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Gianfranco Ravaglia

L'INTENZIONE RITROVATA
Intenzioni e vissuti nel lavoro analitico




CAPITOLO 4
Intenzionalità delle difese


1. Il lavoro analitico come analisi dell’intenzionalità difensiva

Cercherò di mostrare perché trovo sia sensato che opportuno considerare le difese come azioni, ovvero come interventi intenzionali della persona sulla realtà attuati per impedire o limitare o alterare il contatto con qualche forma di sofferenza emotiva.

Tra le difese includo molti comportamenti ed atteggiamenti che in genere vengono presi in considerazione separatamente: ciò che si fa in senso stretto, ciò che si fa "nella testa" (dialoghi interni, illusioni, costruzione di immagini non realistiche di sé, ecc.), il modo in cui si comunica o si opera (atteggiamenti, tratti caratteriali, strutture caratteriali o della personalità), ciò che si fa interagendo con gli altri (sintomi, provocazioni, "giochi"), oppure che si attua nel tempo (atteggiamenti verso la propria esistenza e "copioni"), ciò che si fa con maggiore o minore consapevolezza (comportamenti ammessi e in qualche modo razionalizzati oppure disconosciuti), ciò che si fa nel proprio corpo (alterazioni del tono muscolare o di specifiche funzioni).

Questa accezione decisamente ampia del concetto di difesa è giustificata dalla concezione intenzionale delle azioni; in questa prospettiva, cose molto diverse vengono accomunate proprio dall'essere una costruzione personale che ostacola il contatto con il dolore. Le difese non proteggono dal dolore, ma solo dalla consapevolezza di un dolore già sperimentato (impedendone l'elaborazione ed il superamento) o di un dolore comunque inevitabile. Esse riducono inoltre la capacità di sperimentare la gioia e la felicità.
Il lavoro analitico sulle difese ha l'obiettivo di aiutare il cliente a rinunciare alla sua pretesa infantile di vivere senza soffrire ed a scoprire che ha sia le risorse adulte per tollerare il lato doloroso dell'esistenza, sia la possibilità di vivere per qualcosa anziché per evitare qualcosa. Il lavoro analitico quindi non cura una malattia, ma favorisce la scelta di agire in modi non difensivi per scopi non difensivi.

Vorrei ora elencare alcuni enunciati fondamentali che delineano la concezione intenzionale delle difese.
a) L'esistenza umana è costitutivamente intrisa di dolore come di gioia; gli adulti hanno la capacità di tollerare sia le esperienze gioiose che quelle dolorose, ma tale capacità manca ai bambini, i quali percepiscono e classificano come una vera minaccia per la loro sicurezza le esperienze più dolorose di solitudine, rifiuto, sostegno inadeguato e contatto labile.
b) Il sistema delle difese individuali elaborato nell'infanzia, è una risposta adeguata al dolore in quanto riduce il contatto con il dolore; produce tuttavia altre forme più superficiali di sofferenza.
c) Tale sistema viene costruito inconsciamente e"senza scadenza"; esso si protrae quindi anche nelle epoche successive in cui è inutile perché la persona, diventata adulta, dispone di risorse sufficienti per l'elaborazione del dolore.
d) Le difese servono quindi a non sentire delle reali sofferenze (o almeno a soffrire in modo più tollerabile nell’infanzia). Le sofferenze che gli adulti vorrebbero "curare" con la psicoterapia, sono invece conseguenze (divenute troppo ingombranti) del mantenimento delle difese. Esse sono cioè il prezzo che il cliente inconsciamente sceglie di pagare per mantenere atteggiamenti e comportamenti difensivi rispetto al lato realmente doloroso della vita. Il cliente vorrebbe mantenere le difese (di cui non è cosciente) senza però soffrire per le conseguenze che esse producono.
e) Il paradosso dell'analisi sta nel fatto che il cliente entra in analisi perché "sta male" (superficialmente ed irrazionalmente) e vorrebbe "star bene", mentre l'analisi lo conduce al dolore profondo, più temuto di quello prodotto dalle difese. Il lavoro analitico demolisce l'illusione di poter stare semplicemente bene, ma favorisce un maggior contatto con la realtà e rende possibili esperienze realistiche e profonde di gioia e di felicità proprio distruggendo i sogni infantili di benessere.
f) L'analisi, quindi, si articola in certi passaggi logicamente connessi: riconoscimento dell'intenzionalità difensiva, confronto con i vissuti dolorosi temuti, riclassificazione dei vissuti (da intollerabili a tollerabili); elaborazione del dolore antico; accettazione del dolore come uno degli aspetti costitutivi dell'esistenza; sperimentazione di nuove e più profonde esperienze umane e ridefinizione del progetto esistenziale (dal progetto di vivere per evitare qualcosa a quello di vivere per qualcosa).
g) Questa concezione va intesa in senso forte, cioè va applicata a tutte le problematiche che il cliente porta in analisi: il cliente fobico ridottosi a vivere in uno spazio limitatissimo, il cliente depresso, il cliente tormentato dai sensi di colpa sono da considerare come degli edonisti incalliti e non delle vittime di una malattia. Ogni cedimento "pietoso" equivale ad una collusione e comporta la rinuncia a favorire un cambiamento profondo.
h) Questa chiave di lettura per le difese non si applica solo a processi difensivi associati a sintomatologie, ma si applica a tutte le azioni difensive che purtroppo permeano la sfera della "normalità": tante cose che vengono spacciate per scelte ideologiche o etiche, interessi culturali o convinzioni filosofiche, gusti o abitudini, istanze libertarie, senso di responsabilità, passioni o manifestazioni d'amore, effetti dello "stress" o incapacità di scegliere, ecc. sono semplicemente tentativi di evitare il contatto con il dolore.
i) Uno dei prezzi che si paga per portare a buon fine un percorso analitico personale e per diventare coscienti delle proprie difese è quello di scoprire che la realtà sociale, è in buona parte costruita proprio per "dimenticare". Realizzare un buon rapporto con se stessi, diventare capaci di gioire e di stabilire rapporti costruttivi, acquisire la sensazione e la convinzione di vivere una vita significativa sia nei momenti belli, sia in quelli brutti, costa quindi molto: comporta sia l'elaborazione del dolore antico, mai integrato, sia l'accettazione del dolore inevitabile nella vita attuale e futura. Comporta anche la consapevolezza di una solitudine prima mai percepita con chiarezza, rispetto a persone, realtà sociali e culturali marcatamente orientate a occultare la morte ed il dolore e ad alimentare forme illusorie di potere, piacere, conoscenza.


2. Meccanismi di difesa e difese caratteriali

Vorrei ora fare alcune precisazioni su questa concezione delle difese, confrontandola con il concetto freudiano di "meccanismi di difesa" e con quello reichiano di "difesa caratteriale" (o di "blocco").

