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Gianfranco Ravaglia

L'INTENZIONE RITROVATA
Intenzioni e vissuti nel lavoro analitico



CAPITOLO 7

Il percorso analitico

1. Considerazioni preliminari
Il cliente non porta mai i suoi veri problemi all'analista, dato che ha organizzato la sua vita in modo tale da evitarli; i "problemi" che porta sono in realtà alcune conseguenze spiacevoli delle soluzioni che egli ha dato nell'infanzia al suo vero problema: "come gestire emozioni dolorose?". Egli inconsapevolmente conferma ogni giorno la sua vecchia strategia difensiva in ogni situazione che potrebbe riportarlo a vecchie emozioni tuttora considerate intollerabili (vissuti). Per mantenere il suo atteggiamento difensivo finisce a volte per produrre nuove forme di sofferenza, e in questo caso si rivolge ad un analista per liberarsi da questa sofferenza, ma senza alcuna intenzione di rinunciare alle difese che inconsapevolmente agisce.
Se l'analista rifiuta questa richiesta irrealistica del cliente ed evita di presentarsi nel ruolo di colui che "dà benessere" si pone nella condizione di poter aiutare davvero il cliente a riappropriarsi delle sue intenzioni difensive e a verificare la possibilità di rinunciarvi.

Una studentessa (che chiamerò Ida) mi raccontò durante il primo colloquio una storia molto confusa di fidanzati che l'avevano delusa e di interminabili discussioni famigliari con la madre e la sorella più piccola. L'unica cosa chiara era la sua tendenza a recriminare e a sentirsi in qualche modo non capita, non accolta. Il problema "ufficiale" che voleva risolvere con l'analisi era il suo impulso a mangiare dolci nei momenti di massimo sconforto. Mi sembrò di capire che non manifestava una vera bulimia. Non vomitava, non faceva diete strane ed i suoi "sfoghi" erano occasionali e tali da non incidere sul peso corporeo. I veri sintomi erano piuttosto l'inclinazione a recriminare e a cercare alleanze (mutevoli) con sorella, madre, fidanzati, nuovi fidanzati e amiche per sentirsi confermata nel ruolo della vittima. Poi le fragili alleanze venivano sovvertite e l'amica-confidente diventava oggetto di recriminazioni nelle interminabili telefonate con un'altra amica. In questo però non trovava nulla di strano dato che si riteneva semplicemente una persona sensibile con un sincero bisogno di rapporti profondi nei quali potersi sentire capita; inoltre era più che disponibile a ricambiare le cortesie ascoltando lamentele interminabili delle amiche.
Suggerisco a Ida di immaginare che una pillola possa bloccare i processi fisiologici che rendono possibili le discussioni. La pillola non cambia le persone, i loro atteggiamenti, le loro aspirazioni. Impedisce semplicemente di discutere, recriminare, accusare, giustificare. La invito poi ad immaginare di essere a casa e di aver ingerito una pillola dopo averne fatta ingerire una anche alla madre ed alla sorella. Ammette di fare molta fatica ad immaginare loro tre (e soprattutto la madre) a parlar d'altro o a tacere. La invito allora ad occupare la sedia vuota su cui aveva "visto" la madre; appena occupa il posto della madre comincia a piangere.
Calandosi in quella parte Ida identifica l'antico dolore della madre ed il suo bisogno d'affetto sistematicamente soffocato proprio con la recita ossessiva del ruolo materno. La madre di Ida dispensa abbondantemente cure materiali alle figlie rifiutando però qualsiasi manifestazione affettiva proprio perché in questo modo finirebbe per entrare in contatto coi propri bisogni di bambina.
A questo punto posso dire ad Ida che quando mangia i dolci non fa altro che obbedire alla madre: la madre si sente al sicuro se può accontentare la figlia con dei dolci anziché con il contatto fisico ed emotivo.
Ida aveva iniziato il colloquio sentendosi vittima di qualche occasionale "raptus" e sentendosi "coinvolta" nelle discussioni famigliari. Il lavoro svolto, anche se ovviamente limitato e non risolutivo ha comunque permesso a Ida di uscire dal colloquio sentendo il desiderio di un contatto fisico con la madre e l'impossibilità di soddisfarlo. La riclassificazione del suo "sintomo" come "devianza consentita dalla madre" ha reso possibile l'avvio di una esplorazione dei suoi sentimenti, soprattutto di quelli esclusi grazie a comportamenti "strani" come il mangiare o il fare discussioni senza senso.

Spesso si contrappone l'idea di lavorare sul qui-ed-ora all'idea di scavare nel passato. Sia l'orientamento che privilegia il presente, sia quello che privilegia il passato colgono un aspetto essenziale dei problemi affrontati in analisi. Credo che si possa salvare il meglio di queste due prospettive proprio sostenendo che nel presente il cliente si difende dai vissuti cioè dalle emozioni del passato non elaborate.
I passaggi obbligati del lavoro analitico inteso in questo modo sono i seguenti:
1) lavoro analitico (cognitivo) volto a chiarire che il cliente non "ha" dei disturbi ma agisce intenzionalmente delle difese che producono certi disturbi;
2) lavoro analitico (esperienziale) volto ad individuare che le azioni difensive impediscono l'emergere di sensazioni o emozioni penose;
3) lavoro analitico (cognitivo) volto a chiarire che il cliente si sta attivamente difendendo da vissuti (cioè da sensazioni ed emozioni non relative al presente, ma "già sue" e non ancora integrate);
4) lavoro analitico (esperienziale) volto ad elaborare gradualmente i vissuti ed a verificare che essi sono tollerabili e non più devastanti;
5) esplicita definizione del percorso analitico come percorso di integrazione di vissuti; il cliente nella vita quotidiana deve abituarsi a interrompere le azioni già comprese come difensive anche se ha paura, in modo da proseguire ed approfondire il lavoro avviato nelle sedute;
6) a questo punto si registra una svolta nell'analisi: il cliente utilizza le sedute prevalentemente per verificare con l'analista il processo che lui stesso sta gestendo (l'interruzione delle difese e la scoperta di una dimensione emotiva più intensa); in questa fase, si precisano aspetti non ancora messi a fuoco, si esaminano eventuali difficoltà, si affrontano nuove manifestazioni difensive;
7) il cliente entra in una fase di lutto; pur sapendo benissimo di essere un adulto che in condizioni di sicurezza fa una propria ricerca, si sente molto vulnerabile, soffre per piccole cose, vive intense sensazioni di solitudine, piange spesso; in analisi viene aiutato con il lavoro fisico a piangere in modo completo (con lacrime e singhiozzi che attraversano tutto il corpo); in questa fase si chiariscono ulteriormente le sfumature dei vissuti e certe raffinatezze delle difese; il rapporto con l'analista ora è prevalentemente di collaborazione;
8) si sviluppa un circolo virtuoso: il cliente ha sempre meno paura di emozioni sempre più forti; il pianto è facile, frequente e drammatico, ma le sensazioni di centratura e stabilità aumentano; col pianto l'ipertonia muscolare (corazza caratteriale) si riduce ed il cliente sente maggiormente il proprio corpo e diventa più disponibile ad un genuino contatto fisico con le persone; il cliente affronta con più efficacia le situazioni sociali perché non teme più in esse risvolti emotivi capaci di attivare vissuti, dato che convive stabilmente con essi; la maggior centratura si traduce anche in scelte costruttive e successi personali; se si verificano nuove situazione dolorose vengono affrontate con una maggiore serenità di fondo;
9) la funzione di controllo dell'analista si riduce; anche se il cliente a volte riattiva delle difese egli recupera il contatto senza l'aiuto dell'analista; accetta il dolore come componente inevitabile di tutta la sua esistenza, ma sente che la sua vita è importante e che egli è in grado di fare molte cose buone;
10) conclusione del rapporto analitico.
Ovviamente un reale percorso analitico non è lineare come questo schema. Gli interventi dell'analista sono inoltre non programmabili perché vengono effettuati sulla base del particolare materiale analitico portato in seduta dal cliente e sulla base della comprensione che di volta in volta l'analista riesce ad avere. Lo schema delinea semplicemente il filo conduttore del lavoro analitico che comunque resta un' avventura piena di imprevisti, di momenti creativi, di tensioni, di aperture inaspettate, in cui matura in modo del tutto particolare sia il cambiamento interiore del cliente che il rapporto personale fra cliente ed analista.
Nei disturbi narcisistici si ha a che fare con una marcata capacità di svuotare di senso anche le esperienze emotivamente più forti, e quindi l'induzione "terapeutica" di forti espressioni emozionali, se non viene impedita a monte (con una barriera di indifferenza) viene vanificata a valle (cioè trasformata in una collezione di sensazioni oppure idealizzata come esperienza "speciale").Ma in tutto questo finto distacco o finto coinvolgimento il cliente resta sulla sua torre d'avorio, convinto di essere superiore ed irraggiungibile ed al contempo irrilevante e calpestabile. Se l'analista non coglie questo nucleo profondo dell'intima realtà di queste persone, e si dedica ad una "cura", finisce per colludere con l'indisponiibilità del cliente al coinvolgimento personale. Anche comprendendo questo dramma non è né scontato né facile raggiungere un rapporto umano in questi casi; tuttavia un approccio riduttivo preclude a priori qualsiasi possibilità.
Analoghe difficoltà si incontrano nel lavoro con personalità borderline, con le quali il contatto umano sembra più facilmente raggiungibile ma è fondamentalmente aleatorio. Le emozioni intense vengono accolte e "bruciate", il coinvolgimento personale è temuto e non voluto oppure desiderato, ma solo come confusa esperienza simbiotica. Focalizzare il lavoro sull'allentamento della corazza può distogliere sia il cliente che l'analista dall'effettivo problema costituito dalla sostanziale inaccessibilità al contatto umano. Il cliente borderline si sente autorizzato ad annullare in qualsiasi momento l'impegno nella relazione e a rinunciare alla coerenza nelle sue azioni. Tutto è provvisorio anche se ogni emozione è sentita e manifestata come se fosse profondamente accettata.
Il lavoro corporeo non bilanciato da un lavoro cognitivo sull'intenzionalità difensiva può condurre a situazioni di stallo anche in presenza di strutture caratteriali più mature. Il lavoro cognitivo è molto importante perché noi sentiamo comunque nei limiti dati dalla nostra valutazione dei fatti. L'aspetto cognitivo del percorso analitico va sviluppato essenzialmente in due direzioni: nella prima si porta il cliente a capire che egli agisce anche quando tende a credersi vittima o spettatore di qualcosa che "gli capita"; nella seconda si porta il cliente a capire che egli agisce in un certo modo perché ha certe convinzioni o vuole mantenere certe illusioni. Inoltre, qualsiasi affermazione irrazionale va immediatamente smontata ricorrendo a controesempi, dimostrazioni per assurdo, ecc.
La componente cognitiva del lavoro analitico non va comunque intesa come una specie di intervento rieducativo. Il cliente non è una persona che "sbaglia" perché non ha sviluppato delle competenze o perché non è sufficientemente informato sui fatti. Il cliente agisce in base ad intenzioni inconsapevoli diverse da quelle dichiarate. Il lavoro analitico consiste proprio nel chiarimento delle convinzioni e delle intenzioni realmente efficaci nella vita del cliente. Quando le difese vacillano e si accede ai vissuti, il lavoro viene condotto soprattutto a livello esperienziale. Occorre lavorare sulle emozioni perché il cliente capisca quanto è arrabbiato (o triste, o spaventato) e perché capisca cosa si propone di ottenere o di evitare. Qualsiasi tipo di intervento va bene se è rispettoso del cliente e finalizzato alla scoperta delle "ragioni del suo agire".

