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Gianfranco Ravaglia

L'INTENZIONE RITROVATA
Intenzioni e vissuti nel lavoro analitico



CAPITOLO 6

Emozioni e difese

1. Considerazioni preliminari
Vorrei fornire una definizione almeno approssimativa di alcuni concetti che ritengo fondamentali per il lavoro analitico sulle difese: emozione difensiva, pseudoemozione, emozione strumentale ed emozione inventata. Le pseudoemozioni, le emozioni strumentali e quelle inventate sono comunque da intendere come emozioni difensive.
Non intendo proporre una specie di classificazione generale, perché si potrebbero identificare altre sottoclassi nella classe delle emozioni difensive; voglio piuttosto sottolineare il ruolo di alcune artificiose manifestazioni emotive nei disturbi psicologici. Se concepiamo le emozioni come azioni possiamo capire che esse possono essere o autenticamente espressive oppure difensive.
Questa distinzione può risultare preoccupante per alcuni e far sospettare che in questo modo conduca a qualche filosofia "normalizzante" relativa alle "autentiche" espressioni della "vera natura" dell'uomo. Niente sarebbe meno ragionevole del tentativo (peraltro da altri fatto) di stabilire cosa possa essere "autentico" in assoluto o quale possa essere la "vera natura" dell'uomo. Utilizzando questi termini mi propongo semplicemente di distinguere fra le emozioni difensive e ... le altre. Considero quindi "autentiche" o "espressive" (non avendo trovato termini migliori) le emozioni che non possono essere ragionevolmente ritenute difensive.
Le osservazioni che seguono hanno solide radici nella psicoterapia contemporanea, o meglio, nel lavoro di alcuni autori che concepiscono il lavoro analitico in una prospettiva intenzionale. Voglio ricordare il principio psicoanalitico classico secondo cui una emozione può essere usata come difesa rispetto ad un'altra emozione, ma soprattutto i più recenti approfondimenti di Schafer sull'uso difensivo delle emozioni (1976,pp.323-324). Meno utilizzabile risulta invece il concetto reichiano di "emozione secondaria", perché rigidamente collocato nella concezione dei "tre strati" e più in generale in una visione biologistica delle emozioni. Sono particolarmente preziose le considerazioni fatte da Berne (1972,pp.123-125) sui "sentimenti parassiti" o sul "racket", che costituiscono l'esito tipico di certi "giochi". Anche nell'ambito della psicoterapia cognitiva si è affrontato il problema della funzione difensiva delle emozioni: Safran e Segal distinguono fra emozioni "primarie", "reattive" e "strumentali" (1990,pp.103-104) e, nell'ambito della terapia razionale-emotiva, De Silvestri oppone le emozioni "appropriate" a quelle "inappropriate" (1981,p.64).
L'esempio più facile con cui presentare le emozioni difensive è probabilmente costituito dal disprezzo (dimostrato o solo sentito) nei confronti di una persona che ci critica per un nostro errore. Il disprezzo, ribaltando la situazione interpersonale anestetizza il soggetto rispetto al dispiacere. Gli esempi si possono moltiplicare ma per ora vorrei accennare a tre particolari sottoclassi (non reciprocamente esclusive) della classe delle emozioni difensive: le pseudoemozioni, le emozioni strumentali e le emozioni inventate.

a) Col termine pseudoemozioni mi riferisco ad azioni emotivamente significative che però non sono vere e proprie emozioni perché vengono costruite fondendo, distorcendo, sommando ed esasperando aspetti della complessiva "capacità emozionale" individuale. A differenza delle emozioni "autentiche" esse non superano il test della razionalità (cioè non sono comprensibili) e non sollecitano genuine risposte empatiche, ma solo perplessità, fastidio oppure reazioni collusive altrettanto irrazionali. Se una persona è triste perché sta affrontando una perdita (di qualsiasi tipo), siamo in grado di capire perfettamente il suo stato d'animo e ci sentiamo in grado di rispondere con calore, compassione, disponibilità e possiamo anche rattristarci. Se una persona invece, nella stessa situazione, si lamenta vittimisticamente, si tormenta con sensi di colpa, si deprime dichiarandosi inadeguata, sentiamo una indisponibilità "di pelle" sia a confermare le manifestazioni emozionali in questione, sia a "consolare" o "rassicurare" la persona. Solo per mancanza di contatto e per un'intenzione inconscia di colludere con la persona partecipando ad un "gioco", possiamo "abboccare" alla manovra difensiva della persona.

b) Col termine emozioni strumentali indico delle emozioni che non vengono attivate né come risposta autentica né come risposta immediatamente difensiva, ma come semplice "punto d'appoggio" per un'ulteriore azione difensiva. Se ad esempio una persona teme (inconsciamente) un coinvolgimento sentimentale può attivare molti tipi di difesa (provocazioni, distacco, ecc.), ma se sceglie di rendersi meno dipendente costruendo un altra relazione parallela, deve in qualche misura "innamorarsi" di un'altra persona. Questa persona, magari interessantissima ed affascinante, non sarebbe comunque stata presa in considerazione in altre circostanze. Allora diciamo che in questo caso l'innamoramento nei confronti della seconda persona è strumentale rispetto alla difesa dal coinvolgimento profondo con la prima.

c) Col termine emozioni inventate mi riferisco ad emozioni non ragionevolmente commisurate ad una situazione, ma "gonfiate", ottenute "spremendo" piccole sensazioni e lavorando di fantasia. Possiamo indignarci per qualche piccolo contrattempo solo per non apparire "troppo accomodanti", o commuoverci per pura accondiscendenza verso chi potrebbe giudicarci insensibili.
Voglio ricordare che i concetti di pseudoemozione, emozione strumentale ed inventata, sono delle semplici chiavi interpretative dell'azione delle persone. Non vanno intese come una classificazione di "entità emotive". A differenza del botanico che classifica un fiore come margherita ed un altro come tulipano, e che non trova mai una margherita "interpretabile" come tulipano secondo un certo punto di vista, noi possiamo interpretare una emozione che "non ci convince" come pseudoemozione, ma anche come emozione strumentale o come emozione inventata. I tre termini sottolineano infatti certi aspetti significativi di una emozione difensiva.
Non amo le classificazioni delle emozioni, anche perché credo che le emozioni siano non solo numerose, ma davvero tante quanti sono gli istanti delle vite di tutte le persone. Comunque, anche ammettendo di poter "raggruppare" ragionevolmente le emozioni, credo che per un analista non sia utile avere un'idea di quale sarebbe l'elenco più completo, ma sia indispensabile avere una comprensione profonda di alcune emozioni (autentiche e difensive) che incontra quotidianamente e che spesso vengono discusse in modo approssimativo.
Certe emozioni sono assolutamente irrilevanti per il lavoro analitico (ad es. sentirsi perplessi in una situazione non chiara, sentirsi oppressi da un impegno più gravoso del previsto, sentirsi annoiati ad una cena con persone non simpatiche). E' diverso il caso delle emozioni "complesse" (difensive o non difensive), come ad es. l'invidia, l'orgoglio, il rimorso, ecc.; sicuramente in esse l'elemento cognitivo gioca un ruolo maggiore, ma oltre a ciò si può dire che in esse convergono e si fondono varie emozioni più semplici; quando le emozioni complesse vanno analizzate, devono essere scomposte accuratamente nei loro aspetti costitutivi se si vuole avere un'idea chiara del loro contributo ad una manovra difensiva. Ad esempio, la gelosia ha sempre una componente di ostilità, ma in certi casi la gelosia si connette ad un'immagine grandiosa di sé, e quindi è attivata per evitare un "ridimensionamento" di tale immagine, mentre in altri casi può connettersi ad una posizione vittimistica che la persona tende sempre ad assumere. Non voglio andare oltre in un discorso che sarebbe troppo lungo e comunque incompleto. Credo però che le considerazioni dei prossimi paragrafi sulle emozioni più rilevanti per il lavoro analitico, saranno di aiuto anche per il lavoro sulle varie emozioni "complesse".