Nella teoria psicoanalitica i meccanismi di difesa sono considerati sbarramenti contro le pulsioni. Freud considera ogni difesa come una protezione dell'Io rispetto alla minaccia costituita dalle richieste dell'Es. In realtà, non si capisce la necessità di ipotizzare un "Es" in sé pericoloso, una sorta di mina vagante stupidamente salvata dalla selezione naturale. Anche per Anna Freud le difese sono rivolte contro i "pericoli istintuali" (1936, p.63) e "Le ragioni della difesa contro l'affetto si trovano semplicemente nel conflitto tra Io e istinti" (p.70). Se però si tiene conto del fatto che le cosiddette "pulsioni" sono "pericolose" solo nella misura in cui l'ambiente famigliare non risponde adeguatamente alla loro espressione, diventa più ragionevole concepire come significativo il conflitto fra le azioni del bambino e quelle delle figure genitoriali e considerare le difese come tentativi di ridurre il contatto emotivo con frustrazioni e mancanze percepite come troppo dolorose per essere tollerabili. In altre parole sembra ragionevole considerare le difese come azioni con cui il bambino si protegge dal contatto con il dolore, cioè con un’emozione, non con una pulsione.

Wilhelm Reich diede un grande contributo alla psicoanalisi, alla psichiatria ed alla psicoterapia sottolineando la specificità e l'importanza delle difese caratteriali. Prima di spendere qualche parola sul passaggio dalla lettura psicoanalitica delle difese alla caratterologia reichiana, vorrei però accennare all'uso corrente dei termini "carattere" e "personalità".

Sul rapporto fra questi due termini si devono registrare diverse posizioni discordanti, anche se spesso tali termini sono trattati come intercambiabili. Il DSM-IV, nel glossario, include una definizione del concetto di personalità, ma non riporta la voce "carattere"; la riflessione teorico-clinica sulle difese caratteriali e sulle strutture caratteriali finisce quindi inevitabilmente per rientrare nello studio dei tratti non adattivi della personalità che configurano un "Disturbo di Personalità". Dato che comunque non solo nella scuola reichiana ma anche nella psicoanalisi ed in altri indirizzi della psicoterapia il concetto di carattere ha una sua (più o meno centrale) collocazione, non rinuncerò ad utilizzarlo.
Se accettiamo di considerare la personalità come l'insieme delle "Modalità perduranti di percepire, rapportarsi o pensare a sé stesso e all'ambiente" (A.P.A., 1994, p.830) dobbiamo fare una distinzione fra le componenti che consideriamo semplicemente "date" e quelle che consideriamo significative per i disturbi psicologici. Tra le prime sono da tener presenti i particolari talenti e le specifiche inclinazioni o sensibilità. Tra le seconde si possono invece includere le difese caratteriali. Esse, a differenza delle difese più circoscritte, si riferiscono alle modalità diffuse e stabili con cui le persone limitano le loro possibilità di autopercezione, comunicazione e contatto.

Il carattere fu considerato da Freud in pochi scritti senza assumere comunque un ruolo fondamentale nella teoria. In termini abbastanza generici Freud considerò il carattere come formato da pulsioni infantili, da costruzioni ottenute per sublimazione e da costruzioni destinate a frenare moti perversi (1905, p.542). In seguito egli incluse tra le componenti del carattere anche il processo di identificazione (1922, p.491) e la formazione del Super-io (1932, p.200). In alcuni brevi saggi (1908, 1916, 1917, 1931) descrisse alcuni meccanismi caratteriali senza giungere comunque ad una elaborazione sistematica ed approfondita del concetto di carattere. Ricondusse la differenza fondamentale fra carattere e sintomo nevrotico al fatto che solo in quest'ultimo si verificherebbe un "fallimento della rimozione ed un ritorno del rimosso" (1913, p.241).

Karl Abraham (1925) sviluppò in modo più sistematico la caratterologia freudiana e Sandor Ferenczi sottolineò l'importanza del lavoro analitico sulle difese caratteriali (1928) nell'ambito della sua "tecnica attiva". Le più approfondite riflessioni sul carattere e sul lavoro analitico-caratteriale di Otto Fenichel (1941, 1945) e di molti altri psicoanalisti presuppongono comunque i contributi radicalmente innovativi portati da Wilhelm Reich allo studio dell'argomento. Infatti, prima di Reich, "la teoria psicoanalitica della patologia psichica si sviluppò in una concezione che sottolineava l'importanza di particolari ricordi repressi patogeni per la loro carica emotiva, del tutto separati dalla personalità. I sintomi nevrotici risultavano in quel periodo specifiche intrusioni nella normale vita psichica" (D.Shapiro, 1996, p.4).

Reich avviò le sue indagini sulle strutture caratteriali concentrando la sua attenzione su particolari resistenze: "Certe esigenze cliniche ci costringono a distinguere, fra le varie resistenze che incontriamo nel trattamento dei nostri malati, un gruppo particolare che chiamiamo "resistenze caratteriali". Queste non si distinguono per il loro contenuto, ma per il modo specifico di agire e di reagire dell'analizzato" (1945, p.69). Nella concezione reichiana, a volte, carattere e corazza muscolare vengono considerati concetti distinti (1945, p.8) e a volte vengono sovrapposti (1948, vol. II, p.378). Sia nella iniziale ricerca psicoanalitica sul carattere, che nella seconda fase centrata sullo studio delle difese muscolari (ipertonia) Reich sottolineò la "funzione attuale" del carattere, consistente nell'impedire l'orgasmo genitale. In altre parole, sia parlando di libido e di intralcio alla genitalità, sia parlando di bioenergia e di blocco della scarica dell'energia, l'interpretazione "economica" (quantitativa) delle difese fu centrale nelle riflessioni di Reich.

Questa impostazione comporta inevitabilmente uno spostamento di attenzione dalla persona (che agisce in modo difensivo) alla "realtà oggettiva" (costituita dagli squilibri energetici esistenti nella persona). Lasciando da parte il discutibile spostamento del livello d'analisi dalla persona ai processi “bioenergetici”, vorrei sottolineare che questa impostazione finisce inevitabilmente per sottovalutare gli aspetti più significativi degli atteggiamenti caratteriali.

Se si focalizza la diagnosi e la strategia terapeutica su tensioni fisiche, atteggiamenti rigidi ed impedimenti all'espansione, inevitabilmente si finisce per trascurare tutto l'ambito delle difese più primitive, in cui scissioni, acting out, mantenimento di immagini illusorie di sé e degli altri limitano il contatto in modalità ben più radicali ed irriducibili a qualsiasi oggettivazione fisiologica. Certe persone hanno un'estrema facilità nella comunicazione ed anche nell'espressione della sessualità semplicemente perché non sono realmente coinvolte. Certe persone riescono a disconoscere quello che fanno o ad annullare un'emozione facendo un'azione che drasticamente le catapulta in un altro universo esperienziale. Cosa "bloccano"? Gli occhi? La respirazione? Il bacino? I tentativi di ricondurre tutte le modalità caratteriali difensive a rigidità fisiche è un tentativo fallito in partenza. Immagini grandiose di sé orientano la vita di persone diversissime sul piano corporeo e sul piano del comportamento. Si può fallire apposta in tutto con qualche scusa per evitare un confronto reale coi propri limiti ed alimentare l'idea che "in altre condizioni" la propria natura "speciale" avrebbe avuto la possibilità di esprimersi. Però si può anche dimostrare una competitività sfacciata e imporre il proprio successo in continuazione. Come osserva Kernberg, "in alcuni gravi disturbi del carattere, l'esprimersi alternativamente di aspetti complementari di un conflitto, come la messa in atto di un impulso in certi momenti e di specifiche formazioni difensive del carattere contro l'impulso in altri, è un'espressione della scissione" (1976, p.46) ed in tali casi solo un lavoro sulla scissione stessa può consentire un'utile analisi dei due aspetti del conflitto. Kernberg ha inoltre sottolineato che la semplice opposizione di impulso e difesa non riesce a cogliere in profondità il fatto che nella strutturazione di certe difese il bambino non si limita a trattare difensivamente un certo impulso, ma un'intera relazione oggettuale: "In certi momenti, mentre proietta una rappresentazione oggettuale parentale sull'analista, il paziente riattiva una rappresentazione del Sé nell'interazione con quella figura traslativa; in altri, proiettando la rappresentazione del Sé sull'analista, il paziente s'identifica con la corrispondente relazione parentale" (1976, p.80).