2. Identificazione delle difese
L'analisi, nell'accezione del termine qui suggerita, è un procedimento secondo cui l'analista, sulla base del materiale offerto dal cliente e di quello ottenuto dal cliente (con domande, obiezioni, provocazioni, ecc.) chiarisce aspetti disconosciuti dal cliente che riguardano le sue difese. In particolare, l'analisi può chiarire l'esistenza di certe difese, l'intenzionalità delle difese e l'oggetto delle difese (cioè i vissuti). Questo lavoro analitico di tipo essenzialmente cognitivo si completa con il lavoro sui vissuti. L'analista non aspetta che "affiori del materiale inconscio" ma interviene attivamente per affrontare una difesa o un vissuto.
Quando inizia la caccia? Perché l'analista ascolta senza fare alcun commento la frase "ho cenato piacevolmente con la mia ragazza" e poi inizia a mettere in campo un mucchio di "perché?", "cosa?", "come mai?" quando il cliente aggiunge "ma mi sono sentito a disagio quando siamo tornati a casa"? Ovvero, in quale occasione si passa dal semplice ascolto ad un intervento?
E' possibile dare a questa domanda una risposta lunga e seria oppure una risposta breve e un po' rozza. Scelgo la seconda alternativa.
Quando un cliente entra nel mio studio delineo in anticipo una specie di "comunicazione standard" che include questi elementi:
a) un saluto cordiale o affettuoso o almeno educato;
b1) la comunicazione di uno o più fatti piacevoli, con congruente espressione di gioia e disponibilità a festeggiare con me, oppure b2) la comunicazione di uno o più fatti spiacevoli, con congruente espressione di tristezza (espressione mesta, occhi lucidi o pianto) e disponibilità a condividere con me quel dolore (con o senza richieste di sostegno fisico); b3) in alternativa, la descrizione di una situazione in cui il cliente non ha mantenuto il contatto emotivo e l'invito a lavorare assieme sulla difficoltà incontrata;
c) un commiato cordiale o affettuoso o almento educato.
Io ipotizzo difese e avvio un lavoro analitico partendo da qualsiasi elemento della comunicazione del cliente che non rientra nei punti precedenti. In altre parole se il cliente non vuole né "condividere un'esperienza", né "chiedere un aiuto specifico e ragionevole", probabilmente si sta difendendo da qualcosa. Questo schemino costituisce solo una riduttiva e semplicistica traduzione di ciò che si sente immediatamente come "mancanza di contatto". Se un cliente cerca la lite non ho bisogno di scoprire che sta agendo in modo diverso da quanto previsto in b1,b2, o b3, ma sento che mi sta seccando; quindi mi vien voglia di capire perché abbia scelto di spendere tempo e denaro per un obiettivo così futile sul piano adulto. Questo modo di valutare la comunicazione "confrontandola con una comunicazione ideale" consente di identificare immediatamente i temi su cui lavorare, sia che essi riguardino la vita quotidiana del cliente, sia che riguardino il rapporto con l'analista. Il cliente che si limita a chiacchierare del più e del meno, o che si lamenta o che giudica o che "non sa cos'è venuto a fare", viola la "comunicazione standard".
Tra le difese ci sono anche le comunicazioni contraddittorie. Ad esempio, il cliente può fare una comunicazione accettabile a livello verbale e contraddirla con un'altra comunicazione a livello corporeo (ad esempio scuotendo la testa come per dire "no"). Considero "violazioni" cioè occasioni di lavoro analitico anche le omissioni, almeno quando riesco a percepire che il cliente nasconde qualcosa. Le omissioni, infatti, non sono un "nulla", ma sono una azione intenzionale quanto le comunicazioni verbali.
Va anche precisato che comunque in ogni seduta si sceglie cosa analizzare, dato che la comunicazione standard viene violata ripetutamene. La scelta va fatta per evitare la classica analisi caotica che Reich (1945a,cap.III) ha con tanta sollecitudine ed efficacia criticato. Reich suggeriva di lavorare prima di tutto sulle difese caratteriali (e secondo un certo ordine) piuttosto che sui "contenuti" delle comunicazioni. Tuttavia le sue indicazioni vanno un po' riesaminate. Certe difese, come ad esempio la scissione, vanno affrontate prima delle difese caratteriali perché riescono a vanificare qualsiasi lavoro analitico.
Vari sono i contributi che indicano come un lavoro sulle modalità della comunicazione linguistica dei clienti possa costituire una buona occasione per capire il loro modello (limitato e irrazionale) della realtà. Ad esempio, Bandler e Grinder (1975) hanno suggerito un procedimento basato sugli assunti della grammatica trasformazionale che può venir utilizzato in approcci terapeutici molto diversi fra loro (relazionali, gestaltici o analitici); altri utili "setacci teorici" adatti a identificare le comunicazioni difensive, sono ad esempio l'analisi delle transazioni nei "giochi" interpersonali di Berne, il concetto di "disconoscimento dell'azione" di Schafer, o l'esame delle svalutazioni finalizzate a negare certe parti della persona così come viene svolto nella terapia gestaltica.
Le comunicazioni dei clienti comunque non vanno "corrette" come se fossero compiti in classe, ma analizzate in quanto manifestazioni difensive. Ogni segmento del lavoro analitico è completo quando inizia con l'analisi di una difesa e si conclude con il raggiungimento di quel "luogo" da cui il cliente scappa.
C'è ovviamente una condizione non "tecnica" di questo processo: il fatto che l'analista conosca e non tema il luogo in cui deve condurre il cliente. Se non si sente tranquillo nel dolore non porterà nessuno in quel luogo.