Una seduta fatta con un cliente (che chiamerò Massimo) illustra abbastanza bene il concetto di emozione inventata. Massimo mi racconta che il rapporto con la sua nuova ragazza è migliorato. Lei si è rivelata più sensibile e accogliente di quanto fosse stata inizialmente e lui ha sentito dei momenti di coinvolgimento. Sapendo che Massimo è letteralmente terrorizzato dall'idea di dipendere affettivamente da una donna, trovo strano che egli all'improvviso abbia accettato l'accoglienza di una ragazza senza costruirsi una via di fuga. Mentre ascolto pensoso, egli mi accenna ad una notte "fantastica" trascorsa con quella ragazza ed al fatto che verso le quattro del mattino ha "dovuto" tornare a casa sua perché "non poteva" limitarsi a dormire con lei. Replico con una secca provocazione:
GF. Balle! Con una donna amata si può anche dormire, fare la spesa e giocare a mosca cieca!
M [Afferrando l'implicazione della mia osservazione] Ci sono cascato un'altra volta!
GF. Sì. Più che altro ti sei organizzato un'altra volta.
M. Mi sono inventato una situazione speciale.
GF. Una situazione spendibile all'asilo con la mamma e non nella vita di oggi. La tua donna, se ha un po' di buonsenso desidera un uomo, non un tipo straordinario. E' tua l'idea di essere così speciale da poter conquistare (prima o poi) l'attenzione di una mamma distratta come la tua. E' però un'idea che è maturata nel passeggino più che fra i lenzuoli di un bel lettone.
M. Scherza pure. Io però mi gioco tutto con queste fantasie.
GF. Non è più indispensabile. Oggi puoi scegliere. Puoi accettare la tua vecchia solitudine e diventare libero di vivere le cose belle (e brutte) realmente alla tua portata nel presente. Puoi vivere in questo caso una bella esperienza senza trasformarla in una esperienza "fantastica".

La seduta che ora riassumo illustra bene sia il concetto di pseudoemozione che quello di emozione strumentale. Una cliente (che chiamerò Silvana) aveva l'abitudine di creare delle tensioni con il suo fidanzato appena il rapporto andava abbastanza bene da far salire il livello di intimità. L'intimità, soprattutto se piacevole, risvegliava il dolore per la dolcezza tanto desiderata e mai raggiunta nel rapporto con la madre. Tuttavia non era facile per Silvana litigare con questo ragazzo, che a differenza dei precedenti era davvero innamorato e realmente aperto e disponibile.
S. Lavoriamo da tempo sulle mie "pazzie" con Giovanni e in questi giorni di vacanza con lui qualcosa è cambiato. Ho avuto qualche volta l'impulso a rispondergli di traverso ma non l'ho fatto, proprio per scoprire, come mi suggerisci sempre, cosa succede se non scappo. Qualcosa è successo. Lì stavo bene, era tutto a posto, ma dentro di me montava una tristezza ... così profonda che ... Insomma ho pianto sentendo che in realtà avrei voluto tornare da mia madre. Cioè volevo stare lì, ma una parte di me non sapeva che farsene di Giovanni. Tra l'altro sapevo benissimo che anche se fossi stata piccola e fossi tornata dalla mamma, avrei trovato la mamma di sempre, quella che corre di qua e di là e che magari inciampa su di me perché non si è nemmeno accorta che sono lì. Comunque, pur avendo paura di piangere, come sai bene, non mi sono distaccata e ho sentito di poter reggere l'emozione. Giovanni mi ha visto piangere una volta e gli ho spiegato che lui non c'entrava. Ha cercato di capire.
GF Dunque hai accettato ed espresso l'emozione dolorosa e hai potuto collocarla fra i vissuti; così hai evitato di inventarti le strane emozioni con cui ti sai anestetizzare.
S. Sì. Mi sono resa conto della mia capacità di manipolare i miei sentimenti e di sentire ciò che non sento davvero. Ho dovuto faticare molto per scrollarmi di dosso quella sensazione ingiustificabile di essere oppressa, non capita da Giovanni e di detestarlo perché "non mi lasciava in pace".

2. Gioia e dolore
Le due emozioni basilari (in quanto costituiscono due punti di riferimento privilegiati per comprendere la "vita emotiva") sono la gioia ed il dolore. Nei primi mesi di vita, quando l'emotività del bambino è rudimentale e non si può ancora parlare di emozioni, ma solo di "fisiostati", le sfumature affettive rilevanti sono quella piacevole e quella spiacevole (Arieti, 1967,p.35). E' lo sviluppo cognitivo ad istituire in seguito la possibilità di sperimentare livelli intensi e complessi di gioia e di dolore ed a consentire altri tipi di esperienza emotiva.
Ai fini del nostro lavoro, parlerò semplicemente di gioia e dolore perché le ulteriori specificazioni di queste due emozioni (contentezza, appagamento, piacere, ecc., oppure sofferenza, tristezza, disperazione, dispiacere, afflizione, ecc.) sono semplicemente varianti qualitative e quantitative delle due emozioni in questione, su cui non c'è nulla di particolare da aggiungere. Considererò invece a parte, più avanti, la rabbia e la paura (in tutte le loro sfumature), il senso di colpa, la depressione, l'euforia, ed anche la felicità e l'amore che penso vadano intese come irriducibili alla gioia ed al dolore.
La prospettiva in base alla quale discutiamo l'argomento è clinica e quindi, prescindendo da tante considerazioni che in altre sedi potrebbero essere fatte, dobbiamo dire che la gioia ed il dolore costituiscono i due poli del nucleo centrale di tutte le problematiche che i clienti portano in analisi e di tutti gli interventi analitici. Le più complicate manifestazioni emozionali difensive hanno a che fare con la difficoltà del bambino ad affrontare il dolore e con la difficoltà dell'adulto ad affrontare i vissuti dolorosi. Qualsiasi intervento analitico utile conduce all'elaborazione del dolore e dà come risultato sia una maggior confidenza con il dolore che una nuova capacità di fare esperienza della gioia. Si sa che la paura in tutte le sue sfumature attraversa ogni percorso analitico, ma di cosa abbiamo paura, se non di qualche forma di dolore?
Noi reagiamo emotivamente con gioia o dolore a stati di cose che incidono su nostre aspettative esplicite o implicite, consapevoli o inconsapevoli. Nessuno esulta se una zanzara spicca il suo primo volo in Africa. Gioia e dolore sono emozioni relative o a ciò che riusciamo o non riusciamo a fare (e che cercavamo di fare) oppure a ciò che riusciamo o non riusciamo ad ottenere (e che cercavamo di ottenere). Se definiamo la gioia ed il dolore facendo questo riferimento all'intenzionalità otteniamo gli stessi vantaggi che avremmo facendo riferimento a pulsioni, bisogni o motivazioni e ci liberiamo anche da diverse complicazioni filosofiche.
La gioia ed il dolore costituiscono l'esistenza personale, nel senso che una vita senza gioia o senza dolore è semplicemente impensabile. Sia quando manteniamo il contatto con noi stessi e la realtà, che quando attiviamo procedimenti difensivi siamo costretti a confrontarci con la gioia e col dolore. Le difese infatti non annullano infatti il dolore, ma incidono solo sulla sua "profondità" o "autenticità": a volte si evita il dolore di una perdita rispetto a cui si è impotenti, sprofondando in un senso di colpa. Si soffre comunque, ma non ci si sente impotenti perché proprio il senso di colpa conferma una nostra immaginaria "potenza": infatti l'idea di "aver sbagliato tutto" presuppone e "sostiene" una convinzione del tipo "uno come me non avrebbe dovuto sbagliare". La perdita resta, ma con l'autoflagellazione viene consolidata un'idea "forte" di se stessi. Per una persona che ha dei vissuti di abbandono, il cruccio costituito dal senso di colpa è un "buon affare", ovvero il male minore. Questo "calcolo" tuttavia è corretto solo nell'aritmetica infantile, perché in effetti impoverisce la vita adulta di un'esperienza dolorosa ma significativa nella storia personale, e impegna la stessa persona nella gestione di un'emozione più superficiale, comunque spiacevole, e irrazionale. Con le difese viviamo una vita che un bambino considererebbe migliore di quella reale, però viviamo una vita "non nostra".
Faccio solo qualche cenno ad un argomento che sarà sviluppato meglio più avanti. La gioia ed il dolore hanno delle tipiche modalità di espressione. Nella gioia tendiamo a sorridere, a muoverci, ad incontrare gli altri ed anche a commuoverci. Possiamo anche vivere una intensa gioia "segretamente", ma comunque ci sentiamo più "vivi". Nel dolore, invece tendiamo a ripiegarci, a star soli o a cercare conforto dagli altri, e se il dolore non è davvero lieve, piangiamo. Molte manifestazioni comunemente classificate come espressione di "dolore", sono in realtà difese dal dolore. Chi urla e si strappa i capelli per un "grande dolore", in realtà "annulla per eccesso" la sensazione iniziale. Infatti, le espressioni "teatrali" dei sentimenti "stroncano" il contatto. Chi si lamenta continuamente, non sta "attraversando" il dolore, ma lo sta "disperdendo" e cerca di rubare delle gratificazioni perverse. Chi si chiude e si mostra irraggiungibile, sta macinando rabbia, cioè sta rifiutando il "fatto" della perdita in questione. Analoghe considerazioni valgono per chi reagisce ad un dolore con incredulità, ansia, depressione, proteste, pretese ecc.
Ciò che rende l'esperienza del dolore più difficile e la comprensione del dolore più complessa riguarda proprio il fatto che non è per nulla scontato che una persona accetti il fatto di una perdita. Spesso si esita fra accettare un dolore e agire difensivamente. Su un piano cognitivo l'accettazione di una perdita comporta l'adattamento all'idea che qualcosa non ci sia più (una persona, un animale caro, un lavoro, la gioventù, un'occasione ecc.). Il venir meno di qualcosa che idealmente avevamo collocato nel "nostro mondo" (in quanto eravamo intenzionati a mantenere o ottenere la "cosa" in questione), altera la mappa della nostra vita idealmente tracciata. Sul piano cognitivo, quindi l'elaborazione del dolore (definita anche "lavoro del lutto") costituisce un lento adattamento ad una realtà che stride con l'idea di realtà precedente. Su un piano fisiologico, comportamentale ed interiore, l'elaborazione del dolore comporta un adattamento della nostra sensibilità ad uno "spazio più ristretto"; ci "stringiamo" un po', rinunciando ad espanderci emotivamente o fisicamente in una direzione che "non è più nostra". Di fatto, se il dolore non è minimo, la componente fisiologica più evidente di questo "arrendersi" alla perdita è il "lasciar andare" le lacrime ed il "lasciarsi andare" ai singhiozzi del pianto. Non credo che il pianto "sfoghi" il dolore. Dopo un pianto non sentiamo meno dolore, ma ci sentiamo un po' più a nostro agio in quella scomoda situazione. Ciò che riduce il dolore è il passare del tempo, sempre che si sia elaborato il dolore.
Penso che la gioia ed il dolore (con tutte le loro sfumature) costituiscano assieme al basilare senso di quiete, o serenità, la quasi totalità della dimensione emotiva non difensiva. Lo spazio restante dell'emotività non difensiva è occupato da rare esperienze genuine di rabbia, paura, disgusto e da altre emozioni meno importanti ai fini del nostro lavoro. Di fatto, però, l'effettiva dimensione emotiva delle persone è in gran parte occupata da emozioni difensive.
Gioia e dolore, oltre ad essere le emozioni più "semplici", sono anche in una relazione molto particolare: l'accettazione del dolore inevitabile costituisce la principale condizione soggettiva per l'esperienza della gioia. In analisi si cerca il dolore non già perché sia più "importante" o perche gli analisti vi siano in qualche modo affezionati. Si cerca il dolore, perché proprio l'elaborazione del dolore libera la persona da tutto l'impegno difensivo che ha come effetto immediato e devastante una riduzione qualitativa e quantitativa dell'esperienza della gioia. Vorrei riportare una citazione di Sheldon Kopp, che illustra molto bene questa idea: "Se vogliamo ricavare il più possibile in termini di significati e gioia presenti, dobbiamo abbandonare ciò che non può durare e che noi non possiamo cambiare, accettando le nostre perdite. (...) Nella prospettiva del mio modo personale di fare psicoterapia, questa accettazione dell'impotenza, questo bisogno di piangere, è altrettanto mio quanto di coloro che vengono da me in cerca di aiuto. Questo è dovuto al fatto che, in certa misura, ciascuno di noi vive ancora nell'oscurità del proprio passato incompiuto. Il rifiuto di piangere le delusioni e le perdite dell'infanza, di seppellirle una volta per tutte, ci condanna a vivere alla loro ombra. Il dolore genuino è quel piangere e singhiozzare che esprime l'accettazione della nostra impotenza a rimediare ciò che non è più. Se invece ci limitiamo a gemere e a lamentarci, a insistere che non è possibile, o a esigere che la nostra sofferenza venga compensata, allora ci troviamo invischiati per sempre nel tentativo di rimediare al passato" (1971,p.178).

