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Gianfranco Ravaglia

L'INTENZIONE RITROVATA
Intenzioni e vissuti nel lavoro analitico




CAPITOLO 3
La persona come livello d’analisi nella teoria


1. Il punto di vista soggettivo


Le difficoltà relative alla specificazione del livello d'analisi adatto alle elaborazioni teoriche in psicoterapia riguardano sia la legittimazione (o il rifiuto) del punto di vista soggettivo, sia il riconoscimento degli ambiti osservativi pertinenti.

Rilevanza di due punti di vista.
Nella raccolta dei dati osservativi di fatto adottiamo due punti di vista alternativi: quello oggettivo e quello soggettivo; infatti non si può comprendere adeguatamente una situazione individuale senza considerare sia ciò che la persona ha fatto e che risulta pubblicamente accertabile, sia ciò che la persona ha soggettivamente percepito, compreso e inteso fare. Tuttavia il ricorso alla dimensione soggettiva dell'esperienza ha sollevato molte discussioni.

Rilevanza di più ambiti osservativi.
Ci riferiamo ad un concetto psicologico (ad es. quello di emozione) osservando il comportamento (fisico o verbale) di una persona, ma anche osservando fatti più fisiologici che comportamentali (pallore, dilatazione pupillare, sudorazione, tipo di respirazione e così via); la persona può anche descrivere come si sente; inoltre possiamo considerare sia ciò che la persona fa "per conto suo" (è ordinata o disordinata, attiva o "accasciata" o "tesa"), sia ciò che fa con gli altri (è prepotente o seduttiva o sottomessa); quindi sia l'ambito osservativo comportamentale, sia quello fisiologico, sia quello introspettivo, risultano pertinenti per chiarire una situazione emotiva;
L'accettazione del punto di vista soggettivo solleva delle questioni epistemologiche relative alla validità dei dati non pubblicamente controllabili, mentre la presenza di più ambiti osservativi comporta dei problemi relativi alla costruzione dei concetti teorici. Esporrò le ragioni per cui ritengo accettabili ed indispensabili le osservazioni "private", nonostante le loro limitate possibilità di conferma; discuterò poi l'opportunità di utilizzare le osservazioni ricavate da più piani osservativi per collocare le riflessioni teoriche al livello d'analisi della persona.

I dati osservativi "privati" sono ovviamente meno attendibili di quelli intersoggettivamente controllabili e la scienza occidentale ha tentato in tutti i modi di preservare la conoscenza da tutto ciò che non può essere pubblicamente accertato. Ovviamente, anche dieci persone che osservano una pietra fanno delle osservazioni "puramente soggettive" e nessuno può vedere né "dentro di sé" né "fuori di sé" se non adottando il punto di vista di cui dispone, cioè quello che lo rende quel particolare "soggetto". Inoltre anche i dati osservativi più elementari sono tutt'altro che "dati", poiché noi "costruiamo" gli oggetti osservati e non li "registriamo" passivamente. Tuttavia, nella descrizione di ciò che accade nel "mondo esterno", il controllo intersoggettivo, cioè il confronto fra le attività osservative dei vari soggetti permette di arrivare a descrizioni sostanzialmente attendibili. Ciò non può invece essere fatto per i "dati" relativi ai mondi "interni", a quelli cioè accessibili solo ai particolari individui. In qualche misura possiamo confrontare le osservazioni "private" con altre osservazioni di tipo oggettivo (si pensi alla cosiddetta "macchina della verità" o alle indagini fisiologiche sui vari stati di coscienza), ma le conclusioni hanno una minor solidità di quelle che possiamo trarre dall'osservazione di ciò che è accessibile direttamente a più osservatori.
In psicoterapia, tra l'altro, si dà per scontato che il soggetto abbia non solo una percezione limitata e potenzialmente ingannevole dei suoi stati interni, ma anche che tenda (inconsciamente) ad ingannarsi su di essi ed a ingannare gli altri quando parla di sé. Tuttavia, anche se, ad esempio, egli tende a sentirsi e mostrarsi arrabbiato per scollegarsi da sensazioni di fragilità o dall'emozione della tristezza, resta il fatto che ci fornisce comunque una pista per la nostra indagine comunicandoci la sua rabbia, le fantasie che accompagnano tale emozione e gli eventi che può associare ad essa.

Anche se l'entusiasmo per il fisicalismo ha condotto molti psicologi a proporre una psicologia senza soggetto, di fatto l'eredità lasciata alla psicoterapia dalle varie prospettive riduzionistiche consiste più che altro in una costruttiva diffidenza per incaute utilizzazioni dell'introspezione ed in una consuetudine al rigore nel vagliare tutti i dati e nel costruire ipotesi esplicative.
Si tenga presente che l'accettazione di osservazioni soggettive ("private") non implica affatto una teorizzazione a livello d'analisi intrapsichico. Infatti, il problema dell'accettazione o del rigetto delle osservazioni "private" è logicamente indipendente da quello della scelta di un dato livello d'analisi per la teoria. Personalmente trovo indispensabili ed utilizzabili (con le dovute cautele) i dati soggettivi e trovo inopportuna l'adozione di un livello d'analisi intrapsichico per l'elaborazione teorica del percorso analitico. Tra l'altro, la predilezione per il livello d'analisi intrapsichico ha reso possibile nella metapsicologia freudiana il tentativo di ridurre la soggettività "ad altro" (le pulsioni, l'energia psichica, le strutture psichiche).


