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Gianfranco Ravaglia

L'INTENZIONE RITROVATA
Intenzioni e vissuti nel lavoro analitico




CAPITOLO 1
Il lavoro analitico fra intenzioni e cause


1. Intenzioni e cause nella storia della psicoterapia


Nella storia della psicoterapia si possono evidenziare varie opposizioni fondamentali che hanno dato luogo sia a teorizzazioni che a metodologie fra loro molto diverse. Tra queste opposizioni, vanno ricordate quella fra orientamento analitico e non analitico, fra lavoro centrato sul passato e sul presente, fra indirizzo verbale e corporeo, fra teorizzazioni intrapsichiche e interpersonali, fra lavoro sulla persona e sulla famiglia e così via. L'opposizione che in queste pagine sarà presa in considerazione è invece quella fra concezione causale ed intenzionale dei comportamenti e degli atteggiamenti su cui verte il lavoro analitico.

Tale opposizione ha le sue radici nell'opposizione filosofica fra la concezione di Locke dell'intelletto umano come entità passiva e quella di Leibniz, sviluppata in seguito da Kant, dell'intelletto inteso come attivamente impegnato ad elaborare i dati della realtà. Nell'ambito più circoscritto della psicoterapia, abbiamo la possibilità di considerare i disturbi psicologici come effetti sulla persona di qualche fattore determinante oppure come prodotti di un'attività difensiva intenzionale della persona.

Parlare di intenzioni comporta tuttavia l'apertura di una discussione decisamente complessa e spinosa che i filosofi oltre che gli psicologi hanno da sempre portato avanti. Di fatto ogni tesi filosofica sulla questione mente-corpo o sull'intenzionalità o sul libero arbitrio si è trovata esposta ad obiezioni ragionevoli. Poiché la psicologia e la psicoterapia non sembrano in grado di risolvere in base ai dati empirici tali questioni filosofiche preferisco formulare le mie considerazioni sull'analisi in termini tali che lascino spazio ad ulteriori speculazioni di tipo ontologico. Con ciò non voglio certo negare l'importanza di questioni filosofiche che mi appassionano e mi inquietano da tre decenni, e che considero fondamentali. Voglio solo ribadire che esse sono irrisolvibili sia sul piano filosofico, sia su quello clinico e che sono comunque irrilevanti per una comprensione del percorso analitico.

L'analisi delle intenzioni (inconsapevoli) attraversa i vari orientamenti della psicoterapia. Appartiene ad analisti di formazione psicoanalitica, reichiana, cognitivista, gestaltica, transazionale, esistenziale, umanistica. Per questo non mi propongo di presentare l'ennesimo "nuovo orientamento" psicoterapeutico di cui sicuramente nessuno sente la mancanza. Ad un secolo dal primo vagito della psicoterapia non si ha bisogno di nuove "invenzioni", ma semmai di riflessioni sul patrimonio conoscitivo già disponibile, già ampio e troppo frammentato.
Proponendomi di approfondire il lavoro sull'intenzionalità dei processi difensivi in termini non speculativi e strettamente analitici (nell'accezione ampia data al termine nell'Introduzione), devo precisare che il mio eclettismo non si estende ai seguenti orientamenti:
a) alle psicoterapie che rifiutano il concetto di intenzionalità;
b)alle psicoterapie che pur considerando legittimo tale concetto, lo definiscono in riferimento ad una particolare ontologia, oppure lo utilizzano per orientare l'attività psicoterapeutica in senso non analitico.
Ad esempio, la psicoterapia comportamentale, e quella relazionale costituiscono "lo zoccolo duro" del causalismo in psicoterapia. Nella "analisi funzionale" di Skinner (1953, p.58) si sottolinea la necessità di non considerare alcun elemento intermedio fra lo stimolo e la risposta, mentre negli approcci relazionali il comportamento individuale è considerato "l'effetto di modalità interazionali dell'intero gruppo familiare" (M.Selvini Palazzoli, 1963, p.253). Gli interventi (dalla desensibilizzazione comportamentale alla prescrizione del sintomo) non lasciano spazio all'intenzionalità (e non sono comunque di tipo analitico).
Sulla sponda opposta, la logoterapia (V.Frankl, 1948) e la psicosintesi (R.Assagioli, 1965), che non rifiutano il concetto di intenzionalità, sono orientate in direzione non analitica e implicano teorizzazioni espressamente spiritualistiche.
Se poi consideriamo l'insieme delle "tecniche di crescita interiore" di tipo New-Age, (dalle varie "espressioni di sé", alle psico-danze, all'utilizzazione di suoni e colori, alle varie esperienze di "rilassamento psicofisico") troviamo marcate tendenze a "riequilibrare" o a "liberare" e quindi a presupporre che la persona non abbia avuto alcun ruolo nello sviluppo del suo disagio. Se in questo vago insieme di "terapie" anche qualcosa di prezioso va a mio avviso salvato, la generale vaghezza delle riflessioni si accompagna ad una passivizzazione dei clienti.

Tra gli estremi del causalismo scientista e dell'intenzionalismo speculativo, troviamo alcuni importanti orientamenti psicoterapeutici in cui è presente una radicale ambiguità fra concezione causale e concezione intenzionale dei disturbi psicologici. Mi riferisco in particolare alla psicoanalisi, all'analisi del carattere di tipo reichiano ed alle psicoterapie cognitive. Per accogliere i contributi più significativi di questi indirizzi psicoterapeutici occorre quindi esaminare le varie tendenze presenti al loro interno.


