di vissuto, vorrei approfondire tre temi che sono solo stati sfiorati:
A) il cosiddetto "etichettamento" (o valutazione di una esperienza emotiva);
B) la concezione non "cosale" dei vissuti;
C) l'idea secondo cui le difese non riguardano né il presente né il passato, ma la rivisitazione cognitivamente inadeguata ("datata") del passato nel presente.

A) Etichettamento. L'emozione è un'azione che include fin dall'inizio delle valutazioni cognitive; parlando di "etichettamento", però, mi riferisco ad una valutazione successiva all'esperienza emotiva. Tale etichettamento va inteso come un processo cognitivo che "classifica" un'emozione, che si realizza al di sotto della consapevolezza e che risulta "definitivo". Quando consapevolmente valutiamo un'esperienza possiamo anche stabilire, come per i prodotti alimentari, una scadenza; ad es. "sono stanco di studiare" non implica che non aprirò mai più un libro, ma che sospenderò la lettura per mezz'ora o per il resto della giornata. Le operazioni di etichettamento, che nell'infanzia classificano determinate esperienze emotive come ingestibili, invece, sono inconsce e definitive. Se non si "riapre il caso", come in un percorso analitico, la classificazione resta valida finché la persona vive. Gian Vittorio Caprara formula un'ipotesi del tutto compatibile con quella appena sviluppata: "Non solo mi pare plausibile riconoscere alle precoci esperienze emotive una qualche valenza cognitiva in termini di intelligenza sensomotoria, ma mi pare anche plausibile riconoscere alle prime esperienze che si accompagnano alla soddisfazione e alla frustrazione ... una funzione di "appoggio" per il costituirsi delle strutture cognitive che successivamente verranno a modulare le varie manifestazioni emotive" (1988, p.281). Molti clienti hanno il terrore di piangere ed evitano costantemente di riattivare vissuti dolorosi per i quali si scioglierebbero in lacrime. Fanno esperienze che potrebbero invalidare la loro convinzione di non poter gestire certe situazioni (ad esempio osservando che altre persone piangono e sopravvivono), ma non modificano la loro convinzione perché non sono consapevoli di avere tale convinzione.
Qualsiasi concezione dei vissuti come puro "ricordo emotivamente significativo" è inutilizzabile nel lavoro analitico perché molti ricordi del genere sono stati integrati. E' la valutazione cognitiva dei vissuti come intollerabili a rendere certi vissuti attualmente delle occasioni per un'azione difensiva: "si deve parlare del vissuto come dell'azione che una persona compie nel rivedere altre azioni da lei stessa compiute in vari modi; fra queste azioni passate in rassegna vi sono le spiegazioni sviluppate in precedenza di ciò che si è fatto e degli eventi che si sono affrontati. Il vissuto è sempre mediato dall'interpretazione personale" (Schafer, 1983, pp.94-95).
Le difese non vengono agite in continuazione. La persona che evita un vissuto di non considerazione assumendo un atteggiamento di arroganza, probabilmente è normalmente molto gentile e solo quando riceve una critica reagisce in modo aggressivo. Ovvero, appena registra un'esperienza attuale come esperienza di non considerazione, fa un una sorta di veloce (e inconscio) controllo sull'argomento in questione e trova un rinvio alla classificazione fatta venti o cinquant’anni prima. Possiamo quindi precisare che un "vissuto non integrato" non va inteso come un semplice ricordo, ma come un ricordo emotivamente significativo caratterizzato da una valutazione cognitiva che classifica come intollerabile l'emozione in questione e che attiva un'operazione difensiva.

B) Concezione non "cosale" dei vissuti. R.Schafer respinge l'idea che "le emozioni possano essere accumulate e conservate. Non possono esserci "vecchi sentimenti". Le emozioni, intese come azioni e modalità di azioni possono essere manifestate solo in un contesto attuale (...) qualcuno potrebbe credere di descrivere un semplice stato di cose dicendo "Mi sono ricollegato con un vecchio sentimento", o "Quel vecchio sentimento è riaffiorato" o qualcosa del genere. Al contrario, nel linguaggio dell'azione dovremmo dire: "Sto pensando ad una vecchia situazione agendo più o meno negli stessi modi emotivi che ricordo di aver attivato in passato" (...) è la situazione non l'emozione ad essere vecchia" (1976, pp.313-314).
Questa osservazione è importante perché qualsiasi "affioramento di vissuti" non va inteso come un evento che accade "nella" persona e di cui la persona è vittima. Noi siamo "perseguitati" dai vissuti non integrati semplicemente perché attualmente manteniamo l'intenzione di non affrontare certe situazioni. Ciò va sottolineato poiché a volte, nella comunicazione con i clienti, non è agevole rispettare i canoni di una formulazione teoricamente corretta. Come a volte si dice "quando ti è venuto il mal di testa?" pur sapendo che il mal di testa non è una cosa che va e viene come le mosche, così può essere utile in una seduta esprimersi in questi termini: "se ti sei arrabbiato, c'era un vissuto che stava affiorando; torna mentalmente in quella situazione e descrivi come ti sei sentito un attimo prima di urlare con il tuo collega". Lo stesso Schafer ammette che a volte lui stesso trasgredisce le regole del suo Action Language per semplificare una formulazione (1983,p.148).

C) Passato e presente. E' errato dire che il conferenziere timido ha un problema "attuale" con l'uditorio ed è errato dire che è timido "a causa" del suo passato. Purtroppo spesso in psicoterapia i teorici del "qui ed ora" colgono bene l'infondatezza dell'idea che un'esperienza trascorsa da decenni abbia un effetto causale sul presente, ma tendono a confondere ciò che nel presente va inteso come emozione e ciò che va inteso come vissuto. I teorici del lavoro sul passato, d'altra parte colgono bene l'infondatezza dell'idea che i problemi dei loro clienti siano semplicemente "attuali", però tendono a "scavare" nel passato trascurando il lavoro di rielaborazione attuale dei vissuti non integrati.

In analisi è molto importante il lavoro sui vissuti. Non per fare inutili "abreazioni" o "scaricare energie represse", ma per verificare con le risorse attuali che le esperienze non elaborate possono oggi essere accettate ed integrate. Accettare un'esperienza del passato sperimentandola in tutta la sua intensità emotiva conduce sia ad una rivalutazione cognitiva (nuova "etichetta") sia ad una esatta "collocazione" dell'esperienza stessa: il cliente cioè capisce che quell'esperienza terribile di solitudine va collocata tra le esperienze dell'infanzia e non fra quelle attuali o future. Nessuna esperienza adulta di solitudine è insostenibile.
A questo proposito vorrei discutere una considerazione di Kernberg che tocca un punto abbastanza delicato del lavoro sui vissuti fin qui delineato. Egli sottolinea che in certi casi i vissuti possono anche non riguardare reali interazioni del passato "Il mio modo di affrontare l'interazione psicoterapeutica si discosta notevolmente da un modello semplicistico che, sulla base di un rapporto a due, metta in relazione le interazioni attuali del paziente con le interazioni del passato. Nell'organizzazione della personalità al limite l'interazione in atto esprime strutture intrapsichiche patologiche che riflettono tipi primitivi di interazione di natura fantastica, sia nel senso che sono irreali, emotivamente minacciosi e misteriosi, sia nel senso che manifestano una relazione con un oggetto frammentato e distorto, solo indirettamente in rapporto con le reali relazioni patogene del passato (1984, p.161). E' sicuramente ragionevole ritenere che un bambino piccolo sovrapponga aspetti elaborati in forme rudimentali di pensiero alle sue effettive esperienze. Tuttavia, pur tenendo conto di questo margine di deformazione, nel lavoro con i miei clienti ho sempre potuto verificare che i vissuti affrontati in analisi erano sostanzialmente realistici. I clienti che hanno vissuti di svalutazione osservano atteggiamenti attuali di intransigenza e di disprezzo nei genitori, così come quelli che hanno vissuti di "vuoto", di "non rispecchiamento", di irrilevanza, notano nel genitore in questione atteggiamenti egocentrici, tendenze a dare per scontati bisogni e sentimenti altrui, scarsa empatia. Per questa ragione trovo tutt'altro che semplicistico considerare i vissuti come qualcosa di relativo a fatti reali, anche ammettendo che non possano essere una semplice "fotocopia" della realtà.

I bambini scelgono la fuga dal contatto non perché sono anormali, ma perché sono normalmente troppo fragili per affrontare le sofferenze a cui il rapporto con le figure genitoriali li espone. Ciò vale in certa misura anche nel rapporto con genitori non troppo disturbati psicologicamente, dato l'estremo bisogno di contatto dei bambini e la loro difficoltà a gestire anche frustrazioni relativamente modeste. Tuttavia, i disturbi più gravi rinviano in genere a modalità nettamente inadeguate di comunicazione e di contatto tra genitori e figli.


3. Emozioni e strategia difensiva

Vorrei fornire una definizione almeno approssimativa di alcuni concetti che ritengo fondamentali per il lavoro analitico sulle difese: emozione difensiva, pseudoemozione, emozione strumentale ed emozione inventata. Le pseudoemozioni, le emozioni strumentali e quelle inventate sono comunque da intendere come emozioni difensive.
Non intendo proporre una specie di classificazione generale, perché si potrebbero identificare altre sottoclassi nella classe delle emozioni difensive; voglio piuttosto sottolineare il ruolo di alcune artificiose manifestazioni emotive nei disturbi psicologici. Se concepiamo le emozioni come azioni possiamo capire che esse possono essere o autenticamente espressive oppure difensive.

Questa distinzione può risultare preoccupante per alcuni e far sospettare che in questo modo conduca a qualche filosofia "normalizzante" relativa alle "autentiche" espressioni della "vera natura" dell'uomo. Niente sarebbe meno ragionevole del tentativo (peraltro da altri fatto) di stabilire cosa possa essere "autentico" in assoluto o quale possa essere la "vera natura" dell'uomo. Utilizzando questi termini mi propongo semplicemente di distinguere fra le emozioni difensive e … le altre. Considero quindi "autentiche" o "espressive" (non avendo trovato termini migliori) le emozioni che non possono essere ragionevolmente ritenute difensive.

Le osservazioni che seguono hanno solide radici nel lavoro di alcuni autori che concepiscono il lavoro analitico in una prospettiva intenzionale. Voglio ricordare il principio psicoanalitico classico secondo cui un’emozione può essere usata come difesa rispetto ad un'altra emozione, ma soprattutto i più recenti approfondimenti di Schafer sull’uso difensivo delle emozioni (1976, pp.323-324). Meno utilizzabile risulta invece il concetto reichiano di "emozione secondaria", perché rigidamente collocato nella concezione dei "tre strati" e più in generale in una visione biologistica delle emozioni. Sono particolarmente preziose le considerazioni fatte da Berne (1972, pp.123-125) sui "sentimenti parassiti" o sul "racket", che costituiscono l'esito tipico di certi "giochi". Anche nell'ambito della psicoterapia cognitiva si è affrontato il problema della funzione difensiva delle emozioni: Safran e Segal distinguono fra emozioni "primarie", "reattive" e "strumentali" (1990, pp.103-104).

L'esempio più facile con cui presentare le emozioni difensive è probabilmente costituito dal disprezzo (dimostrato o solo sentito) nei confronti di una persona che ci critica per un nostro errore. Il disprezzo, ribaltando la situazione interpersonale anestetizza il soggetto rispetto al dispiacere. Gli esempi si possono moltiplicare ma per ora vorrei accennare a tre particolari sottoclassi (non reciprocamente esclusive) della classe delle emozioni difensive: le pseudoemozioni, le emozioni strumentali e le emozioni inventate.

a) Con il termine pseudoemozioni mi riferisco ad azioni emotivamente significative che però non sono vere e proprie emozioni perché vengono costruite fondendo, distorcendo, sommando ed esasperando aspetti della complessiva "capacità emozionale" individuale. A differenza delle emozioni "autentiche" esse non superano il test della razionalità (cioè non sono comprensibili) e non sollecitano genuine risposte empatiche, ma solo perplessità, fastidio oppure reazioni collusive altrettanto irrazionali. Se una persona è triste perché sta affrontando una perdita (di qualsiasi tipo), siamo in grado di capire perfettamente il suo stato d'animo e ci sentiamo in grado di rispondere con calore, compassione, disponibilità e possiamo anche rattristarci. Se una persona invece, nella stessa situazione, si lamenta vittimisticamente, si tormenta con sensi di colpa, si deprime dichiarandosi inadeguata, sentiamo una indisponibilità "di pelle" sia a confermare le manifestazioni emozionali in questione, sia a "consolare" o "rassicurare" la persona. Solo per mancanza di contatto e per un'intenzione inconscia di colludere con la persona partecipando ad un "gioco", possiamo "abboccare" alla manovra difensiva della persona.

b) Con il termine emozioni strumentali indico delle emozioni che non vengono attivate né come risposta autentica né come risposta immediatamente difensiva, ma come semplice "punto d'appoggio" per un'ulteriore azione difensiva. Se ad esempio una persona teme (inconsciamente) un coinvolgimento sentimentale può attivare molti tipi di difesa (provocazioni, distacco, ecc.), ma se sceglie di rendersi meno dipendente costruendo un altra relazione parallela, deve in qualche misura "innamorarsi" di un'altra persona. Questa persona, magari interessantissima ed affascinante, non sarebbe comunque stata presa in considerazione in altre circostanze. Allora diciamo che in questo caso l'innamoramento nei confronti della seconda persona è strumentale rispetto alla difesa dal coinvolgimento profondo con la prima.

c) Con il termine emozioni inventate mi riferisco ad emozioni non ragionevolmente commisurate ad una situazione, ma "gonfiate", ottenute "spremendo" piccole sensazioni e lavorando di fantasia. Possiamo indignarci per qualche piccolo contrattempo solo per non apparire "troppo accomodanti", o commuoverci per pura accondiscendenza verso chi potrebbe giudicarci insensibili.