2.Livelli d'analisi

La conoscenza scientifica si sviluppa a partire dalla formulazione di un problema, delimitando un ambito in cui cercare possibili soluzioni e individuando il livello d'analisi più adatto per comprendere le variabili rilevanti. Secondo M.Sherif, "L'unità di analisi in psicologia sociale, come in tutta la psicologia, è quindi l'individuo, solo o partecipante a relazioni interpersonali" (1967, p.71). Credo che, a maggior ragione, per le considerazioni teoriche sul lavoro analitico e in generale sulla psicoterapia, la persona costituisca l'unità di analisi più ragionevole.
Il fatto di teorizzare a livello della persona non comporta di per sé un minor rigore. D.Deutsch sottolinea espressamente che esistono spiegazioni ad ogni livello gerarchico: "molte implicano deduzioni nella direzione opposta a quella ipotizzata dal riduzionismo, cioè spiegano i fatti non analizzandone le componenti ... ma considerandole invece come parti di cose più grandi e più complesse riguardo alle quali si hanno nondimeno teorie esplicative" (Deutsch, 1997, p.22).

Tra le teorie costituite a livello d'analisi intrapsichico, non si può non considerare la metapsicologia freudiana. Rapaport, sistematizzatore metodico della psicoanalisi, comprese perfettamente sia l'importanza di una chiara esplicitazione del livello d'analisi della teoria, sia l'impossibilità di una elaborazione dei dati clinici in termini esclusivamente intrapsichici e formulò con chiarezza la tesi secondo cui la teoria freudiana si articola su più livelli d'analisi opportunamente integrati: "la teoria psicoanalitica, attraverso la sua concezione di "sovradeterminazione" o determinazione molteplice è rimasta aperta a ogni importante "livello di analisi" e non si è limitata ad uno solo, come molte altre teorie, ma i concetti riguardanti l'"intrapsichico" in generale e le pulsioni in particolare rimangono al centro della teoria" (1960, p.27). Ovviamente questa imponente architettura teorica limita la semplicità della teoria ed aggiunge ai limiti della teorizzazione al livello d'analisi intrapsichico quelli della difficile integrazione dei vari livelli d'analisi. Inoltre, di fatto, ogni psicoanalista non pensa ai suoi clienti in seduta nei termini in cui teorizza sul loro percorso analitico. In studio finisce inevitabilmente per ragionare sulla base di ciò che la persona che ha di fronte fa, intende fare ed evita di fare. Consapevole di questa situazione, Schafer ha preferito abbandonare la metapsicologia psicoanalitica per proporre una teoria basata sul concetto di "azione" (espressiva o difensiva) della persona. La demolizione dei concetti di autocontrollo, Sé&Mac226; e motivazione operata da Schafer è ragionevole e decisamente valida per le conseguenze che comporta negli interventi analitici. Infatti, secondo Schafer tutte le espressioni che, introducendo forze o spinte interne, negano il ruolo attivo della persona in un'azione costituiscono dei "disconoscimenti dell'azione" personale: "E` la persona quella che agisce in maniera conflittuale, non i processi mentali" (1978, p.123). Anche Brenner (1994) sostiene che la concezione freudiana delle tre strutture mentali distinte (Es, Io e Super.io), è clinicamente "insostenibile". Essa dovrebbe essere rimpiazzata da una nuova teoria riguardante non già l'Io e le altre strutture intrapsichiche, ma "l'individuo, la persona o la mente della persona" (p.6 del Text on line).

Ogni prospettiva più "rigorosa" perché limitata ad un livello d'analisi più povero produce dei risultati modesti. La terapia comportamentale, ad esempio, per affrontare disturbi del comportamento più complessi di quelli inizialmente trattati, ha dovuto integrarsi con il cognitivismo. Resta il fatto che il comportamento umano non è comprensibile ad un livello d'analisi esclusivamente comportamentale, semplicemente perché a differenza del volo degli uccelli migratori, non ha un significato preciso se non in relazione al complessivo atteggiamento della persona che agisce.
Anche il livello d'analisi neurofisiologico non è adeguato per i concetti e gli enunciati fondamentali in psicoterapia. I primi passi della teoria psicoanalitica furono ispirati al riduzionismo neurologico (Freud, 1895) ed anche in seguito Freud, pur rassegnato a teorizzare in un linguaggio psicologico continuò a sostenere che "tutte le nozioni psicologiche che noi andiamo via via formulando dovranno un giorno essere basate su un sostrato organico" (1914, p.448). Si può tuttavia sostenere, in contrasto con questo ottimismo riduzionistico, che nessuna acquisizione della neurofisiologia, per quanto preziosa, può dar luogo a spiegazioni esaurienti dell'azione personale, perché la persona comunica, si orienta in una direzione, istituisce e interrompe legami e quindi agisce in modi che solo inadeguatamente o erroneamente possono essere spiegati in termini fisiologici.