2. Psicoanalisi

Nella psicoanalisi c'è un'ambiguità di fondo che Freud non ha mai risolto fra lettura causale ed intenzionale dei comportamenti individuali. Egli considerava le esperienze ed i comportamenti individuali come effetti delle vicende dell'energia psichica. La stessa terapia era concepita come una sorta di operazione "idraulica": "Il lavoro terapeutico si scompone quindi in due fasi: nella prima tutta quanta la libido, tolta ai sintomi, viene spinta nella traslazione e ivi concentrata, nella seconda viene condotta la lotta intorno a questo nuovo oggetto, finché la libido non viene liberata da esso" (S.Freud, 1915-17, p.603). Tuttavia Freud a volte si trovava a descrivere i suoi pazienti come soggetti responsabili delle loro azioni. Nello scritto sul caso clinico dell'uomo dei lupi (1914, p.505) compare l'espressione "intenzioni masochistiche" e viene considerata l'ipotesi secondo cui il paziente "voleva costringere il padre a castigarlo". Il fatto che Freud utilizzasse "interscambiabilmente i termini motivo e causa" (Grünbaum, 1980, p.97) ha reso particolarmente difficile l'interpretazione del suo pensiero. Le citazioni potrebbero moltiplicarsi, senza comunque "dimostrare" quello che va in ogni caso ricavato da un esame complessivo dei testi freudiani. Chi preferisce interpretare Freud in senso positivista considera le sue descrizioni in termini di intenzionalità come semplici concessioni al linguaggio quotidiano e chi preferisce l'altra interpretazione può affermare che l'adesione di Freud al positivismo ed al biologismo va intesa come una sorta di superficiale conformismo rispetto ai modelli epistemologici allora dominanti.

L'ambiguità di Freud su tale importante questione è stata in certi casi mantenuta dai suoi allievi e continuatori, mentre in altri casi ha portato ad importanti discussioni fra i sostenitori e i critici della metapsicologia freudiana.
Luborski, ad esempio, presentando il suo "metodo del tema relazionale conflittuale centrale" afferma il suo proposito di "comprendere il tema dei desideri, dei bisogni e delle intenzioni del paziente in rapporto alle persone più importanti, incluso il terapeuta" (Luborsky, 1984, p.7), ma nella descrizione dei suoi casi clinici oscilla fra una lettura intenzionale dei sintomi ed una causale, come quando indica la madre di una sua paziente come "la principale responsabile"(p.99) dell'origine di certi sintomi ed atteggiamenti.

Senza dilungarmi nell'esposizione di questa importante e feconda lacerazione che attraversa la psicoanalisi, voglio solo sottolineare che l'incertezza di Freud sulla questione fa sì che gli psicoanalisti debbano esprimere il loro punto di vista piuttosto che documentare il "vero" punto di vista di Freud. Ciò che conta è che nella tradizione psicoanalitica sia possibile una (ri)formulazione della teoria in termini non meccanicistici, non causali, non impersonali.
L'approfondimento (o la radicale revisione) della concezione psicoanalitica, in termini intenzionali si è realizzato con il contributo di vari autori. Klein ha suggerito una ridefinizione della teoria dell'analisi in quanto teoria "clinica" libera da presupposizioni metapsicologiche: "Nella situazione psicoanalitica, la scoperta dell'intenzionalita` costituisce l'obiettivo primario dell'analista..."(Klein, 1976, p. 54). L'action language di Roy Schafer costituisce uno dei più espliciti superamenti della prospettiva causale in psicoanalisi, ove il concetto di azione include tutte le attività compiute dalla persona (consapevolmente o inconsapevolmente), comprese le "difese", le caratteristiche della personalità ed i sintomi: "Nella mia accezione del termine, azione sta per comportamento umano orientato a uno scopo; sta per attività umana significante; sta per condotte intenzionali o proiettate su un obiettivo; sta per il fare qualcosa per delle ragioni. Non c'è nulla che l'interpretazione psicoanalitica possa considerare che non sia un'azione in tal senso. Per esempio, pensare a qualcosa è fare un'azione; guardare o ricordare qualcosa è fare un'azione; star zitti o comunque inattivi è un'azione quanto lo è dire qualcosa o andare da qualche parte. Dire qualcosa è un'azione di un certo tipo, pensare quella cosa e non dirla è un'azione di un altro tipo" (1976, p.139). Pur non condividendo né le premesse filosofiche né gli sviluppi ermeneutici della teoria di Schafer, farò spesso riferimento alla sua concezione dell'azione che a mio avviso costituisce un contributo prezioso per la riflessione sul lavoro analitico.

Queste riflessioni maturate all'interno della tradizione freudiana hanno reso possibile un dibattito ed un positivo disorientamento grazie al quale oggi la psicoanalisi sembra più un ambito di riflessione che un sistema di idee. Tale situazione facilita il compito degli studiosi orientati a ripensare la psicoanalisi come "teoria dell'inconscio intenzionale" ovvero come "teoria generale sistematica dell'organizzazione ed origine del sistema di credenze e desideri che costituisce il soggetto, articolato in profondità in direzione della soggettività inconscia intenzionale" (Scano-Mastroianni-Cadeddu, 1995, p.306).


3. Terapia reichiana

La genialità e la superficialità di Wilhelm Reich hanno determinato sia l'influenza così profonda di questo studioso in ambiti tanto diversi della psicoterapia, sia l'assoluta marginalità delle sue specifiche elaborazioni. Il suo pensiero ha inciso profondamente sul passaggio nella psicoanalisi e nella psichiatria dall'interesse per i sintomi all'interesse per la personalità, così come ha inciso su approcci postfreudiani fra loro diversissimi (bioenergetica, Gestalt Therapy, vari indirizzi della psicoterapia umanistica). Tuttavia le varie scuole reichiane sono sopravvissute ai margini del dibattito teorico e clinico nella psicoterapia contemporanea.

D.Shapiro (1996) ha sottolineato che, nonostante le varie ricerche (tra cui quelle significative di A.Freud) orientate a considerare i meccanismi di difesa come oggetto d'analisi piuttosto che come elementi di disturbo del lavoro analitico, va a Reich il merito di aver messo al centro dell'analisi proprio la struttura delle difese, cioè il carattere, e quindi di aver privilegiato le modalità della comunicazione rispetto ai suoi contenuti.

Per accennare brevemente alle tappe del pensiero reichiano, vorrei ricordare che da giovane Reich era, proprio per le sue pionieristiche ricerche sulla struttura caratteriale (1928) un promettente psicoanalista. Negli anni '30, già lontano dall'orizzonte teorico freudiano, studiò con altrettanta originalità l'aspetto corporeo ("corazza muscolare") delle difese caratteriali. Se non fu né il primo, né l'unico a prendere in considerazione il corpo nell'ambito di una riflessione analitica, fu il primo a trattare la materia con sistematicità elaborando la "vegetoterapia analitico-caratteriale" (1942a). Negli anni '40 sviluppò la cosiddetta "teoria orgonomica", ovvero una concezione biofisica (1942b, 1948) considerata da alcuni un ulteriore approfondimento delle sue iniziali considerazioni "energetiche" e da altri una teorizzazione priva di fondamenti empirici . Seguaci e scettici hanno scritto molto su questa "terza fase" del pensiero reichiano. Pochi sono stati gli studi "distaccati" sull'argomento (Sacco-Sperini, 1990). Personalmente non mi sono mai occupato a fondo di queste ultime ricerche di cui nei prossimi capitoli evidenzierò comunque la debolezza epistemologica.