Voglio ricordare che i concetti di pseudoemozione, emozione strumentale ed inventata, sono delle semplici chiavi interpretative delle manifestazioni emozionali. Non vanno intese come una classificazione di "entità emotive". A differenza del botanico che classifica un fiore come margherita ed un altro come tulipano, e che non trova mai una margherita "interpretabile" come tulipano secondo un certo punto di vista, noi possiamo interpretare una emozione che "non ci convince" come pseudoemozione, ma anche come emozione strumentale o come emozione inventata. I tre termini sottolineano infatti certi aspetti significativi di una emozione difensiva.

Certe emozioni sono assolutamente irrilevanti per il lavoro analitico (ad es. sentirsi perplessi in una situazione non chiara o sentirsi annoiati ad una cena con persone non simpatiche). E' diverso il caso delle emozioni "complesse" (difensive o non difensive), come ad es. l'invidia, l'orgoglio, il rimpianto, ecc.; sicuramente in esse l'elemento cognitivo gioca un ruolo maggiore, ma oltre a ciò si può dire che in esse convergono e si fondono varie emozioni più semplici; quando le emozioni complesse vanno analizzate, devono essere scomposte accuratamente nei loro aspetti costitutivi se si vuole avere un'idea chiara del loro contributo ad una manovra difensiva. Ad esempio, la gelosia ha sempre una componente di ostilità, ma in certi casi la gelosia si connette ad un'immagine grandiosa di sé, e quindi è attivata per evitare un "ridimensionamento" di tale immagine, mentre in altri casi può connettersi ad una posizione vittimistica che la persona tende sempre ad assumere. Non voglio andare oltre in un discorso che sarebbe troppo lungo e comunque incompleto. Credo però che le considerazioni che farò sulle emozioni più rilevanti per il lavoro analitico, saranno di aiuto anche per il lavoro sulle varie emozioni "complesse".

Credo che le emozioni siano non solo numerose, ma davvero tante quanti sono gli istanti delle vite di tutte le persone. Per questo non trovo utili gli “elenchi” di emozioni riportato in vari testi di psicologia. Anche ammettendo di poter "raggruppare" ragionevolmente le emozioni, credo che per un analista non sia utile avere un'idea di quale sarebbe l'elenco più completo, ma sia indispensabile avere una comprensione profonda di alcune emozioni (autentiche e difensive) che osserva quotidianamente. Alcune emozioni difensive (con sfumature diverse e con manifestazioni più o meno gravi) sono molto frequenti e meritano qualche osservazione.

A) Senso di colpa.
Credo sia indispensabile fare una netta distinzione fra senso di colpa e consapevolezza di una colpa. Anche se si possono utilizzare termini diversi (sui quali basta intendersi), occorre comunque indicare in due modi diversi due stati d’animo radicalmente opposti. La persona che volontariamente o non volontariamente, consapevolmente o inconsapevolmente, ha danneggiato qualcuno e riconosce la sua colpa (o responsabilità), prova dolore per la persona danneggiata. Parlo di dolore nel senso di "dolore e nient'altro". Il dolore riguarda qualsiasi perdita, sia una perdita che abbiamo subito, sia una perdita che per un nostro errore qualcun altro ha subito. Come per ogni altro tipo di dolore, ciò che sentiamo ed esprimiamo col pianto quando siamo consapevoli di un nostro errore, è il contatto con una perdita irrimediabile, che comunque fa parte della nostra vita. Col tempo fa meno male. Anche il perdono da parte delle persone offese aiuta. In ogni caso, quel dolore costituisce un passaggio che nessun percorso analitico può alterare. E' semplicemente un fatto della vita.
Il senso di colpa, invece è sempre e comunque una difesa, è sempre e comunque irrazionale ed è irrilevante sia per la persona che si affligge che per la persona eventualmente danneggiata.

Il senso di colpa protegge dal dolore in vari modi e nel lavoro analitico è importante collocare con precisione questo stato d'animo nella particolare struttura difensiva della persona. I vantaggi ricavati dall'operazione difensiva consistente nel ritenersi e sentirsi colpevoli sono illusori.

Una delle principali componenti del senso di colpa è un particolare dialogo interno. E' importante che in analisi il cliente diventi consapevole di quel che si dice, perché in genere "nella testa" ci diciamo delle stupidaggini più grossolane di quelle che oseremmo proferire ad alta voce. Spesso il dialogo interno ricalca un dialogo esterno storicamente significativo, ovvero include un insieme di accuse, pretese e svalutazioni che la madre (o il padre) formulava nei riguardi del bambino. Il fatto che il destinatario dei messaggi fosse un bambino con un forte senso di dipendenza da chi pronunciava quelle sciocchezze, scoraggiava una valutazione critica del messaggio. Spesso i bambini devono scegliere fra sentirsi colpevoli e "in compagnia" di un genitore che "li capisce" oppure innocenti ed in balia di un genitore che non ha contatto.

In altri casi il senso di colpa serve a mantenere un'immagine di sé onnipotente. Avere delle colpe significa avere un potere. Io sono a priori libero da qualsiasi colpa per la disoccupazione in Italia, mentre molti ministri che si sono impegnati nei vari governi degli ultimi cinquant'anni possono anche avere delle responsabilità o delle colpe. Avere una colpa implica che si aveva la possibilità di agire meglio, determinando così un altro corso degli eventi. La classica esclamazione, magari accompagnata da un pianto fasullo, del tipo " Mia moglie non mi avrebbe lasciato se non l'avessi tradita" serve esattamente a non elaborare il dolore di un rapporto finito. Magari bastasse essere fedeli per non essere lasciati! Sentirsi colpevoli in una situazione del genere significa salvare l'idea che siamo stati noi la causa di un fatto doloroso e che quindi non abbiamo "subito" nessun abbandono (e che potremo anche essere al sicuro in futuro se agiremo in un altro modo). Il senso di colpa riduce il contatto con la fragilità, con l'impossibilità di determinare certe situazioni e con molte altre cose dolorose che fanno parte della vita umana.

Ci si può anche sentire in colpa per ottenere (pseudo)affetto sotto forma di interventi consolatori, sostegno, comprensione, o per altri motivi. In ogni caso, quando si nota un senso di colpa è importante cercare altrove il vero problema, anzi, il vero dolore.

B) Depressione.
Innanzitutto va precisato che parlando di depressione non parliamo di un'emozione, ma (sempre e comunque) di un disturbo emotivo, ovvero di un uso difensivo di un insieme di azioni emotive irrazionali, unificate esclusivamente dall'intenzione di evitare un confronto con situazioni e vissuti dolorosi percepiti come intollerabili. E' difficile parlare di ruolo difensivo della depressione rispetto al dolore, data la indiscutibile e a volte davvero terribile sofferenza che caratterizza la depressione. Eppure occorre affermare che la sofferenza della depressione è una sofferenza prodotta per evitare un dolore che nell'infanzia era stato considerato assolutamente ingestibile. Quando in analisi i clienti cominciano a sperimentare emozioni dolorose relative a ricordi o sensazioni di abbandono, di rifiuto, di impotenza, afferrano immediatamente e riescono a spiegare che fra questo tipo di dolore e la "cappa" di sofferenza tipica della depressione c'è una differenza ben precisa. Quindi non voglio in alcun modo minimizzare il disagio di chi attraversa un periodo di depressione, ma sottolineare una distinzione da cui dipende la possibilità di orientare costruttivamente il lavoro analitico.

Si riconosce sempre che la tristezza ed un disturbo depressivo sono cose diverse, però molti studiosi non riconoscono l’essenziale opposizione esistente fra i due concetti. In Lutto e melanconia (uno dei cinque saggi che compongono la raccolta Metapsicologia, pubblicato solo nel 1917), Freud individua alcune differenze fra il lavoro del lutto, inteso come la normale "reazione alla perdita di una persona amata o di un'astrazione che ne ha preso il posto" e la melanconia (1915-1917, pp.102-103). Nella melanconia (che oggi preferiamo chiamare depressione) Freud include componenti estranee all'esperienza del lutto, tra le quali "l'avvilimento del sentimento di sé", la presenza dell'odio e così via. Tuttavia la ridefinizione tipicamente freudiana dei processi intenzionali inconsci in termini di vicende libidiche ("investimenti", "regressioni" ecc.), rende piuttosto macchinose le spiegazioni. La tesi secondo cui gli autorimproveri sono rimproveri distolti dall'oggetto e riversati sull'Io coglie sicuramente qualche aspetto della depressione, ma solo nei limiti consentiti da una brutta metafora idraulica.
In un quadro teorico completamente diverso, Giovanni Cassano, pur distinguendo fra il lavoro del lutto e la depressione, accenna ad una tristezza "fisiologica" e ad una tristezza "patologica", ed afferma che nel lutto si hanno manifestazioni "identiche" alla depressione, ecc. (Cassano-Zoli, 1993, pp.51-53). In questo modo, non viene evidenziata la contrapposizione basilare fra due fenomeni che non sono diversi solo per la gravità delle manifestazioni, ma per il ruolo da essi giocato nell'esperienza di vita della persona: il dolore è una risposta ad una realtà spiacevole con cui ci si misura, mentre la depressione rappresenta un tentativo di scollegarsi con una realtà ritenuta intollerabile. Cercherò quindi di chiarire perché sia così importante affermare che i due concetti in questione delimitano classi diverse e reciprocamente esclusive di fenomeni.

Nelle definizioni psichiatriche, la depressione (o qualsiasi tipo di disturbo depressivo) comporta un "abbassamento" del tono dell'umore, un’alterazione o riduzione o focalizzazione dei processi ideativi e una limitazione della disponibilità ad agire che può presentarsi come rallentamento psicomotorio.
Ai fini del presente lavoro non occorrono specificazioni sulle varie manifestazioni cliniche della depressione, e non trovo utile una discussione delle basi costituzionali della depressione (almeno per quanto riguarda i disturbi depressivi più gravi). Particolari condizioni delle strutture e dei meccanismi neurobiologici possono favorire sia una particolare vulnerabilità rispetto alle esperienze dolorose (tra cui sono fondamentali quelle della primissima infanzia che producono terribili vissuti non integrati), sia una predisposizione a reagire difensivamente in certe direzioni. E' fuori discussione la validità di terapie farmacologiche nei casi più gravi, ma è anche fuori discussione che le forme più gravi di depressione trattate farmacologicamente richiedono in genere che il trattamento sia completato da un lavoro psicoterapeutico.

Al di là di tutto ciò, è il caso di ricordare che sia nella più lieve reazione depressiva, sia nella più grave crisi depressiva, la persona si contrae, si ritrae, agisce in modalità apparentemente passive per non integrare delle esperienze o dei vissuti di perdita, di solitudine e di tristezza. Questo è il punto che cercherò di sviluppare e che credo meriti di essere approfondito, proprio perché considerare la depressione come una forma "eccessiva" di tristezza o una variante patologica della tristezza comporta delle gravi confusioni concettuali e delle ovvie difficoltà nel lavoro analitico. Analoghe considerazioni valgono anche per altre azioni difensive. La gelosia di una persona nevrotica e di un paranoico sono cose molto diverse, però in nessuno dei due casi confondiamo la gelosia con "l'essere affezionati a qualcuno". Trovo quindi condivisibile la netta posizione presa da De Silvestri sull'argomento: "Nemmeno un profondissimo dolore equivale ad una leggera depressione" (1981, p.64). Arieti sottolinea la funzione difensiva della depressione: " Ho avanzato l'ipotesi che la depressione intensa abbia (tra le altre) la medesima funzione della rimozione in altri stati psichiatrici" (Arieti-Bemporad, 1978, p.152). L 'autore sottolinea anche la funzione alternativa della depressione rispetto al lavoro del lutto: "Mentre il dolore e la tristezza sono appropriati, consoni alla situazione e perfino adattivi, la depressione è inappropriata e disadattiva" (Arieti-Bemporad, 1978, pp.251-252).