Le intenzioni ed i vari stati o processi "mentali" non sono da concepire come "cose" che la persona "ha", ma come concetti che ci aiutano a capire le persone. Sono cioè concetti relativi a ciò che le persone fanno.


3.La persona come livello d'analisi

Immaginiamo ad esempio che in una seduta un cliente avverta un senso di commozione e si blocchi manifestando insofferenza verso qualcosa o qualcuno. Tentare di valutare tutti i possibili (ipotetici) rapporti causali fra 1) l'interruzione di un comportamento (ad es. una comunicazione verbale), 2) un processo fisiologico (ad es. l'inizio di un pianto), 3) il blocco di un processo fisiologico (ad es. l'interruzione del pianto mediante un'alterazione della respirazione), 4) la comunicazione di uno stato soggettivo (ad es. "non ne posso più!"), una situazione interpersonale (ad es. una seduta di psicoterapia), sarebbe probabilmente complicato anche per un computer. Parlare ha causato il pianto o il pianto ha causato l'interruzione del discorso? L'idea di "non farcela più" era presente fin dall'inizio ed ha causato il pianto? o è stata causata dal pianto (o dall'interruzione del pianto)? oppure ha causato l'interruzione del pianto? Mi fermo qui, ma volendo si potrebbero riempire decine di pagine. In alternativa a questo modo di ragionare si può ammettere che in psicoterapia si considerano vari piani d'osservazione e si teorizza al livello d'analisi della persona. Questa non è una "proposta originale", ma un'ammissione di quello che comunque in genere si fa anche quando si pretende di teorizzare ad altri livelli d'analisi.

Passando dalle considerazioni generali alle indicazioni metodologiche più precise, in che modo possiamo definire ed utilizzare i concetti chiave per il lavoro analitico, una volta stabilito di collocarci a livello d'analisi della persona piuttosto che a livello intrapsichico o comportamentale o fisiologico?
Dobbiamo distinguere

A) i concetti teorici che non riguardano dati direttamente osservabili e che sono definibili almeno parzialmente nel contesto della teoria e
B) i concetti primitivi che invece non vengono definiti, ma possono in qualche modo essere precisati mediante esemplificazioni (Popper, 1934, pp.97-98; Hempel, 1952).

Sono propenso a considerare primitivo il concetto di persona ed a trattare come concetti teorici quelli di emozione, intenzione, scelta e vari altri. Non è tuttavia questo il tema sul quale vorrei soffermarmi, dato che trovo decisamente prematuro qualsiasi tentativo di presentare una teoria dell'analisi come sistema formalizzato. In psicoterapia si è ancora ai primi passi e sarei più che soddisfatto se le mie considerazioni suggerissero semplicemente qualche elemento utile per ulteriori elaborazioni. Ciò che voglio discutere (sia argomentando, sia riportando esempi clinici, sia riproponendo le riflessioni pertinenti di epistemologi ed analisti) è la possibilità di definire a livello d'analisi della persona i vari concetti teorici fondamentali per il lavoro analitico e la psicoterapia. Gli enunciati relativi a specifici piani osservativi (osservazioni soggettive, descrizioni di dati fisiologici e comportamentali), in tale prospettiva, possono essere così utilizzati per spiegare le azioni delle persone anziché per identificare microeventi riferibili di volta in volta alla "mente" o all'organismo.

Il filosofo Peter Strawson ha proposto delle riflessioni molto importanti sulla questione; la sua "teoria del doppio aspetto" è proposta come sistema di "metafisica descrittiva" e in questa formulazione filosofica non può essere accettabile per le riflessioni teoriche in psicoterapia; tuttavia fornisce delle ragioni valide per scegliere la persona come livello d'analisi. Egli definisce il concetto di persona come relativo ad "un tipo di entità tale che sia i predicati che attribuiscono stati di consapevolezza che quelli che attribuiscono caratteristiche corporee ... sono egualmente applicabili ad un'entità individuale di quel tipo" (1959, p.104). Da questo assunto filosofico (che però potremmo tradurre in chiave epistemologica come indicazione per un dato livello d'analisi), Strawson ricava alcune considerazioni del tutto condivisibili e tali da poter essere incluse in una teoria clinica: "Noi parliamo dell'agire in modo depresso (o di comportamento depresso) ed anche del sentirsi depressi (o di sentimento della depressione). Si è inclini a concludere che quel sentimento può essere sperimentato ma non osservato e che quel comportamento può essere osservato ma non sperimentato (...). Ma forse è meglio dire: la depressione di X è qualcosa ed è la stessa cosa che è sperimentata ma non osservata da X e osservata ma non sperimentata dagli altri" (1959, p.108-109). In altre parole non riferiamo una certa condizione emotiva né ad uno stato "mentale", né al comportamento, ma alla persona che è sia quella che dichiara le sue sensazioni, sia quella che osserviamo quando si comporta in certi modi.