Fin da ora è tuttavia necessario ricordare che negli anni della ricerca psicoanalitica Reich era particolarmente interessato alla metapsicologia intesa in senso fondamentalmente "realistico". Reich era più freudiano di Freud nel concepire in termini sostanzialistici la libido e l'apparato difensivo. Concetti come "stasi", "ingorgo", "blocco", biologizzavano la psicologia freudiana, e la persona analizzata era concepita da Reich come il risultato oggettivo dello scontro fra le spinte "vitali" dell'organismo e quelle repressive della società. Egli adottò il materialismo dialettico nella sua versione più elementare (quella engelsiana) per fondare una psicologia materialistica in cui tuttavia convergevano motivi vitalistici (bergsoniani). Tale "sintesi" in realtà era più emotiva che epistemologicamente accurata. Negli scritti di Reich (pieni di invettive filosofiche contro la scienza "meccanicistica") non c'è traccia del travaglio che in quegli anni (in Europa e poi negli Stati Uniti) caratterizzò la filosofia della scienza. Non un riferimento alla fenomenologia, né al neopositivismo, né alla filosofia analitica. Nessuno va accusato per i suoi limiti; semmai va ringraziato per i suoi contributi. Tuttavia resta il fatto che non è facile distinguere i contributi clinici di Reich dalle sue speculazioni.

Si può dire, sinteticamente, che Reich considerava i disturbi psicologici e le difese da un punto di vista causale e materialistico, anche se, contraddicendosi, lasciava spazio ad una interpretazione di tipo intenzionale.
Il suo punto di partenza era la metapsicologia freudiana nella versione più riduttiva, secondo cui la repressione sessuale bloccava l'energia libidica e tale blocco energetico (caratteriale) "produceva" i sintomi. Il compito dell'analisi del carattere era quindi quello di "liberare" il paziente dalla stasi energetica rendendolo consapevole della repressione e permettendogli di raggiungere con la scarica genitale orgastica un naturale equilibrio biopsichico (W.Reich, 1945, p.187).
Tuttavia Reich parlava anche del carattere come di un "apparato psichico di protezione" (1945, p.76) ove il concetto di protezione rinvia ad un soggetto che intende evitare qualcosa piuttosto che a qualcosa che "accade". Egli ha addirittura sostenuto che in certi casi si deve considerare anche "la volontà del paziente di rimanere malato"(1945, p.51), introducendo un'idea che poco si armonizza con la concezione idraulica dell'energia stagnante. Anche se preferisco parlare di intenzioni piuttosto che di volontà, voglio notare che questa espressione riporta al mondo delle persone e delle loro azioni. Un aspetto importante dell'analisi caratteriale di Reich consisteva proprio nel considerare gli atteggiamenti difensivi come delle provocazioni, dei modi per ottenere certi risultati nelle relazioni interpersonali: "E a quel punto mi colpì come un fulmine l'idea che le sue continue lamentele ... in parte erano da considerare un trionfo e in parte un rimprovero nei confronti dell'analista" (1945, p.87).

Questa ambiguità nel pensiero di Reich, paragonabile a quella riscontrabile in Freud, non ha dato luogo negli allievi di Reich ad un dibattito analogo a quello sorto fra gli psicoanalisti. Le scuole reichiane hanno sempre dibattuto poco sul piano teorico e quando qualche studioso di una certa rilevanza maturava le sue perplessità in genere fondava una sua scuola in cui i contributi di Reich venivano ripensati in termini completamente diversi. Un orientamento psicoterapeutico di grande interesse viene da George Downing il quale, formatosi in ambito psicoanalitico e influenzato dalla tradizione fenomenologica, ha riproposto il lavoro sulle difese caratteriali e corporee integrandolo con la teoria delle relazioni oggettuali in un quadro teorico originale e marcatamente intenzionale. Secondo Downing, il modello energetico reichiano "rispecchia in modo inadeguato le strutture della nostra esistenza e immagina un corpo privo di soggettività. Va completamente perduto proprio ciò che è importante capire dell'unità mente-corpo, l'intenzionalità, quell'essere diretti all'esterno di noi stessi che ci caratterizza, e il senso di essere soggetti delle nostre azioni (di avere capacità di azione, dunque), senso caratteristico della mente corporea. La psicoterapia corporea ha tutto da guadagnare nel costruire su altre fondamenta" (1995, p.358).


4. Psicoterapie cognitive

L'indirizzo cognitivista in psicoterapia ha contribuito notevolmente a mettere in rilievo il ruolo essenziale che gli schemi cognitivi individuali svolgono nei processi emozionali e nel comportamento. Tale ruolo era stato offuscato dalla massa di "istanze pulsionali", "energie", "oggetti" introiettati, componenti dell'Io o del Sé ed altri fantasmi che la psicologia del profondo aveva elaborato.
Secondo George Kelly, "la psicologia non deve essere irrazionale né fare ricorso a spiegazioni motivazionali, nemmeno quando deve spiegare comportamenti che sembrano insensati" (1977, p.16). In tale prospettiva, se una teoria psicologica accetta che le persone possano agire "sopraffatte" da un sentimento rinuncia a fornire una spiegazione limitandosi a riprodurre ciò che le persone dicono di sperimentare. Per Kelly le persone costruiscono la loro realtà personale così come gli scienziati costruiscono le loro teorie.