3. Vissuti e regressione
Il concetto di regressione è difficile da trattare per via delle varie definizioni con cui è stato proposto e delle varie discussioni che si sono sviluppate in ambito psicoanalitico sugli aspetti regressivi della relazione transferale, o sui pericoli della regressione in analisi, o sulla gestione del transfert nella psicoanalisi e nella psicoterapia psicoanalitica.
Nella sua accezione meno tecnica, si considerano regressivi i comportamenti che riproducono modelli precedenti della vita dell'individuo. In questo senso, la regressione può anche rientrare nella normalità e, direi, anche negli aspetti positivi della normalità, dal momento che tutti consideriamo troppo controllati gli adulti "che non riescono più ad essere bambini". In psicoanalisi, tuttavia il concetto di regressione è stato introdotto nello studio dei meccanismi di difesa nel senso di un ritorno a tappe dello sviluppo libidico precedenti, soprattutto a quelle caratterizzate da una "fissazione".
Si parla quindi di fissazione e regressione nello sviluppo nevrotico del bambino o di fenomeni regressivi nelle nevrosi e nelle psicosi. Sono regressive anche le relazioni transferali (analitiche o extra-analitiche, lievi o gravi) in cui alla reale relazione interpersonale viene sovrapposta un'altra relazione significativa dell'infanzia. "Per la terapia psicoanalitica la regressione è necessaria e infatti sia la situazione che il nostro atteggiamento ne facilitano lo sviluppo (...) Tuttavia, la maggior parte degli analisti ha un certo concetto del grado ottimale di regressione; scegliamo pazienti che, per lo più possano regredire solo temporaneamente e parzialmente. Tuttavia ci sono alcune differenze d'opinione su questo punto" (Greenson, 1967,p.74).
Anche se il lavoro sui vissuti ricollega la persona a sensazioni ed emozioni dell'infanzia non elaborate, non va inteso come una sollecitazione di esperienze regressive. Infatti perché il "recupero dei vissuti" sia utile occorre che il cliente non sospenda l'esame di realtà. Non ha alcuna importanza il semplice accesso ad emozioni non integrate, mentre è decisamente preziosa la loro elaborazione e questa è possibile solo se sono in funzione le competenze cognitive ed affettive della persona adulta. Il lavoro sui vissuti non deve essere,quindi, un semplice fatto regressivo, dato che le esperienze regressive sono esperienze in cui il soggetto in qualche misura si scollega dalla realtà e "sprofonda" in una situazione passata reagendovi quindi con azioni irrazionali.
A volte i clienti, sia in seduta che nell'elaborazione di un intenso lavoro analitico adottano la regressione come difesa, nel senso che entrano in uno stato di disperazione "cieca", trasformano il pianto in "crisi di pianto", si percepiscono "incapaci" di uscire da quell'emozione e stanno malissimo senza però vivere la reale sofferenza che deriva dall'accettare che un certo dolore riguarda davvero la loro vita reale (passata). Stanno malissimo ma quasi in uno stato di "sospensione" del tempo, ovvero in attesa che la sofferenza "scompaia".
Queste manovre non sono utili e possono essere pericolose. Se si presentano, vanno semplicemente interrotte e chiarite. Il chiarimento della loro funzione difensiva costituisce un buon modo di prevenire una loro ricomparsa, mentre un eventuale fraintendimento della loro funzione e una risposta compassionevole ed "accettante" può avviare un'escalation in cui il cliente pretende e ottiene ulteriori risposte (pseudo)empatiche a pseudosofferenze da lui prodotte in modo "autoipnotico". Quando un cliente piange "senza riuscire a smettere" o "si sente scomparire in un baratro" occorre impedirgli di sprofondare in un tunnel che non porta da nessuna parte, interrompendo la manovra (ovvero smascherandola come artificiosa) Il pianto cessa immediatamente (cosa che non succederebbe nel caso di una vera sofferenza) e il cliente torna alla realtà, scollegato comunque dal vissuto doloroso, ma anche "fuori dal polverone". Il vissuto doloroso, andrà recuperato in un'altra occasione.
Può risultare molto frustrante per il cliente il fatto che l'analista si sottragga ad una manovra difensiva così drammatica, ma è davvero opportuno essere drastici per non trovarsi intrappolati nelle sabbie mobili della pseudosofferenza. E' ovvio comunque che gli interventi schietti ed aspri, vanno fatti solo se l'analista è davvero ben disposto verso la persona mentre "attacca" le sue manovre (e se queste sono davvero manovre). Infatti il cliente mette in scena una pseudosofferenza "cieca" solo perché da qualche parte ha davvero paura del suo vero dolore. Se l'analista non è più che sereno, disinteressato e amorevole verso il cliente non può permettersi il lusso di certi interventi diretti, perché il cliente li avvertirebbe (giustamente) come distruttivi. Deve comunque interrompere in qualche modo qualsiasi manovra regressiva.
Occorre precisare che i vissuti sono esperienze individuali uniche, ma comunque classificabili in due gruppi (che grosso modo rinviano alla distinzione fra personalità nevrotiche e personalità con disturbi narcisistici, borderline o più gravi). Un vissuto non integrato è un'emozione spiacevole temuta e ritenuta intollerabile. Non si incontrano mai vissuti non integrati di gioia, perché i bambini non hanno alcuna difficoltà con la gioia.
Il bambino che ormai si muove e comunica, teme il rifiuto e la solitudine. Il lattante forse non ha un vero timore, ma sperimenta uno stato d'allarme quando si trova in prossimità di una condizione dolorosa di tensione, insoddisfazione, insicurezza. Quando il lavoro analitico riattiva antichi vissuti, i clienti sentono vari tipi di dolore, da quelli più "maturi" collegati a ricordi definiti e riconducibili a esperienze di rifiuto, a quelli più primitivi, descrivibili come sofferenza acuta ma più vaga ed indistinta. Nella misura in cui una persona utilizza difese primitive, fugge da vissuti primitivi terrificanti e indefiniti di disagio e di vuoto.
Quando un cliente riesce a sentire un'antica emozione di abbandono, tristezza, disperazione e anche ad esprimere il dolore nel pianto, pur sapendo che è un adulto che ricorda (anzi, "ri-sente"), è nella condizione di attuare un processo utilissimo: riesponendosi ad emozioni classificate come intollerabili in un presente in cui ha risorse che nel passato non aveva, può riclassificare il vissuto temuto come esperienza dolorosa ma tollerabile, e cessare di temere ed evitare tutte le emozioni "pericolosamente" simili a quel vissuto.

Una cliente (che chiamerò Silvana) nel corso di una seduta, lavorando sulla rabbia cominciò a piangere sentendosi piccola di fronte alla madre avvertita come minacciosa.
GF. Lascia che ci siano queste sensazioni. Puoi descriverle?
S. Mi sento ... sento che mi disintegro [piange].
GF. Hai letto abbastanza libri per sapere che non ti disintegrerai. Cosa senti se non scompari dalla scena disintegrandoti in mille pezzi?
S. [Il pianto diventa più profondo e meno agitato, poi si esaurisce] E' difficile stare in questa sensazione: mi sento sola, fragile, irrilevante.
GF. "Disintegrandoti" stavi male ma ti distaccavi dal dolore di essere irrilevante e di sentirti sola ed incapace di gestire la tua solitudine. Per quanto orribile, questa solitudine è una delle prime e delle più importanti sensazioni della tua vita. E' necessario che tu l'accetti e ci conviva. Tutti abbiamo bisogno di un appoggio solido per muoverci, per darci la spinta in avanti. Il punto d'appoggio deve essere solido. Il tuo punto d'appoggio è questo tuo vissuto di bambina; è orribile, ma solido quanto una collezione di bei ricordi. Appoggiati alla tua storia e così ti potrai dare la spinta giusta per muoverti nel presente.

Un'altra cliente (Stefania) con cui avevo lavorato molto su vissuti spaventosi mi ha descritto con queste parole la sua ormai acquisita capacità di recuperare ed integrare certe emozioni evitando di attuare scissioni.
S. Ho sentito ancora la mia "voragine" e ho pianto. E sentivo davvero nella bocca la voglia di succhiare il latte da un seno. Tuttavia anche se stavo piangendo col mio ragazzo mi era chiaro che niente ora poteva colmare quel vuoto. Poi mi è sembrato di disintegrarmi, ma non mi ci sono persa. Quando mi capita di piangere così, Enzo mi dice che sono più bella.
GF. E' molto importante per te sentire che vorresti disintegrarti, non esserci più e non sentirti più così, e però mantenere comunque il contatto, verificare che puoi tollerare qualsiasi emozione e verificare la forza di cui oggi disponi.