Finché limitiamo la nostra indagine a domande del tipo "cosa ha causato (ora) quelle lacrime?" possiamo anche accettare una teoria costruita a livello d'analisi comportamentale. Tuttavia, per domande (più significative) del tipo "sono lacrime di dolore, o sono una comunicazione vittimistica fatta per colpevolizzare qualcuno?" occorre una teoria sia più complessa, sia posta ad un altro livello d'analisi. Quelle lacrime sono di una persona che sta interagendo in un particolare modo con un'altra persona. Esse risultano comprensibili solo quando siamo in grado di capire se la persona che piange ha l'intenzione di esprimere (e forse condividere) un dolore oppure vuole esibire una certa immagine per ottenere certi risultati. In altre parole, ciò che quella persona sente e che noi osserviamo va inteso come un processo intenzionale. L'intenzione non può riguardare né una mente né i dotti lacrimali, ma solo una persona.

Il concetto di persona, così importante da fissare il livello d'analisi della teoria, meriterebbe una buona definizione. Anche concependolo come concetto primitivo -secondo il parere di autori molto diversi come Strawson (1959, p.105) e Schafer (1976, p.217)- dovremmo circoscrivere almeno in linea di massima le condizioni della sua applicabilità.
Un'indicazione interessante è quella suggerita da Mauro Fornaro: "Riassumendo, proporrei di definire: Persona = l'essere umano nella sua totalità/unità psicologica (per quanto mai conchiusa, anzi problematicamente aperta dacché c'è inconscio) nonché nella totalità/unità di mente-corpo, e ad un tempo nella sua essenziale relazionalità. Si può discutere se adottarlo come termine tecnico in psicoanalisi (sostituendo peraltro certi usi forzati di "Sé"); ma se lo si usa come termine non tecnico, si tenga conto del ventaglio semantico che comporta nella nostra tradizione. Individuo = persona in quanto considerata per astrazione come entità unitaria ovvero avulsa dal contesto relazionale" (1998, pp.56-57).
Ciò consente anche di evitare o ridimensionare l'uso del concetto di Sé, che ormai si è insediato nelle teorizzazioni (o speculazioni) cliniche in modo a mio avviso preoccupante. Schafer non evita di sottolineare tale questione, che non è puramente terminologica: "Anche se è lecito usare come sinonimi Sé e persona, negli enunciati sistematici è consigliabile l'uso di un solo termine. Questo termine dovrebbe essere il più diretto e inequivoco, quello che nella sua normale accezione più si avvicina all'idea di azione. Questo termine è persona. Né Sé, né identità, né Io, ma persona. Il Sé e l'identità sono azioni rappresentative della persona; l'Io, spogliato delle sue bardature meccanicistiche è la classe delle azioni o delle modalità delle azioni o degli aspetti di queste, che la persona compie"(1978, pp.63-64).

Ovviamente, la scelta della persona come livello d'analisi può essere considerata discutibile da chi ritiene che la persona sia proprio ciò che andrebbe spiegato. Ora, prevenendo questa obiezione voglio sottolineare che le elaborazioni teoriche in psicoterapia (e a maggior ragione quelle epistemologiche relative alla definizione del livello d'analisi) hanno senso in quanto contribuiscono a chiarire ciò che accade nelle sedute e ciò che si può fare per favorire il cambiamento. Questioni più generali, a cui, da Freud in poi, gli analisti non hanno purtroppo rinunciato a dare "risposte cliniche", non sono questioni cliniche. Alcune non sono nemmeno questioni empiricamente trattabili, ma filosofiche. Tra queste, la meno opportuna è stata proprio quella relativa al "cos'è" una persona.
Il più delle volte i teorici della psicoterapia hanno fornito risposte a queste domande o si sono limitati ad utilizzare le risposte di qualche filosofo. Ciò che hanno ottenuto è stato più che altro un appesantimento delle loro teorie. Abbiamo ragione di credere che uno psicoterapeuta marxista lavorerebbe in modo diverso con un cliente ossessivo se un giorno si convertisse al cristianesimo o diventasse positivista? Io non credo. Per questo non credo che gli analisti debbano decidere cos'è una persona né che debbano "arricchire" le loro riflessioni con speculazioni metafisiche prese a prestito dai filosofi.
Nei trattati di equitazione mancano fortunatamente le "spiegazioni" relative all'essenza della cavallinità, ma in psicoterapia questa parsimonia sembra una virtù rara. Di fatto, però, poiché gli analisti, come gli istruttori di equitazione, sanno distinguere una persona da un cavallo, potrebbero dedicarsi solo alla soluzione di problemi modesti (non filosofici) ma importanti per le persone che chiedono il loro aiuto, contribuendo al chiarimento delle ragioni per cui le persone agiscono e per cui tanto spesso agiscono in modo irrazionale e distruttivo.


4.Persona, corpo ed "energia"

Una sollecitazione notevole alla teorizzazione del percorso analitico al livello d'analisi della persona è venuta dalle osservazioni sul linguaggio del corpo e dall'introduzione di tecniche corporee nel lavoro analitico. Se vari autori, fin dagli inizi della psicoanalisi hanno avuto delle intuizioni in proposito, è stato Wilhelm Reich ad aprire questo nuovo ambito di ricerca che inevitabilmente portava ad un superamento del livello d'analisi intrapsichico. Tuttavia approdando ad un rozzo riduzionismo biologico e biofisico (1949, 1950) Reich non è riuscito a sviluppare in modo conseguenziale e rigoroso alcune sue interessanti intuizioni.