Se consideriamo la tristezza come un'azione emotiva con cui la persona reagisce ad una perdita, accettandola come aspetto doloroso della propria esistenza, e se consideriamo il "lutto" o il "lavoro del lutto" (in senso ampio e non solo in relazione alla morte di qualcuno) come il processo di elaborazione del dolore e di riorganizzazione cognitiva che porta ad una accettazione della perdita, dobbiamo riconoscere che nella depressione sono assenti sia l'emozione della tristezza, sia il lavoro del lutto, mentre sono presenti manifestazioni affettive e attività cognitive sempre assenti nella tristezza e nel lutto (senso di colpa, ansia, svalutazione della propria persona e della vita in generale, ecc.). Ovviamente il dolore c'è. Nessuno è depresso "per niente". Però bisogna stare molto attenti a non fare confusione fra la spiacevolezza della condizione (limitativa o devastante) della depressione ed il dolore della perdita. Empatizzare con il cliente depresso per la sua "tristezza" impedisce di fargli affrontare ed integrare il dolore. Quando un cliente parla di tristezza raccontandomi che è stato a letto tutto il giorno, ha mancato ad un appuntamento senza avvisare, non ha mangiato, ed ha rimuginato sul fatto che tutto era troppo difficile, prima di fare qualsiasi cosa stabilisco che per quel tipo di umore si devono utilizzare espressioni come "ero depresso" o "stavo male", o "detestavo la mia vita" e non si deve parlare né di dolore né di tristezza. La risposta agli interventi analitici cambia con il livello di gravità della depressione: in personalità nevrotiche, la depressione è una delle cose più facili da trattare, mentre in personalità borderline il lavoro analitico è molto più difficile.

La persona depressa o non piange oppure ha "crisi di pianto"; inoltre non chiede e non accetta alcuna frustrazione perché scivola subito nel senso di colpa (ovvero nell'onnipotenza colpevole) e nell'accusa (introflessa); non aggredisce la realtà perché pretende che la realtà cambi e non empatizza con nessuno perché è impegnata nella negazione di un suo vissuto terribile. In altre parole la persona depressa non si confronta mai con una situazione di bisogno e di frustrazione. Qualsiasi successo nel facilitare un confronto anche limitato con una dolorosa mancanza, si traduce immediatamente in una migliore valutazione di sé, ed in un aumento della capacità empatica. Il raggiungimento di una accettazione della tristezza come componente ineliminabile dell'esistenza, costituisce la miglior garanzia rispetto ad eventuali ricadute. Spesso dico ai miei clienti che facciamo analisi non per immunizzarci dal dolore, ma dalla paura del dolore.
Si "convive" col dolore riconoscendo che in qualche misura ci tocca in ogni momento e che a volte può travolgerci, senza però mai impedirci di essere noi stessi e di sentire il valore della nostra esistenza, quali che siano le circostanze date. Ogni dolore è irrimediabile. Se cambiano le circostanze, a distanza di mesi, anni, decenni, le pene sentite diventano ricordi, ma comunque ricordi penosi. Solo l'intensità del dolore, col tempo si affievolisce e la persona, se attraversa un adeguato periodo di lutto, ritrova prima o poi la serenità ed anche la capacità di cercare e apprezzare nuove esperienze piacevoli. "Non è il passare del tempo che guarisce, ma il riordinamento delle idee, che però richiede un notevole periodo di tempo" (Arieti-Bemporad, 1978, p.146).

Quando il cliente entra in una fase di "lutto" per antiche mancanze o perdite, si sente vulnerabile anche per piccole cose e risponde ad esse col pianto, ma in modo non regressivo. Si può anche sentire come un bambino piccolo, ma sa di essere un adulto che ritrova vissuti brutti che comunque appartengono alla sua storia personale.

C) Euforia
Includo sotto questo titolo varie sfumature emotive caratterizzate da una sensazione di impermeabilità al dolore e di non dipendenza dagli altri. Il dolore può essere esplicitamente ammesso ma senza alcun contatto emotivo. Il cliente si concentra su cose di cui sopravvaluta la rilevanza, sottolinea la sua autonomia, esibisce un ottimismo non giustificato nella considerazione di certe eventualità, afferma la propria autostima criticando persone frustranti e dichiarando di star bene senza la loro presenza ingombrante. In vari modi riduce quindi la percezione della sua vulnerabilità.. E' molto importante stroncare sul nascere questi atteggiamenti trionfalistici e queste manifestazioni di pseudoautonomia, anche se non sono gravi e non preludono ad una rinuncia all'esame di realtà. Se il cliente che stava sulla difensiva, era chiuso o si sentiva depresso all'improvviso "scopre" che tutto va bene deve essere immediatamente riportato alla realtà: può sicuramente star bene con se stesso, ma deve accettare che non tutto va bene nella sua vita e che egli può convivere con la tristezza che a volte è inevitabile.

D) Svalutazione e disprezzo.
Con questi atteggiamenti e sentimenti, siamo agli antipodi dell'amore, ovvero siamo sul terreno della rabbia e del disgusto. La svalutazione delle persone è sempre difensiva, perché distoglie dal contatto con una perdita e instaura un rapporto di "superiorità" verso chi ha causato il dolore. Svalutando gli altri escludiamo la parte di noi che è addolorata per l'impossibilità di un incontro.
La svalutazione dei comportamenti invece può non essere difensiva, poiché è normale ed anche opportuno svalutare i comportamenti distruttivi e approvare quelli costruttivi. I comportamenti inaccettabili possono essere svalutati anche dalla persona che li ha manifestati se scopre in ritardo il suo errore. Il pentimento non è altro che questo ed è su questa base che si chiede scusa.
Quando invece la persona svaluta o disprezza se stessa (anziché un suo comportamento non giustificabile) sta agendo difensivamente. Non mostra di avere un "problema di autostima", ma di avere un'immagine onnipotente, irrealistica ed idealizzata di sé. Occorre stare molto attenti in analisi, perché il cliente che si svaluta per non essere stato all'altezza di certe aspettative deve imparare a ridimensionare le sue aspettative e non a minimizzare i suoi fallimenti.. L'analista è d'aiuto proprio confermando i limiti e gli errori e rispettando il cliente per quello che è, cioè una persona che a volte sbaglia. Se invece l'analista non convive con i propri limiti, tende a favorire un "salvataggio dell'autostima" del cliente suggerendo giustificazioni rassicuranti.

Riporto ora alcune sedute che possono chiarire l’importanza del lavoro sulle emozioni difensive.

Una seduta fatta con un cliente (che chiamerò Massimo) illustra abbastanza bene il concetto di emozione inventata. Massimo mi racconta che il rapporto con la sua nuova ragazza è migliorato. Lei si è rivelata più sensibile e accogliente di quanto fosse stata inizialmente e lui ha sentito dei momenti di coinvolgimento. Sapendo che Massimo è letteralmente terrorizzato dall'idea di dipendere affettivamente da una donna, trovo strano che egli all'improvviso abbia accettato l'accoglienza di una ragazza senza costruirsi una via di fuga. Mentre ascolto pensoso, egli mi accenna ad una notte "fantastica" trascorsa con quella ragazza ed al fatto che verso le quattro del mattino ha "dovuto" tornare a casa sua perché "non poteva" limitarsi a dormire con lei. Replico con una secca provocazione:
GF. Balle! Con una donna amata si può anche dormire, fare la spesa e giocare a mosca cieca!
M [Afferrando l'implicazione della mia osservazione] Ci sono cascato un'altra volta!
GF. Sì. Più che altro ti sei organizzato un'altra volta.
M. Mi sono inventato una situazione "speciale".
GF. Una situazione spendibile all'asilo con la mamma e non nella vita di oggi. La tua donna, se ha un po' di buonsenso desidera un uomo, non un tipo straordinario. E' tua l'idea di essere così speciale da poter conquistare (prima o poi) l'attenzione di una mamma distratta come la tua. E' però un'idea che è maturata nel passeggino più che fra i lenzuoli di un bel lettone.
M. Scherza pure. Io però mi gioco tutto con queste fantasie.
GF. Non è più indispensabile. Oggi puoi scegliere. Puoi accettare la tua vecchia solitudine e diventare libero di vivere le cose belle (e brutte) realmente alla tua portata nel presente. Puoi vivere in questo caso una bella esperienza senza trasformarla in una esperienza "fantastica".

La seduta che ora riassumo illustra bene sia il concetto di pseudoemozione che quello di emozione strumentale. Una cliente (che chiamerò Silvana) aveva l'abitudine di creare delle tensioni con il suo fidanzato appena il rapporto andava abbastanza bene da far salire il livello di intimità. L'intimità, soprattutto se piacevole, risvegliava il dolore per la dolcezza tanto desiderata e mai raggiunta nel rapporto con la madre. Tuttavia non era facile per Silvana litigare con questo ragazzo, che a differenza dei precedenti era davvero innamorato e realmente aperto e disponibile.

S. Lavoriamo da tempo sulle mie "pazzie" con Giovanni e in questi giorni di vacanza con lui qualcosa è cambiato. Ho avuto qualche volta l'impulso a rispondergli di traverso ma ho evitato di farlo, proprio per scoprire, come mi suggerisci sempre, cosa succede se non scappo. Qualcosa è successo. Lì stavo bene, era tutto a posto, ma dentro di me montava una tristezza … così profonda che … Insomma ho pianto sentendo che in realtà avrei voluto tornare da mia madre. Cioè volevo stare lì, ma una parte di me non sapeva che farsene di Giovanni. Tra l'altro sapevo benissimo che anche se fossi stata piccola e fossi tornata dalla mamma, avrei trovato la mamma di sempre, quella che corre di qua e di là e che magari inciampa su di me perché non si è nemmeno accorta di me. Comunque, pur avendo paura di piangere, come sai bene, non mi sono distaccata e ho sentito di poter reggere l'emozione. Giovanni mi ha vista piangere una volta e gli ho spiegato che lui non c'entrava. Ha cercato di capire.
GF Dunque hai accettato ed espresso l'emozione dolorosa e hai potuto collocarla fra i vissuti; così hai evitato di inventarti le strane emozioni con cui ti sai anestetizzare.
S. Sì. Mi sono resa conto della mia capacità di manipolare i miei sentimenti e di sentire ciò che non sento davvero. Ho dovuto faticare molto per scrollarmi di dosso quella sensazione ingiustificabile di essere oppressa da Giovanni e di detestarlo perché "non mi lasciava in pace".

Un altro esempio di emozione strumentale, ma anche leggibile come pseudoemozione o come emozione inventata è suggerito dalla seduta di un cliente che chiamerò Franco. Questi mi racconta di sentirsi stanco e "affannato" a causa della situazione lavorativa che gli richiede impegni maggiori di quelli previsti senza un ritorno economico soddisfacente almeno a breve termine. Tutto ciò riduce i margini di tempo libero ed egli è molto dispiaciuto di non poter stare in famiglia quanto la moglie ed i figli si aspetterebbero. Paradossalmente, nelle poche ore che trascorre a casa è di fatto "assente" proprio perché si sente così "affannato", stanco, di cattivo umore.

F. L'essere così affannato mi rende meno disponibile. La sera a casa con mia moglie e mio figlio, non sono davvero presente.
GF. Anziché immaginare che questa "cosa", cioè l'affanno, ti renda meno presente, perché non ti chiedi se tu per caso vuoi assentarti. Magari ti affanni proprio per non entrare in contatto con qualcosa.
F. Può essere. Sul lavoro a volta svicolo da certe richieste dei colleghi proprio facendo l'indaffarato. E finisco davvero per sentirmi "preso" da certe cose che ho iniziato più che altro per non farmi disturbare. Però ne sono consapevole. Tu pensi che eviti qualcosa con mia moglie?
GF. Non posso saperlo. Ti chiedo solo di rifletterci. Se si tratta di una falsa pista prenderemo un'altra direzione.
F. Io non mi sopravvaluto più come in passato, e non mi invento più di poter fare tutto. Mia moglie mi chiede sempre quando conto di tornare a casa e non prometto più di esserci per cena se so che tarderò. Però mi sento un po' pressato da lei. So che anche mio figlio ci tiene a giocare con me e spesso non ho il tempo che vorrei. D'altra parte prendo questi nuovi impegni di lavoro per garantire un futuro più sicuro proprio a loro.
GF. E quando arrivi a casa esageri un po' la tua stanchezza?
F. Forse; in questo modo è come se mi sentissi "giustificato".
GF. Non è una bella pensata: così neghi a loro la tua presenza anche quando ci sei. Ho l'impressione che tu faccia delle valutazioni strategiche sulla questione più con la logica di un bambino che di un adulto. C'è qualche aspetto della faccenda in cui ti senti coinvolto come se fossi ancora piccolo?
F. Mi sento in colpa. Mi sento giudicato.
GF. E qual è il crimine che commetti?
F. Io non riesco a guadagnare abbastanza e ad avere anche del tempo. Forse c'è chi fa un salto in ufficio, risponde a due telefonate e poi arriva a casa pieno di soldi. Io no.
GF. La tua colpa è quindi di non rendere tua moglie serena?
F. Accidenti, lo so che andavamo a finire lì!
[C'è ovviamente una storia che fa da sfondo a questa vicenda attuale. La madre di Franco era spesso malata e lui non si rendeva conto di quel che succedeva. Sentiva solo che la madre era meno disponibile ed era afflitta da qualcosa. Non riusciva a tollerare quella situazione e voleva sentirsi in grado di fare qualcosa. E faceva di tutto per rendere di nuovo allegra sua madre. Senza grandi successi, perché la madre reagiva con depressione ai disturbi fisici. Tuttavia voleva sentirsi speciale, capace di farcela, prima o poi. Voleva crederci e segretamente prometteva alla madre che ci sarebbe riuscito, anche se non sapeva "ancora" come fare. Tutto questo gli risparmiava il dolore di sentirsi piccolo, solo e non in grado di modificare lo stato d'animo di sua madre].