Il cognitivismo in psicoterapia si articola in vari orientamenti teorici e tecnici. L'elemento unificante è l'attenzione alle convinzioni che stanno alla base di azioni, reazioni, emozioni.
In questo sta la forza della psicoterapia cognitiva ... ed anche la sua debolezza. La forza, perché la psicoanalisi e la psicoterapia hanno da sempre dato scarso peso ai fattori cognitivi cercando di spiegare il comportamento patologico come "l'effetto" di "pulsioni" o di "repressioni" o di "carenze affettive" contribuendo spesso a inventare pazienti da "curare" in quanto "spinti" da forze interne a comportamenti "patologici". In questo sta anche la debolezza, perché il rischio che corre la psicoterapia cognitiva è quello di demolire il modello medico per introdurre il modello scolastico in psicoterapia. Il rischio è cioè quello di procedere fino ad un certo punto, individuare certe convinzioni o schemi cognitivi, e arrestare lì l'indagine per passare alla "correzione" degli errori. In modo più sofisticato il cliente resta una vittima, non delle sue dinamiche interne, ma delle convinzioni "errate" ed il terapeuta resta un "salvatore" (che non "cura" ma "spiega"). In tal senso risultano insoddisfacenti le espressioni di Albert Ellis (1962, p.61) relative alle idee irrazionali "inculcate dai genitori" nell'infanzia o quelle di Aaron Beck (1976, p.8) relative alle concezioni scorrette "originate da un apprendimento difettoso".

L'indagine invece può e, a mio avviso, dovrebbe andare fino in fondo. Perché un bambino si convince che "è meglio distaccarsi emotivamente dalla realtà", o che "è meglio confondersi che guardare ciò che succede", o che "si può essere amati diventando bravi" o che "è un buon affare essere perdenti per venir presi in considerazione"? Queste convinzioni si traducono in atteggiamenti, comportamenti, programmi che procurano sofferenza, ma escludono una sofferenza più profonda. Sheldon Kopp ha descritto in modo convincente questo processo: "Ogni bambino trova il modo di far credere a se stesso che non è così impotente come gli sembra di essere. Deve riuscire a illudersi che in qualche modo può riuscire a costringere i suoi genitori ad amarlo come lui vorrebbe. (...) E' proprio al fine di conservare l'illusione di poter fare a modo proprio che il comportamento nevrotico continua a ripetersi all'infinito, seppure con magri risultati, e che si evolvono certi stili caratteriali autolimitanti e intesi a evitare il rischio" (1971, p.179).

Le convinzioni di un bambino di tre anni continuano a orientare il suo comportamento per tutta la vita; così quel bambino diventa un uomo che non è né "malato" né particolarmente ignorante, che non va né "curato" né "rieducato", ma che può essere aiutato a chiarire i presupposti del suo agire (che non sono necessariamente quelli di cui è consapevole).

A questo proposito il cognitivismo ha introdotto in psicoterapia strumenti rigorosi e sofisticati di grande utilità; tuttavia, per quanto riguarda la lettura causale o intenzionale dei disturbi psicologici, questo orientamento terapeutico manifesta un'ambiguità di fondo analoga a quella già evidenziata nell'indirizzo freudiano ed in quello reichiano. Infatti, da un lato il cognitivismo tende a considerare le componenti irrazionali (difensive) della personalità come semplici "effetti" di qualche "errore del sistema", mentre da un altro lato le tratta come "costruzioni", soluzioni di problemi irrisolvibili razionalmente nell'infanzia. Gli orientamenti costruttivisti presenti nella psicoterapia cognitiva (V.F.Guidano, 1988; V.F.Guidano, 1993; G.Liotti, 1996) possono risultare compatibili con un'analisi dell'intenzionalità difensiva e possono fornire anche un contributo significativo. "Una differenziazione ampiamente diffusa è quella fra le teorie e terapie cognitive razionaliste e costruttiviste (...) Gli psicoterapeuti razionalisti considerano i problemi del paziente come deficit o come correlati emozionali di disfunzioni causate da cognizioni irrazionali e irrealistiche da correggere. Il ruolo del terapeuta è quindi quello di dare al paziente istruzioni e indicazioni tecniche, cercando di vincere le resistenze, che costituiscono un ostacolo al cambiamento terapeutico. Per gli psicoterapeuti costruttivisti i problemi riflettono i limiti attuali nelle capacità del sistema cognitivo, che d'altra parte cerca di salvaguardare la propria integrità e di resistere a cambiamenti nucleari troppo rapidi o sostanziali attraverso processi autoprotettivi" (G.Chiari-M.L.Nuzzo, 1996, p.29). I cognitivisti dell'ultima generazione facendo riferimento soprattutto all'orientamento costruttivista hanno reso possibile gli sviluppi più significativi della psicoterapia cognitiva.

L'integrazione del lavoro sugli schemi cognitivi con il lavoro sui vissuti, di cui parlerò nei prossimi capitoli, può chiarire al cliente non solo le convinzioni che reggono certi suoi atteggiamenti, ma anche evidenziare la sua capacità di tollerare (grazie alle attuali risorse adulte) intense emozioni che nell'infanzia considerava intollerabili. La convinzione più importante da invalidare (attraverso adeguate esperienze nelle sedute) riguarda proprio la presunta incapacità di reggere un'intensa vita emotiva. In tal senso all'obiettivo della psicoterapia cognitiva di ristabilire atteggiamenti coerenti, realistici e razionali, si può aggiungere l'obiettivo di rendere possibile una maggior profondità nel contatto emotivo.


5. Orientamenti di tipo intenzionale in psicoterapia

La terapia gestaltica presuppone la completa responsabilità della persona nella produzione dei suoi sintomi e del suo progetto di vita. Dimostra la ragionevolezza di tale assunto proprio rendendo possibili dei cambiamenti con un lavoro mirato a recuperare la consapevolezza (e la responsabilità) delle "parti di sé" negate. Proprio l'esclusione di certi aspetti dall'immagine di sé rende possibile l'impressione di subire le proprie azioni, cioè di agire "spinti" da qualche fattore determinante. La costante correzione di espressioni verbali del tipo "non riesco a...", oppure "mi capita di…" praticata dai gestaltisti costituisce solo la manifestazione più elementare di una profonda concezione della persona come soggetto intenzionale.
Non solo non siamo vittime degli altri o dei nostri "impulsi", ma non siamo nemmeno vittime del passato. Le nostre scelte del passato sono efficaci semplicemente perché nel presente le confermiamo e le traduciamo in un impegno preciso, anche se inconsapevolmente: "Il trauma non attira la ripetizione, come pensava Freud. A determinare la coazione a ripetere è il tentativo ripetuto dell'organismo di soddisfare il suo bisogno; ma questo tentativo viene ripetutamente inibito da un atto deliberato presente" (F.Perls-R.F.Hefferline-P.Goodman (1951), p.312).