Lasciando da parte qualsiasi considerazione riassuntiva o critica in merito alle ipotesi biofisiche di Reich, voglio solo sottolineare la fragilità della cornice epistemologica entro la quale Reich espose le sue scoperte psicologiche e le sue congetture biologiche e fisiche. Negli anni ’20 egli adottò il materialismo dialettico come quadro di riferimento per la sua rielaborazione della dottrina psicoanalitica (1929) con il risultato di integrare le speculazioni metapsicologiche con quelle engelsiane. Al di là dei meriti di Reich per il suo impegno volto ad organizzare dei consultori in cui i giovani proletari potevano ricevere informazioni, consigli ed anche consulenze psicologiche, va ricordato che il materialismo dialettico è più una concezione della realtà (un’ontologia), che un’epistemologia (Frank, 1941). Negli Stati Uniti Reich ripubblicò in lingua inglese i principali scritti degli anni '30 (1945, 1946) sostanzialmente non riveduti, salvo che per la sostituzione di tutte le espressioni "dialettico" e "materialismo dialettico" con le espressioni "funzionale" e "funzionalismo". Ciò suggerisce quindi che, quale che sia la base empirica dell'orgonomia, essa ha premesse epistemologiche abbastanza fragili. Orientando in questo modo le sue ricerche Reich perse l'occasione di realizzare una valida integrazione dei dati psicoanalitici con quelli ricavati dal lavoro sulle tensioni corporee in una teoria collocata a livello d'analisi della persona.
Anziché muoversi in questa direzione egli cercò di "risolvere" il problema (filosofico) del rapporto mente-corpo. Il suo schema della freccia che si sdoppia in due rami che si contrappongono divenne la rappresentazione di un'idea capace di spiegare ogni cosa (dalla nevrosi,all'origine della vita, ai sistemi galattici). Il concetto di "identità funzionale psicosomatica" (1942, pp.88 e 279-280), per quanto suggestivo resta un concetto confuso che di volta in volta riassume o un orientamento riduzionistico o un orientamento "dialettico". L'idea che aspetti somatici e psicologici fossero due aspetti di una stessa funzione espressiva, anziché tradursi in un tentativo di spiegare i processi psicologici a livello d’analisi della persona diede luogo a considerazioni un po' poetiche ed un po' biologistiche sull’espressione emozionale come "funzione del vivente".

Un altro aspetto della concezione "funzionale" di Reich a cui vale la pena accennare è la concezione "cosale" dell'energia. Quando si dice che una pila o una centrale elettrica "contengono" dell'energia ci si esprime in termini approssimativi, adeguati alla comunicazione quotidiana. Tuttavia, in fisica il concetto di energia è costruito come concetto teorico e non utilizzato per descrivere dati osservabili (Carnap, (1956, p.279) e tanto meno interpretato in un'accezione sostanzialistica (Popper-Eccles, 1977, p.18). Reich invece, ha trattato il concetto di energia in un'accezione "cosale" o sostanzialistica; le sue considerazioni sul blocco e sulla scarica dell'energia degli anni '20 e dei primi anni '30 si sono poi tradotte nella convinzione secondo cui "La libido di cui Freud parlava ipoteticamente e che suggerì che avrebbe potuto essere chimica in natura, è un'energia concreta, qualcosa di molto concreto e fisico. E' nell'aria e può essere concentrata in un accumulatore di energia orgonica (...) E' una cosa concreta. La libido, invece, era solo un termine per definire un concetto" (1952, pp.131-132).

A questo punto voglio fare alcune precisazioni per chiarire le ragioni di fondo per cui rifiuto l'utilizzazione del concetto di energia in psicoterapia, indipendentemente da qualsiasi valutazione di contenuto della teoria orgonica di Reich. La sua debolezza sul piano epistemologico la rende eventualmente accettabile come teoria empirica solo in una versione radicalmente rinnovata, ma va notato che anche studiosi come Capra sono scettici su questa possibilità (1982, pp.284-286).
Non è da escludere inoltre che essa possa risultare accettabile, solo se adeguatamente rielaborata, come contributo ad una complessa tradizione di conoscenze che dall'antichità ad oggi si è sviluppata indipendentemente dalla scienza occidentale. L'idea di energie, più o meno "sottili" che costituiscono i vari "strati" di una sostanza onnipresente, quella che forma la "realtà" (fisica, emotiva, mentale, spirituale), per quanto incompatibile con le scienze empiriche dell'occidente, è accettata in vari settori della medicina alternativa (omeopatia, pranoterapia ecc.), in vari ambiti della parapsicologia, nelle tradizioni mediche non occidentali (agopuntura, Shiatsu, Reiki, ecc.) e negli orientamenti spiritualistici non riconducibili alle religioni tradizionali (teosofia, antroposofia, rivelazioni nell'ambito dell'alta medianità, ecc.). Tra tutte queste concezioni si riscontrano, tra le diversità, alcune significative convergenze. Lasciando da parte quelle palesemente inconsistenti, dobbiamo sottolineare che in queste concezioni, alcune delle quali normalmente accettate almeno per le loro applicazioni terapeutiche (come ad esempio l'agopuntura), l'energia è sostanza, è un aspetto della realtà. In agopuntura si ritiene di lavorare sugli organi indirettamente, ripristinando cioè il flusso energetico che li riguarda e che è considerato reale quanto il flusso sanguigno, anche se non visibile.
In ogni caso, anche ammettendo che Reich abbia colto con l'orgonomia in qualche misura degli aspetti di tale energia, ed anche accettando l'idea di tale energia "basilare" (come concetto distinto da quello definito dalle scienze empiriche), dovremmo comunque respingere le interpretazioni "energetiche" del percorso analitico, perché ciò porterebbe ad ignorare l'intenzionalità dei disturbi e la loro effettiva ragion d'essere.