4. Gioia e dolore

Cercherò di mostrare che le emozioni di cui prendere semplicemente atto sono poche e perfettamente comprensibili. Non è vero che le emozioni siano irrazionali, complicate, tali da sopraffare le persone. Quando questo sembra accadere, cioè molto spesso, le persone agiscono difensivamente a livello emotivo.

Le due emozioni basilari (in quanto costituiscono due punti di riferimento privilegiati per comprendere la "vita emotiva") sono la gioia ed il dolore. Nei primi mesi di vita, quando l'emotività del bambino è rudimentale e non si può ancora parlare di emozioni, ma solo di "fisiostati", le sfumature affettive rilevanti sono quella piacevole e quella spiacevole (Arieti, 1967, p.35). E' lo sviluppo cognitivo ad istituire in seguito la possibilità di sperimentare livelli intensi e complessi di gioia e di dolore ed a consentire altri tipi di esperienza emotiva.
Parlerò semplicemente di gioia e dolore perché le ulteriori specificazioni di queste due emozioni sono semplicemente varianti qualitative e quantitative delle due emozioni in questione, su cui non c'è nulla di particolare da aggiungere.
La gioia ed il dolore costituiscono i due poli del nucleo centrale di tutte le problematiche che i clienti portano in analisi. Le più complicate manifestazioni emozionali difensive hanno a che fare con la difficoltà del bambino ad affrontare il dolore e con la difficoltà dell'adulto ad affrontare i vissuti dolorosi. Qualsiasi intervento analitico utile conduce all'elaborazione del dolore e dà come risultato sia una maggior confidenza con il dolore, sia una nuova capacità di fare esperienza della gioia. Si sa che la paura in tutte le sue sfumature attraversa ogni percorso analitico, ma di cosa abbiamo paura, se non di qualche forma di dolore?

Noi reagiamo emotivamente con gioia o dolore a stati di cose che incidono su nostre aspettative esplicite o implicite, consapevoli o inconsapevoli. Nessuno esulta se una zanzara spicca il suo primo volo in Africa. Gioia e dolore sono risposte emotive a situazioni in cui riusciamo o non riusciamo a fare qualcosa (e che cercavamo di fare) oppure a ciò che riusciamo o non riusciamo ad ottenere (e che desideravamo ottenere). Se definiamo la gioia ed il dolore in rapporto al desiderio di fare o ricevere qualcosa, otteniamo gli stessi vantaggi che avremmo facendo riferimento a pulsioni, bisogni o motivazioni e ci liberiamo anche da diverse complicazioni speculative o pseudoscientifiche.

La gioia ed il dolore costituiscono l'esistenza personale, nel senso che una vita senza gioia o senza dolore è semplicemente impensabile. Sia quando manteniamo il contatto con noi stessi e la realtà, sia quando attiviamo strategie difensive siamo costretti a confrontarci con la gioia e con il dolore. Le difese infatti non annullano infatti il dolore, ma incidono solo sulla sua "profondità" o "autenticità": a volte si evita il dolore di una perdita, rispetto a cui si è impotenti, sprofondando nel senso di colpa. Si soffre comunque, ma non ci si sente impotenti perché proprio il senso di colpa conferma una nostra immaginaria "potenza": infatti l'idea di "aver sbagliato tutto" presuppone e "sostiene" una convinzione del tipo "uno come me non avrebbe dovuto sbagliare". La perdita resta, ma con l'autoflagellazione viene consolidata un'idea "forte" di se stessi. In questa chiave di lettura risulta chiaro che il cruccio costituito dal senso di colpa è un "buon affare", ovvero il male minore. Questo "calcolo" tuttavia è corretto solo nell'aritmetica infantile, perché in effetti impoverisce la vita adulta di un'esperienza dolorosa ma significativa nella storia personale, e impegna la stessa persona nella gestione di un'emozione più superficiale, comunque spiacevole, e irrazionale. Con le difese viviamo una vita che un bambino considererebbe migliore di quella reale, però viviamo una vita "non nostra".

La gioia ed il dolore hanno delle tipiche modalità di espressione. Nella gioia tendiamo a sorridere, a muoverci, ad incontrare gli altri ed anche a commuoverci. Possiamo anche vivere un’intensa gioia "segretamente", ma comunque ci sentiamo più "vivi". Nel dolore, invece tendiamo a ripiegarci, a star soli o a cercare conforto dagli altri, e se il dolore non è davvero lieve, piangiamo. Anche nel dolore sentiamo intensamente di essere vivi.
Molte manifestazioni comunemente classificate come espressioni di "dolore", sono in realtà difese dal dolore. Chi urla e si strappa i capelli per un "grande dolore", in realtà "annulla per eccesso" la sensazione iniziale. Infatti, le espressioni "teatrali" dei sentimenti "stroncano" il contatto. Chi si lamenta continuamente, non sta "attraversando" il dolore, ma lo sta "disperdendo" e cerca di rubare delle gratificazioni perverse. Chi si chiude e si mostra irraggiungibile, sta macinando rabbia, cioè sta rifiutando il "fatto" della perdita in questione. Analoghe considerazioni valgono per chi reagisce ad un dolore con incredulità, ansia, depressione, proteste, pretese ecc.
E' più facile capire la gioia che il dolore. La gioia è gioia e basta. Col tempo si attenua l'intensità dell'emozione, ma fin dall'inizio non c'è alcuna difficoltà nell'accettazione del fatto a cui abbiamo risposto con gioia. La gioia, come il dolore ha delle "varianti" difensive (l'euforia, ad esempio), che però sono comunque emozioni difensive rispetto al dolore. Dalla gioia nessuno si difende. L'espressione (reichiana) "angoscia del piacere" è, almeno in senso letterale, sbagliata: essa va intesa come paura di sperimentare un dolore previsto come conseguenza di un'esperienza gioiosa.

Ciò che rende l'esperienza del dolore più difficile e la comprensione del dolore più complessa riguarda proprio il fatto che non è per nulla scontato che una persona accetti il fatto di una perdita. Spesso si esita fra accettare un dolore e agire difensivamente. Su un piano cognitivo l'accettazione di una perdita comporta l'adattamento all'idea che qualcosa non ci sia più (una persona, un animale caro, un lavoro, la gioventù, un'occasione, una speranza, ecc.). Il venir meno di qualcosa che idealmente avevamo collocato nel "nostro mondo" (in quanto eravamo intenzionati a mantenere o ottenere la "cosa" in questione), altera la mappa della nostra vita idealmente tracciata. Sul piano cognitivo, quindi l'elaborazione del dolore (definita anche "lavoro del lutto") costituisce un lento adattamento ad una realtà che stride con l'idea di realtà precedente. Su un piano fisiologico, comportamentale ed interiore, l'elaborazione del dolore comporta un adattamento della nostra sensibilità ad uno "spazio più ristretto"; ci "stringiamo" un po', rinunciando ad espanderci emotivamente o fisicamente in una direzione che "non è più nostra". Di fatto, se il dolore non è minimo, la componente fisiologica più evidente di questo "arrendersi" alla perdita è il "lasciar andare" le lacrime ed il "lasciarsi andare" ai singhiozzi del pianto. Non credo che il pianto "sfoghi" il dolore. Dopo un pianto non sentiamo meno dolore, ma ci sentiamo un po' più a nostro agio in quella scomoda situazione. Ciò che riduce il dolore è il passare del tempo, sempre che il tempo sia stato speso nell’elaborazione del dolore e non nella fuga dal dolore.

Penso che la gioia ed il dolore (in tutte le loro sfumature) costituiscano, assieme al basilare senso di quiete, o serenità, la quasi totalità della dimensione emotiva non difensiva. Lo spazio restante dell'emotività non difensiva è occupato da rare esperienze genuine di rabbia e di paura e da altre emozioni meno importanti ai fini del nostro lavoro. Di fatto, però, l'effettiva dimensione emotiva delle persone è in gran parte occupata da emozioni difensive.

Gioia e dolore, oltre ad essere le emozioni più "semplici", sono anche in una relazione molto particolare: l'accettazione del dolore inevitabile costituisce la principale condizione soggettiva per l'esperienza della gioia. In analisi si cerca il dolore non già perché sia più "importante" o perché gli analisti vi siano in qualche modo affezionati. Si cerca il dolore, perché proprio l'elaborazione del dolore libera la persona da tutto l'impegno difensivo che ha come effetto immediato e devastante una riduzione qualitativa e quantitativa dell'esperienza della gioia. Vorrei riportare una citazione di Sheldon Kopp, che illustra molto bene questa idea: "Se vogliamo ricavare il più possibile in termini di significati e gioia presenti, dobbiamo abbandonare ciò che non può durare e che noi non possiamo cambiare, accettando le nostre perdite. (...) Nella prospettiva del mio modo personale di fare psicoterapia, questa accettazione dell'impotenza, questo bisogno di piangere, è altrettanto mio quanto di coloro che vengono da me in cerca di aiuto. Questo è dovuto al fatto che, in certa misura, ciascuno di noi vive ancora nell'oscurità del proprio passato incompiuto. Il rifiuto di piangere le delusioni e le perdite dell'infanzia, di seppellirle una volta per tutte, ci condanna a vivere alla loro ombra. Il dolore genuino è quel piangere e singhiozzare che esprime l'accettazione della nostra impotenza a rimediare ciò che non è più. Se invece ci limitiamo a gemere e a lamentarci, a insistere che non è possibile, o a esigere che la nostra sofferenza venga compensata, allora ci troviamo invischiati per sempre nel tentativo di rimediare al passato" (1971, p.178).


5. Rabbia

In alcune classificazioni delle emozioni compaiono come emozioni distinte la rabbia ed il disgusto. Capisco le ragioni di questa scelta, ma poiché le mie considerazioni riguardano il lavoro analitico sulle azioni difensive, raggrupperò (e non solo in questo caso) le emozioni secondo criteri adatti allo scopo. Includerò quindi nel gruppo delle emozioni "rappresentate" dalla rabbia emozioni molto diverse: disgusto, disprezzo, irritazione, ira, ostilità, odio, rancore, pretesa, stati d'animo associati agli atteggiamenti vittimistici, ecc.

L'aspetto distintivo delle azioni emotive collegate alla rabbia riguarda il rifiuto di una situazione, l'indisponibilità a tollerare un certo stato di cose ("disgustoso") e la disponibilità ad usare forme dirette o indirette di violenza. Non pongo come elemento unificante di questo gruppo di emozioni la violenza. La violenza come tale è un comportamento che può comparire in situazioni emotive molto diverse. Si può agire con violenza più per paura o per dedizione a una causa che per rabbia. Dubito che in guerra si sia sempre arrabbiati con le persone a cui si spara. C'è chi uccide per fedeltà ad un ideale, chi per paura di essere colpito ed anche chi uccide per rabbia. Ciò che invece si sente sempre quando si è arrabbiati, in qualunque modo, è che non si vuole accettare qualcosa. Sia che si reagisca fisicamente ad una prevaricazione o che si organizzi una vendetta a lunghissimo termine per un torto subito, o che si tenti una manovra colpevolizzante ci si rifiuta di "lasciar correre".