4. Vicinanza e sostegno
In questo paragrafo, parlerò di "vicinanza" per riferirmi a quell'insieme di atteggiamenti, comportamenti ed anche emozioni con cui l'analista accompagna il cliente nel suo viaggio fra i vissuti. In qualche modo, si può dire che tutto questo costituisce un "sostegno" dell'analista al cliente. Tuttavia il termine "sostegno" viene usato spesso per indicare altre cose che, secondo me, l'analista non dovrebbe fare (né aver voglia di fare). Il termine "sostegno" ha infatti già una sua storia in psicoterapia e, quasi sempre anche se non sempre, rinvia a orientamenti teorico-clinici poco compatibili con quelli ai quali faccio riferimento.
La distinzione fra psicoterapia "di sostegno" e psicoterapia "espressiva", ha una collocazione specifica nell'ambito della psicoterapia psicoanalitica. Semplificando si può dire che mentre la psicoterapia espressiva mira ad una presa di coscienza di conflitti inconsci, la psicoterapia di sostegno si propone di realizzare un miglior adattamento del cliente proteggendolo da tale presa di coscienza; il lavoro di sostegno può essere orientato anche al rafforzamento delle difese per migliorare il "funzionamento globale" del paziente quando si diano controindicazioni per la psicoterapia espressiva (Kernberg, 1984,p.172) L'idea di "rafforzare le difese", suona davvero come una condanna, e credo che sia una brutta idea, anche se so quanto sia difficile il lavoro analitico con persone gravemente disturbate. Un'analisi tentata e non riuscita non è comunque uno spreco, e lascia sia degli elementi di riflessione che continuano a "lavorare nel cliente", sia dei buoni ricordi sul piano umano. Una psicoterapia condotta in un quadro di accettazione del progetto difensivo, invece, non rende a priori possibili dei cambiamenti davvero significativi. Tra l'altro, anche la psicoterapia di sostegno può fallire e non garantisce affatto dei risultati anche se limitati.
Va comunque detto che la contrapposizione fra orientamento espressivo e di sostegno non è utile per chiarire e qualificare il lavoro analitico sui vissuti qui delineato, proprio perché quest'ultimo prescinde dagli assunti fondamentali della teoria freudiana. Da un punto di vista psicoanalitico, credo che l'orientamento da me delineato non possa essere considerato né una una psicoterapia espressiva né una psicoterapia di sostegno, ma piuttosto una psicoterapia sbagliata; tuttavia, l'abbandono della metapsicologia consente agli psicoanalisti nuove possibilità di dialogo costruttivo con vari orientamenti analitici.
Spesso il "sostegno" si traduce nell'idea di "dare" qualcosa ad un cliente definito in qualche modo come "deprivato" o "leso" e quindi bisognoso di un aiuto compensativo. Ovviamente se si ritiene che l'analisi possa essere intesa come un lavoro di chiarificazione ed un'occasione per il cliente di ridecidere vari aspetti del suo modo di porsi rispetto alla realtà, qualsiasi "sostegno" è fuori luogo. In questa prospettiva, si deve concordare con la lapidaria affermazione di Downing: "Il terapeuta non si sforza di diventare un 'buon genitore': fa semplicemente terapia" (1995,p.246). Egli sottolinea in più occasioni che lo scopo dell'analisi non è di gratificare ma di favorire un processo di elaborazione interiore del cliente.
Potremmo dire la stessa cosa in altri termini distinguendo fra l'illusione di poter "dare" qualcosa ad un bambino (che non c'è più) e la capacità di aiutare realmente un cliente adulto (realmente presente) che è impegnato in un compito personale difficile (elaborare i vissuti). Ciò che aiuta il cliente in questo caso è il fatto di incontrare comprensione autentica da parte di un'altra persona che per esperienza sa cosa significhi attraversare certi incubi e che gli mostra solidarietà ed anche fiducia nelle sue risorse adulte. Il "sostegno" necessario nel lavoro sui vissuti ha quindi più a che fare con l'accezione quotidiana del termine (vicinanza, partecipazione) che con quella tecnica della psicoterapia psicoanalitica. L'analista può e deve essere vicino al cliente finché questi non è abbastanza esperto e convinto delle sue capacità da poter continuare da solo a convivere col dolore.
Questo punto è molto delicato perché la linea di confine che separa la vicinanza e l'assunzione di un ruolo "materno" (compensativo) è molto sottile. Ad esempio, nel lavoro corporeo il contatto fisico fra terapeuta e cliente non è (e non dovrebbe essere) escluso come nella psicoanalisi. Un cliente in lacrime può aspettarsi da uno psicoanalista al massimo un fazzoletto di carta, mentre può anche aspettarsi da un terapeuta reichiano un abbraccio. L'abbraccio in sé non è un problema, e non complica le confusioni di tipo transferenziale che sono comunque presenti e su cui inevitabilmente si lavora. Va però chiarito che qualsiasi contatto fisico può essere utilizzato dal cliente per distorcere il senso di una espressione emotiva in corso. Mi è capitato di notare che alcuni clienti, nel momento in cui piangendo cercavano e ottenevano un contatto fisico, finivano per "concludere" (interrompere) il pianto. Chiedendo il significato di quello che era accaduto, ho capito che essi fraintendevano difensivamente il significato del contatto fisico ricodificando una vicinanza fra adulti nei termini di una gratificazione adulto-bambino. Se un bambino piange perché si sveglia di notte e si sente solo, quando accorre la madre smette di piangere, perché la madre che mancava ora è presente. In questo caso egli smette di piangere perché fa un'esperienza realmente riparativa. Esperienze riparative possono esserci anche fra adulti: la ragazza che piange perché il fidanzato ha troncato una discussione ed è andato via, non ha motivo di continuare a piangere se questi torna e si scusa. E' diverso invece il caso tipico che si presenta nelle sedute: il cliente piange affrontando un dolore che nasce dalla mancanza di persone diverse dall'analista. Il contatto fisico con l'analista non può quindi per definizione essere "riparativo", ma solo testimonianza di una solidarietà: un adulto è vicino ad un altro adulto che sta elaborando (autonomamente) il dolore di una personale (irrimediabile) vicenda. E' quindi logico che in un abbraccio correttamente percepito, il pianto si approfondisca o si completi; non che si "esaurisca", dato che la presenza dell'analista non riduce affatto le ragioni del dolore in questione.
Per questi motivi (e non quindi per una pregiudiziale propensione alla "neutralità") evito quasi sempre di offrire il contatto fisico ad un cliente e mi rendo disponibile solo se è il cliente a chiederlo, magari con un piccolo gesto; anche in questo caso, comunque, cerco di sentire e capire se c'è un fraintendimento. Ovviamente queste considerazioni valgono solo nel caso di un pianto di dolore e non per manovre vittimistiche condite di lacrime.
Non c'è una regola per il contatto fisico fra cliente e analista, a parte quella secondo cui esso, come ogni altro aspetto dell'analisi va favorito nella misura in cui è utile al cliente. L'analista è in una posizione controtransferenziale quando offre contatto perché ne sente il bisogno (come, d'altra parte, quando nega contatto perché si sentirebbe a disagio). Non c'è nemmeno una regola per valutare quando le richieste (di contatto fisico o di altro tipo) di un cliente vadano accolte. Se l'analista è abbastanza centrato può basarsi sulle sue sensazioni, sulla percezione della congruenza fra la situazione data, le modalità della richiesta ed il contenuto della richiesta.
L'errore delle terapie centrate sull'idea del "sostegno", in ultima analisi tocca sia le terapie basate sulla logica causale del "danno da riparare", sia tutte le forme di "ottimismo" terapeutico orientate a "promuovere esperienze emotive", a "superare la razionalità" (!) o a "sconfiggere le inibizioni". Fondamentalmente colludono con la generica aspirazione al "benessere" tipica dei clienti ed evitano di promuovere la capacità di affrontare la realtà così come è, cioè sia dolorosa che appagante.
La critica agli orientamenti "ottimistici" in terapia, va ovviamente estesa a quelle "quasi terapie" di stampo New Age o a quelle integrazioni fra psicoterapia e tecniche di "rilassamento" ormai tanto diffuse, soprattutto nelle versioni di gruppo. Il lavoro analitico procede con modalità e scopi che richiedono una certa indipendenza dell'analista da preoccupazioni di altro genere. Un buon lavoro sulle emozioni produce anche rilassamento perché il cliente interrompe delle attività difensive (anche sul piano muscolare), ma l'analisi non ha come obiettivo specifico le esperienze di rilassamento. Anche altri aspetti dell'analisi (fatta individualmente o in gruppo) non dovrebbero essere utilizzati allo scopo di fornire gratificazioni sostitutive. Downing sottolinea come un certo tipo di "accoglienza" nella terapia corporea possa costituire un implicito ostacolo all'elaborazione del dolore: "Nel lavoro con il corpo può essere anche troppo facile, se il terapeuta lo vuole, sistemare le cose in modo che, con una certa costanza e regolarità, alla fine della seduta il paziente si senta bene. Abbracci e sorrisi; frequenti esortazioni alla vitalità del corpo; ricompense non verbali, a seduta inoltrata, per i resoconti sugli stati piacevoli, ma non per gli altri; abuso del contatto fisico di sostegno (...) Per quanto effettuati con le migliori intenzioni, questi interventi non recano beneficio. Il vero compito del terapeuta è semplicemente aiutare il paziente a rivelare ciò che in quel momento ha dentro di sé (sensazioni di piacere o dolore, di vitalità o esaurimento, e via dicendo) e poi fargli lasciare la seduta con quei sentimenti che continuano dentro di lui" (1995,p.322).
L'analisi non è terapia proprio perché procede "in negativo": facilita cioè la consapevolezza di difese intenzionali che producono una sofferenza secondaria e le rende superflue facilitando un'elaborazione del dolore. Il lavoro analitico dà benessere non in quanto "dà" realmente benessere ma in quanto aiuta il cliente a "togliere" quel malessere che egli produce. Tuttavia, alcuni interventi "in positivo" risultano utili nel percorso analitico: ad esempio certi esercizi di bioenergetica, ma anche certi tipi di lavoro con la fantasia, possono effettivamente indurre una percezione profonda della solidità, interezza e piacevolezza del proprio corpo e questo produce un realistico ed anche ragionevole senso di sicurezza. Tali tecniche sono in qualche misura e soprattutto in certi casi non solo accettabili ma anche raccomandabili. Restano tuttavia inutili se non esplicitamente collegate ad un lavoro "in negativo" (analisi delle difese sia sul piano psicologico che sul piano fisico) e ad un recupero dei vissuti non integrati. L'analisi aiuta ad affrontare la vita, a superare la paura, a convivere col dolore e a scoprire possibilità di piacere anche più profonde del "benessere", ma non alimenta l'illusione che la vita possa essere un'oasi felice in cui la sofferenza è solo un'incidente di percorso da "sistemare" in qualche modo.