Considerare l'intenzionalità difensiva come squilibrio energetico è riduzionistico quanto ritenerla un disturbo neurologico o "famigliare". Le persone agiscono nel modo in cui intendono agire, e non da vittime o marionette. La consapevolezza dell'emotività espressa o negata o distorta, la consapevolezza degli obiettivi realistici o illusori perseguiti e la consapevolezza delle risorse adulte disponibili, può aiutare le persone ad agire in modi più equilibrati e costruttivi. Tale cambiamento non è facile ma è possibile, se non è inteso come l’esito di qualche intervento sugli equilibri energetici. Il percorso analitico è un percorso personale, il rapporto analitico è un rapporto fra due persone, i vissuti rilevanti in un percorso analitico sono elementi di una storia personale. Descrivere le vicende personali in termini energetici è semplicemente sbagliato indipendentemente da ciò che si può pensare delle teorie ortodosse o alternative dell'energia.

Vorrei ora riportare alcuni frammenti di lavoro analitico per mostrare come di fatto le teorizzazioni sviluppate a livelli d'analisi "parziali" risultino del tutto inadeguate per una effettiva spiegazione di ciò che i clienti fanno e per una ragionevole giustificazione di ciò che l'analista può fare per aiutarli.

Un insegnante che non aveva lavorato per molti anni "a causa dei suoi problemi psicologici" e che di fatto a quarant'anni viveva in una simbiosi conflittuale con la madre aveva iniziato l'analisi per diventare economicamente autonomo e per superare la "timidezza" che considerava la "causa" delle sue difficoltà ad avere una relazione stabile con una donna. In gioventù questo cliente (che chiamerò Dario) aveva anche avuto una "crisi nervosa" superata con cure psichiatriche. Fondamentalmente egli aveva scelto di sentirsi a credito col mondo piuttosto che accettare di aver ricevuto poco dalla madre e di non poter ottenere nulla di "riparativo". Solo col superamento del suo atteggiamento di pretesa avrebbe percepito la necessità e la capacità di impegnarsi personalmente per raggiungere degli obiettivi realistici e soddisfacenti sul piano adulto. Questa riformulazione del problema era risultata fin dall'inizio convincente per il cliente. Anche se Dario continuava a sentirsi "non in grado" di impegnarsi nel lavoro e nei rapporti personali quando era depresso, era tuttavia disponibile a lavorare sul suo atteggiamento pretenzioso piuttosto che sul suo "star male". Avevamo trascorso quasi due anni facendo piccoli passi avanti con molte difficoltà, dato che l'abisso in cui doveva tuffarsi per uscire dalla sua prigione era realmente spaventoso. La madre era stata in terapia farmacologica per tamponare la tendenza ad alternare fasi di grande dolcezza col figlio e fasi di profondo rigetto e questi si era trincerato in una posizione di vittima in attesa di riscatto, ovvero in attesa che la madre "buona" restasse buona per sempre e lo ripagasse di tutto.
Al momento della seduta che sto per descrivere il cliente era arrivato a rinunciare all'idea che il mondo si facesse carico di lui sul piano economico ed aveva accettato di lavorare in una scuola privata. A questo punto si accorse di avere delle lacune nella sua preparazione professionale che dopo tanti anni di inattività lo rendevano meno competente di colleghi più giovani appena laureati.
D. Ho avuto la conferma del mio incarico per tutto l'anno, ma sono stato male per diversi giorni. Io ho dei gravi problemi con la memoria e ciò aggrava le mie difficoltà dovute al fatto che non studio la mia materia di insegnamento da vent'anni. Sto studiando perché non posso permettermi di non avere un minimo di preparazione, ma mi costa molto. Mi sono chiesto se il problema della scarsa memoria può dipendere dal fatto di non aver ancora accettato definitivamente l'idea di lavorare, però non sento di avere l'energia sufficiente per impegnarmi. Mi costa molto ammettere la mia scarsa preparazione, mi sento inadeguato e trovo difficilissimo studiare per recuperare un livello accettabile di professionalità.
Ovviamente Dario resiste all'idea di lavorare e liberare la madre dalla responsabilità del suo mantenimento e, pur ammettendo di non avere una preparazione adeguata si oppone in qualche modo all'idea di darsi da fare per diventare un insegnante normale. Da "malato" può considerarsi "speciale" ed avere un sacco di "diritti". Da "normale" può solo sentirsi "uno dei tanti", uno che ha il dovere di fare certe cose per guadagnarsi uno stipendio. L'idea di non combinare nulla perché la madre, la famiglia, la vita sono stati crudeli con lui lo alimenta la sua depressione, ma gli fa immaginare un futuro radioso. L'idea di poter fare cose reali per sé lo mette di fronte all'idea che il passato (per quanto brutto) è finito e che il futuro dipende solo da lui. Da