Secondo George Downing il modello reichiano "Rispecchia in modo inadeguato le strutture della nostra esistenza e immagina un corpo privo di soggettività. Va completamente perduto proprio ciò che è importante capire nell'unità mente-corpo, l'intenzionalità, quell'essere diretti all'esterno di noi stessi che ci caratterizza, e il senso di essere soggetti delle nostre azioni" (1995, p.358). Downing, oltre a riconsiderare i fondamenti di un lavoro analitico anche corporeo, fa delle interessanti correzioni ed aggiunte relative alla diagnosi corporea e propone molti validi suggerimenti tecnici per il lavoro sugli aspetti fisici degli atteggiamenti difensivi. La sua attenzione alle fasi preverbali dello sviluppo individuale e quindi alle difese più primitive così come sono state spiegate dalla teoria delle relazioni oggettuali e da altre teorie, gli consente di inquadrare il lavoro corporeo in un quadro di riferimento profondo ed articolato.

La concezione reichiana delle difese caratteriali è stata inizialmente una lettura del carattere come meccanismo di protezione dell'Io; in seguito è diventata una lettura della reattività difensiva dell'intero organismo. In tal modo, la persona che era considerata riduttivamente un teatro in cui varie entità "interne" operavano, si è poi dissolta in una globale realtà biofisica o "vitale". Entrambi gli approcci non lasciano spazio all'interpretazione delle difese caratteriali come attività della persona.
Solo in termini personali possiamo capire cose semplicissime, altrimenti inspiegabili, come la differenza fondamentale che esiste fra le modalità di autocontrollo deliberate e giustificate e quelle inconsce (o consce, ma razionalizzate) intese a evitare il contatto con emozioni profonde: sia una persona che evita un incontro di natura sessuale perché ritiene che non sia il momento giusto, sia una persona che fa la stessa scelta per paura di sentirsi dipendente (e razionalizza il fatto svalutando chi potrebbe incontrare) dovrebbero registrare lo stesso "blocco" sul piano "energetico", eppure solo la seconda si sentirà tesa, rabbiosa o depressa, o avrà mal di testa o nausea.
Le più delicate forme di difesa caratteriale vengono costruite non in seguito ad esperienze di rifiuto o di punizione, ma nell'ambito di relazioni con figure genitoriali emotivamente distanti o manipolative. Con il genitore che dà per scontato di conoscere i veri bisogni del figlio, o con il genitore che è fisicamente presente, ma privo di autentico contatto, il bambino non deve arginare nulla che possa rientrare nella metafora del "flusso": deve piuttosto ridefinire la propria immagine di sé per non trovarsi in una situazione cognitivamente insostenibile e deve ignorare le sensazioni di dispiacere non comprensibili all'interno di una relazione apparentemente perfetta. Il bambino preferisce non sentire piuttosto che sentire ciò che non può capire e preferisce pensarsi in modi conformi alla definizione del rapporto data dall'adulto. Se anche questa modalità di protezione non funziona, il bambino può trovare vantaggioso sprofondare in una situazione di maggior distacco o di confusione.

La logica dello "sblocco" è inoltre pericolosa proprio in quanto collude con le aspettative (del cliente) di "star bene". Non riesco a capire come un terapeuta che opera con l'obiettivo di "riequilibrare" dei flussi o di "liberare" la motilità possa condurre il cliente a confrontarsi con la tragicità dell'esistenza e con la possibilità di affrontarla in modo comunque costruttivo. Gli esseri umani vivono con gioia pur sapendo di dover morire ed anche di morire un po' ogni giorno. Sperimentano cioè una gioia tipicamente umana, che non coincide con la pura "espansione", perché comporta molto di più: l'amore per ciò che si scopre come significativo, l'intimità giocosa ma seria con un partner accettato come particolarissima presenza, la costruzione e la creazione di situazioni considerate buone. L'uomo è fatto di protoplasma come un'ameba, ma sicuramente sperimenta il fatto di esistere in modi molto diversi.


3. Dolore e angoscia

Sia Freud che Reich hanno posto l'angoscia al centro delle loro riflessioni sulla formazione dei sintomi e del carattere.
Reich ha scritto molto sull'antitesi basilare di piacere e angoscia e nelle sue speculazioni sessuoeconomiche ha discusso la cosiddetta "angoscia dell'orgasmo". Tuttavia questa opposizione, pur evidente, non può stare al centro di una teoria esplicativa volta a focalizzare il nucleo intenzionale delle difese. Si ha simpaticotonia o parasimpaticotonia indipendentemente dal fatto che la persona si stia difendendo da vissuti profondi o sia in contatto con sé e con la realtà. Si può essere angosciati in una situazione conflittuale nevrotica oppure perché una reale minaccia incombe. In entrambi i casi c’è una contrazione, ma per ragioni molto diverse. Anche sul piano della riflessione esistenziale, ogni sottolineatura dell’angoscia rispetto al dolore ha dato luogo a speculazioni filosofiche ambigue.
Ciò che nel contesto difensivo di un disturbo psicologico viene evitato è il dolore, non l’angoscia. Nell’esistenza umana, proprio la compresenza di gioia e dolore, e di vita e morte costituisce una sfida per la nostra saggezza; l’angoscia "esistenziale" costituisce invece solo una difesa intellettualmente raffinata che riduce il contatto con la componente dolorosa dell'esistenza.

Il dolore, quello vero, non corrisponde ad uno stato di contrazione, ma di afflizione. Nel dolore, nel pianto, nell'accettazione di una perdita, non c'è riduzione della respirazione, non c'è sudore freddo, non c'è tensione muscolare. Parlerò più avanti del dolore e del processo del lutto. Ora mi basta sottolineare che gioia e dolore costituiscono le due polarità della consapevolezza e del sentire, quelle che delimitano la "pienezza" e la "mancanza" nella nostra vita personale. In entrambi i casi non c’è angoscia né difesa. L’angoscia, salvo nei casi di pericolo reale, indica il rifiuto di integrare il dolore. Nei disturbi psicologici "ci si ferma a metà", ci si irrigidisce nella contrazione proprio perché ci si rifiuta di integrare i due lati dell'esistenza. Le persone si proteggono dal dolore e scelgono l'angoscia, cioè la "sospensione" dell'esperienza anziché il confronto lucido e sentito con la realtà. Hanno scelto questo atteggiamento nell’infanzia, quando erano troppo fragili per determinate esperienze; nella vita adulta, continuano irrazionalmente a classificare come intollerabili certe situazioni dolorose.
L'angoscia, non costituisce quindi il nucleo del percorso analitico. L'angoscia è uno dei temi su cui si lavora, non l'elemento da scoprire, affrontare, integrare. Questo elemento centrale è il dolore. E l'analisi mira appunto a smascherare le apparenti "difficoltà" in quanto manipolazioni compiute per evitare il contatto con il dolore, e per mantenere l'illusione che l'esistenza possa essere un semplice e continuo stato di appagamento e benessere. Nelle situazioni in cui c'è effettivamente un pericolo ed in cui le persone agiscono in contatto con la realtà, l'angoscia è l'emozione che viene sentita ed espressa fino a quando il disastro viene sventato o subito. Una volta che il pericolo è scomparso, la persona torna rilassata o perché è felice o perché è addolorata.