5) Lutto, pianto e piacere
Il lavoro analitico sui vissuti è una ricerca della sofferenza che non è stata integrata. Quando un cliente soffre manifestando dei sintomi, sta evitando il dolore, perché una limpida accettazione del dolore è incompatibile con qualsiasi sintomo. Quindi in tale circostanza l'analista non deve "ridurre" il dolore ma deve cercare quello vero chiarendo le difese che ostacolano il percorso.
Di questo si è già parlato. Ciò ora che merita di essere chiarito è che una singola esperienza di autentico dolore in una seduta non è il punto d'arrivo del lavoro analitico, ma il punto di partenza del lavoro del lutto vero e proprio. Il dolore che l'analisi tende a riportare alla luce è relativo ad un rapporto interpersonale significativo e ad un'epoca di grande vulnerabilità. Quindi, anche se non riguarda la morte di qualcuno è tanto profondo quanto l'esperienza di lutto (in senso stretto) che si fa quando qualcuno muore. Anche in questi casi non si piange qualche minuto, ma si piange per un periodo di tempo abbastanza dilatato, "ad ondate". Spesso, dopo mesi le persone in lutto riprendono a sperimentare quotidianamente un ventaglio relativamente completo di emozioni, mentre per tutto il periodo di lutto il pensiero comunque era rivolto al tema della mancanza e il sentimento predominante era quello della tristezza. In analisi succede la stessa cosa. L'esperienza analitica del lutto non è regressiva perché viene gestita con le risorse adulte. Per un certo periodo di tempo, quindi, il cliente è "preso" dalla consapevolezza e dall'emozione di questo aspetto della sua vita (passata). Piange frequentemente per piccole cose e spesso piange anche senza sollecitazioni esterne per la situazione che occupa la sua mente: "...un processo di lutto è qualcosa di diverso dal semplice senso di tristezza avvertito qualche volta in una serie di sedute. Un processo di lutto è più profondo e complicato. Tende a svolgersi più fuori delle sedute che durante le sedute" (Downing, 1995,p.322).
Questo periodo di lutto non scorre in modo lineare perché viene interrotto da vecchie o nuove difese. Il compito dell'analista è quello di tenere il cliente sul suo binario affinché possa percorerlo in tutta la sua lunghezza evitando frenate brusche (scissioni), deviazioni (autocompiacimento e trasformazione del dolore in vittimismo), "addomesticamenti" (trasformazione del dolore in lieve tristezza), ribellioni (manifestazioni di rabbia che annullano il senso di impotenza e perdita), ecc.
Quando il periodo di lutto è stato attraversato con sufficiente trasparenza, il cliente sperimenta nuove sensazioni, cioè sperimenta sia livelli più profondi di gioia quando è contento che livelli più profondi di dolore quando è triste. E' più coinvolto nelle cose che fa, evita i puri "passatempi", è meno interessato a rapporti superficiali e sente un affetto più profondo verso le persone della sua vita. Non si arrabbia facilmente e di fronte alle frustrazioni riesce ad "accusare il colpo" ed a tentare di migliorare le cose piuttosto che protestare o serbare rancore.
Nella fase successiva al lavoro del lutto il pericolo maggiore è costituito da una riedizione modificata dell'ottimismo, in quanto il cliente rischia di credere che l'analisi lo abbia portato a "star bene". E' quindi decisamente il caso di sottolineare che il dolore non è finito con l'elaborazione analitica del dolore dell'infanzia. Quel vecchio dolore può in qualche misura ritornare in situazioni nuove molto simili, ma anche se questo non accade, situazioni nuove possono essere in quanto tali una occasione più che sufficiente di dolore. Anche se tutto andasse bene per anni, ci sarebbe prima o poi l'esperienza di invecchiare e morire lasciando un mondo tanto bello. In questa fase dell'analisi, con il lavoro su questo "nuovo ottimismo" si costruisce ciò che può evitare delle "ricadute": queste, infatti, sono praticamente inevitabili quando il cliente si trova ad affrontare una grande pena dopo aver creduto "da qualche parte" che tutto dovesse andar sempre bene.
L'accettazione del dolore come dimensione costitutiva dell'esistenza, non è quindi un lusso per analisti con inclinazioni filosofiche, ma è il completamento di quel lavoro che da tanto tempo è ritenuto da tutti un obiettivo della psicoterapia: l'esame di realtà. Ora, la realtà è quella che è: si vive sperimentando cose bellissime e orribili, poi si muore. Se non si ha chiarezza sul fatto che l'esistenza umana è questa e che noi abbiamo le risorse per attraversarla senza vacillare, si finisce prima o poi per recuperare le vecchie difese. Infatti le difese non sono delle spine che che l'analisi toglie, ma sono competenze. Esse restano a disposizione della persona e possono (inconsciamente) essere riattivate in qualsiasi momento. Perché questo non accada occorre che la persona abbia una convinzione profonda e sentita della sua capacità di tollerare il dolore e di vivere una vita comunque significativa: Solo a questa condizione non tradirà mai né se stesso né altre persone per risparmiarsi una esperienza inevitabilmente dolorosa. Continuo a trovare il film di Frank Capra La vita è meravigliosa come il più convincente trattato sull'argomento. Un analista dovrebbe fare il lavoro di un normale angelo custode di seconda classe, consistente non già nel confermare la ribellione al dolore e nemmeno nel convincere che il dolore non è poi così grande, ma nel mostrare che lo si può affrontare per non distruggere le cose più preziose della vita.

Il lutto come lavoro cognitivo e come esperienza soggettiva.
Un aspetto fondamentale del lavoro cognitivo del lutto riguarda il rimodellamento della nostra idea della realtà e di noi stessi, in quanto la persona o la speranza o l'illusione che è venuta a mancare contribuiva alla nostra immagine del mondo e della nostra persona. Diventa necessario ripensare tutto senza "quella cosa"; diventa necessario scoprire che ciò che resta è ancora in qualche modo "coerente" e accettabile. E' chiaro che questo lavoro cognitivo interseca il processo emotivo di adattamento alla mancanza di qualcosa. Quando ad esempio un cliente scopre di non essere la persona "indipendente" che credeva di essere si deve adattare anche all'idea che gli altri possano anche essere importanti per lui. Ciò rende possibile la vulnerabilità ai rifiuti, all'indifferenza, al tradimento. Dato che chi si è inventato di essere "indipendente" ha già una storia di solitudine dolorosa, in questa rielaborazione cognitiva sperimenta ripetutamente il senso di abbandono da cui era fuggito costruendo una immagine grandiosa di sé.
Nel periodo del lutto, quindi, la persona si confronta ripetutamente con il vissuto non integrato e gradualmente, sentendo l'emozione apparentemente "intollerabile", riesce a scoprire che dopo tanti anni egli può restare integro anche quando il dolore sembra lacerante. In questo modo egli si procura con le sue forze l'unica rassicurazione ottenibile nel percorso analitico: una rassicurazione che non riguarda la possibilità di non soffrire, ma la capacità di tollerare il dolore. Questa esperienza è decisiva per il superamento dell'unica cosa che invece può davvero "scomparire" grazie ad un buon lavoro analitico: la paura. L'analisi non cambia il mondo, ma solo la nostra paura di non poter affrontare il mondo. L'analisi ci libera dalle difese, non dalla nostra storia passata o dalle difficoltà che dovremo incontrare; ci libera dalla decisione di tradire noi stessi e gli altri quando c'è una difficoltà.

Il lutto sul piano comportamentale
In un periodo di lutto le persone conducono una vita normale, in quanto il lutto a differenza della depressione non implica un rifiuto della realtà o una svalutazione di sé e degli altri. Il dolore non ci fa sentire meno amore per le persone care o meno interesse per le attività e le situazioni a cui diamo abitualmente valore. Certamente il lavoro del lutto ci impegna e ci rende meno disponibili, ma non indisponibili. In una situazione di lutto in cui una persona può permettersi di non lavorare, probabilmente non si cercherà delle occupazioni, ma se deve fare delle cose può farle con una concentrazione ed un impegno almeno sufficienti. L'irritabilità, la fuga nel sonno, le trascuratezze verso le altre persone, non sono atteggiamenti e comportamenti rivelativi di una situazione di lutto ma di una difesa dal lutto. Quando si è addolorati si tende a non cercare persone, ma se si è con qualcuno si accetta il conforto ricevuto e si condivide il pianto. Non si ha voglia di scherzare, né di "far finta di niente", né di "disperdere" il dolore con lamentazioni vittimistiche e compiaciute. Chi appena "sta male" cerca qualcuno con cui "sfogarsi" vuole disperdere le sue sensazioni e non vuole accettare ed esprimere ciò che sente.