qui le stranezze sulla memoria e sull'energia. Questo problema potrebbe essere teorizzabile a livello d'analisi intrapsichico in termini di patologia del Super io e dell'ideale dell'Io. Tuttavia, considerando che questi aspetti "intrapsichici" danno luogo a comportamenti specifici (il rifiuto del lavoro, nel passato e l'esitazione a studiare per recuperare delle competenze, nel presente) e a stati soggettivi ma anche fisici (l'idea di aver poca energia a disposizione, ma anche il dato fisico della stanchezza) si potrebbe ipotizzare qualche relazione causale fra le strutture mentali, i comportamenti e lo stato fisico. Il problema potrebbe essere visto in termini ancora più fantasiosi proprio a livello "energetico": la mancanza di cure materne ha indebolito il sistema bioenergetico di Dario che quindi ha bisogno di respirare di più per assumere più energia e deve sbloccare delle tensioni per sprecare meno energia. Però anche in questo caso si dovrebbe spiegare come mai questi processi quantitativi "causino" proprio il senso di vergogna, o il "blocco" della memoria. Si potrebbe anche trascurare tutto quello che Dario sente e dice di sentire e concentrare l'attenzione sul fatto che egli si comporta più o meno come in passato: prima non lavorava e ora lavora con molte esitazioni, quindi continua ad avere lo stesso schema comportamentale di base che va modificato con opportune sollecitazioni. Ma quali? Cosa gli si può "insegnare" quando tale schema comportamentale ha una precisa funzione anestetica rispetto ad un dolore che lo spaventa?
Il quadro risulta molto più semplice e ragionevole se consideriamo che Dario è una persona che agisce per dimenticare i suoi vissuti, ovvero che agisce per illudersi di poter ricevere ancora delle cure materne. Per fare questo si percepisce, si pensa e si atteggia in un certo modo. La mia risposta alle dichiarazioni di Dario è rivolta alla persona e costituisce una provocazione che mira a far sentire qualcosa di più profondo e delicato dei "sintomi" di cui si lamenta.
GF. Lasciamo stare la memoria e l'energia! Hai sempre snobbato gli insegnanti che facevano una vita di routine mentre tu nel ruolo di grande malato avevi altro da pensare. Ora vai a scuola e scopri che quegli "omini grigi" sanno fare il loro lavoro e tu non lo sai fare. Loro sono più utili agli studenti di te. Questo non toglie nulla al tuo valore di persona, ma ti impedisce di sentirti orgoglioso delle tue competenze. In questa situazione non puoi sentirti al centro del mondo come quando eri il depresso più originale del Nord-Italia. Sei semplicemente Dario. E questo ti disturba perché nella tua storia ci sono solo due scene: mamma sta bene e tu sei l'unica cosa importante nel suo mondo, oppure mamma sta male e tu non sei più speciale, ma irrilevante e spregevole. Appena non ti senti al centro del mondo ti senti ai margini dell'universo e ti deprimi nell'attesa di tornare al centro del mondo. Il punto è che "al centro" non ci sei mai stato: tua madre era fuori di testa e senza contatto anche quando ti stava vicina e faceva il gioco della mamma perfetta col bambino perfetto. Se scegli la favola sei pieno d'orgoglio fasullo, di presunzione e … prima o poi, inevitabilmente, cadi in depressione.
D. E' vero. Tutte le volte che ho sentito e mostrato un po' d'umiltà, mi sono sentito più triste, ma non privo d'energia. Quando sono andato a chiedere consiglio e aiuto a quel professore per far domanda di insegnamento nella sua scuola non mi sono sentito depresso.
GF. Restare in quel rapporto realistico con te stesso comporta un senso di solitudine. Ci sei tu, oggi, con la tua vita da vivere. Non c'è nulla "da aspettare", non hai "diritto" a nulla. La tua storia di bambino è finita. E sei triste perché sai che non c'è stato e non può esserci alcun "lieto fine". C'è solo il presente.
Il lavoro con Dario proseguì. Insegnò per un paio d'anni pur ripiegandosi più volte nel suo ruolo di vittima speciale ogni volta che la tristezza lo portava ad un pianto più profondo di quanto sentiva di poter tollerare. Al momento Dario ha interrotto l'analisi evitando di rinunciare del tutto alle sue illusioni e di accogliere tutto il suo dolore. E' una persona molto dolce e generosa quando non scappa dal dolore. Ha stabilizzato una situazione lavorativa normale, ma non è arrivato a ripensare in termini nuovi la sua identità. Di fatto ha usato l'analisi per stare meglio piuttosto che per stare incondizionatamente con se stesso. Non siamo riusciti a fare di più, anche se mi auguro che decida di fare con me o con altri il lavoro rimasto in sospeso. In ogni caso riesco a spiegare ciò che Dario si è permesso di cambiare e ciò che ha avuto paura di affrontare solo ragionando in termini di azioni personali, di intenzioni difensive personali, di vissuti personali e così via.