Una cliente, che chiamerò Cecilia, aveva fatto per circa quattro anni un lavoro analitico abbastanza soddisfacente attraverso il quale aveva superato le crisi di bulimia e affrontato il senso di vuoto da cui si era in vari modi sempre difesa. Il lavoro sui suoi vissuti non era ancora completo, ma ormai Cecilia conduceva una vita soddisfacente, aveva stabilito un buon legame sentimentale con un ragazzo e aveva realizzato gli obiettivi che si era proposta sul lavoro. La morte improvvisa e drammatica di un suo amico fu un'esperienza difficile da gestire e Cecilia mi comunicò di aver avuto sensazioni di panico che da tempo non aveva più.

C. Non riesco ad accettare l'idea che sia scomparso. Era un amico davvero caro e mi era stato molto vicino nei miei momenti più difficili. Non ho voluto vederlo morto. Non avrei resistito a vederlo … tutto rigido. Di sera ho avuto momenti di panico con palpitazioni. Ho anche dormito con la luce accesa perché non mi bastava avere il mio ragazzo vicino.
GF. Di cosa esattamente avevi paura?
C. Non so. Della morte, del fatto che la morte possa essere così improvvisa. Del fatto che potrei morire improvvisamente o che qualcun altro potrebbe non esserci più da un momento all'altro. Mi terrorizza il pensiero di non poter più toccare chi toccavo, o l'idea di persone morbide che sono diventate rigide. Di giorno sto meglio che di notte. Appena ricevuta la notizia ho pianto, ma in seguito non sono stata capace di riprendere quel pianto e ho cominciato ad aver paura.
Cecilia fa delle considerazioni e delle fantasie sulla morte in termini emotivamente intensi e questo è comprensibile per una persona in lutto. Devo tuttavia isolare il punto meno ovvio del suo discorso per poter identificare un elemento capace di rendere conto del panico. Infatti, non accettando l'idea che la perdita possa "causare" una paura irragionevole, voglio capire di quale vissuto personale doloroso (associato alla morte dell'amico) Cecilia abbia realmente paura. Noto la ripetuta sottolineatura della rigidità cadaverica. Sembra che quello sia l'elemento chiave di fronte a cui Cecilia ha interrotto il pianto e l'elaborazione di un lutto attuale per costruire una barriera di confusione e di paura tale da impedire il contatto con un vissuto di perdita.
GF. Non credo che tu non sia stata più capace di piangere. Con le paure hai interrotto il pianto. Vorrei che mi aiutassi a capire di cosa realmente hai avuto paura dopo aver iniziato a sentire e ad esprimere il dolore.
In passato Cecilia mi aveva descritto il comportamento respingente della madre come "rigido", e ovviamente prendo in considerazione l'idea che l'evidenza della morte, dell'andar via di qualcuno abbia favorito in Cecilia il riaffiorare del suo vissuto di desiderio non appagato. Tale vissuto era già stato affrontato in analisi, ma una tragedia come la morte di un amico può sollecitare strati molto profondi di una situazione emotiva. Tuttavia non credo di avere elementi sufficienti per questa interpretazione e penso che proponendola a Cecilia non farei altro che favorire un’inutile conversazione. Voglio invece che la mia cliente mi fornisca o una conferma della mia congettura o una pista alternativa.
GF. Non ho capito la ragione di questo brusco slittamento dal dolore ragionevole alla paura irrazionale, ma ho notato che fra i tanti aspetti che si possono sottolineare a proposito della morte tu hai ripetutamente parlato della rigidità.
C. Sì; non so perché ma questo aspetto mi colpisce molto.
GF. Va bene. Vuoi fare un piccolo lavoro, magari inutile, che però potrebbe anche chiarirci meglio la cosa?
C. D'accordo.
La invito a passeggiare con me per la stanza tenendomi sottobraccio. Ogni tanto mi blocco improvvisamente irrigidendomi. Cecilia, stando a stretto contatto fisico con me, percepisce più con il corpo che con la vista il mio repentino cambiamento.
GF. Cosa senti?
C. Una gran rabbia. Capisco che è solo un esercizio, ma non sopporto che tu faccia così.
GF. Perché tanta rabbia per qualche piccola sosta?
C. Non so, ma quando fai così mi sento "persa".
A questo punto ho la conferma della mia ipotesi. Il vissuto è quello (già noto) di smarrimento e la rigidità "terribile" non riguarda l'amico. Voglio che Cecilia collochi la sua emozione vera nel contesto giusto.
GF. Quanti anni senti di avere?
C. Pochi. [Scoppia a piangere, con lacrime e singhiozzi].
GF. [Dopo un po']. La morte del tuo amico è una cosa molto dolorosa. Come donna ne sei davvero afflitta, ma non spaventata. La tua paura non riguarda eventuali nuove perdite che non sono certo diventate più probabili dopo quell'evento. La tua paura riguarda la possibilità di sentire più intensamente una vecchia sofferenza. Una disperazione che da bambina non potevi tollerare. Oggi non puoi annullare una sofferenza che comunque fa parte della tua vita e costituisce la persona che sei. Puoi sentirla quanto basta per non temerla più e per non confonderti più se riaffiora.

Questo piccolo lavoro è importante per le nostre considerazioni sulla teoria del percorso analitico. Finché si fa ruotare l'analisi attorno all'angoscia, alla paura e al panico non si può intervenire per produrre un vero cambiamento proprio perché si considerano tali emozioni come effetti di qualcosa e non come azioni difensive (modificabili). Inevitabilmente ci si dedica a "rafforzare" ipotetiche "strutture" della persona e si rinuncia a capire ciò che la persona fa e come può cambiare (pagando il prezzo di un confronto con il dolore). In altre parole la paura (come le sue varianti) non è né meno importante né meno brutta del dolore (o delle sue varianti), ma non è ciò che si cerca in analisi: essa va attraversata per cercare il dolore. La paura non può essere "elaborata" ma solo dissolta. La paura reale di un pericolo attuale cessa con il cessare del pericolo, mentre la paura di un vissuto emotivo cessa nella misura in cui si prende confidenza con tale vissuto.