3. Rabbia
In alcune classificazioni delle emozioni compaiono come emozioni distinte la rabbia ed il disgusto. Capisco le ragioni di questa scelta, ma poiché le mie considerazioni riguardano il lavoro analitico sulle azioni difensive, raggrupperò (e non solo in questo caso) le emozioni secondo criteri adatti allo scopo. Includerò quindi nel gruppo delle emozioni "rappresentate" dalla rabbia emozioni molto diverse: disgusto, disprezzo, irritazione, ira, ostilità, odio, rancore, pretesa, stati d'animo associati agli atteggiamenti vittimistici, ecc.
L'aspetto distintivo delle azioni emotive collegate alla rabbia riguarda il rifiuto di una situazione, l'indisponibilità a tollerare un certo stato di cose ("disgustoso") e la disponibilità ad usare forme dirette o indirette di violenza. Non pongo come elemento unificante di questo gruppo di emozioni la violenza manifesta. La violenza come tale è un comportamento che può comparire in situazioni emotive molto diverse. Si può agire con violenza più per paura o per dedizione a una causa che per rabbia. Dubito che in guerra si sia sempre arrabbiati con le persone su cui si spara. C'è chi uccide per fedeltà ad un ideale, chi per paura di essere colpito ed anche chi uccide per rabbia. Ciò che invece si sente sempre quando si è arrabbiati, in qualunque modo, è che non si vuole accettare qualcosa. Sia che si reagisca fisicamente ad una prevaricazione o che si organizzi una vendetta a lunghissimo termine per un torto subito, o che si tenti una manovra colpevolizzante ci si rifiuta di "lasciar correre".
Dopo aver raggruppato sotto un unico ombrello emozioni così diverse, ora dovremo nettamente distinguere due sottoclassi reciprocamente esclusive: a) quella che raccoglie vari modi di esprimere un sensato rifiuto di qualche aspetto della realtà e b) quella che include vari modi di esprimere irrazionalmente un rifiuto.
a) Le varie forme di rabbia sono in genere difensive, come vedremo più avanti; ci sono però delle situazioni in cui il rifiuto di qualcosa è sia ragionevole, che efficace, che costruttivo. In questi casi, anche se l'espressione della rabbia non è indispensabile (né è segno di saggezza) costituisce tuttavia il comprensibile sfondo emotivo di un'attività volta a modificare la realtà. Si ricordi che qui non dobbiamo stabilire dei criteri etici in base a cui valutare le azioni emotive, ma capire quando un'emozione risulta espressiva (e costruttiva) o difensiva (e tale da condurre a squilibri e disturbi psicologici).
Forse un esempio può illustrare questo argomento. Si è testimoni o potenziali vittime di un atto criminoso, di una certa gravità e si aggredisce con forza la persona violenta. Teoricamente si potrebbe intervenire solo per fare ciò che è giusto, ma si può anche sentire un profondo rifiuto ("non voglio che ciò accada!"). L'azione è ragionevole perché contrasta una situazione ingiusta, è efficace perché modifica la realtà, è costruttiva perché la modifica positivamente. In genere, però, la rabbia non è di questo tipo, e anzi, spesso le persone che macinano sempre rabbia, in situazioni del genere non intervengono in modo adeguato.
b) In questa sottoclasse rientrano tutte le versioni "fredde" della rabbia, come l'odio, la svalutazione, il rancore, ecc. Rientrano anche le versioni "calde" che però sono irragionevoli, inefficaci e distruttive. Ad esempio si accumula rabbia in ufficio e poi a casa si urla coi figli. Un esempio ancor più interessante per il lavoro analitico riguarda la rabbia per situazioni già concluse. Una persona ci ha ferito; la cosa è accaduta, finita, immodificabile; è storia. Il fatto che sia accaduta costituisce un fatto doloroso, perché le ferite fanno male e fa male anche la semplice consapevolezza che ciò sia potuto accadere. Con la rabbia, in questi casi rifiutiamo questa realtà. Anziché impedire che qualcosa accada, rifiutiamo di accettare ciò che è già accaduto. In ultima analisi rifiutiamo solo il nostro dolore. Questo rifiuto è inefficace, distruttivo e incomprensibile. E' quindi perfettamente condivisibile la definizione suggerita da Kelly per l'ostilità (quindi per la rabbia, nell'accezione qui scelta): "lo sforzo continuato di estorcere la validazione di un tipo di predizione sociale che è già stata riconosciuta come un fallimento" (in: Bannister, 1977,p.30).
Buona parte del lavoro analitico consiste nell'individuare la rabbia dove il cliente non la riconosce (ad esempio nell'indifferenza, nel disprezzo razionalizzato, nel vittimismo, nella "stanchezza", nelle varie "incapacità", nelle "distrazioni", ecc.), nel favorire il riconoscimento della rabbia, e infine nell'aiutare il cliente a capire e sentire da quale dolore quella rabbia lo protegge. A quel punto, senza la rabbia fra i piedi, ci si può dedicare a verificare se davvero quel dolore è intollerabile e se è davvero indispensabile vivere scissi, furiosi, chiusi al dolore (e alla gioia).
Una delle idee più sciocche sull'argomento è quella secondo cui sarebbe importante "scaricare" la rabbia. La rabbia è un'emozione, non un sacco di patate. E' un'emozione con una fortissima componente cognitiva consistente nell'illusione che la realtà sia come un partito che si può votare o non votare. La realtà va comunque accettata, se non si vuole seppellire anche la parte di noi stessi che sa e continua a sapere che quella realtà è "data". Avendo avuto una formazione in psicoterapia corporea non sono contrario al lavoro fisico sulla rabbia. Esprimere fisicamente la rabbia aiuta a sentire meglio quanto si è arrabbiati, ma questo non serve se non come condizione per capire perché si continua a protestare per le carezze non ricevute e cose del genere. Il lavoro sulla rabbia è produttivo solo strumentalmente in quanto può far accedere meglio al dolore non ancora integrato.