Dopo aver raggruppato sotto un unico ombrello emozioni così diverse, ora dovremo nettamente distinguere due sottoclassi reciprocamente esclusive: a) quella che raccoglie vari modi di esprimere un sensato rifiuto di qualche aspetto della realtà e b) quella che include vari modi di esprimere irrazionalmente un rifiuto.

a) Le varie forme di rabbia sono in genere difensive, come vedremo più avanti; ci sono però delle situazioni in cui il rifiuto di qualcosa è sia ragionevole, sia costruttivo. In questi casi, anche se l'espressione della rabbia non è indispensabile, costituisce tuttavia il comprensibile sfondo emotivo di un'attività volta a modificare la realtà. Si ricordi che qui non dobbiamo stabilire dei criteri etici in base a cui valutare le azioni emotive, ma capire quando un'emozione risulta espressiva (e costruttiva) o difensiva (e tale da condurre a squilibri e disturbi psicologici).
Forse un esempio può illustrare questo argomento. Si è testimoni o potenziali vittime di un atto criminoso, di una certa gravità e si aggredisce con forza la persona che ci colpisce o che ci vuole colpire. Teoricamente si potrebbe intervenire solo per fare ciò che è giusto, ma si può anche sentire un profondo rifiuto ("non voglio che ciò accada!"). L'azione è ragionevole perché mira a modificare positivamente la realtà. In genere, però, la rabbia non è di questo tipo, e anzi, spesso le persone che macinano sempre rabbia, non reagiscono con la forza necessaria nelle situazioni in cui la rabbia sarebbe utile.

b) In questa sottoclasse rientrano tutte le versioni "fredde" della rabbia, come l'odio, la svalutazione, il rancore, ecc. Rientrano anche le versioni "calde" che però sono difensive e quindi irrazionali, inefficaci o distruttive. Ad esempio si accumula rabbia in ufficio e poi a casa si urla con i figli. Un esempio ancor più interessante per il lavoro analitico riguarda la rabbia per situazioni già concluse. Una persona ci ha ferito; la cosa è accaduta ed è immodificabile; è storia. Il fatto che sia accaduta costituisce un fatto doloroso, perché le ferite fanno male. Con la rabbia, in questi casi rifiutiamo questa realtà senza cambiarla. Anziché impedire che qualcosa accada, rifiutiamo di accettare ciò che è già accaduto. In ultima analisi rifiutiamo solo il nostro dolore. Questo rifiuto è inefficace, distruttivo e incomprensibile. E’ quindi perfettamente condivisibile la definizione suggerita da Kelly per l'ostilità (quindi per la rabbia, nell'accezione qui scelta): "lo sforzo continuato di estorcere la validazione di un tipo di predizione sociale che è già stata riconosciuta come un fallimento" (1977, p.30).

Buona parte del lavoro analitico consiste nell'individuare la rabbia dove il cliente non la riconosce (ad esempio nell'indifferenza, nel disprezzo razionalizzato, nel vittimismo, nella "stanchezza", nelle varie "incapacità", nelle "distrazioni", ecc.), nel favorire il riconoscimento della rabbia, e infine nell'aiutare il cliente a capire e sentire da quale dolore quella rabbia lo protegge. A quel punto, senza la rabbia fra i piedi, ci si può dedicare a verificare se davvero quel dolore è intollerabile e se è davvero indispensabile vivere bloccati, scissi e comunque distaccati da un dolore che è già nostro (diventando anche meno sensibili alla gioia).

Una delle idee più sciocche sull’argomento è quella secondo cui sarebbe importante "scaricare" la rabbia. La rabbia è un'emozione, non un sacco di patate. E' un'emozione con una fortissima componente cognitiva consistente nell'illusione che la realtà sia come un partito per cui si può votare o non votare. La realtà va comunque accettata, se non si vuole seppellire anche la parte di noi stessi che sa e continua a sapere che quella realtà è "data". Avendo avuto una formazione in psicoterapia corporea non sono contrario al lavoro fisico sulla rabbia. Esprimere fisicamente la rabbia aiuta a sentire meglio quanto si è arrabbiati, ma questo non serve se non come condizione per capire perché si continua a protestare per le carezze non ricevute e cose del genere. Il lavoro sulla rabbia è produttivo solo strumentalmente in quanto può far accedere meglio al dolore non ancora integrato.

Una giovane cliente, che chiamerò Serena mi raccontò di aver per la prima volta litigato col padre e di avergli detto apertamente che non avrebbe più tollerato né critiche né pretese perché lui non aveva mai fatto il padre e lei non era tenuta a fargli da madre. Senza specificare le premesse ed i dettagli di questa discussione voglio solo precisare che Serena aveva reagito sulla base di una percezione assolutamente realistica del padre, il quale non aveva mai accettato né sul piano affettivo né sul piano pratico il suo ruolo genitoriale. Tuttavia Serena, pur sentendosi "liberata" si sentiva ancora tesa e inquieta. Parlando piangeva trattenendo i singhiozzi. Era colpita dal fatto di aver sentito un vero impulso omicida nei confronti di suo padre.
GF. Vuoi lavorare un po' su questa cosa?
S. Va bene.
GF. Vorrei che tu esplorassi fino in fondo la tua intenzione omicida. Metti tuo padre lì sul materassino, immagina di avere un coltello e colpiscilo finché non senti di aver davvero chiuso il rapporto con lui e di non poterti quindi più aspettare niente.
S. Ogni tanto mi illudo che mi porti al ristorante quando vado a trovarlo. Invece mi fa cucinare.
GF. Se lo uccidi devi rinunciare a tutti i sogni.
Serena esita, poi entra nella sua parte in quella scena e si impegna nell'espressione della rabbia che risulta molto forte. Dopo aver colpito ripetutamente il padre si accascia piangendo. Il pianto è però ancora trattenuto.
GF. Ora devi salutarlo e dirgli a cosa rinunci salutandolo.
S. Addio … ora non posso più aspettarmi dei regali, delle attenzioni … non posso più sperare che mi chiedi scusa e che mostri di aver capito …
GF. Sei disposta a rinunciare anche alla compagnia dell'odio? A capire che con te lui ha sempre fatto il bambino perché non è mai cresciuto? A capire che non aveva scelta?
S. … Lo so. Non è cattivo. A volte dice delle stupidaggini con il massimo candore e del tutto convinto di parlare seriamente.
GF. Parla con lui.
S. Papà, ti ho aspettato tanto. Ora basta.[Il tono non è di protesta, di sfida. Dicendo "basta", Serena è mesta, ed evidentemente sente di rinunciare a qualcosa, non di "liberarsi" di qualcosa]. Mi spiace che non ti sia mai accorto di me, perché io sono stata una brava figlia. Saresti stato più felice anche tu se te ne fossi accorto. [Piange sommessamente]. Almeno me ne sono accorta io. Però ciò è triste lo stesso.
GF. Ora il lavoro è completo. Come ti senti? Ci sei tutta?
S. Sì sono tutta intera. Mi abbracci? [Nell'abbraccio si lascia andare ad un pianto lungo, intenso, con profondi singhiozzi].
GF. Hai finito di tacere e far finta di nulla e forse hai anche finito di sentirti arrabbiata. Il dolore tornerà. Non evitarlo e tieni presente che comunque resti tutta intera.

Un'ultima osservazione, probabilmente superflua, sulla distinzione fra rabbia e aggressività. I due concetti vanno tenuti distinti perché l'aggressività è una modalità del comportamento. Aspettare un treno non è un comportamento aggressivo, come non lo è prendere la tintarella al mare. Sono comportamenti aggressivi sia dare calci, sia fare una gara, sia scrivere una lettera d'amore. Va considerato aggressivo qualsiasi modo di accostarsi non recettivamente ma attivamente alla realtà, indipendentemente dal fatto che il comportamento in questione sia rabbioso o amorevole, violento o mite.


6. Paura

Anche in questo caso farò alcune considerazioni su un gruppo eterogeneo di emozioni (preoccupazione, ansia, angoscia, timore, terrore, panico, ecc.) che tratterò come varianti della paura. Mi permetto tale semplificazione solo perché anche un elenco di venti emozioni sarebbe comunque arbitrario e limitato. Inoltre, una maggiore articolazione concettuale sarebbe inutile per una teoria delle difese e del percorso analitico per la quale è fondamentale proprio l'aspetto che accomuna queste varie emozioni: la convinzione che possa verificarsi un evento doloroso per la persona. Nella paura la persona attende nell'incertezza. Anche la paura è in sé un'esperienza spiacevole, ma è tale in quanto la persona considera l'eventualità di un'altra situazione dolorosa. Di fatto finché si ha paura si è (ancora per un po') al sicuro. La paura, in tutte le sue varianti quantitative e qualitative, è un'emozione che come rapidamente viene attivata, così rapidamente viene superata. La paura si esprime in uno stato di attivazione orientato a prevenire ed eventualmente affrontare o fuggire una minaccia; cessa con il sollievo dello scampato pericolo, o con il dolore dovuto al verificarsi dell'evento temuto.

Anche in questo caso, dopo aver raccolto in un unico mucchio ciò che in genere in psicologia si tende a distinguere, farò una distinzione che in genere viene trascurata. La paura è un'emozione che spesso viene attivata difensivamente ed anche in modi molto radicali (come nel caso del panico "inventato", o dell'angoscia strumentale). Per questo motivo la paura che costituisce una risposta adulta ad un pericolo reale va distinta dalla paura intesa come difesa; non come sintomo “causato” da qualche problema psicologico, ma come azione difensiva.

Ovviamente, se consideriamo l’uso difensivo della paura, la seconda versione della teoria freudiana dell'angoscia (Freud, 1926,p.287) risulta più plausibile di quella precedente (o di quella reichiana) anche se non sottoscriverei mai l'idea di un'emozione come "segnale dell'Io". Preferisco concepire l'angoscia, al pari di ogni emozione, come costruita dalla persona e sentita dalla persona. In quanto processo intenzionale richiede dei chiarimenti relativi ai suoi presupposti cognitivi e all'intenzione che la distingue. Quando non esprime un'intenzionalità difensiva, la paura prepara la persona ad un'eventualità dolorosa. Ha un ovvio valore di adattamento che le versioni "patologiche" della paura non hanno.
Non ritengo che un'analisi della paura condotta in base ad assunzioni "energetiche" illumini molto la questione. Nella situazione in cui si ha paura, non c'è nulla da "scaricare"; si è costretti ad aspettare finché non si capisce se si deve “combattere” o ci si deve arrendere o si può festeggiare lo scampato pericolo.
In analisi, non si lavora quasi mai sulla paura come reazione ad un reale pericolo. Nei rari casi in cui il cliente manifesta un reale timore per un reale pericolo l'unica cosa che l'analista può fare è confermare la paura del cliente, ed essergli vicino. Nei casi invece ricorrenti di paura difensiva, il lavoro analitico deve essere molto mirato e fondamentalmente "spietato". Ogni "comprensione" quando è presente una paura difensiva presuppone una mancanza di empatia o una collusione in un gioco, e disturba il proseguimento del lavoro analitico.

Parliamo di paura difensiva tutte le volte che non riusciamo a capire immediatamente di che cosa il cliente abbia paura. Col termine "capire" non mi riferisco ad una fantasiosa comprensione del fatto che qualche omuncolo interno sta causando un certo stato d’animo nel cliente. Intendo semplicemente ciò che capirebbe qualsiasi persona sensibile e priva di familiarità con le dottrine psicologiche.

Ora è il caso di spendere qualche parola per chiarire come possano avere un'efficacia difensiva delle azioni emotive tanto sgradevoli, quali ad esempio gli "stati d'angoscia", le fobie, le "crisi di panico", ecc. Per capire ciò ovviamente dobbiamo vedere la cosa dal punto di vista di un bambino. Un bambino cederebbe volentieri un buono da mille euro spendibile dopo un mese, in cambio dei gettoni per tre giri sulle montagne russe al Luna Park. Se l'accettazione di un'esperienza dolorosa risulta insostenibile per il bambino, questi può preferire al dolore di una realtà "data" il timore di una catastrofe "eventuale". Dopo anni ed anni, quella paura non costituisce più la risposta ad una situazione attuale, ma è la risposta ad un vissuto non integrato; l'adulto ripete cioè l'operazione difensiva per non affrontare il vissuto che "lo perseguita". Meglio -in questa logica- avere delle bizzarre "crisi" di panico che sentire l'orrore di una solitudine irrimediabile e già classificata come devastante.

Un cliente (che chiamerò Enrico) mi chiese di lavorare su un timore, una preoccupazione, che ogni tanto avvertiva rispetto ad un'amica di famiglia (Silvia) particolarmente incline a offendersi e a raffreddare per un po' di tempo il rapporto. Enrico aveva trascorso parte delle vacanze con la moglie presso la famiglia di questa amica e prima di partire aveva avuto un contrasto con lei. Ora, preparandosi ad incontrare nuovamente Silvia, sentiva un diffuso senso di ansia all'idea che lei non si fosse rasserenata. Questo timore era ovviamente "strano" ed Enrico era ben consapevole che nella peggiore delle ipotesi non avrebbe subito alcun danno e al massimo avrebbe dovuto aspettare che Silvia si facesse passare il cattivo umore.