4. La doppia intenzionalità (D.I.)

Nel corso del lavoro analitico si registra sempre e comunque una "doppiezza" nella partecipazione del cliente al processo di cambiamento. Da un lato (consciamente) il cliente stabilisce una collaborazione con l'analista aderendo al progetto di lavorare su alcuni sintomi e su certi aspetti non chiari della sua vita. Da un altro lato fa di tutto per evitare o rinviare la realizzazione dei cambiamenti che sono anche profondamente temuti.
Tale doppiezza non è un problema in quanto è un aspetto normalmente trattato nel lavoro analitico. In generale si esprime in "resistenze" che non stupiscono l'analista come un "tradimento", ma che costituiscono lo stimolo per il suo lavoro. Ogni volta che le resistenze vengono analizzate, come le varie difese, il cliente diventa cosciente di ciò che faceva "di nascosto a se stesso" e l'atteggiamento difensivo cede terreno alla collaborazione ed al cambiamento.
Vorrei ora discutere una resistenza e una modalità difensiva che è fondamentalmente una "metadifesa", in quanto riesce a disturbare il lavoro analitico sulle difese.

Tutta la ricerca clinica di stampo psicoanalitico sui "meccanismi di difesa" è iniziata con un vizio di impostazione implicito già nell'uso del termine "meccanismo". Tale termine indica processi oggettivi. Nessuno direbbe di avere il "meccanismo" di rilassarsi in mezzo alla natura appena può e chiunque direbbe che una macchina dà i risultati prestabiliti solo se i suoi meccanismi sono integri.
Anna Freud, nel suo scritto L'Io e i meccanismi di difesa (A.Freud, 1936) ha orientato con decisione lo studio psicoanalitco dei fenomeni psichici nella direzione dell'analisi dei meccanismi dell'Io. Ha così contribuito in modo notevole alla concezione "oggettivistica" della psicoanalisi secondo la quale l'analisi dell'agire delle persone consiste nella conoscenza dei processi presenti in certe "parti" (oggettivate) delle persone stesse, come ad esempio il cosiddetto "Io".
Nella teoria psicoanalitica il termine resistenza riguarda le difese attivate nell'ambito del lavoro analitico e quindi si colloca nel contesto della teoria della tecnica, mentre il concetto più generale di difesa si riferisce alla teoria dell'apparato psichico.
L'elenco dei "meccanismi di difesa" compilato con cura da Anna Freud (e aggiornato dai suoi allievi più o meno ortodossi) costituisce un utile punto di riferimento, anche se riduce sostanzialmente le persone ad oggetti più o meno funzionanti o "rotti" e quindi da "riparare" (nella logica medica della "terapia").
Una certa ambiguità tra la lettura "oggettivistica" e "intenzionalista" delle difese è presente anche nelle ricerche avviate da Reich sulle cosiddette difese caratteriali (W.Reich, 1928; W.Reich, 1945).
Respingendo le prospettive riduzionistiche (pseudo-scientifiche) preferisco concepire le persone come soggetti portatori di intenzioni e progetti (consci o inconsci), e quindi preferisco cercare di capire il significato delle azioni (razionali o irrazionali) piuttosto che immaginare di poter comprendere e riparare "processi" o "meccanismi". Tale differenza nell'ottica di partenza mi porta a fare anche scelte terminologiche diverse. Parlo di difese, atteggiamenti difensivi, strategie difensive implicando un'intenzionalità (magari non conscia) di un soggetto e non parlo mai di "meccanismi".
Considerando le difese come azioni (intrapersonali o interpersonali) volte a escludere il contatto con una situazione attuale dolorosa o con un vissuto doloroso, il livello d'analisi adottato è quello della persona e non del cosiddetto “apparato psichico”. Si esclude altresì qualsiasi problematica (non falsificabile) relativa ad una ipotetica conflittualità originaria fra pulsioni e Io. Escludendo l'idea di pulsioni "originarie" tali da minacciare l'Io rendiamo possibile una più profonda comprensione dei fatti. I bambini trobriandesi (ed anche alcuni fortunati bambini appartenenti alla cultura occidentale) fanno giochi sessuali senza alcun timore (cfr.B.Malinowski, 1927) poiché le pulsioni genitali infantili (ed anche quelle pregenitali) sono pericolose solo dal momento in cui un intervento parentale crea un'associazione fra eccitazione e svalutazione, punizione, rifiuto. Allo stesso modo quando in ambito psicoanalitico si parla dell'angoscia sollecitata da pulsioni distruttive presenti nel neonato, si compie un'operazione concettuale che salva la teoria ma non spiega nulla che non si possa spiegare in modo più semplice e chiaro: perché mai un neonato dovrebbe avere impulsi distruttivi se viene allattato in modo adeguato da una madre realmente appagante e capace di contatto?. Se nel neonato affiorano impulsi ostili (che potrebbero anche angosciarlo) essi sono comprensibili come reazioni ad una esperienza penosa. Gli studi sulle sequenze di brevi episodi di separazione e riunione fra madri e bambini fatte da M.D.S. Ainsworth e altri nel 1978 sono a questo proposito molto interessanti: "Si può facilmente inferire come il pattern di attaccamento mostrato dal bambino nella Strange Situation sia una strategia ben organizzata che corrisponde al modo con cui il genitore gli ha fornito cura" (G. Liotti, 1999).
Se escludiamo irragionevoli componenti distruttive della pulsionalità ed escludiamo ingiustificate mappe "strutturali" di una ipotetica "realtà" psichica, ci troviamo la via libera per un’indagine sull'agire delle persone che (nell’infanzia e nella vita adulta) temono solamente il dolore. Con l'unica differenza che da adulti gli esseri umani possono tollerare esperienze dolorose che da piccoli non tollerano. Mentre gli adulti (se funzionano in modo adulto) cercano di evitare il dolore ma accettano comunque il contatto emotivo con il dolore inevitabile, i bambini, non tollerando il dolore e non sapendo come elaborarlo, riducono semplicemente il contatto con esso. Le difese si protraggono nella vita adulta non perché continuino ad essere necessarie, ma perché quando vengono attivate costituiscono un progetto inconscio e senza scadenza.

Dal momento in cui il cliente, nel suo percorso analitico, comprende di essere attivo nel difendersi secondo certe tipiche modalità rispetto a certi specifici vissuti, il rapporto fra lavoro analitico personale di ogni giorno e lavoro analitico in seduta risulta modificato: il cliente non porta prevalentemente in seduta disagi, confusioni, descrizioni di cose "che capitano" e l'analista non lavora su situazioni confuse o bloccate, ma per approfondire il lavoro già avviato a casa dal cliente.
In altre parole, prima di quel momento il cliente quotidianamente "scappa" ed in seduta "si ritrova"; dopo quel momento, quotidianamente fa lavoro analitico ed in seduta lavora sulle situazioni che non è riuscito ad affrontare o che ha avuto paura di esplorare fino in fondo.
E' proprio in questa "seconda fase" che il lavoro analitico (come pure il rapporto di collaborazione analista-cliente), anziché procedere facilmente, risulta improduttivo e inutilmente ripetitivo se il cliente sviluppa quella particolare modalità difensiva che per brevità chiamo "doppia intenzionalità" (D.I.). Considero in atto la D.I. quando il cliente mantiene sia il progetto di proseguire a casa il lavoro analitico impostato con l'analista, sia il progetto "antico" di trattare se stesso e gli altri nel modo difensivo che normalmente adottava prima di aver completato la prima fase del percorso analitico.