Una giovane cliente, che chiamerò Serena mi raccontò di aver per la prima volta litigato col padre e di avergli detto apertamente che non avrebbe più tollerato né critiche né pretese perché lui non aveva mai fatto il padre e lei non era tenuta a fargli da madre. Senza specificare le premesse ed i dettagli di questa discussione voglio solo precisare che Serena aveva reagito sulla base di una percezione assolutamente realistica del padre, il quale non aveva mai accettato né sul piano affettivo né sul piano pratico il suo ruolo genitoriale. Tuttavia Serena, pur sentendosi "liberata" si sentiva ancora tesa e inquieta. Parlando piangeva trattenendo i singhiozzi. Era colpita dal fatto di aver sentito un vero impulso omicida nei confronti di suo padre.
GF. Vuoi lavorare un po' su questa cosa?
S. Va bene.
GF. Vorrei che tu esplorassi fino in fondo la tua intenzione omicida. Metti tuo padre lì sul materassino, immagina di avere un coltello e colpiscilo finché non senti di aver davvero chiuso il rapporto con lui e di non poterti quindi più aspettare niente.
S. Ogni tanto mi illudo che mi porti al ristorante quando vado a trovarlo. Invece mi fa cucinare.
GF. Se lo uccidi devi rinunciare a tutti i sogni.
Serena esita, poi entra nella sua parte in quella scena e si impegna nell'espressione della rabbia che risulta molto forte. Dopo aver colpito ripetutamente il padre si accascia piangendo. Il pianto è però ancora trattenuto.
GF. Ora devi salutarlo e dirgli a cosa rinunci salutandolo.
S. Addio ... ora non posso più aspettarmi dei regali, delle attenzioni ... non posso più sperare che mi chiedi scusa e che mostri di aver capito ...
GF. Sei disposta a rinunciare anche alla compagnia dell'odio? A capire che con te ha sempre fatto il bambino perché non è mai cresciuto? A capire che non aveva scelta?
S. ... Lo so. Non è cattivo. A volte dice delle stupidaggini con il massimo candore e del tutto convinto di parlare seriamente.
GF. Parla con lui.
S. Papà, ti ho aspettato tanto. Ora basta.[Il tono non è di protesta, di sfida. Dicendo "basta", Serena è mesta, ed evidentemente sente di rinunciare a qualcosa, non di "liberarsi" di qualcosa]. Mi spiace che non ti sia mai accorto di me, perché io sono stata una brava figlia. Saresti stato più felice anche tu se te ne fossi accorto. [Piange sommessamente]. Almeno me ne sono accorta io. Però ciò è triste lo stesso.
GF. Ora il lavoro è completo. Come ti senti? Ci sei tutta?
S. Sì sono tutta intera. Mi abbracci? [Nell'abbraccio si lascia andare ad un pianto lungo, intenso, con profondi singhiozzi].
GF. Hai finito di tacere e far finta di nulla e forse hai anche finito di sentirti arrabbiata. Il dolore tornerà. Non evitarlo e tieni presente che comunque resti tutta intera.

Un'ultima osservazione, probabilmente superflua, sulla distinzione fra rabbia e aggressività. I due concetti vanno tenuti distinti perché l'aggressività è una modalità del comportamento; non essendo un'azione non può essere un'emozione. Aspettare un treno non è un comportamento aggressivo, come non lo è prendere la tintarella al mare. Sono comportamenti aggressivi sia il dare calci che fare una gara o scrivere una lettera. Va considerato aggressivo qualsiasi modo di accostarsi non recettivamente ma attivamente alla realtà, indipendentemente dal fatto che il comportamento in questione sia rabbioso o amorevole,violento o mite.

4. Paura
Anche in questo caso farò alcune considerazioni su un gruppo eterogeneo di emozioni (preoccupazione, ansia, angoscia, timore, terrore, panico, ecc.) che tratterò come varianti della paura. Mi permetto tale semplificazione solo perché anche un elenco di venti emozioni sarebbe comunque arbitrario e limitato. Inoltre, una maggiore articolazione concettuale sarebbe inutile per una teoria delle difese e del percorso analitico per la quale è fondamentale proprio l'aspetto che accomuna queste varie emozioni: la convinzione che possa verificarsi un evento doloroso per la persona e l'attesa nell'incertezza. Anche la paura è in sé un'esperienza spiacevole, ma è tale in quanto la persona considera l'eventualità di un'altra situazione dolorosa. Di fatto finché si ha paura si è (ancora per un po') al sicuro. La paura, in tutte le sue varianti quantitative e qualitative, è un'emozione che come rapidamente viene attivata, così rapidamente viene superata. La paura si esprime in uno stato di attivazione orientato a prevenire ed eventualmente affrontare o fuggire una minaccia; cessa con il sollievo dello scampato pericolo ... o con il dolore dovuto al verificarsi dell'evento temuto.
Anche in questo caso, dopo aver raccolto in un unico mucchio ciò che in genere in psicologia si tende a distinguere, farò delle distinzioni che in genere vengono trascurate. Infatti, la paura è un'emozione che spesso viene attivata difensivamente ed anche in modi molto radicali (come nel caso del panico "inventato", o dell'angoscia strumentale).Per questo esaminerò separatamente a) la paura come reazione ad un pericolo e b) la paura come difesa.
a) Ovviamente in questo caso la seconda versione della teoria freudiana dell'angoscia (Freud, 1926,p.287) risulta più plausibile di quella precedente (o di quella reichiana) anche se non sottoscriverei mai l'idea di un'emozione come "segnale dell'Io". Come ogni emozione, l'angoscia è costruita dalla persona e sentita dalla persona. In quanto processo intenzionale richiede dei chiarimenti relativi ai suoi presupposti cognitivi e all'intenzione che la distingue. Quando non esprime un'intenzionalità difensiva, la paura prepara la persona ad un'eventualità dolorosa. Ha un ovvio valore di adattamento che le versioni "patologiche" della paura non hanno.
Non ritengo che un'analisi della paura condotta in base ad assunzioni "energetiche" illumini molto la questione. Nella effettiva situazione reale in cui si ha paura, non c'è nulla da "scaricare"; c'è invece da aspettare o/e valutare gli sviluppi della situazione prima di intervenire (se si può annullare un pericolo), o arrendersi (nel peggiore dei casi) o rilassarsi e festeggiare (nel migliore dei casi).
In analisi, non si lavora quasi mai sulla paura come reazione ad un reale pericolo. Nei rari casi in cui il cliente manifesta un reale timore per un reale pericolo l'unica cosa che l'analista può fare è confermare la paura del cliente, ed essergli vicino. Nei casi invece ricorrenti di paura difensiva, il lavoro analitico deve essere molto mirato e fondamentalmente "spietato". Ogni "comprensione" delle "paure" presuppone una mancanza di empatia, o una collusione in un gioco, e disturba il proseguimento del lavoro analitico.
b) Parliamo di paura difensiva tutte le volte che non riusciamo a capire di che cosa il cliente abbia paura. Col termine "capire" non mi riferisco alla fantasiosa comprensione del fatto che qualche omuncolo interno sta causando un certo stato d'animo nel cliente. Intendo ciò che capirebbe qualsiasi persona sensibile e priva di familiarità con le dottrine psicologiche. Se la paura in questione risulterebbe incomprensibile per un muratore o per un matematico, abbiamo a che fare con una paura difensiva.
Ora è il caso di spendere qualche parola per chiarire come possano avere un'efficacia difensiva delle azioni emotive tanto sgradevoli come gli "stati d'angoscia", le fobie, le "crisi di panico", ecc. Per capire ciò ovviamente dobbiamo vedere la cosa dal punto di vista di un bambino. Un bambino cederebbe volentieri un buono da un milione spendibile in libreria per tre giri sulle montagne russe al luna park. Se l'accettazione di un'esperienza dolorosa risulta insostenibile per il bambino, questi può preferire al dolore di una realtà "data" il timore di una catastrofe "eventuale". Dopo anni ed anni, quella paura non costituisce più la risposta ad una situazione attuale ma è la risposta ad un vissuto non integrato; l'adulto ripete cioè l'operazione difensiva per non affrontare il vissuto che "lo perseguita". Meglio -in questa logica- avere delle bizzarre "crisi" di panico (comunque forse "curabili" e immediatamente "spendibili" per raccogliere attenzioni e compassione) che sentire l'orrore di una solitudine irrimediabile e già classificata come devastante.