Il lutto sul piano fisiologico
Il pianto è l'espressione naturale del dolore. Le lacrime sono come la corrente di un fiume che porta via i detriti. Anche se la consapevolezza e la sensazione del dolore già elaborato permangono nel tempo, l'intensità del dolore si riduce attraverso il pianto, col passare del tempo. Per questo, piangere aiuta a dire addio a ciò che si accetta come mancanza definitiva (qualcosa di perduto o di irraggiungibile). Le persone temono il pianto sia perché temono di sentire il dolore, sia perché non accettano di rinunciare definitivamente a qualcosa di perduto. Risulta quindi perfettamente comprensibile la frase di una paziente di Irvin Yalom: "Mi sono sentita bloccata per tanto tempo nella terapia: l'unica volta che ho avuto le ali è stato quando ho pianto" (1974,p.199). Infatti ci si "blocca" e si rinuncia a "volare" (cioè a vivere intensamente la propria esistenza) proprio per non accettare il dolore.
Stupisce il fatto che negli scritti di psicoterapia ed anche in quelli che non trascurano la centralità del lavoro del lutto manchino adeguati approfondimenti relativi all'aspetto fisiologico del lutto, cioè al pianto. Sappiamo (anche troppo!) come "si dovrebbe" fare sesso, o quale è la postura "ideale" in assenza di tensioni muscolari croniche, ma sul pianto si scrive poco. Raramente, nei resoconti clinici si specifica, riportando che un cliente piange, se egli lacrima, piagnucola, frigna, piange in modo trattenuto, piange con lacrime ma senza singhiozzi, piange con singhiozzi e poche lacrime, o piange in modo adeguato. Maggiori osservazioni si trovano nei libri di vegetoterapia o bioenergetica, ma normalmente l'esperienza del pianto, anche se riconosciuta nella sua qualità umana, viene intesa come un processo di "scarica" della tensione.
Il ruolo del pianto nel lavoro del lutto chiarisce perché nel lavoro fisico in psicoterapia esso sia così importante. Quando ad esempio si lavora sulla rabbia e si invita un cliente ad esprimere fisicamente la rabbia, l'obiettivo non può essere quello di fargli "scaricare" la rabbia (che non è un pacco pesante), ma di aiutarlo a percepire ad esempio che "sotto" la sua indifferenza sente molta ostilità. Se la seduta termina a questo punto difficilmente il cliente si sente più centrato o più sereno, pur avendo fatto una scoperta interessante. Al limite rischia di litigare inutilmente con delle persone anziché ferirle con la sua tipica indifferenza. Se invece arriva a chiarire che con la rabbia voleva modificare una situazione, e capisce che quella situazione non può cambiare, perché è una situazione del passato, conclusa, da accettare, egli accede al dolore da cui è fuggito. La difesa gelida copre la rabbia e la rabbia copre il dolore. Con questa consapevolezza e con il pianto il cliente può "liberarsi" di qualcosa: non del dolore, ma dello sforzo costante di controllare il pianto. Questo ha poco a che fare con l'energia, poiché si compie un lavoro fisico maggiore dando pugni che singhiozzando nel pianto, e ciò conferma che la questione fondamentale sta nell'insight e nell'integrazione dei vissuti e non nello "sfogo" o nella "scarica" di qualcosa.
Ovviamente va precisato che il pianto in sé non serve a nulla. Se si piange in una condizione depressiva non si arriva da nessuna parte; se si piange per un capriccio o per colpevolizzare qualcuno non si fa altro che impegnare il corpo in un'azione difensiva rispetto all'espressione del dolore (e quindi del pianto di dolore).
Sarebbe interessante capire perché fin dalla nascita e in culture diverse e persino in una parte del mondo animale (Masson,1995) il dolore si esprima col pianto e non in altri modi. Resta comunque il fatto che solo il pianto nella sua interezza esprime adeguatamente sul piano fisiologico un dolore profondo.
Il pianto può essere bloccato in vari modi. Il più efficace e radicale consiste nel non entrare in contatto col dolore, mantenendo convinzioni, illusioni, scissioni, ecc. tali da far sì che la persona non si senta addolorata.
Se la persona sente dolore ma non si lascia andare al pianto può interrompere il processo agendo in certi modi: dicendo certe parole, non dicendo altre parole, evitando certe azioni (ad esempio quella di cercare un contatto fisico), facendo certe azioni (ad esempio distrarsi leggendo qualcosa).
Se invece la persona è arrivata al pianto può frenare "a valle" piuttosto che "a monte" l'adeguata espressione fisica del dolore. A questo proposito le tensioni muscolari capaci di frenare il pianto sono moltissime. La tensione dei masseteri è fondamentale, ma chi trattiene il pianto contrae anche i muscoli della fronte, della nuca, del collo, della gola, il diaframma, e praticamente tutto il corpo. La pressione su alcuni muscoli può produrre un aumento della contrazione e poi un rilassamento che agevola il pianto. Le tensioni più profonde però non possono essere allentate né con appropriati movimanti né con interventi esterni e possono essere sciolte solo con la vocalizzazione. Basta che la persona che ha già le lacrime agli occhi e che non tiene più la bocca serrata lasci uscire un filo di voce (un lamento) perché si liberino i singhiozzi del pianto.
Qundo il pianto è in atto, può comunque essere smorzato o bloccato. Se il cliente teme di andare fino in fondo può interrompere il lamento o renderlo breve (cioè vocalizzare solo nella prima fase dell'espirazione). In questo caso occorre rassicurare il cliente sulla sua capacità di mantenere il contatto con quell'emozione e suggerirgli di lasciar uscire la voce per tutta l'espirazione. In tal caso il cliente arriva ai singhiozzi profondi che coinvolgono tutto il corpo, dalla testa al bacino. Un trucco attuato inconsapevolmente da alcuni clienti per attuare un'involuzione del processo consiste nel vocalizzare sull'inspirazione anziché sull'espirazione: prendendo aria emettono voce producendo una condizione fisica un po' paradossale che può anche spaventarli. In questi casi occorre interromperli e riportarli alla vocalizzazione normale. Però in genere a questo punto il cliente è già lontano dall'emozione ed è inutile tentare dei recuperi. In ogni caso la confidenza col pianto si realizza gradualmente e quando si osserva una particolare interruzione del processo è opportuno accettare la cosa e chiarirne il senso anche spiegando al cliente come abbia bloccato l'espresione emozionale. E' anche importante chiedere come sia stata vissuta l'esperienza. Immancabilmente i clienti rispondono che sentivano di non farcela, che avevano l'impressione di perdere la loro compattezza, di scomparire, di morire. Parlano cioè della loro paura del dolore. I bambini piangono liberamente fra le braccia dei genitori ma hanno il terrore di sentire il dolore senza l'accoglienza dei genitori, soprattutto se piangono a causa di un rifiuto dei genitori. La paura del dolore diventa paura del pianto. In analisi è importante chiarire queste cose e ristabilire la capacità di piangere per superare quella paura.
Il pianto non è una manifestazione fisiologia da apprendere, ma da riapprendere. Se il pianto non fluisce liberamente non c'è modo di andare in fondo al processo del lutto. Non c'è nemmeno modo di andare in fondo ad altre cose, poiché le tensioni croniche contro il pianto interferiscono anche con una postura equilibrata e con l'orgasmo.
L'idea reichiana che la corazza muscolare costituisca "funzionalmente" una difesa dall'orgasmo è davvero discutibile. Io credo che costituisca una difesa dal pianto. Chi sa affrontare il pianto sa anche come godersi la sessualità poiché non esistono "problemi sessuali". Quelli che vengono identificati come problemi sessuali e che con molta fantasia vengono trattati "sessuologicamente" sono sintomi, ovvero dislocazioni nell'ambito del comportamento sessuale di azioni difensive rispetto al dolore. Certe persone hanno problemi con lo studio e nessuno suggerirebbe ad essi di consultare uno "studiologo". La sessuologia ha molto successo perché le persone vogliono tornare a far sesso in modo tecnicamente corretto mantenendo le stesse mancanze di contatto sul piano emotivo.
Anche nel caso di precoci esperienze frustranti o dolorose relative al desiderio sessuale genitale, il problema non è "sessuale" e la eventuale esplicita repressione o seduzione non è un fatto "sessuale", ma personale. I bambini soffrono terribilmente per essere svalutati nella scoperta del loro piacere o sollecitati in modi innaturali. La sofferenza, il senso di tradimento, di abbandono, di sfruttamento toccano il loro cuore. Nessuno è esente da qualche pur lieve ferita di questo tipo. Si tratta di ferite reali che riguardano persone reali, non segmenti del loro corpo, anche quando nell'inevitabile reazione difensiva viene coinvolta una parte del corpo o un'area dell'espressione di sé come il sesso. La situazione, come ogni situazione dolorosa va capita ed il dolore va elaborato. Ciò vale per esperienze dolorose legate alla sessualità come per quelle legate ad altri ambiti in cui c'è stata un'esperienza di rifiuto.
L'esperienza del pianto induce un ammorbidimento di tutto il corpo, una respirazione profonda, e l'onda che scuote tutto il corpo nei singhiozzi ha un andamento molto simile a quello dell'orgasmo anche se soggettivamente non è accompagnato dal piacere sessuale. Il lavoro fisico sul pianto è il miglior contributo ad una buona sessualità perché consente sia di superare le difese dal dolore, sia di allentare molte tensioni fisiche la cui cronicizzazione ostacola l'orgasmo. Ovviamente la vegetoterapia e la bioenergetica prevedono molti esercizi fisici capaci di sollecitare e rilassare tutti i gruppi muscolari, e in genere si tratta di esercizi utili anche se non "sbloccano" l'orgasmo senza un adeguato lavoro sui vissuti.