GF. Mi sembra di capire che con lei hai un rapporto fondamentalmente buono, ma senti che la sua "presenza" è precaria.
E. Sì. A parte la sua tendenza a fare il muso è una persona cara. Comunque sento di dover sempre stare attento, di dovermi muovere coi piedi di piombo.
GF. In altre parole ti assumi il compito di ridurre al minimo le possibilità di un suo risentimento. Vedi qualche alternativa?
E. Mandarla a quel paese una volta per tutte.
GF. No. Questa fantasia di "liberazione" non è sensata. Puoi liberarti dei testimoni di Geova alla porta sentendoti benissimo, ma non di qualcuno a cui sei emotivamente legato. Per farlo dovresti scollegarti anche dal desiderio di un buon rapporto.
E. Con Silvia mi sento un po' come con mia madre. Non sapevo mai cosa avrebbe fatto. A volte diceva che si sarebbe ammazzata e io non sapevo che fare. A volte andavo ad accertarmi che non avesse fatto una sciocchezza. Domenica la sono andata a trovare. Mentre eravamo a tavola a chiacchierare ha appoggiato la sua mano sul dorso della mia. Ho sentito la sua mano calda e morbida. Non aveva mai fatto un gesto come quello. Di lei ricordo solo le scenate, le offese, le minacce.
GF. E stavi sempre in ansia.
E. Sì.
GF. Stavi in ansia per non accettare che in ogni caso…
E. Accidenti! E' vero. Non accettavo che con o senza crisi lei stava per conto suo. Viveva nella sua testa e non con me. Non potevo mai contare sul fatto che stesse con me, anche quando non faceva cose strane.
GF. La tua amica non è fuori di testa come tua madre, ma come lei è sempre disposta a lasciarti solo appena sente qualche cosa che non vuole affrontare. Il rapporto è sempre precario, anche nei momenti di vicinanza.
E. Ho un amico da tanti anni. Abbiamo passato tante cose assieme. Abbiamo avuto dei contrasti, abbiamo litigato, ma non ho mai avuto la sensazione di poterlo perdere. Con Silvia non è così. Ora capisco che preferivo stare in ansia per non accettare che il rapporto con lei non è un vero rapporto di amicizia, non lo è proprio perché non posso mai contare davvero su di lei.

Il lavoro cognitivo è fondamentale quando i clienti dichiarano sintomi o atteggiamenti difensivi che si fondano sulla paura. Occorre ribadire l'irrazionalità della paura dichiarata, anche se questo può essere abbastanza scontato; tuttavia, tale puntualizzazione non va fatta per pretendere che il cliente si rassicuri, ma per scoprire assieme a lui ciò che "realmente" costituisce un aspetto doloroso della sua vita. Questo lavoro di ristrutturazione cognitiva, per quanto elementare è una condizione obbligatoria per il lavoro più essenziale.
Ad una cliente che temeva di poter avere una crisi di panico e che insisteva (come se fosse una bambina) per farmi dichiarare che "tutto sarebbe andato bene", io ho fatto notare che se avesse voluto avrebbe certamente potuto avere una crisi di panico e che se avesse fatto le cose seriamente sarebbe anche potuta morire. Protestò vivacemente. Però toccammo la situazione da cui davvero scappava: l'incertezza. La sua storia di bambina non era una storia davvero tragica, e la madre le aveva anche saputo dare calore e protezione. Però era una madre molto giovane che in qualche misura si sentiva anche "imprigionata" in un ruolo di responsabilità che le faceva rinunciare ai suoi sogni di adolescente e forse, soprattutto, di bambina.. Per questo, a volte trasmetteva alla figlia un messaggio del tipo "torno subito" e la bambina sentiva di non poter contare su un appoggio "certo". Sviluppò quindi un atteggiamento rivendicativo e capriccioso col quale riusciva a "catturare" la madre. La cattura era però illusoria perché la madre era vulnerabile a quelle manovre solo perché incline ai sensi di colpa e non per una genuina disponibilità. Infatti, se c'è empatia non si reagisce positivamente ai capricci. Le crisi di panico, la paura di avere le crisi di panico, la paura delle situazioni in cui le crisi si sarebbero eventualmente sviluppate costituivano l'impalcatura difensiva che impediva di accettare una storia personale irrimediabilmente "precaria" e comunque insoddisfacente. Infatti questa cliente si sentiva irrazionalmente al sicuro se accompagnata in luoghi (per lei) pericolosi, dalla madre o da persone disponibili a "rassicurarla". Dopo aver chiarito la situazione, le proposi di fare un "esercizio". La invitai a girarmi le spalle, stando in piedi mezzo metro davanti a me (seduto sulla poltrona). Le chiesi di lasciarsi cadere indietro restando dritta e rigida (senza cioè piegarsi e sedersi sulle mie ginocchia). Lì sentì il panico ma, dopo aver esitato a lungo, cadendo fra le mie braccia scoppiò in lacrime. Quel pianto profondo nasceva dalla sensazione "viscerale" di non fidarsi della mia disponibilità. a "raccoglierla" e a "tenerla con me".
Questa persona aveva temuto costantemente di trovarsi respinta o ignorata o lasciata sola. Poi ogni volta provava quella solitudine e il dolore di non sentirsi al sicuro con la madre. Da adulta, con la ripetizione della paura affrontava il presente regressivamente (come se fosse ancora “là”) ma lasciava “incompleta la sua regressione evitando il dolore. Nella stessa logica potremmo temere la “eventualità” della seconda guerra mondiale per non restare in contatto con il dolore e i lutti che ha prodotto.

Esperienze di lavoro analitico di questo tipo mi hanno portato a credere che gli sforzi diretti a "curare" l'ansia o a "rafforzare" le personalità insicure siano inutili. Se un cliente mi dice di sentirsi poco intelligente gli chiedo di parlarmi della sua intelligenza e mi adopero per mettere a fuoco assieme a lui i limiti della sua intelligenza. Questo lavoro è scomodo anche per persone molto dotate. Il confronto con i limiti aiuta però a individuare la fantasia di accettazione che è stata legata all’idea di essere intelligente ed a chiarire quale accettazione è mancata e sarebbe comunque mancata indipendentemente dal quoziente intellettivo. Se una cliente dice di sentirsi poco bella, replico garantendole che molte donne sono più belle. Ovviamente questi interventi hanno senso solo all'interno di un rapporto consolidato in cui l'accettazione ed il rispetto da parte dell'analista sono fuori discussione.

C'è una variante della paura che merita una particolare attenzione. In alcuni casi viene esibita una paura proprio per non entrare in contatto con la paura. Alcuni clienti si mostrano spaventati, ma in realtà sono increduli. Non solo scappano dal dolore nella paura (slittando cioè da un dolore già "dato" ad un dolore "eventuale"), ma scappano anche dalla paura dichiarandola senza convinzione. Ad esempio ci sono delle persone, soprattutto donne, che straparlano della loro paura di invecchiare. Si disperano per questo tragico destino e raccolgono anche inconfutabili prove del fatto che il processo è già iniziato. Una ruga lì, un po' di cellulite che non c'era, un po' di pancia che non va via nemmeno con la ginnastica e roba del genere. Alcune pensano alla chirurgia estetica ed altre si accontentano di fare diete. Non stanno accettando il loro processo di invecchiamento. Più immaginano che fra dieci anni avranno un altro corpo e meno ci credono. Parlano di un'eventualità puramente astratta, ma non comunicano una consapevolezza realmente acquisita. Queste persone devono essere aiutate ad accettare il fatto di invecchiare e il dolore di non poter conservare quell'immagine fisica a cui sono affezionate perché solo questo dolore può far recuperare il piacere di esistere, anche con qualche ruga in più.


7. Amore

Varie ragioni giustificherebbero un'esclusione di questo termine da una teoria dell'analisi. Le più rilevanti sono a mio avviso le seguenti:
- il termine amore compare con troppi significati ed in contesti troppo diversi (comunicazione quotidiana, letteratura, testi filosofici e religiosi) e con significati o vaghi o ancorati a presupposti molto diversi;
- una ridefinizione specifica del significato del termine potrebbe comunque dar luogo a confusioni concettuali per via della consuetudine all'uso non teorico di tale termine;
- le principali teorie psicologiche non includono il concetto di amore, mentre altre, per utilizzare quel concetto hanno dovuto fare assunzioni ontologiche, soprattutto di tipo spiritualistico (Frankl, 1952,p.99; Assagioli, 1988,cap.24); altre ancora, nel tentativo di ridefinire riduzionisticamente il concetto di amore sono approdate a definizioni decisamente discutibili come quella di Reich, secondo cui l'amore dovrebbe essere inteso come "un fenomeno fondamentale naturale nel regno del funzionamento vitale" (Reich, 1942,p.100).

Tuttavia, la rinuncia all'uso del concetto di amore crea dei problemi non piccoli, sia nella comunicazione con i clienti in analisi, sia nella comprensione dei loro problemi.
Varie ragioni giustificano quindi l'inclusione del concetto di amore in una teoria dell'analisi:
- molte comunicazioni nelle sedute risultano delle trappole proprio perché si basano su un uso ambiguo del concetto di amore (ad esempio, quando i clienti rivendicano il diritto di essere amati), e il modo migliore per analizzare tali manipolazioni è quello di evidenziare le confusioni concettuali di partenza; a questo proposito abbiamo bisogno di usare in modo almeno coerente il concetto di amore.
- nelle comunicazioni dei clienti, vengono confuse spesso due classi nettamente distinte di gratificazioni: essere ammirati (o premiati o ricompensati), ed essere "benvoluti" (o "accettati"); un vuoto di teoria rispetto ad una problematica così delicata produce facilmente incertezze o incoerenze negli interventi analitici.

Tenterò quindi di introdurre il concetto di amore nella teoria dell'analisi, evitando sia di fare assunzioni metafisiche, sia di trattare l'amore in modo semplicistico (ad es. come un desiderio particolarmente intenso di contatto). Credo che le mie conclusioni potranno anche non piacere, perché finirò per considerare inesatte o irrazionali alcune convinzioni molto comuni (come ad es. che l'amore determina l'attrazione fra le persone, o che i bambini amano i genitori, o che possiamo farci amare agendo in un certo modo).

Quando ci muoviamo intenzionalmente in qualche direzione, normalmente cerchiamo di rendere possibile un’esperienza piacevole o di prevenire o far cessare una esperienza spiacevole. Qui, i termini piacevole e spiacevole vanno ovviamente intesi nel senso più ampio. I legami basati sul desiderio sono quindi, ovviamente, dei legami condizionali. Se vogliamo essere desiderati dagli altri dobbiamo fare qualcosa di gradito e se vogliamo guadagnare dei soldi dobbiamo fare un lavoro utile. In questa chiave di lettura, la "stima" (nel senso più ampio del termine che comprende sia l'essere apprezzati in famiglia che l'essere vincenti in una gara) dipende da certe condizioni, come l'avere certe caratteristiche o il fare certe cose. Da ciò segue che in genere gli innamorati "si stimano" (cioè si stimano per l'aspetto fisico, per i modi di fare, per gli interessi, la personalità, la sensibilità) e solo col tempo, e non sempre, riescono ad "amarsi". Parlando brutalmente, ma con chiarezza, quando si è innamorati si sente di aver fatto un buon affare; nei casi migliori c'è anche dell'altro, ma dovremo capire in che senso possiamo parlarne.

Se il concetto di amore non deve essere un quasi-sinonimo del concetto di stima, più poetico o più vago, ma comunque superfluo, e se deve avere qualche funzione nella teoria, deve implicare l'incondizionatezza, il disinteresse, la gratuità, e credo proprio che se riusciamo a trattare ragionevolmente la questione dei legami disinteressati senza risultare ingenui, possiamo poi disporre di uno strumento concettuale molto valido.

Vorrei suggerire una prima approssimativa definizione del concetto di amore: amiamo quando a) sentiamo ammirazione per qualcosa o qualcuno prescindendo da qualsiasi considerazione su eventuali gratificazioni derivanti dal contatto o dalla vicinanza o dall'utilizzazione di quella cosa o persona, e quando b) sentiamo un interesse per il bene di tale "oggetto" d'amore. Più brevemente, l'amore potrebbe essere considerato la congiunzione di ammirazione disinteressata e benevolenza. Questo implica che se tutti sono amabili, l'amore è reso possibile dal fatto che chi ama sia disposto a vedere "chi" ha di fronte e non solo a capire che uso ne può fare. In altre parole, se l'amore non dipende da alcun "merito" di chi è amato, dipende dalla "disponibilità" di chi ama a considerare ed apprezzare le qualità (anche non utilizzabili) della persona amata.

Qui si potrebbe aprire una discussione filosofica relativa alla possibilità di ricondurre l'ammirazione ai desideri o di fondare tale concetto su altre basi. Tale interessante discussione (in ultima analisi relativa al riduzionismo in psicologia) è però del tutto irrilevante ai fini del nostro discorso, quanto lo è quella dello statuto ontologico della soggettività. Di fatto sentiamo cose diverse ed agiamo in modo diverso quando apprezziamo qualcosa o qualcuno da cui ci aspettiamo delle gratificazioni (ulteriori) e quando invece siamo semplicemente contenti che qualcosa o qualcuno esista. Anche per la benevolenza si porrebbe porre il problema della riducibilità. Tuttavia quando atteggiamenti benevolenti o azioni benevole disinteressate verso qualcosa o qualcuno sono attuate senza ambivalenze, ostilità inconsce, preoccupazioni narcisistiche, possiamo distinguerle nettamente dalle azioni orientate alla gratificazione, prescindendo da qualsiasi ipotesi sulle loro condizioni ultime (fisiche o metafisiche) di possibilità.