Il lavoro cognitivo è fondamentale quando i clienti dichiarano sintomi o atteggiamenti difensivi che si fondano sulla paura. Occorre ribadire l'irrazionalità della paura dichiarata, anche se questo può essere abbastanza scontato; però tale puntualizzazione non va fatta per pretendere che il cliente si rassicuri, ma per scoprire assieme a lui ciò che "realmente" costituisce un aspetto doloroso della sua vita. Questo lavoro di ristrutturazione cognitiva, per quanto elementare è una condizione obbligatoria per il lavoro più essenziale. Ad una cliente che temeva di poter avere una crisi di panico e che insisteva -come se fosse una bambina- per farmi dichiarare che "tutto sarebbe andato bene", io ho fatto notare che se avesse voluto avrebbe certamente potuto avere una crisi di panico e che se avesse fatto le cose seriamente sarebbe anche potuta morire. Protestò vivacemente. Però toccammo la situazione da cui davvero scappava: l'incertezza. La sua storia di bambina non era una storia davvero tragica, e la madre le aveva anche saputo dare calore e protezione. Però era una madre molto giovane che in qualche misura si sentiva anche "imprigionata" in un ruolo di responsabilità che le faceva rinunciare ai suoi sogni di adolescente e forse, soprattutto, di bambina.. Per questo, a volte trasmetteva alla figlia un messaggio del tipo "torno subito" e la bambina sentiva di non poter contare su un appoggio "certo". Sviluppò quindi un attegiamento rivendicativo e capriccioso col quale riusciva a "catturare" la madre. La cattura era però illusoria perché la madre era vulnerabile a quelle manovre solo perché incline ai sensi di colpa e non per una genuina empatia. D'altra parte un genitore davvero empatico non "accontenta" un bambino capriccioso. Le crisi di panico, la paura di avere le crisi di panico, la paura delle situazioni in cui le crisi si sarebbero eventualmente sviluppate costituivano l'impalcatura difensiva che impediva di accettare una storia personale irrimediabilmente "precaria" e che consentiva di continuare a sperare in qualche certezza rassicurante. Dopo aver chiarito la situazione, le proposi di fare un "esercizio". La invitai a girarmi le spalle, stando in piedi mezzo metro davanti a me (seduto sul divano). Le chiesi di lasciarsi cadere indietro restando dritta e rigida (senza cioè piegarsi e sedersi sulle mie ginocchia). Lì sentì il panico ma, dopo aver esitato a lungo, cadendo fra le mie braccia scoppiò in lacrime. Quel pianto profondo nasceva dalla sensazione "viscerale" di non fidarsi della mia disponibilità. a "raccoglierla" e a "tenerla con me".

Esperienze di lavoro analitico di questo tipo mi hanno portato a credere che gli sforzi diretti a "curare" l'ansia o a "rafforzare" le personalità insicure siano inutili. Se un cliente mi dice di sentirsi poco intelligente gli chiedo di parlarmi della sua intelligenza e mi adopero per mettere a fuoco assieme a lui i limiti della sua intelligenza. Questo lavoro è scomodo anche per persone molto dotate. Il confronto con i limiti aiuta però a individuare la fantasia di accettazione che è stata legata all'idea di essere intelligente ed a chiarire quale accettazione è mancata e sarebbe comunque mancata indipendentemente dal quoziente intellettivo. Se una cliente dice di sentirsi poco bella, replico garantendole che molte donne sono più belle. Ovviamente questi interventi hanno senso solo all'interno di un rapporto consolidato in cui l'accettazione ed il rispetto da parte dell'analista sono fuori discussione.
C'è una variante della paura che merita una particolare attenzione. In alcuni casi viene esibita una paura proprio per non entrare in contatto con la paura. Alcuni clienti si mostrano spaventati, ma in realtà sono increduli. Non solo scappano dal dolore nella paura (slittando cioè da un dolore già "dato" ad un dolore "eventuale"), ma scappano anche dalla paura dichiarandola senza convinzione. Ad esempio ci sono delle persone, soprattutto donne, che straparlano della loro paura di invecchiare. Si disperano per questo tragico destino e raccolgono anche inconfutabili prove del fatto che il processo è già iniziato. Una ruga lì, un po' di cellulite che non c'era, un po' di pancia che non va via nemmeno con la ginnastica e roba del genere. Alcune pensano alla chirurgia estetica ed altre si accontentano di diete. Non stanno accettando il loro processo di invecchiamento. Più immaginano che fra dieci anni avranno un altro corpo e meno ci credono. Parlano per esorcizzare un'eventualità puramente astratta e non per comunicare una consapevolezza realmente acquisita. Queste persone devono essere aiutate ad accettare il fatto di invecchiare e il dolore di non poter conservare quell'immagine fisica a cui sono affezionate perché solo questo dolore può far recuperare il piacere di esistere, anche con qualche ruga in più.

5. Emozioni difensive
a) Senso di colpa.
Credo sia indispensabile fare una netta distinzione fra senso di colpa e consapevolezza di una colpa (o di una responsabilità). Anche se si possono utilizzare termini diversi -basta intendersi!- occorre comunque indicare in due modi due stati d'animo radicalmente diversi. La persona che volontariamente o non volontariamente, consapevolmente o inconsapevolmente ha danneggiato qualcuno e riconosce la sua colpa (o responsabilità), prova dolore per la persona danneggiata. Parlo di dolore nel senso di "dolore e nient'altro". Il dolore riguarda qualsiasi perdita, sia una perdita che abbiamo subito, sia una perdita che per un nostro errore qualcun altro ha subito. Come ogni altro tipo di dolore, quello che sentiamo ed esprimiamo col pianto quando siamo consapevoli di un nostro errore, è semplicemente un'esperienza che facciamo, che vorremmo non fare, ma che comunque fa parte della nostra vita. Col tempo fa meno male. Anche col perdono delle persone offese fa meno male. In ogni caso, quel dolore costituisce un passaggio che nessun percorso analitico può alterare. E' semplicemente un fatto della vita.
Il senso di colpa, invece è sempre e comunque una difesa, è sempre e comunque irrazionale ed è irrilevante sia per la persona che si affligge che per la persona eventualmente danneggiata.
Il senso di colpa protegge dal dolore in vari modi e nel lavoro analitico è importante collocare con precisione questo stato d'animo nella particolare struttura difensiva della persona. I vantaggi ricavati dall'operazione difensiva consistente nel ritenersi e sentirsi colpevoli sono illusori.
Una delle principali componenti del senso di colpa è un particolare dialogo interno. E' importante che in analisi il cliente diventi consapevole di quel che si dice, perché in genere "nella testa" ci diciamo delle stupidaggini molto più grossolane di quelle che oseremmo proferire ad alta voce. Spesso il dialogo interno ricalca un dialogo esterno storicamente significativo, ovvero include un insieme di accuse, pretese e svalutazioni che la madre (o il padre) formulava nei riguardi del bambino. Il fatto che il destinatario dei messaggi fosse un bambino con un forte senso di dipendenza da chi pronunciava quelle sciocchezze, ostacolava una valutazione critica del messaggio. Spesso i bambini devono scegliere fra sentirsi colpevoli e "in compagnia" di un genitore che "li capisce" oppure innocenti ed in balia di un genitore che non ha contatto.
In altri casi il senso di colpa serve a mantenere un'immagine di sé onnipotente. Avere delle colpe significa avere un potere. Io sono a priori libero da qualsiasi colpa per la disoccupazione in Italia, mentre molti ministri che si sono impegnati nei vari governi degli ultimi cinquant'anni possono anche avere delle responsabilità in merito. Avere una colpa significa anche che si sarebbe potuto agire diversamente, determinando così un altro corso degli eventi. La classica esclamazione, magari accompagnata da un pianto fasullo, del tipo " Mia moglie non mi avrebbe lasciato se non l'avessi tradita" serve esattamente a non elaborare il dolore di un rapporto finito. Magari bastasse essere fedeli per non essere lasciati! Sentirsi colpevoli in una situazione del genere significa salvare l'idea che siamo stati noi la causa di un fatto doloroso e che quindi non abbiamo "subito" nessun abbandono (e potremo anche essere al sicuro in futuro se agiremo in un altro modo). Il senso di colpa riduce il contatto con la fragilità, con l'impossibilità di determinare certe situazioni e con molte altre cose dolorose che fanno parte della vita umana.
Ci si può anche sentire in colpa per ottenere (pseudo)affetto sotto forma di interventi consolatori, sostegno, comprensione, o per altri motivi. In ogni caso, quando si nota un senso di colpa è importante cercare altrove il vero problema, anzi, il vero dolore.