Quest'altro esempio riguarda una cliente che era molto determinata a costruire rapporti significativi in cui lei risultava indispensabile agli altri ed in cui gestiva con cura il suo ruolo sia manifestando una disponibilità materna, sia negandosi a livelli più intimi, ad esempio sessualmente con il compagno. In una delle prime sedute riconobbe di sentire ostilità nei miei confronti perché la nostra relazione non era paritaria e lei non accettava di stare nel ruolo di chi chiede aiuto. Esplorando la situazione dichiarò di sentire molta tensione alla bocca e una certa ostilità collegata a tale tensione. Le suggerii di mordere un tovagliolino ripiegato che io tenevo dal lato opposto. Sentì un forte impulso a mordere e a tirare e fra noi si sviluppò una specie di braccio di ferro sul "possesso" dell'oggetto in questione. Per chi non fa analisi ricorrendo al lavoro corporeo questo può sembrare un esercizio stupido. Ovviamente lo è quanto possono esserlo le associazioni libere sui sogni, se si ragiona superficialmente. Se portato avanti con attenzione, un lavoro fisico può dar luogo a scoperte interessanti sull'atteggiamento della persona e può anche sollecitare reazioni emotive molto intense. Nel corso del lavoro notai che questa cliente, tanto restia a coinvolgersi, si stava impegnando fisicamente con molta forza. Le chiesi di interrompere e le chiesi cosa sentisse e come si sentisse con me facendo quell'esercizio.
Rispose di essersi lasciata andare ad una forte emozione. Sentiva che per nessuna ragione al mondo avrebbe ceduto a me il tovagliolino. Tirando coi denti dalla sua parte pensava la frase "io non cederò mai". Le feci notare che quel tovagliolino era mio. Io lo avevo comprato, glielo avevo dato e, trattenendolo, rifiutavo di lasciarglielo. In realtà lei stava lottando per "prendere" qualcosa, non per "tenersi qualcosa".
Questa ovvia puntualizzazione la colpì. Mi sembrò che in pochi secondi ricapitolasse il lavoro appena fatto nella nuova chiave di lettura e lasciò uscire qualche lacrima. Si sentì fragile, piccola, impotente. Questo esercizio "stupido" le permise di comprendere anche in termini emotivi che la sua ostinazione a collocarsi sempre nel ruolo di un genitore che dà o rifiuta qualcosa serviva a negare un vissuto di richieste respinte e svalutate. Per questo, abitualmente, strutturava in un certo modo i rapporti interpersonali: per dimenticare la sua dolorosa dipendenza.

Si potrebbe rendere conto di questo lavoro e del problema della cliente parlando di blocchi caratteriali o di ingorgo energetico. La bioenergetica e la vegetoterapia suggeriscono tale orientamento. In questa chiave si potrebbero dire molte cose sulla fase orale della cliente e sulla corazza costruita in seguito ad uno svezzamento traumatico. Si giustificherebbe anche l'esercizio del tovagliolino. Tuttavia tale esercizio non ha dato luogo ad una semplice accentuazione del tono muscolare, ad un crollo temporaneo dell'armatura ed al riaffiorare di un'emozione profonda e liberatoria. La cliente avrebbe potuto continuare fino a sera il suo braccio di ferro ben contenta della propria capacità di "non cedere" proprio perché interpretava il suo sforzo muscolare in una logica difensiva. L'intima comprensione (scorretta) di ciò che faceva avrebbe avuto un peso maggiore dello "sblocco" che era ragionevole attendersi teorizzando a livello d'analisi "energetico" (o fisiologico). Il sentimento profondo è affiorato non in seguito al lavoro sui muscoli della bocca e del collo, ma in seguito alla semplice osservazione che il tovagliolo era il mio e che quindi lei lottava per "averlo", non per "non darmelo".

Questo esempio non vuol suggerire che le teorizzazioni relative all'immagine di sé, ai rapporti oggettuali e agli stati dell'Io siano più opportune delle teorizzazioni relative ai segmenti della "corazza caratteriale" o ai comportamenti manifesti. Si cammina male sia se si dispone solo della gamba destra, sia se si dispone solo della sinistra. La cliente di cui ho appena parlato aveva sia delle tensioni che limitavano la mobilità della sua bocca, sia una tendenza ad assumere il ruolo genitoriale proprio esibendo un sorriso di superiorità. Questi due aspetti convergevano nel suo sentirsi un certo tipo di persona e nell’agire ed interagire in certi modi, pur di non sentire certe emozioni da sempre temute.

Nel lavoro analitico si cerca di capire perché una persona agisce in modi che non comprende. Se i concetti basilari della teoria di riferimento sono costruiti al livello d’analisi della persona, l’analista può collegare nel modo più semplice e produttivo i vari dati osservativi a sua disposizione e può quindi cercare di chiarire cosa il cliente fa per esprimersi e cosa fa per evitare di sentire emozioni profonde.


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