Questa quasi-definizione dell'amore ha anche il pregio di costituire una sorta di massimo comun divisore delle concezioni dell'amore risultanti dalle varie tradizioni filosofiche e religiose, e da vari ambiti della comunicazione quotidiana. Senza implicare alcuna idealizzazione dell'oggetto, alcun riferimento alla trascendenza, alcuna modalità specifica di manifestazione del sentimento, essa coglie l'idea di un "movimento verso" o di un sentimento "in uscita", che cioè si differenzia dall'idea (connessa al desiderio) di possesso o di fruizione.

Limitando il discorso all'ambito più facile da affrontare, cioè quello dell'amore per le persone, direi che amiamo le persone quando riusciamo a considerarle come soggetti (anziché come nostri "oggetti"), ovvero come entità che elaborano una storia da un particolarissimo punto di vista, costruendo gradualmente un'unica esistenza sospesa fra l'assoluta fragilità della nascita e l'inevitabilità della morte. Quando riusciamo a vedere una persona sotto questo aspetto ("come persona"), possiamo continuare a dissentire da ciò che fa o anche a non aver voglia di starle vicino, però riusciamo a considerarla apprezzabile e preziosa.

Se non fossimo mai presi dallo sforzo di ottenere cose buone e di evitare cose dolorose, riusciremmo ad amare stabilmente tutti. In fondo, cos'altro sono la saggezza o la santità, se non questo? Non è forse quasi ovvio che troviamo difficile amare quando siamo "presi" da qualche bisogno o da qualche paura?
A questo punto possiamo formulare alcune affermazioni, che ora dovrebbero risultare abbastanza chiare:
1) è opportuno definire l'amore come incondizionato; il cosiddetto amore condizionale è un controsenso;
2) è opportuno considerare l'amore come dipendente esclusivamente dalla disponibilità o capacità di chi ama e non da qualche operazione compiuta da chi è amato; quindi, l'amore si può ricevere ma non conquistare
3) se desideriamo essere amati, la cosa più intelligente che possiamo fare è una sola: essere sinceri, in modo da non confondere le idee alla persona da cui vorremmo essere amati e sperare nella sua disponibilità e benevolenza; infatti quando "recitiamo" per farci amare, finiamo o per risultare così antipatici da non essere nemmeno stimati, o per ottenere amore (o stima) per la persona che non siamo;
4) qualsiasi forma di stima, invece, dipende da ciò che si fa e si mostra;
5) il desiderio di stima ed il desiderio di amore sono due cose assolutamente diverse. Anche se possono coesistere, non vanno confuse perché non c’è modo di appagare il desiderio d’amore ottenendo stima.

L'idea che l'amore dipenda da chi ama costituisce un punto di riferimento fondamentale per l'analisi di molte convinzioni irrazionali. A meno che non si voglia ipotizzare un criterio di "amabilità" in base a cui ordinare alcune misteriose qualità "intrinseche" presenti in varie proporzioni nelle persone, dobbiamo accettare che se le persone sono amabili, lo sono per il fatto di essere persone.

L'altro lato della gratuità dell'amore è l'impossibilità di controllare gli altri sul piano dell'amore. In analisi, questo problema ricorre più e più volte, perché ai clienti non piace mai l'idea di non poter meritare l'amore. Questo però va chiarito in tutti i modi ed ogni chiarimento deve essere un'occasione per un lavoro orientato al recupero di vissuti dolorosi, ma (oggi) tollerabili.

Questo discorso ha delle applicazioni molto importanti in ambito analitico, perché ad esempio consente di evitare errori come i seguenti:
a) "comprendere" chi pretende di essere amato
b) "comprendere" chi non si ama (si deprime) a causa di qualche errore commesso
c) "comprendere" chi si accusa di non amare abbastanza e crede di "dover amare" di più (con la convinzione implicita che dopo risulterà a sua volta amabile)
d) "comprendere" chi si offende per essere desiderato e non davvero amato.

In queste situazioni, se l'analista "comprende", perde un'occasione importante per essere d'aiuto. D'altra parte, se non avverte l'irrazionalità delle situazioni descritte, egli stesso sta confondendo amore e stima.
Lavorare su queste convinzioni è indispensabile per
1) portare il cliente a verificare che può tollerare il fatto di non essere (o non essere stato) amato come vorrebbe (o avrebbe voluto);
2) portare il cliente a superare la paura di non essere amato ed a smettere di sprecare la vita per fare quelle stupidaggini che (dal suo punto di vista) lo rendono amabile;
3) aiutare il cliente a desiderare di essere amato senza pretendere l'amore;
4) rendere possibile al cliente, grazie ad un miglior rapporto con sé e con gli altri, anche l'esperienza di amare maggiormente se stesso, la propria esistenza e le altre persone.

L'amore quindi, non è qualcosa "su cui lavorare", ma è in qualche misura sempre presente nella vita delle persone e può "crescere" con il lavoro analitico, ovvero con il superamento della paura di non essere amati e della pretesa di essere amati. Ovviamente l'amore è una di quelle cose che non vanno "cercate" (come la spontaneità, la simpatia, la profondità di esperienza). In analisi si lavora "dentro" la polarità gioia-dolore. Ciò che si ottiene però produce ulteriori cambiamenti, tra i quali una maggior capacità di amare. Non occorre parlare di questo coi clienti; basta avere le idee chiare sulla questione.

Farò ora qualche altra breve considerazione a proposito di alcuni argomenti che, per essere affrontati, richiedono un uso teoricamente ed umanamente sensato del concetto di amore.

Autostima.
In genere si parla di autostima per indicare un buon rapporto con se stessi, ovvero un buon dialogo interiore, una buona immagine di sé, e quindi anche una reale capacità di andare incontro agli altri e di tollerare eventuali frustrazioni. Nel linguaggio qui proposto, tutto ciò dovrebbe ricapitolarsi nel concetto di "autoamore", o "autoaccettazione", o "amore per se stessi". La prima espressione è brutta, la seconda è lunga e abbastanza vaga. Resta l'espressione "amore per se stessi", che è troppo lunga, ma risulta la mia preferita.

Evito invece il termine "autostima", non solo perché è incompatibile con le mie definizioni, ma anche perché è molto "pericoloso". Infatti, il concetto di stima suggerisce quasi sempre, e non solo nel mio quadro di riferimento teorico, qualcosa di ben distinto dall'amore. Nelle pubblicazioni di psicologia e psicoterapia (e non solo nei manualetti-spazzatura del tipo "Come superare la timidezza e ritrovare l'autostima in cinque ore di autoanalisi") si parla in genere di autostima come di una "cosa buona" e che "si deve avere", e il pericolo di questo punto di vista sta proprio nel presupporre una sorta di collegamento fra le questioni di stima e la possibilità di avere un buon rapporto con se stessi, mentre è vero esattamente il contrario: avere un buon rapporto con se stessi significa proprio avere un rapporto non condizionale con se stessi, cioè un rapporto tanto solido da non vacillare nelle circostanze in cui realisticamente una persona deve avere una scarsa stima di sé. Stimarsi sempre e comunque significa avere un'immagine grandiosa. E' segno di equilibrio psicologico stimarsi obiettivamente e non già "stimarsi a sufficienza" o "molto". Se io mi stimassi molto dovrei trascurare i miei lati mediocri o di scarso valore. Se mi stimassi "a sufficienza" dovrei trascurare sia certe miei lati davvero belli che i miei limiti, oppure annullare la specificità della mia persona in una sorta di media aritmetica. I cosiddetti crolli narcisistici avvengono proprio quando la persona che ha un'autostima "forzata" deve improvvisamente ammettere un fallimento, e non si verificano invece mai quando una persona è abituata a esaminare i propri limiti volendosi comunque bene.

Spesso, gli equivoci sull'autostima vengono collegati a quelli sulla cosiddetta "insicurezza". Ma perché mai dovremmo essere "sicuri" di noi stessi? Siamo fragili e limitati. Amarsi è più che legittimo, ma sentirsi "sicuri" è un'assurdità. Sentirsi sicuri di essere amati dagli altri è pura fantasia e sentirsi sicuri di meritare l’amore è un'illusione. Sentirsi sicuri di essere sempre e comunque stimabili è delirio di onnipotenza. Di fatto quando si parla di persone prive di "insicurezze" il più delle volte si parla di individui arroganti e abili a trascurare la loro vera umanità.
Il lavoro analitico, quindi non può essere orientato al "rafforzamento" dell'autostima o del senso di sicurezza. Se il cliente arriva ad accettare la realtà finirà non già per sentirsi "sicuro", ma per smettere di volerlo essere. Con la propria precarietà ritroverà la propria umanità e la capacità di amarsi e sperare (senza pretese o garanzie) di essere anche amato dagli altri.

Intimità.
Questo argomento riguarda ovviamente i rapporti sentimentali, famigliari ed amicali in cui si dà per scontato che ci sia dell'amore. Una verità, spiacevole da ammettere, è che una buona intimità è rara. Più i rapporti sono intimi, più sollecitano la rielaborazione di vissuti dolorosi, più facilitano l'attivazione delle difese. In buona misura, i rapporti "intimi" sono caratterizzati da odio, svalutazione, sfruttamento, illusione, distacco e manipolazione. In genere, le manovre sono consensuali e ognuno dei partner "ricambia" a modo suo. Entrambi comunque fingono che tutto vada bene.
Non sto facendo del pessimismo, ma in analisi si ha l'opportunità di approfondire il reale significato di tante cose che apparentemente "capitano" o "non vengono fatte apposta" o "non hanno senso" e di scoprire che hanno un senso ben preciso (difensivo e distruttivo). Ora, quotidinamente, le persone in analisi vivono questi rapporti confusi, manipolativi e distruttivi con persone non in analisi, e rivivono con esse rapporti già instaurati con dei genitori (che non hanno mai fatto analisi) e cercano e trovano comprensione in amici che pure non sono in analisi (e che proprio per questo “capiscono le loro “problematiche” incomprensibili su un piano razionale e adulto). In altre parole, le persone in analisi non costituiscono "una razza particolare", ma sono persone come le altre, con la fortuna di avere qualche sintomo che li sollecita a guardarsi dentro e con la possibilità quindi di realizzare una maggiore intimità e di superare la paura dei sentimenti profondi. Facendo analisi non trovano certamente cose diverse da quelle che le altre persone in qualche misura troverebbero. Non sono tipi originali incapaci di vera intimità; sono incapaci di intimità più o meno come tutti.

Raramente nei rapporti d'amore si accetta di avere desideri ed aspettative molto forti e quindi di dipendere in modo particolarmente intenso dall'altra persona. Molte relazioni sono costituite da manovre volte a "rubare" pseudogratificazioni sentite come indispensabili, oppure volte a "bilanciare" la dipendenza con segnali di autonomia, fastidio, svalutazione. Il risultato è la costruzione di rapporti a due livelli: al livello più profondo si vivono inconsapevolmente illusioni di appagamento infantile e rancori per il mancato appagamento, mentre consapevolmente si ammettono desideri adulti (che in genere sono poco sentiti). In certi casi o in certi momenti però l’ostilità affiora alla coscienza senza ragioni comprensibili; viene quindi giustificata con dei pretesti e le relazioni diventano confusamente conflittuali.

Nei legami superficiali si chiede poco e si finge che ciò che si ottiene sia sufficiente; nei legami idealizzati si dichiara che si è completamente appagati e ci si illude di esserlo (finché non ci si confronta col fatto che il/la partner è solo una persona, una persona reale); nei legami sadomasochistici (che sussistono anche senza bizzarri comportamenti sessuali) un partner respingente e svalutante sperimenta l'illusione di stare nel "comodo" ruolo della madre frustrante per soffocare atroci vissuti di bisogno e svalutazione, mentre l'altro partner subisce umiliazioni pur di sentirsi vittima e quindi fondamentalmente superiore al partner. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma di fatto la gente sta assieme principalmente per ragioni di questo tipo. Queste non sono le ragioni più profonde, né le uniche, ma sicuramente sono le ragioni che con più efficacia danno un particolare "colore" alle relazioni. Basta notare alcune stonature "minime" nei rapporti di coppia per capire il gioco distruttivo che viene tenuto in piedi sempre ed a tutti i livelli. Io sono un appassionato dei dettagli. Essi chiariscono più cose di un'ora di "confidenze" (cioè, di razionalizzazioni, bugie, manipolazioni).

L'amore va considerato un'emozione?
Dopo le riflessioni già fatte, non voglio più aggirare una domanda che merita di essere posta, e che riguarda la legittimità o opportunità dell’inclusione del concetto di amore nella teoria fra quelli che costituiscono la classe delle emozioni (o azioni emotive). In altre parole: l'amore va inteso come una delle tante emozioni? Di getto risponderei "sì e no", ma questa non è una risposta accettabile.