Uno sviluppo interessante del gestaltismo, che fa perno sul concetto di "nucleo", sviluppato negli Stati Uniti da Eileen Walkenstein (1982,1983), mira a ricondurre le sintomatologie e le modalità difensive ad un progetto inconsapevole di esclusione dalla consapevolezza delle esperienze più dolorose dell'infanzia. Utilizzando sia il lavoro sul corpo, sia il lavoro sulle fantasie e ricorrendo alle consuete tecniche gestaltiche, la Walkenstein mira sempre a "scoprire l'intenzione sottostante" (1983, p.113). Dal suo lavoro emerge in modo convincente l'impegno con cui le persone si dedicano a realizzare i sogni segreti dei genitori (anche quando si ribellano alle ingiunzioni esplicite), e l'ostinazione con cui cercano di risultare insensibili al dolore che, non essendo elaborato, li perseguita.

L'analisi transazionale (E.Berne, 1961, 1964, 1966 e 1972), si propone di chiarire soprattutto in termini cognitivi ciò che le persone fanno, senza esserne consapevoli, sia nelle loro relazioni interpersonali, che nel loro "dialogo interno". Mary Goulding e Robert Goulding, hanno elaborato un interessante orientamento psicoterapeutico integrando l'analisi transazionale con principi ricavati da altri approcci e mettendo in primo piano sia a livello teorico che pratico la "ridecisione". Per questi autori che riconoscono bene l'importanza dei messaggi che i bambini ricevono dalle figure genitoriali, ciò che rende possibile un dato assetto difensivo o un comportamento patologico o una struttura della personalità non è tanto costituito dai messaggi ricevuti, ma dalle decisioni che la persona ha preso nell'infanzia riguardo a questi messaggi. "Chiediamo al paziente di rivendicare la propria autonomia ogni volta che vi rinuncia. (...) Insegnamo anche che ciascuno permette a se stesso di sentire ciò che sente e che nessuno fa sentire qualcosa a un'altra persona. Non è la gente che "lo fa arrabbiare": lui sceglie la rabbia in risposta allo stimolo di un'altra persona" (1979, p.11).
Gli autori notano come il modo quotidiano di parlare, così come il modo di esprimere i sentimenti nelle canzoni o anche nella letteratura neghino con tanta facilità la responsabilità personale. Diciamo senza temere di essere sbugiardati che quella persona ci ha fatto innamorare anche se non volevamo, o che ci ha fatto intristire, o che certe circostanze ci hanno fatto reagire. Come se fossimo la tastiera di un computer su cui il primo che passa scrive ciò che vuole. I Goulding integrano quindi le loro buone capacità empatiche con una marcata analisi cognitiva ed una moderata esplorazione ed espressione delle emozioni e ciò consente il raggiungimento di risultati rapidi e profondi.

Anche nell'ambito della psicoterapia esistenziale trova radici l'idea dell'intenzionalità difensiva ed il rifiuto del modello deterministico. Spesso ciò avviene introducendo pesanti premesse ontologiche ed antropologiche sulla volontà della persona. Irvin Yalom è invece uno psicoterapeuta ed uno studioso poco incline alle speculazioni ma molto accurato nell'analisi di ciò che le persone fanno per distaccarsi dalla paura della morte e della solitudine. Egli parla delle più consuete modalità adattive, utilizzando il termine "strategie": "Tutti hanno a che fare con l'angoscia per la morte; la maggior parte di essi sviluppa delle modalità adattive per fronteggiarla, modalità che consistono in strategie basate sulla negazione"; però in altri casi vengono attivate "estreme modalità difensive" (Yalom,1980, pp.110-111). Dunque, per Yalom, sia le difese ordinarie che quelle patologiche sono delle costruzioni elaborate dal soggetto per far fronte ad una situazione angosciante, e in particolare alla morte. La prospettiva interpretativa è di tipo intenzionale, così come l'obiettivo della psicoterapia risulta essere quello di chiarire la strategia difensiva adottata per individuare modalità meno distruttive di affrontare la morte e la sofferenza. In un altro passo Yalom è ancor più esplicito: "...credo che la ricerca di una spiegazione genetica causale (del tipo "perché a partire dalla sua storia personale quel paziente si trova nella presente condizione?") sia un errato modo di orientare il processo terapeutico" (1980, p.190).

Ho cercato di documentare nei paragrafi precedenti che la lettura intenzionale dei processi difensivi è presente come "seconda anima" di tre importanti indirizzi della psicoterapia di questo secolo (la psicoanalisi, la terapia reichiana e la psicoterapia cognitiva). In quest'ultimo paragrafo ho mostrato che altri orientamenti psicoterapeutici ed in particolare alcuni loro significativi rappresentanti accolgono esplicitamente tale modo di concepire il comportamento umano ed in particolare le sue componenti difensive.
Vorrei concludere con due lapidarie frasi di Frank Farrelly e Jeff Brandsma che colgono in modo davvero essenziale sia il loro rifiuto di qualsiasi approccio causale ai disturbi psicologici, sia la loro volontà di non mescolare il lavoro clinico con ipotesi filosofiche non necessarie. "Molti altri terapeuti che abbracciano il determinismo psicologico hanno cercato di evitare ai clienti sensi di colpa eccessivi arrivando a dire che l'uomo non è libero, che è una vittima. Qualunque sia il modo in cui il terapeuta intende venga ricevuto, purtroppo questo messaggio viene fin troppo spesso decodificato dal cliente come un messaggio di rassegnazione. (...) Qualunque sia l'esito definitivo del dibattito che dura da secoli tra determinismo e libero arbitrio, in Terapia Provocativa si assume la posizione operativa secondo cui ritenere la persona responsabile delle proprie azioni le conferisce speranza e dignità"(1974, pp.45-46).