L'esito del lavoro del lutto
Il lavoro del lutto porta serenità, non gioia. La serenità raggiunta consente di riprendere la vita con un atteggiamento aperto e costruttivo ed anche con la disponibilità a sperimentare esperienze gioiose. L'esito del lavoro del lutto si articola in tre risultati: a)la possibilità di ricollegarsi in seguito senza angoscia anche se con una certa tristezza al ricordo di ciò che si è perso, b)l'assenza di tensioni e di conflitti con se stessi, c)la capacità di tornare a coinvolgersi nei rapporti interpersonali e negli impegni della vita.
A volte, quando il processo del lutto è stato avviato, i clienti raccontano di aver pianto a casa, ma senza trovare nel pianto alcun sollievo. In questi casi, indagando con attenzione sul modo in cui il cliente ha maturato ed elaborato le sensazioni di solitudine, spesso si scopre che il pianto non era sentito come l'espressione della consapevolezza di una perdita, ma come una reazione (di rabbia, oppure di incredulità) all'idea della perdita. Piangere con pensieri del tipo "ma è mai possibile che la mia vita sia tanto triste?!" costituisce una reazione difensiva e non una resa ad un'evidenza accettata e sentita. Piangere pensando che qualcosa "non doveva accadere" significa restare in contatto con l'idea di come le cose sarebbero dovute accadere e non con i fatti realmente accaduti.
C'è anche un altro modo di "piangere senza piangere davvero" che spesso costituisce una deviazione da un processo di lutto realmente avviato. Il cliente inizia ad elaborare dei vissuti dolorosi che riconosce come suoi. Il pianto lo aiuta ad "abituarsi all'idea" che certe cose "accadano davvero". Quindi non reagisce, non sente incredulità o vittimismo. Accettando questa situazione di "perdita" avverte anche di sentirsi più presente, più solido. Qui ha la possibilità di stravolgere il lavoro del lutto: il cliente si abbandona al pianto come se esso fosse una medicina che lo farà "star bene"; è addirittura contento di sentirsi così fragile, arrendevole al dolore propriio perché si fa l'idea che quella sia "la cura giusta". In questo slittamento il cliente matura una nuova illusione secondo cui l'elaborazione del dolore antico darà luogo ad una sorta di invulnerabilità al dolore. Questo ottimismo irragionevole di fatto riduce la consapevolezza del fatto che l'accettazione dell'antico dolore non costituisce una specie di astuta tattica per giungere al lieto fine (che c'è solo nelle favole), ma costituisce un ingresso nella "realtà reale", ovvero nella realtà in cui il dolore non è un errore occasionale, ma parte costitutiva dell'esistenza, così come la gioia. Accettare per la prima volta il dolore ha senso solo come primo passo di un processo di accettazione della vita intera, ovvero di tutto ciò che di meraviglioso e terribile è accaduto e può accadere. Quando i clienti piangono in questo modo, fanno un po' come quelli che leggono in fretta per arrivare alla fine di una storia: non vogliono conoscere ma vogliono "aver letto" un libro. Non integrano o assimilano realmente qualcosa. Il pianto in questo caso non si completa (e non si "conclude") proprio perché viene usato strumentalmente.
Altre volte il pianto si sviluppa sulla base di un fraintendimento, come quando i clienti "riescono" a piangere solo in seduta o con la moglie o con il marito. Essi sono disposti a ricollegarsi con un antico rifiuto solo facendosi accogliere da qualcuno. In realtà fraintendono il senso della "vicinanza" attuale considerandola un fatto riparativo anziché una testimonianza di comprensione che un adulto manifesta ad un altro adulto che piange per certe sue perdite irrimediabili. In questi casi la situazione va chiarita se non si vuole che il cliente passi il resto della vita a piangere inutilmente addosso a qualcuno.

Una cliente (che chiamerò Serena) aveva di recente scelto di separarsi dal suo compagno; mi telefona dicendomi che da due giorni non fa altro che piangere. Al telefono ha la voce di chi sta piangendo.
GF. E' successo qualcosa?
S. Ho rivisto il mio ex e ho capito quanto stia male. Allora ho sentito che la storia è davvero finita. Ho visto in lui me bambina sempre lasciata sola, ceduta a qualche parente incaricato di accudirmi, spostata come un pacco.
GF. Lasciando il tuo ragazzo avevi mantenuto un certo distacco per non soffrire troppo, per non ritrovare il tuo vecchio dolore. Ora hai percepito in modo più profondo il dolore del ragazzo che hai lasciato, ed anche il dolore di te bambina. Questo ti spaventa e cerchi di scollegarti in un altro modo: proprio esasperando la drammaticità della tua emozione. Non mi stai comunicando un dispiacere, ma una cosa epica. Accidenti, non far altro che piangere per due giorni vuol dire che si tratta di una cosa grande! Magari più grande di te. E così trasformi nuovamente il pianto in una cosa non realmente tua.
S. Credo di capire
GF Le emozioni vere possono essere molto profonde, ma mai incontrollabili; le emozioni non possono sopraffare le persone perché sono le persone a "fare" le emozioni.
S. OK. Grazie.

La correttezza dell'intervento è confermata dalla reazione della cliente. Se dite qualcosa del genere a qualcuno che è realmente triste e sta semplicemente elaborando un dolore molto profondo, vi risponde di togliervi dai piedi. Quando invece interrompete un pianto "finto" (rabbioso, incredulo, "epico", ecc.) la persona prova gratitudine perché non solo si stava proteggendo, ma stava anche sprecando qualcosa.
Le possibilità di fare dei pianti "inutili" sono moltissime e credo sia impossibile fornire un elenco completo. L'analista può distinguere le situazioni in cui un cliente sta realmente elaborando un lutto e quelle in cui semplicemente bagna dei fazzoletti considerando varie cose. In primo luogo, la propria sensazione quando il cliente piange o racconta di aver pianto. Se un dolore è autentico ci sentiamo immediatamente partecipi. Altrimenti possiamo sentirci distaccati, o addirittura disturbati. Se non abbiamo paura del dolore possiamo fidarci di questa prima sensazione e cercare di capire cosa non va. In secondo luogo va tenuto presente che il pianto è un'emozione calda, profonda, limpida come la gioia (anche se di segno diverso) e quindi si sviluppa in modo naturale lasciando poi la persona triste ma presente e serena. Se il pianto lascia la persona spossata, avvilita, amareggiata, se sfuma immediatamente o non finisce mai, oppure se non è comprensibile non può essere l'espressione di uno stato d'animo genuino, ed è sicuramente l'esito di una manovra. Ovviamente, un pianto va interrotto ed analizzato solo quando l'analista ha sia sentito che compreso la situazione e non quando ha solo la vaga impressione di una stonatura.
Un lutto non elaborato è come un debito non pagato; si sente la necessità di escludere dalla consapevolezza ciò che non è stato affrontato e superato e si teme che qualcosa ci possa far tornare al compito non affrontato; la persona o situazione non "salutata" incombe sul presente e viene vagamente percepita com un possibile elemento disturbante, sia che si tratti di una persona scomparsa o che ci ha respinti nel lontano passato (ed in questo caso il lutto riguarda un vissuto), sia che si tratti di una persona che ci ha lasciato o che ci ha deluso nella vita adulta, sia che si tratti di un lavoro perduto o di un progetto non realizzato. A causa di ciò, la persona che evita il lutto ha costantemente paura di sentire "troppo", di coinvolgersi, di provare sentimenti.

6. Teoria e percorso analitico
Nel percorso analitico qui delineato, si punta direttamente al cuore del problema e si cerca di realizzare obiettivi molto difficili: l'assoluta trasparenza nel contatto, la completa elaborazione del lutto ecc. Un tale percorso analitico può anche risultare lungo e comunque non può essere breve. Per raggiungere un insight o sperimentare qualche emozione e ottenere dei miglioramenti può bastare anche un tempo limitato, ma per scoprire la propria capacità di affrontare senza barare tutta la realtà anche nei suoi lati più spiacevoli, senza condizioni e senza limitazioni, occorre fare i conti con "strati" successivi di paura e quindi con un ripresentarsi di antiche difese, magari con qualche variante. Tuttavia, c'è una considerazione confortante da fare: in vari tipi di analisi del profondo può capitare che un quadro clinico molto pesante resti immutato per molto tempo prima di un miglioramento, mentre nel lavoro analitico sui vissuti alcuni sensibili miglioramenti si hanno molto presto.
Innanzitutto la massiccia ristrutturazione cognitiva dovuta all'analisi delle difese libera abbastanza in fretta il cliente dall'idea di essere malato e lo fa sentire più a caccia di una soluzione che in preda ad una paralisi. Inoltre fin dai primi approcci alle emozioni difensive ed ai vissuti, i clienti acquisiscono un minimo di familiarità con sensazioni ed emozioni "nuove" che ravvivano la qualità della loro vita. Il lavoro più sistematico di analisi delle varie manovre difensive e dei vissuti si realizza quindi in un quadro relativamente positivo, per di più con la precisa convinzione, da parte del cliente, di star facendo cose pertinenti e sensate di cui egli ha verificato la ragionevolezza e l'utilità. In un certo senso il lavoro analitico sui vissuti ha i vantaggi delle terapie brevi e delle analisi del profondo. Come una terapia breve dà qualche frutto in tempi ragionevoli, ma a differenza delle terapie brevi non si pone un obiettivo limitato. Evidenziando le incongruenze della comunicazione si circoscrivono le difese. Cercando l'intenzione dell'azione difensiva (negare un desiderio o inventare un lieto fine, evitando comunque il dolore) si arriva a sensazioni e/o emozioni percepite con disagio. Continuando si facilita l'elaborazione dei vissuti. A questo punto il cliente comincia a cambiare, ma soprattutto sa cosa sta cambiando e perché.