b) Depressione.
Innanzitutto va precisato che parlando di depressione non parliamo di un'emozione, ma (sempre e comunque) di un disturbo emotivo, ovvero di un'uso difensivo di un insieme di azioni emotive irrazionali, unificate esclusivamente dall'intenzione di evitare un confronto con situazioni e vissuti dolorosi percepiti come intollerabili. E' difficile parlare di ruolo difensivo della depressione rispetto al dolore, data la indiscutibile e a volte davvero terribile sofferenza che caratterizza la depressione. Eppure occorre affermare che la sofferenza della depressione è una sofferenza prodotta per evitare un altro tipo di dolore che nell'infanzia era stato considerato assolutamente ingestibile. Quando in analisi i clienti cominciano a sperimentare emozioni dolorose relative a ricordi o sensazioni di abbandono, di rifiuto, di impotenza, afferrano immediatamente e riescono a spiegare che fra questo tipo di dolore e la "cappa" di sofferenza tipica della depressione c'è una differenza ben precisa. Quindi non voglio in alcun modo minimizzare il disagio di chi attraversa un periodo di depressione, ma sottolineare una distinzione da cui dipende la possibilità di orientare costruttivamente il lavoro analitico.
Si riconosce sempre che la tristezza ed un disturbo depressivo sono cose diverse, però molti studiosi non riconoscono la essenziale opposizione esistente fra i due concetti. In Lutto e melanconia (uno dei cinque saggi che compongono la raccolta Metapsicologia, pubblicato solo nel 1917) Freud individua alcune differenze fra il lavoro del lutto, inteso come la normale "reazione alla perdita di una persona amata o di un'astrazione che ne ha preso il posto" e la melanconia (1915-1917a,pp.102-103). Nella melanconia (che oggi preferiamo chiamare depressione) Freud include componenti estranee all'esperienza del lutto, tra le quali "l'avvilimento del sentimento di sé", la presenza dell' odio e così via. Tuttavia la ridefinizione tipicamente freudiana dei processi intenzionali inconsci in termini di vicende libidiche ("investimenti", "regressioni" ecc.), rende piuttosto macchinose le spiegazioni. La tesi secondo cui gli autorimproveri sono rimproveri distolti dall'oggetto e riversati sull'Io coglie sicuramente qualche aspetto della depressione, ma solo nei limiti consentiti da una brutta metafora idraulica.
In un quadro teorico completamente diverso, Cassano pur distinguendo fra il lavoro del lutto e la depressione, accenna ad una tristezza "fisiologica" e ad una tristezza "patologica", ed afferma che nel lutto si hanno manifestazioni "identiche" alla depressione, ecc. (Cassano-Zoli, 1993,pp.51-53) In questo modo, non viene evidenziata la contrapposizione basilare fra due fenomeni che non sono diversi solo per la gravità delle manifestazioni, ma per il ruolo da essi giocato nell'esperienza di vita della persona: il dolore è una risposta ad una realtà spiacevole con cui ci si misura, mentre la depressione rappresenta un tentativo di scollegarsi con una realtà ritenuta intollerabile. Cercherò quindi di chiarire perché sia così importante affermare che i due concetti in questione delimitano classi diverse e reciprocamente esclusive di fenomeni.
Nelle definizioni psichiatriche, la depressione (o qualsiasi tipo di disturbo depressivo) comporta un "abbassamento" del tono dell'umore, una alterazione o riduzione o focalizzazione dei processi ideativi e una limitazione della disponibilità ad agire che può presentarsi come rallentamento psicomotorio.
Ai fini del presente lavoro non occorrono specificazioni sulle varie manifestazioni cliniche della depressione, e non trovo utile una discussione delle basi costituzionali della depressione (almeno per quanto riguarda i disturbi depressivi più gravi). Particolari condizioni delle strutture e dei meccanismi neurobiologici possono favorire sia una particolare vulnerabilità rispetto alle esperienze dolorose (tra cui sono fondamentali quelle della primissima infanzia che danno luogo ai più terribili vissuti non integrati), sia una predisposizione a reagire difensivamente in certe direzioni. E' fuori discussione la validità di terapie farmacologiche nei casi più gravi, ma è anche fuori discussione che, anche le forme più gravi di depressione trattate farmacologicamente richiedono in genere che il trattamento sia integrato da un lavoro psicoterapeutico.
Al di là di tutto ciò, è il caso di ricordare che sia nella più lieve reazione depressiva che nella più grave crisi depressiva, la persona si contrae, si ritrae, agisce in modalità apparentemente passive per non integrare delle esperienze o dei vissuti di perdita, di solitudine e di tristezza. Questo è il punto che cercherò di sviluppare e che credo meriti di essere approfondito nell'ambito della psicoterapia analitica, proprio perché considerare la depressione come una forma "eccessiva" di tristezza o una variante patologica della tristezza comporta delle gravi confusioni concettuali e delle ovvie difficoltà nel lavoro analitico. Analoghe considerazioni valgono anche per altre azioni difensive. La gelosia di una persona nevrotica e di un paranoico sono cose molto diverse, però in nessuno dei due casi confondiamo la gelosia con "l'essere affezionati a qualcuno". Trovo quindi condivisibile la netta posizione presa da De Silvestri sull'argomento: "Nemmeno un profondissimo dolore equivale ad una leggera depressione" (1981,p.64). Arieti sottolinea la funzione difensiva della depressione: "In alcuni casi di pertinenza psichiatrica lo stato di tristezza non si risolve e si trasforma in un senso di infelicità più intenso chiamato depressione.(..) Ho avanzato l'ipotesi che la depressione intensa abbia (tra le altre) la medesima funzione della rimozione in altri stati psichiatrici" (Arieti-Bemporad, 1978,p.152). L 'autore sottolinea anche la funzione alternativa della depressione rispetto al lavoro del lutto: "Mentre il dolore e la tristezza sono appropriati, consoni alla situazione e perfino adattivi, la depressione è inappropriata e disadattiva" (Arieti-Bemporad, 1978,pp.251-252).
Se consideriamo la tristezza come un'azione emotiva con cui la persona reagisce ad una perdita accettandola come aspetto doloroso della propria esistenza, e se consideriamo il "lutto" o il "lavoro del lutto" (in senso ampio e non solo in relazione alla morte di qualcuno) come il processo di elaborazione del dolore e di riorganizzazione cognitiva che porta ad una accettazione della perdita, dobbiamo riconoscere che nella depressione sono assenti sia l'emozione della tristezza che il lavoro del lutto, mentre sono presenti manifestazioni affettive e attività cognitive sempre assenti nella tristezza e nel lutto (senso di colpa, ansia, svalutazione della propria persona e della vita in generale, ecc.). Ovviamente il dolore c'è. Nessuno è depresso "per niente". Però bisogna stare molto attenti a non confondere la spiacevolezza della condizione (limitativa o devastante) della depressione ed il dolore della perdita. Empatizzare con il cliente depresso per la sua "tristezza" impedisce di fargli affrontare ed integrare il dolore.
La persona depressa o non piange oppure ha "crisi di pianto"; inoltre non chiede e non accetta alcuna frustrazione perché scivola subito nel senso di colpa (ovvero nell' onnipotenza colpevole) o nell'accusa (introflessa); non aggredisce la realtà perché pretende che la realtà cambi e non empatizza con nessuno perché è impegnata nella gestione (nella negazione) di un suo vissuto terribile. In altre parole la persona depressa non si confronta mai con una situazione sia di bisogno che di frustrazione. Qualsiasi successo nel facilitare un confronto anche limitato con una dolorosa mancanza, si traduce immediatamente in una migliore valutazione di sé, ed in un aumento della capacità empatica. Il raggiungimento di una accettazione della tristezza come componente ineliminabile dell'esistenza, costituisce la miglior garanzia rispetto ad eventuali ricadute. Spesso dico ai miei clienti che facciamo analisi non per immunizzarci dal dolore, ma dalla paura del dolore. Ogni dolore è irrimediabile. Se cambiano le circostanze, a distanza di mesi, anni, decenni, le pene sentite diventano ricordi, ma comunque ricordi penosi. Solo l'intensità del dolore, col tempo si affievolisce e, se la persona attraversa un adeguato periodo di lutto, ritrova prima o poi la serenità ed anche la capacità di cercare e apprezzare nuove esperienze piacevoli. "Non è il passare del tempo che guarisce, ma il riordinamento delle idee, che però richiede un notevole periodo di tempo" (Arieti-Bemporad, 1978,p.146).
Quando il cliente entra in una fase di "lutto" si sente vulnerabile anche per piccole cose e risponde ad esse col pianto, ma in modo non regressivo. Si può anche sentire come un bambino piccolo, ma sa di essere un adulto che ritrova vissuti brutti che comunque appartengono alla sua storia personale.

c) Euforia
Includo sotto questo titolo varie sfumature emotive caratterizzate da una sensazione di impermeabilità al dolore e di non dipendenza dagli altri. Il dolore può essere esplicitamente ammesso ma senza alcun contatto emotivo.Il cliente si concentra su cose di cui sopravvaluta la rilevanza, sottolinea la sua autonomia, esibisce un ottimismo non giustificato nella considerazione di certe eventualità, afferma la propria autostima criticando persone frustranti e dichiarando di star bene senza la loro presenza ingombrante. In vari modi riduce quindi la percezione della sua vulnerabilità.. E' molto importante stroncare sul nascere questi atteggiamenti trionfalistici e queste manifestazioni di pseudoautonomia, anche se non sono gravi e non preludono ad una rinuncia all'esame di realtà. Se il cliente che stava sulla difensiva, era chiuso o si sentiva depresso all'improvviso "scopre" che tutto va bene deve essere immediatamente riportato alla realtà: può sicuramente star bene con se stesso, ma deve accettare che non tutto va bene nella sua vita e che può convivere con la tristezza che a volte è inevitabile.