Per esemplificare la messa in atto della D.I. prenderò in considerazione il tipico "compito a casa" che costituisce la traccia fondamentale del lavoro analitico quotidiano dei clienti: il lavoro sulla cosiddetta "domanda fondamentale". Se, ad esempio, un cliente ha compreso che tende ad arrabbiarsi difensivamente (cioè non per opporsi ad una situazione modificabile che non accetta, ma per pretendere che "certe cose non accadano"), suggerisco di lavorare in questo modo:
a) egli deve evitare manifestazioni difensive di ostilità prima che abbiano luogo, o interromperle se sono in corso o (al limite) deve raccogliersi con se stesso dopo una tipica scenata,
b) deve individuare il dolore rispetto a cui si è difeso e
c) se esso non risulta immediatamente chiaro deve chiedersi: "cosa vorrei ora, sul piano affettivo che non posso avere?" (cioè deve porsi la cosiddetta "domanda fondamentale" o D.F.).
Tale lavoro volto a interrompere difese già analizzate (scoppi di rabbia, pensieri depressivi, sensi di colpa, azioni compulsive, manovre seduttive, fantasie rassicuranti, ecc.) produce quasi sempre momenti di tristezza, spesso commozione e a volte conduce al pianto. Ovviamente tale lavoro quotidiano è possibile solo se la prima fase del lavoro analitico ha chiarito le premesse cognitive delle difese in questione e ha consentito un contatto con i vissuti di perdita, rifiuto, impotenza rispetto ai quali il cliente si era programmato tali difese.

I clienti ritardano con una coerente strategia difensiva e con efficaci resistenze in analisi la possibilità di entrare in contatto con il dolore della loro vita (che in genere è prevalentemente relativo al rapporto con i genitori nell'infanzia), ma quando la prima fase del percorso analitico è stata completata in genere accettano di "riprendersi il loro dolore" per liberarsi delle loro chiusure e salvare la loro vita presente e futura.
Alcuni, tuttavia, arrivati a questo punto, pur decidendo di proseguire il lavoro analitico in tale direzione, di fatto prolungano "candidamente" il loro modo quotidiano di agire e relazionarsi con gli altri, come se ciò non costituisse una palese contraddizione con il loro progetto analitico. In seduta si rammaricano per non aver colto molte occasioni per "ritrovarsi" e concludono fondamentalmente che "non era facile", che "non sono riusciti a tener presente il lavoro da svolgere", che "si sono lasciati prendere dalla consuetudine", che "non si accorgevano delle difese che stavano attuando". I più consapevoli del loro problema dicono "è come se ogni tanto andassi in trance e in tal caso le mie consapevolezze e le mie decisioni sono messe fra parentesi".

Considero semplici resistenze quelle del cliente che si fa la D.F., ma trova una risposta superficiale o irrilevante sul piano emotivo. Considero invece D.I. quella di una cliente con "crisi bulimiche" che, dopo aver stabilito con me di farsi la D.F. prima di ogni abbuffata, nel momento critico corre in pasticceria a mangiare sei paste dopo essersi semplicemente detta "non dovrei", per poi concludere "sono un disastro, ci sono cascata un'altra volta!". Mi riferisco con questo esempio ad una cliente che aveva avuto l'occasione di sentire il "vuoto allo stomaco" durante una seduta e aveva fatto un lavoro davvero illuminante che l'aveva portata ad attraversare e superare un dolore molto profondo. Aveva quindi compreso benissimo che riempiendosi di dolciumi spezzava il contatto con un vissuto di solitudine molto antico e doloroso (che sentiva anche fisicamente come "vuoto" nello stomaco") e aveva sperimentato di poter attraversare quel dolore, piangere per quella solitudine e poi sentirsi triste ma centrata, solida e assolutamente disinteressata al cibo.
Questo spreco di lavoro analitico è tipico di persone collocabili nell'area borderline, o che vi si avvicinano, ma si manifesta anche in persone senza "patologie di confine" ma con problematiche emotive molto temute.
E' fuori discussione che la D.I. costituisca una resistenza rispetto al lavoro analitico. Può passare inosservata se si fa analisi senza cercare vissuti emotivi molto profondi e se sul piano tecnico non si sollecitano i clienti a lavorare attivamente a casa sulle loro difese, ma costituisce un fattore comunque presente in molte situazioni di stallo in cui l’analisi sembra procedere ma non produce risultati nella vita quotidiana.

Prima di fare alcune considerazioni relative al modo di lavorare su tale resistenza, vorrei collocare tale tipo di resistenza nel complesso panorama delle difese discusse in psicoanalisi ed in psicoterapia, confrontandola in particolare con la rimozione, la scissione e la dissociazione.

D.I. e rimozione
La D.I. non sembra riconducibile alla rimozione in quanto quest'ultima è concepita nella psicoanalisi come una difesa da determinate pulsioni e non si manifesta in modo discontinuo. Il cosiddetto materiale rimosso resta stabilmente rimosso e, una volta divenuto cosciente, non torna inconscio. Al contrario, la D.I. oltre a non riguardare materiale pulsionale, ma l'attivazione/disattivazione di manifestazioni difensive, ha luogo proprio dopo che il lavoro analitico ha chiarito a livello cosciente la logica e la funzione di determinate difese.

D.I. e scissione
La DI potrebbe essere assimilata alla scissione (splitting) in quanto implica la manifestazione alternante e "competitiva" di atteggiamenti opposti. Tuttavia, a differenza di quest'ultima (che riguarda le caratteristiche positive o negative dell'oggetto o del soggetto) si manifesta nell'alternante accettazione della logica analitica (o "costruttiva" o "Adulta") e di quella difensiva, dopo che nel lavoro analitico si è esplicitamente chiarita la strategia difensiva e si è concordata una strategia analitica nell'ora della seduta e nella vita quotidiana. Il cliente non alterna sentimenti o atteggiamenti opposti rispetto ad un certo oggetto o rispetto all'immagine di sé, ma adotta la strategia analitica ed anche la strategia difensiva (alternativamente) senza sentirsi troppo disturbato dalla contraddizione. Pur essendo "ufficialmente" orientato a affrontare le difese e ad entrare in contatto con i vissuti "sottostanti", spesso evita di lavorare in tal senso. Quando è "in fuga" non tiene conto del fatto che sta agendo in una direzione opposta a quella stabilita con l'analista. Non sente di "aver cambiato idea", ma fa semplicemente il contrario ignorando di star facendo una scelta contraddittoria rispetto ad un'altra (che quindi resta "da qualche parte" valida, nel senso di non rifiutata). La strategia analitica viene semplicemente ignorata. In tal modo la persona non mantiene una rappresentazione coerente del suo atteggiamento verso le proprie emozioni e verso la propria esistenza. Manifesta (alternandole) due decisioni opposte: sia quella di vivere per non soffrire (sfruttando quindi al massimo tutte le competenze difensive), sia quella di vivere una vita piena di emozioni (comprese quelle dolorose) pur di restare in contatto con sé e la realtà ed affrontare in modo autentico i rapporti interpersonali.