6. Tre sedute

Riporto ora alcuni esempi che illustrano in modo abbastanza convincente la debolezza delle letture "terapeutiche" del lavoro analitico. Nulla di quanto segue ha l'apparenza di una "cura" di qualche patologia, perché il lavoro procede come chiarificazione delle intenzioni difensive in base a cui i clienti agiscono e come rielaborazione di vissuti non integrati. Gli esiti delle singole sedute non sono comprensibili come "effetti" di qualche mio intervento, ma come cambiamenti attuati dai clienti sulla base dei chiarimenti acquisiti e delle esperienze fatte.

Questa seduta ha consentito alla cliente, che chiamerò Piera, un piccolo passo avanti nella direzione di una maggiore accettazione di se stessa e della realtà. Piera era più incline al "contatto sostitutivo" con le persone (ovvero all'espressione di emozioni non autentiche) che alla chiusura. Inoltre, la cliente, all'epoca di questa seduta aveva già lavorato per più di due anni ed aveva già fatto dei cambiamenti che le consentivano di vivere rapporti interpersonali più profondi. I lavori erano ancora in corso, dato che tendeva (come capita a molti clienti che cominciano a sentirsi abbastanza bene) ad usare il lavoro analitico per consolidare un superficiale benessere (inevitabilmente precario) piuttosto che per stabilire un rapporto davvero accettante ed incondizionato con se stessa e per demolire le residue illusioni sulla sua esistenza e sulle altre persone.

P. Va meglio. Sto raccogliendo alcuni frutti del lavoro svolto. Era ora! Penso però di avere ancora bisogno d'aiuto perché vorrei sentirmi di più ed avere un contatto davvero profondo con gli altri.
[Ho subito la sensazione che Piera stia covando una riedizione "analitica" delle sue vecchie fantasie perfezionistiche che la portavano ad essere intellettualmente seduttiva per poi pretendere l'amore come premio dovuto. Per controllare la mia impressione cerco di portare Piera a chiarire se vuole lavorare su un problema preciso o se vuole solo realizzare un astratto "miglioramento"].
GF. In che senso, ora, senti "poco"?
P. Ora mi sento tranquilla e centrata.
GF. Allora perché vuoi lavorare per un "di più"?
P. Perché, anche se meno di una volta stento a realizzare degli obiettivi concreti davvero buoni per me. Certe cose sono andate a posto, però potrei occuparmi più di me stessa, essere più attenta all'alimentazione organizzandomi meglio per evitare certi "pranzi" al bar, così come potrei gestire in modo più ragionevole il mio bilancio mensile. Credo che trattandomi con maggior cura avrei una vita più piena. Mi sento spesso affaticata, come se arrancassi in salita anche se non faccio nulla di eccezionale. Insomma, per me è ancora difficile essere la donna che dovrei essere alla mia età.
[Ora è chiaro che anche se Piera ha delle giustificazioni ragionevoli per alcuni suoi obiettivi, di fatto si confronta con un'idea di sé, cioè con quella della "donna che dovrebbe essere"].
GF. Credo alla tua sensazione di affaticamento, ma non ho capito bene cosa tu faccia per affaticarti. Inoltre ho notato che i temi su cui vorresti lavorare sono abbastanza indefiniti.
[Non so ancora quale direzione prendere per permettere a Piera di percepire che si stanca più per gli obiettivi che si impone che per il suo reale impegno nella vita quotidiana. Temo che un confronto verbale sul suo perfezionismo porterebbe ad un semplice ripasso di cose già chiarite oppure ad una polemica sul suo essere o non essere ancora legata a certe illusioni. Penso che forse da qualche osservazione accurata del suo atteggiamento corporeo potrebbe uscire qualche indicazione abbastanza concreta e quindi accettabile per Piera. Le propongo quindi di valutare se sul piano fisico vuole cercare qualche elemento utile per una maggior comprensione della sua stanchezza o della sua insoddisfazione. Lei accetta il mio suggerimento e la invito quindi a stare semplicemente in piedi, ascoltando la sua respirazione. Noto che appena trova la posizione in cui sente di avere un buon equilibrio solleva lo sguardo, come per controllare qualcosa in un punto del soffitto davanti a lei].
GF. Ripeti quel che hai fatto!
P. Cosa?
GF. Quel movimento con gli occhi.
[Torna a guardare in alto e riabbassa immediatamente lo sguardo]
GF. No; mantieni lo sguardo in quella direzione e verifica cosa senti stando così.
P. Non mi va. Faccio una gran fatica così.
GF. Fai fatica a … guardare in alto, a guardare "oltre". Forse fatichi proprio a guardare quel che … dovresti essere [sottolineo queste ultime due parole, pronunciandole].
P. Cazzo! Ancora?!
GF. Piera, non siamo a scuola. Non hai fatto un "errore". Stiamo parlando di te, del tuo modo di stare con te; questa illusione di "riuscire" ad essere amabile è la tua fuga più conosciuta e più facile di fronte alla realtà. La realtà è davvero bella, ma anche dolorosa. Non sto negando i tuoi cambiamenti, ma aprendoti ad un contatto più profondo ti esponi anche a pene più profonde e la tua prima tendenza è quella di scappare inventandoti una gara; al limite una gara in "conquiste analitiche", con tanta "libertà" interiore e tanta "centratura".
[Il messaggio arriva a destinazione. Piera ora è un po' triste, lucida e più "presente"].
P. Capisco. Posso usare anche l'analisi per illudermi di "meritare" la felicità.
GF. Già. Quella felicità che non può essere ottenuta da Piera-bambina semplicemente perché quella bambina non c'è più. Essa è un ricordo, una sensazione che come donna hai dentro di te e che non è modificabile con nessun trucco. Quella bambina non era felice ma si aggrappava ad un’idea ottimistica: quella di poter conquistare o meritare l’amore. E' sempre con l'ottimismo che ti freghi! Credo che la tua stanchezza e la tua mancanza di attenzione derivino proprio dal compito impossibile a cui ti dedichi facendo anche le cose più semplici.
P. E' tutto chiaro.

Riporto ora una seduta di supervisione fatta con un giovane psicologo (che chiamerò Fabio) riguardante una sua cliente (che chiamerò Laura). Grazie alla sua formazione Fabio era in grado di aiutare i suoi clienti ad esplorare parti ed emozioni non accettate, ma a volte incontrava ancora qualche difficoltà nel cogliere l'intenzionalità che orientava la costruzione di specifiche manovre difensive.