6. Amore
Varie ragioni giustificherebbero un'esclusione di questo termine da una teoria dell'analisi. Le più rilevanti sono a mio avviso le seguenti:
- il termine amore compare con troppi significati ed in contesti troppo diversi (comunicazione quotidiana, letteratura, testi filosofici e religiosi) e con significati o vaghi o ancorati a presupposti molto diversi;
- una ridefinizione specifica del significato del termine potrebbe comunque dar luogo a confusioni concettuali per via della consuetudine all'uso non teorico di tale termine;
- le principali teorie psicologiche hanno evitato un uso teorico del concetto di amore, mentre altre, per utilizzare quel concetto hanno dovuto fare assunzioni ontologiche, soprattutto di tipo spiritualistico (Frankl, 1952,p.99; Assagioli, 1988,cap.24); altre ancora, nel tentativo di ridefinire riduzionisticamente il concetto di amore sono approdati a definizioni decisamente discutibili come quella di Reich, secondo cui l'amore sarebbe da intendere come "un fenomeno fondamentale naturale nel regno del funzionamento vitale" (Reich, 1942b,p.100).
Tuttavia, la rinuncia all'uso del concetto di amore crea dei problemi non piccoli sia nella comunicazione con i clienti in analisi, sia nella comprensione dei loro problemi.
Varie ragioni giustificano quindi l'inclusione del concetto di amore in una teoria dell'analisi:
- molte comunicazioni nelle sedute risultano delle trappole proprio perché si basano su un uso ambiguo del concetto di amore (ad esempio, quando i clienti rivendicano il diritto di essere amati), e il modo migliore per analizzare tali manipolazioni è quello di evidenziare le confusioni concettuali di partenza; a questo proposito abbiamo bisogno di parlare in modo coerente dell'amore;
- nelle comunicazioni dei clienti, vengono confuse spesso due classi nettamente distinte di gratificazioni: essere ammirati (o premiati o ricompensati), ed essere "benvoluti" (o "accettati"); un vuoto di teoria rispetto ad una problematica così delicata produce facilmente incertezze o incoerenze negli interventi analitici.
Tenterò quindi di introdurre il concetto di amore nella teoria dell'analisi, evitando sia di fare assunzioni metafisiche, sia di trattare l'amore in modo semplicistico (ad es. come un desiderio particolarmente intenso di contatto). Credo che le mie conclusioni potranno anche non piacere, perché finirò per considerare inesatte o irrazionali alcune affermazioni molto comuni (come ad es. che l'amore determina l'attrazione fra le persone, o che i bambini amano i genitori, o che possiamo farci amare agendo in un certo modo).
Quando ci muoviamo intenzionalmente in qualche direzione, normalmente cerchiamo di rendere possibile una esperienza piacevole o di prevenire o far cessare una esperienza spiacevole. Qui, i termini piacevole e spiacevole vanno ovviamente intesi nel senso più ampio. I legami basati sul desiderio sono quindi, ovviamente, dei legami condizionali. Se vogliamo essere desiderati dagli altri dobbiamo fare qualcosa di gradito e se vogliamo guadagnare dei soldi, dobbiamo fare un lavoro utile. In questa chiave di lettura, la "stima" (nel senso più ampio del termine che comprende sia l'essere apprezzati in famiglia che l'essere vincenti in una gara) dipende da certe condizioni, come l'avere certe caratteristiche o il fare certe cose. Da ciò segue che in genere gli innamorati "si stimano" (cioè si stimano per l'aspetto fisico, per i modi di fare, per gli interessi, la personalità, la sensibilità) e solo col tempo, e non sempre, riescono ad "amarsi". Parlando brutalmente, ma con chiarezza, quando si è innamorati si sente di aver fatto un buon affare; nei casi migliori c'è anche dell'altro, ma dovremo capire in che senso possiamo parlarne.
Se il concetto di amore non deve essere un quasi-sinonimo del concetto di stima, più poetico o più vago, ma comunque superfluo, e se deve avere qualche funzione nella teoria, deve implicare l'incondizionatezza, il disinteresse, la gratuità, e credo proprio che se riusciamo a trattare ragionevolmente la questione dei legami disinteressati senza risultare ingenui, possiamo poi disporre di uno strumento concettule molto valido.
Vorrei suggerire una prima approssimativa definizione del concetto di amore: amiamo quando a) sentiamo ammirazione per qualcosa o qualcuno prescindendo da qualsiasi considerazione su eventuali gratificazioni derivanti dal contatto o dalla vicinanza o dall'utilizzazione di quella cosa o persona, e quando b) sentiamo un interesse per il bene di tale "oggetto" d'amore. Più brevemente, l'amore potrebbe essere considerato la congiunzione di ammirazione disinteressata e benevolenza. Questo implica che se tutti sono amabili, l'amore è reso possibile dal fatto che chi ama sia disposto a vedere "chi" ha di fronte e non solo a capire che uso ne può fare. In altre parole, se l'amore non dipende da alcun "merito" di chi è amato, dipende dalla "disponibilità" di chi ama a considerare ed apprezzare le qualità (anche non utilizzabili) della persona amata.
Qui si potrebbe aprire una discussione filosofica relativa alla possibilità di ricondurre l'ammirazione ai desideri o di fondare tale concetto su altre basi. Tale interessante discussione (in ultima analisi relativa al riduzionismo in psicologia) è però del tutto irrilevante ai fini del nostro discorso, quanto lo è quella dello statuto ontologico della soggettività. Di fatto sentiamo cose diverse ed agiamo in modo diverso quando apprezziamo qualcosa o qualcuno da cui ci aspettiamo delle gratificazioni (ulteriori) e quando invece siamo semplicemente contenti che qualcosa o qualcuno esista. Anche per la benevolenza si porrebbe porre il problema della riducibilità. Tuttavia quando atteggiamenti benevolenti o azioni benevole disinteressate verso qualcosa o qualcuno sono attuate senza ambivalenze, ostilità inconsce, preoccupazioni narcisistiche, possiamo distinguerle nettamente dalle azioni orientate alla gratificazione, prescindendo da qualsiasi ipotesi sulle loro condizioni ultime (fisiche o metafisiche) di possibilità.
Questa quasi-definizione dell'amore ha anche il pregio di costituire una sorta di massimo comun divisore delle concezioni dell'amore risultanti dalle varie tradizioni filosofiche e religiose, e dal linguaggio quotidiano. Senza implicare alcuna idealizzazione dell'oggetto, alcun riferimento alla trascendenza, alcuna modalità specifica di manifestazione del sentimento, essa coglie l'idea di un "movimento verso" o di un sentimento "in uscita", che cioè si differenzia dall'idea (connessa al desiderio) di possesso o di fruizione.
Limitando il discorso all'ambito più facile da affrontare, cioè quello dell'amore per le persone, direi che amiamo le persone quando riusciamo a considerarle come soggetti (anziché come nostri "oggetti"), ovvero come entità che elaborano una storia da un particolarissimo punto di vista, costruendo gradualmente un'unica esistenza sospesa fra l'assoluta fragilità della nascita e l'inevitabilità della morte. Quando riusciamo a vedere una persona sotto questo aspetto ("come persona"), possiamo continuare a dissentire da ciò che fa o anche a non aver voglia di starle vicino, però riusciamo a considerarla in qualche unico modo apprezzabile e preziosa.
Se non fossimo mai presi dallo sforzo di ottenere cose buone e di evitare cose dolorose, riusciremmo ad amare stabilmente tutti. In fondo, cos'altro sono la saggezza o la santità, se non questo? Non è forse quasi ovvio che troviamo difficile amare quando siamo "presi" da qualche bisogno o da qualche paura?
A questo punto possiamo formulare alcune affermazioni, che ora dovrebbero risultare abbastanza chiare:
1) è opportuno definire l'amore come incondizionato; il cosiddetto amore condizionale è un controsenso;
2) è opportuno considerare l'amore come dipendente esclusivamente dalla disponibilità o capacità di chi ama e non da qualche operazione compiuta da chi è amato; quindi, l'amore si può ricevere ma non conquistare
3) se desideriamo essere amati, la cosa più intelligente che possiamo fare è una sola: essere sinceri, in modo da non confondere le idee alla persona da cui vorremmo essere amati e sperare nella sua disponibilità e benevolenza; infatti quando "recitiamo" per farci amare, finiamo o per risultare così antipatici da non essere nemmeno stimati, o per ottenere amore (o stima) per la persona che non siamo;
4) qualsiasi forma di stima invece dipende da ciò che si fa e si mostra;
5) il desiderio di stima ed il desiderio di amore sono due cose assolutamente diverse. Anche se possono coesistere, non vanno confuse perché non c'è modo di appagare il desiderio d'amore ottenendo stima.
L'idea che l'amore dipenda da chi ama costituisce un punto di riferimento fondamentale per l'analisi di molte convinzioni irrazionali. A meno che non si voglia ipotizzare un criterio di "amabilità" in base a cui ordinare alcune misteriose qualità "intrinseche" presenti in varie proporzioni nelle persone, dobbiamo accettare che se le persone sono amabili, lo sono per il fatto di essere persone.
L'altro lato della gratuità dell'amore è l'impossibilità di controllare gli altri sul piano dell'amore. In analisi, questo problema ricorre più e più volte, perché ai clienti non piace mai l'idea di non poter meritare l'amore. Questo però va chiarito in tutti i modi ed ogni chiarimento deve essere un'occasione per un lavoro orientato al recupero di vissuti dolorosi, ma (oggi) tollerabili.
Questo discorso ha delle applicazioni molto importanti in ambito analitico, perché ad esempio consente di evitare errori come i seguenti:
a) "comprendere" chi pretende di essere amato
b) "comprendere" chi non si ama (si deprime) a causa di qualche errore commesso
c) "comprendere" chi si accusa di non amare abbastanza e crede di "dover amare" di più (con la convinzione implicita che dopo risulterà a sua volta amabile)
d) "comprendere" chi si offende per essere desiderato e non davvero amato.
In queste situazioni se l'analista "comprende" e quindi evita di lavorare, perde un'occasione importante. D'altra parte, se non avverte l'irragionevolezza delle situazioni descritte, egli stesso sta confondendo amore e stima.
Lavorare su queste convinzioni è indispensabile per
1) portare il cliente a verificare che può tollerare il fatto di non essere (o non essere stato) amato come vorrebbe (o avrebbe voluto);
2) portare il cliente a superare la paura di non essere amato ed a smettere di sprecare la vita per fare quelle stupidaggini che (dal suo punto di vista) producono amore;
3) aiutare il cliente a desiderare di essere amato senza pretendere l'amore
4) rendere possibile al cliente, grazie ad un miglior rapporto con sé e con gli altri, anche l'esperienza di amare maggiormente se stesso, la propria esistenza e le altre persone.
L'amore quindi, non è qualcosa "su cui lavorare", ma è in qualche misura sempre presente nella vita delle persone e può "crescere" col lavoro analitico, ovvero con il superamento della paura di non essere amati e della pretesa di essere amati. Ovviamente l'amore è una di quelle cose che non vanno "cercate" (come la spontaneità, la simpatia, la profondità di esperienza). In analisi si lavora "dentro" la polarità gioia-dolore. Ciò che si ottiene però produce ulteriori cambiamenti. Non occorre parlare di questo coi clienti; basta avere le idee chiare sulla questione.
Farò ora qualche altra breve considerazione a proposito di alcuni argomenti che per essere affrontati richiedono un uso teoricamente ed umanamente sensato del concetto di amore.