Penso che l'amore vada considerato un'emozione come le altre, in quanto, come la paura o la gioia delimita un insieme di azioni con le quali una persona affronta la realtà. La presenza fisica o immaginata di una cosa o di una persona o di un'entità astratta ci dà l'occasione per rispondere con gioia, con paura, con dolore, con rabbia … o con amore.
Tuttavia, l'amore non esprime semplicemente il modo in cui la persona si sente e si muove rispetto all'asse piacere/dispiacere, in una data circostanza. Esprime anche la capacità di entrare in contatto con qualcosa o qualcuno prescindendo dai desideri. Amando si fa un'azione particolarmente sottile e complessa che non siamo certi di poter attribuire ai bambini o agli animali superiori. I bambini ed i cani sentono e mostrano desiderio di contatto e dipendenza affettiva, ma non sappiamo se e quanto riescano ad amare. L'amore, così come è stato qui presentato richiede un'elaborazione cognitiva del rapporto più sofisticata di quella implicata dalle altre emozioni (che presuppongono un desiderio); richiede una concettualizzazione della persona in quanto entità indipendente dalla relazione e richiede una capacità di appagamento "di tipo contemplativo" che (a seconda dell'ontologia preferita) è quantitativamente o qualitativamente più profonda di quella normalmente collegata ai desideri. I genitori, quando non sono in difficoltà psicologiche, trattano i figli come persone, ma i figli li trattano solo come genitori; col tempo, imparano, in qualche misura, a trattare i genitori come persone e ad amarli.

Trovo ragionevole considerare l'amore come un’emozione "di ordine superiore", dato che è un’emozione sganciata dai desideri. Infatti, amare è piacevole in un modo assolutamente diverso dall'essere amati. In analisi ci si sente letteralmente abbagliati dalla capacità di amare gli altri che i clienti manifestano quando abbandonano le difese, le paure e le convinzioni irrazionali. In quei momenti diventano "liberi di amare" poiché proprio la paura dei loro vissuti aveva ingabbiato la loro capacità di amare.
Martin Buber ha scritto: "I sentimenti si "hanno"; l'amore accade" (1923, p.69). Trovo molto bella questa frase che coglie in modo profondo la differenza fra l'amore e le altre emozioni. Ho qualche riserva, tuttavia sulla formulazione, perché non direi né che le emozioni si "hanno", né che "accadono"; credo comunque che Buber non avesse in mente un problema epistemologico, e apprezzo la sua idea dell’amore come indipendente dalla logica del desiderio.

Quando la paura dei vissuti dolorosi viene superata, l'amore si sviluppa e si manifesta in modo del tutto spontaneo poiché corrisponde ad una capacità fondamentale di tutte le persone. E' un'emozione che matura nel processo della crescita individuale, e che non va in alcun modo "insegnata", così come non va considerata un obiettivo dell'analisi. E' tuttavia una conseguenza inevitabile di un lavoro analitico ben riuscito. La capacità di amare affiora con il superamento della paura per due ragioni che voglio sottolineare.
a) Finché si teme la sofferenza come un'eventualità intollerabile e quindi da evitare in tutti i modi, si evita ogni coinvolgimento; se non ci si coinvolge non si riesce a vedere che le persone sono davvero persone, e si ama poco o superficialmente;
b) L'espressione dei desideri rende vulnerabili perché espone a delle frustrazioni, mentre l'amore, come azione "gratuita" non espone a questo tipo di frustrazioni; tuttavia espone comunque al dolore poiché qualsiasi sofferenza o sventura subita da una persona amata costituisce un dolore per la persona che ama; amare è un po' come "espandersi" e con l'amore aumentano anche i "punti vulnerabili" della persona.


8. Felicità

Concepire la felicità come una "grande gioia", sarebbe uno spreco concettuale. Quindi, a mio avviso, o rinunciamo ad un uso teorico di questo concetto, oppure lo introduciamo in modo da precisarne specifiche condizioni di applicazione. Sono convinto che sia opportuno optare per questa seconda possibilità e definire il concetto di felicità indipendentemente da quello di gioia. Credo che esso sia indispensabile in una teoria di riferimento per l'analisi, così come lo è il concetto di amore. Per una psicoterapia focalizzata sui sintomi entrambi i concetti sarebbero un lusso inutile, ma per il lavoro analitico, invece, è essenziale distinguere gli stati emotivi "piacevoli" con cui si manifesta l’appagamento di un desiderio da quelli che sono indipendenti da una gratificazione. Come possiamo amare anche chi non è più con noi, o chi non ci è utile, o anche chi ci ha ferito, così possiamo essere felici anche quando non riceviamo gratificazioni particolari o addirittura quando siamo tristi. Ovviamente occorre chiarire a cosa ci riferiamo quando parliamo di felicità, se parliamo di qualcosa che non ha a che fare con la gioia.

Basandoci sui dati osservativi a disposizione di chi studia e lavora sui disturbi psicologici, dobbiamo tener conto del fatto che certi stati d'animo non sono collegabili con quello che è appena accaduto o con quello che la persona si accinge a realizzare. Sono una sorta di "condizione" di base. Uno di questi può essere descritto in termini soggettivi come una sensazione/convinzione che comunque vadano le cose la nostra esistenza merita di essere vissuta. Più i vissuti personali sono integrati, meno ci si sente in balia delle possibilità di appagamento; in questi casi si cerca il piacere, ma con la serenità di un adulto e non con l'urgenza di un bambino. In altre parole, più i vissuti sono integrati, più si sente di tollerare qualsiasi eventualità; più i vissuti sono integrati, più si ha un senso della propria dignità, importanza e completezza che porta a non mettere in discussione il significato di tutta l'esistenza nelle situazioni più difficili.

Tale stato d'animo di base può essere opportunamente indicato col termine "felicità". Se siamo presi dalla "fame" (soprattutto dalla ricerca di ciò che ci è mancato nell'infanzia), possiamo anche distruggere, tradire, rinnegare, ferire chiunque, compresi noi stessi; infatti ci sentiamo "incompleti". Con l'integrazione dei nostri vissuti sentiamo invece compassione per noi, amore per la nostra particolare storia, diamo un senso a ciò che abbiamo fatto di giusto e di sbagliato e di ciò che abbiamo ricevuto di bello e di brutto, consideriamo gli altri a noi vicini come persone e consideriamo la vita come un'avventura da compiere, come un capitale da spendere e non come un bancomat da cui fare prelievi. Credo che il termine "felicità" sia un termine appropriato per indicare il "sentirsi a posto", anche se viene usato con mille significati. Se ci sentiamo a posto, possiamo attraversare un momento buono o pessimo, sentendo che comunque attraversiamo un momento importante. La felicità può essere quindi intesa come una condizione di relativa indipendenza: anche se dipendiamo dagli altri per l'ottenimento di gratificazioni, possiamo in piena autonomia sentirci comunque felici di esistere.

A questo punto, possiamo considerare la felicità come un'emozione? Preferirei introdurre nella teoria il concetto di felicità come relativo ad una sensazione che si realizza nella misura in cui diamo spazio all’emozione dell’amore. Quando si ama una persona (compresa la nostra persona), o si ama quel che si fa, o quel che si capisce, o la realtà nel suo complesso, si è felici.

A volte si sente dire che la saggezza è la chiave della vera felicità. Sicuramente non è la chiave per una gioia intensa e stabile, che comunque vacillerebbe al primo banalissimo mal di denti. Credo che quando si parla di “vera felicità” si parli di questo "sentirsi a posto" o del sentire che comunque "le cose sono a posto.
E' inutile "sforzarsi di essere se stessi" o inseguire "l'autorealizzazione". Meglio cercare in tutt'altra direzione: cercare ed affrontare il dolore. Dalla certezza di poter tollerare il dolore (quello inevitabile) ricaviamo sia la capacità di procurarci la gioia, sia la possibilità di essere fondamentalmente felici. Questo non è il compito dell'analisi: è la ricerca di tutta una vita. Però il lavoro analitico sulle emozioni e sui vissuti è di aiuto.

Con questo non voglio negare che altri percorsi interiori (tecniche meditative e discipline di vario genere, soprattutto di matrice orientale) possano essere importanti. Mi limito solo a sottolineare che l'ostacolo più immediato alla felicità non è l'incapacità di stare stabilmente in un certo stato mentale, ma la capacità di sprecare tutto il tempo a scappare dal dolore ed a creare ulteriori (e non necessarie) occasioni di sofferenza.
Gli analisti non sono guru. Quando si confondono su ciò fanno dei disastri. Se un cliente desidera fare analisi per "perfezionare la sua evoluzione interiore" va scoraggiato. Forse, parlando della questione, troverà qualche ragione per risolvere il vero problema da cui fugge ostinandosi a fare un cammino interiore molto speciale. Io penso che tutti facciano un cammino interiore, e che la ferrea volontà di raggiungere esperienze mentali più raffinate sia paragonabile alla fame di "spontaneità" che contraddistingue le persone più legnose e impacciate. Gli analisti possono aiutare a realizzare alcune condizioni basilari per la felicità. Fatto questo lasciano i clienti liberi di cercare la felicità in una vita normalissima vissuta in tutta la sua intensità o in discipline formali rivolte al raffinamento della loro vita interiore, o in qualsiasi esperienza essi ritengano valida. A quel punto, il "figlio" è partito e l'unica cosa che conta è che vada dove vuole andare, dato che è in grado di aver cura di sé.


Bibliografia

American Psychiatric Association (1994), DSM-IV, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Quarta edizione, trad.it. Masson, Milano, 1996.
S.Arieti (1967), Il Sé intrapsichico, trad.it. Boringhieri, Torino, 1969, rist. 1979.
S.Arieti - J.Bemporad (1978), La depressione grave e lieve, trad.it. Feltrinelli, Milano, 1981 (rist.1991).
R.Assagioli (1988, ed.post.), Lo sviluppo transpersonale, Astrolabio, Roma.
D.Bannister (1977), The Logic of Passion, in D.Bannister (a cura di), New Perspectives in Personal Construct Theory, Academic Press Inc., London, 1977.
E.Berne (1972), "Ciao!"...e poi?, trad.it. Bompiani, Milano, 1979.
M.Buber (1923), Io e tu, trad. it. in M.Buber, Il principio dialogico e altri saggi, Milano, Edizioni San Paolo, 1993.
C.Calabi (1996), Le varieta` del sentimento, in Sistemi intelligenti, anno VIII, n.2, Bologna, Il Mulino.
G.V.Caprara (1988), Emozioni e motivazioni, in V.D'Urso-R.Trentin (a cura di), Psicologia delle emozioni, Il Mulino, Bologna (rist.1990).
G.B.Cassano-S.Zoli (1993), E liberaci dal male oscuro, Tea, Milano (rist. 1998).
C.De Silvestri (1981), I fondamenti teorici e clinici della terapia razionale emotiva, Astrolabio, Roma.
V.Frankl (1952), Alla ricerca di un significato della vita, trad.it. Mursia, Milano, 1974 (rist.1996).
S.Freud (1915-17), Metapsicologia, trad.it. in Opere, vol. VIII, Boringhieri, Torino,1976.
S.Freud (1926), Inibizione, sintomo e angoscia, trad.it. in Opere, vol. X, Boringhieri, Torino, 1978.
E.R.Hilgard (1953), Psicologia-corso introduttivo, trad.it. Giunti-Barbera, Firenze, 1971.
P.N.Johnson-Laird e Keith Oatley (1988), Il significato delle emozioni: una teoria cognitiva e un'analisi semantica, trad.it. in V.D'Urso-R.Trentin (a cura di), Psicologia delle emozioni, Il Mulino, Bologna, 1988 (rist.1990).
G.A.Kelly (1977, pubblicazione postuma), The Psychology of the Unknown, in D.Bannister (Editor), New Perspectives in Personal Construct Theory, Academic Press, London, 1977.
O.Kernberg (1984), Disturbi gravi della personalità, trad.it. Boringhieri, Torino, 1987 (rist.1994).
S.Kopp (1971), Guru, trad.it. Astrolabio, Roma, 1980.
E.Peterfreund (1978), Some Crtical Comments on Psychoanalytic Conceptualisation of Infancy, in The International Journal of Psychoanalysis, Vol. 59, 1978.
W.Reich (1942), Biophisical Functionalism and Mechanistic Natural Science, in International Journal of Sex-Economy and Orgone Research, Vol. I, No. 2, 1942.
J.D.Safran - Z.V.Segal (1990), Il processo interpersonale nella terapia cognitiva, trad.it. Feltrinelli, Milano, 1993.
R.Schafer (1976), A New Language for Psychoanalysis, Yale University Press, New Haven and London, rist.1978.
R.Schafer (1983), L'atteggiamento analitico, trad.it. Feltrinelli, Milano, 1984.


PM - HOME PAGE ITALIANA NOVITÁ RIVISTA TELEMATICA EDITORIA MAILING LISTS