F. Questa cliente ha 34 anni e lavora con me da circa sei mesi. Mi aveva chiesto di lavorare più che altro per una certa sua curiosità nei confronti della psicoterapia e non avevo accettato questa come una buona ragione per fare analisi.
GF. Pienamente d'accordo.
F. Nel colloquio iniziale mi aveva tuttavia descritto anche un problema che meritava di essere affrontato. Si era innamorata diverse volte, ma regolarmente dopo l'entusiasmo iniziale aveva riscontrato un senso di insoddisfazione e di noia nella relazione. Parlandone con me ha ammesso di essere fredda con i ragazzi e, più in generale, di sentire poco le sue emozioni.
GF. Sempre così. Una vaga curiosità, nessun sintomo, e poi va a finire che c'è un muro col filo spinato!
F. Già. Laura è figlia unica e la madre si è sempre lamentata dei sacrifici che faceva per lei. Di fatto ha regolarmente scoraggiato la sua autonomia, sottolineando comunque la pesantezza delle sue richieste e svalutando sempre le sue manifestazioni affettive, le sue capacità, la sua irrequietezza. Il messaggio è quindi "sta qui e lasciati svalutare". Da diversi mesi lavoriamo sul suo scarso coinvolgimento emotivo, e qualcosa è cambiato. Ha riconosciuto varie volte la sua ostilità celata dal distacco e in alcuni casi ha anche sentito della tristezza. Però non ho la sensazione di fare un percorso preciso con lei.
GF. E' probabile, dato che è troppo presto per parlare di vere espressioni di tristezza. Considera la prudenza con cui si è avvicinata a te e trai le conclusioni. Ha molta paura e teme una sofferenza molto intensa. Cerchiamo di capire come frena il tuo lavoro e come tu "la proteggi" da esperienze davvero profonde.
F. Abbiamo chiarito gli atteggiamenti basilari dei genitori. Il padre è sempre stato ai margini, faceva le sue cose e in famiglia era "di passaggio". La madre legava a sé Laura per svalutarla, presumibilmente per sentirsi importante o anche solo per sentirsi viva. Il lavoro vero e proprio, nelle sedute, pur riferito a questo sfondo, in genere inizia con delle sue richieste di chiarimenti riguardanti i rapporti con ragazzi desiderati o già lasciati. Un paio di volte siamo arrivati a chiarire che lei fa sentire i ragazzi dipendenti e svalutati come lei si sentiva con la madre. In altre parole "cede" ad essi i propri "incubi". Quando comprende questo suo atteggiamento manipolativo piange.
GF. L'idea è probabilmente giusta, però tutto è troppo facile. Come va il suo rapporto con te?
F. Inizialmente tendeva a lasciarmi spazio chiedendomi cosa pensassi di questo o di quello, per poi intervenire con obiezioni e con vari "sì, ma…". Per questo sono diventato inflessibile nel fare come tu suggerisci, chiedendo sempre anche esplicitamente su cosa lei volesse lavorare. Anche se con una certa freddezza, finiva per ammettere delle aspettative e delle richieste.
GF. Credo sia molto furba. Ha trovato il modo di controllarti proprio facendo quel che tu hai imposto (con validissime ragioni). Vediamo un po': lei conosce un tipo di relazione importante in cui c'è una madre che svaluta ed una figlia piccola che fa tutto bene, ma che non ne azzecca mai una. Con te ha subito cercato di fare la madre e di lasciarti il ruolo del bambino svalutato. Tu hai aggirato la manovra e allora lei ha scelto di fare la parte della bambina obbediente ma "inadeguata". Quando piange discutendo i suoi pasticci con i ragazzi, forse piange perché ha l'impressione di sbagliare tutto.
F. Allora io parto dalla relazione coi ragazzi per riportarla al suo dolore di bambina non accettata e lei invece va al suo ruolo ufficiale di bambina "sbagliata".
GF. E così continua a sentirsi con la madre, anche se in una situazione poco piacevole. La sua non è tristezza, ma accondiscendenza nel manifestare sensi di colpa assurdi. Per quello non fa un vero percorso interiore. Lei fa varie cose con la madre, coi ragazzi e con te pur di sentirsi un genitore svalutante (stanco, annoiato, insoddisfatto) oppure una bambina "sbagliata". L'obiettivo del tuo lavoro è di farle toccare il vissuto profondo: quello di sentirsi semplicemente rifiutata, sola e disperata (senza alcuna colpa e senza alcun perché). Da lì può costruire cose nuove, perché quello è il suo punto di partenza reale (e non ancora sentito).
F. E' chiaro. Devo evitare, a costo di diventare pignolo, qualsiasi possibile lettura colpevolizzante dei suoi rapporti con i ragazzi, e forse devo chiarire meglio con lei come si sente con me.
GF. Se si sente piccola e sbagliata con te non potete collaborare realmente ed ogni risultato possibile o non viene raggiunto o viene bruciato. Inoltre, chi accetta un ruolo così scomodo cova rancore e probabilmente sta raccogliendo prove per dimostrare che in realtà sei tu la persona "sbagliata". Lei non fa nulla per caso. Costruisce rapporti per arrivare a situazioni emotive centrate sul disprezzo e sull'inadeguatezza: quelle che associa ad un rapporto conosciuto come orribile ma "sicuro". Fa tutto ciò per evitare di sentirsi "non vista", cioè per evitare di sentirsi buona, come ogni bambina, ma irrimediabilmente sola. Lì c'è il dolore pulito, incolmabile, ma caldo e (oggi) tollerabile. Cerca quel dolore ed analizza ogni aspetto che ostacola questa ricerca.