D.I. e dissociazione.
Come ricorda Giovanni Liotti (1993, p.14) la tradizione psichiatrica europea e quella statunitense (approdata alle definizioni del DSM) fanno un diverso uso del termine "dissociazione" che mentre in Europa è prevalentemente riferito ai disturbi del pensiero nella schizofrenia, negli Stati Uniti è essenzialmente riferito ai "disturbi della memoria, dell'identità e della coscienza". Nella D.I., non si ha in senso stretto una perdita di continuità dell'esperienza soggettiva come si implicherebbe nell’accezione statunitense del concetto di dissociazione e non si registra certamente una patologia del pensiero avvicinabile alla schizofrenia.
Quando il cliente si ripresenta in seduta ricorda benissimo sia le occasioni in cui ha portato avanti il lavoro analitico, sia quelle in cui si è "distratto" da tale progetto e spesso risulta preoccupato per il fatto di aver bloccato in tali casi il percorso di cambiamento a cui tiene.
Posto che lo studio dei disturbi dissociativi pone complessi problemi di classificazione dei quadri clinici e di diagnosi differenziale (a cui non voglio nemmeno accennare) sembra non plausibile la riconduzione dei comportamenti da me ricapitolati sotto il termine D.I. a fenomeni specificamente dissociativi. In altre parole, la D.I. può essere vista come una limitata e lieve forma di dissociazione.
Quando la persona prosegue nella vita quotidiana il lavoro analitico, sa di impegnarsi per affrontare e modificare atteggiamenti, tendenze e comportamenti (riconosciuti come propri) che ha imparato a considerare difensivi. Negli intervalli in cui invece "ruzzola tranquillamente lungo la discesa" agendo nel modo che aveva già considerato preoccupante, pericoloso e da modificare, resta in qualche modo dissociata dalla consapevolezza e dalla progettualità maturate nel lavoro analitico svolto con l'analista. Agisce come agirebbe se fosse un'altra persona. Non ha "dimenticato" di aver fatto delle sedute e continua a voler lavorare sulle sue difese facendo analisi, ma conduce certi spezzoni della sua vita muovendosi in una direzione opposta rispetto a quella concordata con l'analista.
La D.I. non consiste nell'espressione dissociata di affetti o impulsi, perché le difese specifiche manifestate possono anche non essere caratterizzate da impulsività, ma anzi, da autocontrollo, fantasie difensive, distacco, passività, conformismo ecc. Inoltre il cliente che manifesta la D.I. sa di essere quella persona che realmente è; semplicemente non tiene conto del fatto che è anche in analisi. E' come se perdesse solo la propria identità di "persona in analisi", anche se nel momento in cui si riappropria della propria "completa identità" e del relativo progetto di vita (analitico, trasformativo, ecc.) ricorda perfettamente e con rammarico tutto ciò che ha fatto quando era "l'altra persona" e ricorda di aver agito sapendo cosa stava facendo.
Se nella dissociazione vengono in qualche modo espressi in modo dissociato atteggiamenti percepiti come troppo ansiogeni per far parte della normale coscienza personale, nella D.I. vengono agite delle difese perché risulta troppo ansiogeno proprio il lavoro analitico sulle difese.

A questo punto, si può considerare la D.I. probabilmente come una delle resistenze al lavoro analitico che comporta lievi e parziali modalità dissociative, ma che non indica la presenza di reali disturbi dissociativi. Di fatto interrompe la "continuità" dell'esperienza soggettiva in quanto in certi intervalli di tempo la persona si comporta nei modi che erano "normali" prima del lavoro analitico e che contraddicono il progetto analitico. Non implica tuttavia né lacune amnesiche, né stati alterati di coscienza, né cambiamenti di condotta particolarmente rilevanti; implica cambiamenti rilevanti solo per il percorso analitico. Si manifesta con maggior frequenza in clienti con patologie di confine, ma anche in clienti nevrotici e (comunque venga concepita o teorizzata) richiede molta attenzione perché costituisce una modalità difensiva sovraordinata rispetto alle singole difese: essa è infatti una "meta-difesa" capace di bloccare il procedere del lavoro analitico sulle specifiche difese condotto anche in profondità nelle sedute.
Nel momento in cui si rileva una propensione alla D.I. è necessario che il lavoro analitico si concentri su questo grave ostacolo al proseguimento del percorso avviato. Se non ci si occupa adeguatamente della D.I., l'analisi può procedere anche in modo notevole nelle sedute senza però produrre risultati significativi. Data la caratterizzazione "metadifensiva" della D.I. si può spezzare la sua funzione paralizzante nel percorso analitico solo portando il cliente (con un coerente lavoro cognitivo) a porsi in posizione "meta" rispetto alla stessa D.I. In altre parole, il lavoro volto a neutralizzare la D.I. consiste nell'aiutare il cliente a "cogliersi in flagrante" quando si trova in una posizione "non analitica" e quindi a ricollocarsi nella propria "identità" (che include il fatto di essere una persona in analisi).

Ho notato questo particolare modo di evitare l'elaborazione delle sedute soprattutto quando ho iniziato a suggerire ai clienti particolari modi di portare avanti il lavoro analitico nella loro vita quotidiana. Quando il cliente non prosegue a casa il lavoro analitico e in particolare non si impegna in certe modalità di lavoro accettate per la loro ragionevolezza, mi dedico in modo specifico a tale doppiezza che ostacola il percorso analitico. Fondamentalmente discuto con il cliente il suo modo di spezzare la continuità fra sedute e vita quotidiana.
Spiego che la D.I. "funziona" come se nella persona si alternassero due diversi stati di consapevolezza, cosa che accade normalmente quando si alterna lo stato di veglia e quello di sonno. Se andiamo a letto ben determinati a svegliarci alle 08.00 per fare certe cose, probabilmente ci sveglieremo più tardi, perché alle 08.00 non siamo "la stessa persona" che eravamo la sera precedente: siamo "quell'altra-persona-che-sta-bene-a-letto" e se ne frega di qualsiasi impegno. Per alzarci dal letto dobbiamo darci un segnale che spezzi la continuità della "seconda identità" (quella che vuol dormire) e riporti alla capacità decisionale la "prima identità" (quella che era andata a letto e voleva svegliarsi alle 08.00). Per riuscire in questo compito non dobbiamo né ripeterci molte volte quanto sia importante svegliarci, né esercitarci ripetutamente, né convincerci maggiormente: siamo già perfettamente convinti, ma per agire dobbiamo essere "presenti" o "alla guida della nostra vita". Riusciamo in questa difficilissima impresa ricorrendo ad un mezzo banalissimo: una sveglia. Essa raggiunge la "prima identità" proprio mentre la "seconda identità" sta gestendo il tempo: è uno scossone materiale, rozzo, banale che però consente alla "persona-che-voleva-svegliarsi" di alzarsi davvero.
Spiego quindi che per proseguire il lavoro analitico a casa occorre disporre di qualche mezzo rozzamente materiale capace di interrompere eventuali periodi di "sonno".
Suggerisco in genere di mettere dei biglietti con domande del tipo "sono quello o questo?" o "sono quello in analisi?" o "sono io?" nelle tasche delle giacche, sul computer, sul frigorifero, sul cruscotto dell'auto, ecc. In tal modo, se la persona che legge il biglietto è già "sveglia", si limita a prenderne atto, mentre se "dorme" finisce per "svegliarsi".
L'espediente dei bigliettini viene a volte accolto sfavorevolmente. I clienti dicono: "è assurdo", o "è una scocciatura" oppure manifestano il timore di essere presi per pazzi da persone estranee che potrebbero trovare i bigliettini. Il timore in questione è giustificato soprattutto per chi abita con altre persone a cui non vuol far sapere di essere in analisi. Inoltre si deve considerare che per chi a casa può mettere i bigliettini dopo aver informato la moglie di questo bizzarro lavoro, non può tenerli sul computer o sulla scrivania dell'ufficio.