7. Empatia, interpretazione e realtà
Le considerazioni fin qui svolte sugli aspetti del percorso analitico teorizzabili e controllabili e sugli aspetti non riconducibili in modo preciso ad enunciati teorici richiedono alcune note supplementari relative al concetto di empatia che è al centro di molte discussioni cliniche.
I clienti in analisi non resistono solo al contatto con emozioni e vissuti dolorosi, ma al crollo di un'immagine infantile ed ottimistica della loro persona e della loro esistenza. Il cliente da qualche parte sa che l'analisi lo condurrà ad affrontare il fatto che esistere non equivale a stare in una favola in cui le difficoltà sono semplicemente un temporaneo interludio fra un progetto di appagamento ed un immancabile lieto fine. Perché il cliente sia disponibile ad avventurarsi in cambiamenti emozionali che sono anche esistenziali occorre che percepisca la presenza dell'analista come persona che lo riconosce come persona; occorre che senta di essere capito nel suo bisogno di illudersi, nella sua paura di arrendersi e nella sua capacità di tollerare il cambiamento.
Possiamo quindi considerare l'empatia come una condizione di possibilità per il lavoro sui vissuti. Il cliente desidera essere confermato nella sua immagine e rassicurato nel suo sogno: empatia significa proprio non riconoscerlo nell'immagine riduttiva che esibisce e deluderlo circa la possibilità di realizzare le sue illusioni. Credo sia quindi opportuno considerare l'empatia come un'azione emotiva più intensa e cognitivamente complessa di un sentimento di benevola attenzione. "L'empatia ... non consiste nel riflettere semplicemente gli aspetti superficiali delle comunicazioni del paziente. Implica un processo di immersione nel suo mondo interiore (...). Dato che cognizione e affetto sono inseparabili, l'empatia è simultaneamente un processo cognitivo e affettivo" (Safran-Segal, 1990,p.101).
L'empatia, intesa come capacità di comprendere ciò che sente un'altra persona è fondamentalmente un concetto assurdo, poiché solo l'altra persona può comprendere ciò che sente. Tuttavia il concetto di empatia può intendersi come la capacità di sentire qualcosa di simile o analogo a ciò che un'altra persona sente. Quindi, posto che noi sentiamo le nostre emozioni e non quelle degli altri, possiamo essere più o meno capaci di farci un'idea di ciò che gli altri sentono. In qualche misura questa capacità è comune a tutti, ma al di là di un livello minimo di empatia scontato negli uomini, e persino negli animali più vicini a noi, la capacità empatica è molto diversa nelle diverse persone. Per questo forse non è il caso di pretendere una spiegazione dell'empatia, ma della mancanza di empatia.
A questo proposito credo che nella misura in cui siamo a nostro agio con tutto lo spettro delle nostre emozioni e abbiamo elaborato i nostri vissuti quanto basta per non temerli, risultiamo anche liberi dall'intenzione difensiva di fraintendere o trascurare i sentimenti delle altre persone. In altre parole credo che l'empatia sia proporzionale alla nostra tolleranza per i nostri vissuti e che la mancanza di empatia sia intenzionale e difensiva, ovvero sia un'azione e non un'incapacità; rifiutiamo di recepire correttamente (nei limiti dati) le emozioni altrui quando temiamo che esse risveglino certi nostri vissuti o che ci coinvolgano in modalità che temiamo. A riprova di ciò si può osservare che la capacità empatica dei clienti cresce in analisi nella misura in cui essi elaborano i loro vissuti.
Si deve riconoscere agli indirizzi ermeneutici in psicoterapia e soprattutto in psicoanalisi un importante ruolo demistificante rispetto ai fraintendimenti naturalistici della soggettività individuale e alle spiegazioni causali e oggettivanti. Al di là di questo ruolo critico, tuttavia, l'orientamento ermeneutico corre il rischio opposto, ovvero quello di ratificare un percorso analitico non controllato.
Le frustrazioni che implacabilmente colpiscono ogni ricerca di certezze in psicoterapia (ma anche nelle varie scienze ed in filosofia) sono aggirate quando si finge di poter fare a meno di una conoscenza sistematica e di essere soddisfatti di "tenere aperta la conversazione". La critica serrata di Richard Rorty ad ogni "sistema" conoscitivo e ad ogni progetto epistemologico si traduce in un progetto ermeneutico inteso come non fondazionale ma orientato ad una ricerca di connessioni fra discipline, culture ed orientamenti. In questo modo l'obiettivo diventa quello di rendere disponibili "maniere di parlare nuove, migliori, più interessanti e più fruttuose" (1979,p.276).Donald Spence sostiene che quando uno psicoanalista crede d'aver colto una verità storica ha in realtà colto una verità narrativa, dato che più il processo conoscitivo è complesso, più tendiamo a "costruire" la realtà in base alle nostre aspettative, convinzioni pregiudiziali e ipotesi implicite. Per questa ragione, "le interpretazioni possono essere efficaci senza necessariamente essere "vere" in senso rigorosamente storico" (1982,p.272).
Tale esito pragmatico della rilettura ermeneutica dell'analisi è tuttavia molto pericoloso, proprio perché rischia di favorire qualche forma di "benessere" nei clienti piuttosto che un reale cambiamento. Credo che nessuna vera ridecisione sia possibile per un cliente se questi non sa di difendersi, da cosa e perché.
Schafer, proponendo una rilettura della psicoanalisi in termini ermeneutici scrive: "Ogni resoconto del passato è una ricostruzione guidata da una strategia narrativa, che detta come selezionare, da una moltitudine di particolari possibili, quelli che possono essere riorganizzati in un altro racconto che abbia un filo e che esprima il punto di vista desiderato sul passato" (1983,p.188). Per Schafer ciò vale per qualsiasi narrazione, compresa quella psicoanalitica risultante dal lavoro interpretativo: "I resoconti del presente (il qui ed ora) sono ricostruzioni proprio come i resoconti del passato, solo che hanno per protagonisti atti di percezione invece che di ricordo. Se si accetta che ogni percezione è essa stessa una costruzione (...) il presente percepito può non essere guardato come una realtà semplicemente data, evidente, esistente prima della narrazione"(p.189). Che la realtà non sia semplicemente "data" è ovvio anche per la filosofia della scienza, ma il punto debole delle concezioni "narrativistiche" dell'analisi sta nella loro difficoltà a stabilire una linea di confine fra narrazioni pertinenti ed implausibili.
Come lo stesso Schafer ammette, "da queste osservazioni non consegue che tutte le strategie interpretative, freudiane o non freudiane, meritano uguale attenzione o rispetto: sono infatti convinto che si possa dimostrare ... che alcune di queste strategie sono più penetranti, coerenti, complete e trasformatrici di altre" (1983,p.197). A questo punto, però si deve tornare al problema del controllo delle ipotesi (o delle "narrazioni").
Scano, Mastroianni e Cadeddu, riprendendo alcune tesi avanzate da Popper, sottolineano che "Il metodo della scienza, qualunque sia il suo ambito di ricerca, è quello congetturale: elaborare teorie come tentativi congetturali di risoluzione di problemi. Questo è anche il metodo della comprensione ermeneutica: non contatto diretto con un soggetto unico e singolare da comprendere per adesione immediata, per partecipazione al suo significato irripetibile; ma con l'elaborazione di teorie, di congetture. (...) Coloro che intendono distinguere la comprensione ermeneutica dall'osservazione oggettiva delle scienze naturali si riferiscono ad un metodo che non esiste..."(1995,pp.291-293) in quanto, solo quando un problema è stato formulato è possibile raccogliere delle osservazioni.
Il lavoro analitico, quindi, pur sviluppandosi in modalità da inventare di volta in volta, ha come fine la chiarificazione di ciò che il cliente effettivamente fa, di ciò che davvero evita e delle sue reali capacità di cambiamento. L'analista interviene creativamente ed imprevedibilmente, ma i suoi tentativi conducono ad una descrizione dell'assetto delle difese e ad una identificazione dei vissuti evitati; tali esiti vengono controllati dall'analista e dal cliente. Per questo, la lettura analitica della attivazione delle difese nell'infanzia, del mantenimento di tali difese, del lavoro analitico sulle difese e dei risultati del lavoro analitico, non può essere considerata come la narrazione "più gradita" fra le tante possibili, ma come un resoconto obiettivo e controllato (anche se incompleto e imperfetto) delle ragioni per cui una persona ha costruito determinate difese e delle ragioni per cui, sulla base delle esperienze fatte in analisi, ha deciso di modificare certi atteggiamenti ed il modo di considerare la propria esistenza.


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