La seduta che sto per riportare riguarda una studentessa, che chiamerò Beatrice, e risale all'inizio del secondo anno di analisi. Il problema "ufficiale" per il quale Beatrice era venuta in analisi: era costituito da un costante stato depressivo che comportava pensieri svalutativi per i ripetuti fallimenti nei rapporti sentimentali e nello studio. Beatrice aveva sviluppato un vero fiuto nell'individuare ragazzi inaffidabili, contorti e quindi capaci di garantirle frustrazioni e rifiuti. Inoltre, pur avendo ottime capacità era riuscita a restare indietro con gli esami universitari. La depressione non era particolarmente grave perché Beatrice comunque conservava un buon esame di realtà e non faceva azioni materialmente autodistruttive. Distruggeva però le sue possibilità di espressione emotiva e di affermazione personale. Manteneva un dialogo interno svalutante analogo a quello che la madre aveva stabilito con lei. La madre si era sempre proposta in un ruolo di donna brava, bella, indispensabile ed aveva sempre collocato la figlia in un ruolo di persona inadeguata. Ovviamente la madre evitava la propria depressione "cedendola" alla figlia la quale aveva accettato quel ruolo pur di avere una parte nella commedia famigliare. Il problema reale di Beatrice era quindi la solitudine e la mancanza di retroazioni positive. La depressione era la modalità in cui era riuscita a separarsi dalle emozioni dolorose che sperimentava con la madre. Il cambiamento, realizzato in vari anni di analisi, si sviluppò in alcuni passaggi, tra i quali a)la comprensione del fatto che Beatrice agiva in modo da ottenere insuccessi per giustificare un certo dialogo interno svalutativo, b)la comprensione del fatto che in questo modo si sentiva capita dalla madre e quindi non si sentiva sola e non vista, c)l'esplorazione di stati emotivi autentici di tristezza e di dolore e la verifica della capacità di tollerare queste emozioni, d)la decisione di accettare il dolore e rinunciare alle reazioni difensive per recuperare la possibilità di gestire in modo costruttivo almeno la sua vita adulta. Nel primo anno lavorammo solo parzialmente in queste quattro direzioni ottenendo comunque alcuni miglioramenti. La seduta si sviluppa su un piano emotivo ma ha un esito fondamentalmente cognitivo: Beatrice ricapitola con molta lucidità la sua globale strategia difensiva e scopre la possibilità (e la capacità) di modificare il tipo di relazione con la madre.

B. Ho riflettuto sull'ultima seduta. Mi ha fatto bene, ma mi spaventa un po' l'idea di tornare a sentire quel dolore. Un po' vorrei continuare il lavoro e un po' non vorrei.
GF.Hai paura di qualcosa?
B. Ho paura di sentire la solitudine
GF. Cosa ti dici per spaventarti?
B. Mi dico "Se ti apprezzi, se ti affermi, resti sola. Tua madre non ti ascolta più".
GF. E cosa può succedere di spaventoso se non ti ascolta?
B. Mi manca lei, mi manca il suo affetto.
GF. E cosa può succedere di spaventoso se ti manca il suo affetto?
B. Finirò per angosciarmi
GF. E come riuscirai ad angosciarti?
B. Penserò che non posso affrontare nulla senza la mamma.
GF. Quanti anni senti di avere?
B. [Sorride riconoscendo di aver descritto un processo mentale di una bambina piccola] Pochi. Forse un anno.
GF. Immagina una scena.
B. Sono in una culla. Sento un grande desiderio di protezione e di calore. Mia madre è nella stanza. Fa sentire la sua presenza, ma … non si concede.
GF. E che hai fatto di così terribile per ricevere questo trattamento?
B. Niente. Ho solo fame. E penso che qualcosa non va bene nella mia fame.
GF. E cosa potresti dire se fossi nella stessa situazione, ma con le risorse di oggi?
B. [Commossa] Direi: "Ho fame e hai il dovere di nutrirmi. Non sbaglio io ma sbagli tu a lasciarmi così".
GF. C'è una protesta in queste parole. Vuoi esprimere questa protesta?
B. [Colpendo il materassino con i pugni] Io ho fame e tu mi ferisci!
GF. Attenta: lei si limita ad ignorarti. Tu ti senti ferita.
B. [Concorda sulla precisazione] Io ho fame e mi sento ferita dalla tua indifferenza. [Colpisce più volte il materassino ripetendo la frase con rabbia].
GF. [Noto il suo compiacimento nell'insistere sul sentirsi ferita e (per provocarla) le suggerisco un'affermazione più "forte"] Continua così. Aggiungi anche che ti sentirai sempre ferita.
B. Mamma, mi sento ferita e mi sentirò sempre ferita! Io mi sentirò sempre…
GF. Che succede?
B. Che assurdità!
GF. Cosa?
B. Io non voglio passare la vita a sentirmi ferita!
GF. Mi sembra un'idea brillante!
B. [Ride di cuore].
GF. Non credo che ad un anno tu pensassi tutte quelle cose, ma da allora in poi hai progressivamente consolidato un atteggiamento secondo cui da un lato condividi il distacco e la svalutazione di tua madre dichiarandoti poco importante e da un altro lato, soffrendo ed affliggendoti in qualche modo protesti: è come se dicessi "guarda cosa devo fare per stare con te! guarda come soffro per starti vicina!". Non sentendoti autonoma hai imparato a protestare solo esibendo l'infelicità che risultava dalla tua forzata accondiscendenza.
B. E' chiaro. Però forse oggi posso anche fare di meglio.
GF. Verifica! Prova ora ad affermare le frasi che ti spaventavano mezz'ora fa.
B. Mamma, io mi apprezzo. Io sono a posto. Io posso affermarmi anche se non sei d'accordo.
GF. Che succede se non è d'accordo?
B. Mi dispiace, ma non sono più in pericolo. Oggi [ride] se ho fame posso andare al ristorante!

Ovviamente questa "scoperta" viene espressa da Beatrice con una certa serenità ed anche in modo divertito perché il vissuto di abbandono e di solitudine è già stato almeno in parte sentito, espresso e rivalutato come tollerabile. Senza il lavoro precedente, un percorso come quello della seduta appena descritta, avrebbe potuto dare lo stesso esito solo grazie ad un distacco emozionale e quindi sarebbe stato superficiale.
L'aspetto significativo di questa seduta, ai fini del cambiamento, è costituito dal fatto che Beatrice (un po' guidata ed un po' provocata da me) ha scoperto di aver scelto un uso punitivo e vendicativo della sofferenza che derivava dall'accondiscendenza alla madre. Proprio il riconoscimento di questa scelta le ha permesso di prendere in considerazione una scelta alternativa oggi possibile.


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