Gli stessi clienti alle prese con questo problema mi hanno suggerito modi alternativi di "svegliarsi": uno ha comprato un orologio di costo bassissimo che fa "bip" ad ogni ora, un altro ha comprato una catenina da polso che lo "sveglia" spesso poiché egli detesta portare oggetti del genere, una cliente si è fatta un segno con la biro sulla mano. Ogni volta che ricevo qualche suggerimento più praticabile dei bigliettini lo includo nella lista delle "sveglie" da proporre ai nuovi clienti. Le tecniche vanno tutte bene, purché funzionino. E funzionano.
Un cliente mi ha detto: "da quando faccio questa stranezza non sono più nella nebbia perché appena leggo quella domanda non posso far altro che ritrovarmi in contatto con me stesso".
Una cliente molto acuta e "bravissima" nell'uso della D.I. mi ha detto che la tecnica non funziona sempre perché quando è "fuori" è capace di ignorare anche i bigliettini. Tuttavia in certa misura funziona, anche se per un'altra ragione: proprio il fatto di mettere i bigliettini (più che il leggerli) costituisce per lei un modo di "compattarsi" e restare più durevolmente in contatto con se stessa e con gli obiettivi del lavoro analitico.

Al di là di come può essere concepita la D.I., essa costituisce una potente resistenza al lavoro analitico. Tuttavia, l'esperienza mi ha chiarito che quando tale difesa viene riconosciuta e disattivata (con tecniche rozze e banali come quelle sopra elencate), nel lavoro analitico si compie una svolta: il lavoro quotidiano sulle difese risulta molto utile e il lavoro nelle sedute non viene più sprecato. In un lavoro analitico concepito come recupero e uso di risorse adulte da parte del cliente, piuttosto che come "cura" dispensata dal "terapeuta", la disattivazione della D.I. (quando è presente) costituisce una significativa occasione di cambiamento.


5. Contatto emotivo

Credo che sia il caso di chiarire l'uso di un concetto che finora ho evitato di definire. Quando affermo che le difese riducono o interrompono il contatto con il dolore, non uso il termine "contatto" come sinonimo di percezione o sensazione, e nemmeno come sinonimo di "accettazione".
Noi possiamo accettare una situazione dolorosa, cioè capire che è "data" comprendendone i vari aspetti e le varie implicazioni, senza tuttavia percepire tutta la sua intensità. Possiamo anche percepire intensamente una situazione dolorosa manifestando intense reazioni emotive (distorte) senza però accettare davvero la mancanza derivante da ciò che è accaduto.

In genere quando parliamo di sventure o catastrofi non siamo emotivamente molto coinvolti. Quando parliamo della morte pensiamo spesso a qualcosa di astratto che riguarda tutti, ma non davvero noi. Eppure non neghiamo nemmeno i dettagli della questione. In questo caso accettiamo un fatto, ma sentiamo poco. In altre situazioni possiamo reagire ad una perdita o ad un rifiuto con rabbia, indignazione, incredulità. Così facendo risultiamo scossi da qualcosa che quindi percepiamo, ma reagiamo in modo da non accettare l'effettiva mancanza di qualcosa perché consideriamo la situazione non come realmente "data", ma come se fosse compromessa da un "guasto" temporaneo che "dovrà" essere aggiustato.
Nelle situazioni piacevoli è più facile mantenere il contatto emotivo, ma anche in esse è possibile attivare delle difese. Ciò accade ad esempio se una bella notizia riattiva la sensazione dolorosa della lunga mancanza che ha preceduto l’evento positivo, o se una gratificazione contraddice la descrizione vittimistica della propria vita o se un miglioramento della situazione lavorativa comporta l'assunzione di responsabilità non volute e così via.

Uso il termine "contatto" per indicare sia il coinvolgimento emotivo, sia il riconoscimento di una situazione, che è costituita sia da fatti "interni" (i nostri desideri), sia da ciò che accade nella realtà esterna a noi. I "fatti interni” e quelli “esterni”, sono ciò rispetto a cui si può essere (più o meno intensamente) in contatto o rispetto a cui si può annullare, ridurre o distorcere il contatto.

A questo punto si deve anche notare che un evento è doloroso solo se sono compresenti sia un desiderio, sia un impedimento alla sua realizzazione. Non soffriamo se siamo privati di qualcosa che non desideriamo e non soffriamo se desideriamo qualcosa che non è impossibile ottenere. Già l'idea di poter prima o poi soddisfare un desiderio produce (in cambio di un po' d'ansia) una mancanza di dolore, poiché una mancanza temporanea non è una vera perdita. Ci si difende da un dolore (ovvero si riduce il nostro contatto con la realtà dolorosa) negando il desiderio oppure alimentando l'illusione di poter a qualche condizione soddisfare prima o poi il desiderio in questione.
Quando parlo di mancanza di contatto, parlo di questo: disconoscere o sentire poco un desiderio e/o disconoscere o sentire poco una frustrazione. Nei due casi, la realtà (interna o esterna) non ci "tocca" davvero e quindi non siamo in "con-tatto".
Il contatto è un'azione, o una sorta di "meta-azione". Si mantiene il contatto quando si capisce e si sente una situazione in cui si è coinvolti.

Credo che fondamentalmente l'essenza di tutte le difese sia l'ottimismo: ci si difende dal dolore fingendo di non essere realmente interessati a ciò che non possiamo avere, oppure fingendo che ci possa essere o che ci debba essere un lieto fine. Queste due illusioni ottimistiche aggirano la consapevolezza della realtà, poiché le cose stanno come stanno, sia dentro di noi che fuori di noi.
Se rinunciamo all'ottimismo, alla manipolazione, all'illusione, ci arrendiamo alla realtà come è. La prima emozione che affiora quando superiamo un atteggiamento difensivo è il dolore. Poi scopriamo che la realtà non è solo dolore e che possiamo anche essere felici di vivere, nonostante il dolore. Anzi, così facendo ci apriamo a possibilità più sottili e più intense di piacere: infatti, la "porta chiusa" lasciava fuori il dolore, ma anche l'autentica gioia e la "porta aperta" consente il passaggio ad entrambe le emozioni. L'analisi, favorendo il contatto, non aumenta in senso aritmetico il piacere, perché questo dipende anche dalle varie eventualità della vita; essa rende però più intenso il piacere di esistere.

La resa al dolore non equivale ad un atteggiamento rinunciatario. Anzi, solo la resa al dolore inevitabile ci rende realmente combattivi nelle situazioni in cui un dolore può essere evitato e ci rende più aperti quando un’esperienza gioiosa può essere realizzata. Questo fatto chiarisce l’opposizione fra la logica difensiva e la logica analitica. I clienti mantengono le loro modalità difensive per non soffrire e proprio così sentono poco sia la gioia sia il dolore e si riempiono la vita di stati d’animo disturbanti ed eventualmente di sintomi spiacevoli. Il lavoro analitico mira invece a favorire un intenso contatto emotivo con i vari aspetti dell’esistenza; mira cioè a superare la sofferenza derivata dalle azioni difensive proprio favorendo la resa al dolore inevitabile e così rende possibile il recupero della capacità di sperimentare intensamente anche la gioia e la felicità


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