Autostima.
In genere si parla di autostima per indicare un buon rapporto con se stessi, ovvero un buon dialogo interiore, una buona immagine di sé, e quindi anche una reale capacità di andare incontro agli altri e di tollerare eventuali frustrazioni. Nel linguaggio qui proposto, tutto ciò dovrebbe ricapitolarsi nel concetto di "autoamore", o "autoaccettazione", o "amore per se stessi". La prima espressione è brutta, la seconda è lunga e abbastanza vaga, poiché il termine "accettazione" è una specie di jolly in psicoterapia, che a volte sta per amore, a volte per amore e desiderio, a volte per semplice simpatia o amichevolezza. Resta l'espressione "amore per se stessi", che è troppo lunga, ma resta la mia preferita.
Evito invece il termine "autostima" non solo perché è incompatibile con le mie definizioni ma anche perché è"pericoloso". Infatti, il concetto di stima suggerisce quasi sempre e non solo nel mio quadro di riferimento teorico qualcosa di ben distinto dall'amore. Nelle pubblicazioni di psicologia e psicoterapia (e non solo nei manualetti-spazzatura del tipo "Come superare la timidezza e ritrovare l'autostima in cinque ore di autoanalisi") si parla in genere di autostima come di una "cosa buona" e che si deve avere, e il pericolo di questo punto di vista sta proprio nel presupporre una sorta di collegamento fra le questioni di stima e la possibilità di avere un buon rapporto con se stessi, mentre è vero esattamente il contrario: avere un buon rapporto con se stessi significa proprio avere un rapporto non condizionale con se stessi, cioè un rapporto tanto solido da non vacillare nelle circostanze in cui realisticamente una persona deve avere una scarsa stima di sé. Stimarsi sempre e comunque significa avere un'immagine grandiosa. E' segno di equilibrio psicologico stimarsi obiettivamente e non già "stimarsi a sufficienza" o "molto". Se io mi stimassi molto dovrei trascurare i miei lati mediocri o di scarso valore. Se mi stimassi "a sufficienza" dovrei trascurare sia certe miei lati davvero belli che le mie inadeguatezze, oppure annullare la specificità della mia persona in una sorta di media aritmetica. I cosiddetti crolli narcisistici avvengono proprio quando la persona che ha un'autostima "forzata" deve improvvisamente ammettere un fallimento, e non si verificano invece mai quando una persona è abituata a esaminare i propri limiti volendosi comunque bene.
Spesso, gli equivoci sull'autostima vengono collegati a quelli sulla cosiddetta "insicurezza". Ma perché mai dovremmo essere "sicuri" di noi stessi? Siamo fragili e limitati. Amarsi è più che legittimo, ma sentirsi "sicuri" è pura presunzione. Sentirsi sicuri di essere amati dagli altri è pura fantasia e sentirsi sicuri di meritare l'amore è pura illusione. Sentirsi sicuri di essere sempre e comunque stimabili è delirio di onnipotenza. Di fatto quando si parla di persone prive di "insicurezze" il più delle volte si parla di individui arroganti e abili a mascherare la loro vera umanità.
Il lavoro analitico, quindi non può essere orientato al "rafforzamento" del'autostima o del senso di sicurezza. Se il cliente arriva ad accettare la realtà finirà non già per sentirsi "sicuro" ma per smettere di volerlo essere. Con la propria precarietà ritroverà la propria umanità e la capacità di amarsi e sperare (senza pretese o garanzie) di essare anche amato dagli altri.

Intimità.
Questo argomento riguarda ovviamente i rapporti sentimentali, famigliari ed amicali in cui si dà per scontato che ci sia dell'amore. Una verità spiacevole da ammettere, ma "più vera del vero" è che una buona intimità è rara. Più i rapporti sono intimi, più sollecitano la rielaborazione di vissuti dolorosi, più facilitano l'attivazione delle difese. In buona misura, i rapporti "intimi" sono caratterizzati da odio, svalutazione, sfruttamento, illusione, distacco e manipolazione. In genere, le manovre sono consensuali e ognuno dei partner "ricambia" a modo suo. Entrambi comunque fingono che tutto vada bene.
Non sto facendo del pessimismo, ma in analisi si ha l'opportunità di approfondire il reale significato di tante cose che apparentemente "capitano" o "non vengono fatte apposta" o "non hanno senso" e di scoprire che hanno un senso ben preciso (difensivo e distruttivo). Ora, in genere i nostri clienti vivono questi rapporti con persone non in analisi, rivivono con esse rapporti già instaurati con dei genitori (che non hanno fatto analisi) e cercano e trovano comprensione in amici che pure non sono in analisi. In altre parole, le persone in analisi non costituiscono "una razza particolare", ma sono persone come tutti, con la fortuna di avere qualche sintomo che li sollecita a guardarsi dentro. Facendo analisi non trovano certamente cose diverse da quelle che le altre persone in qualche misura troverebbero. Non sono tipi originali incapaci di vera intimità; sono incapaci di intimità più o meno come tutti.
Raramente nei rapporti d'amore si accetta di avere desideri ed aspettative molto forti e quindi di dipendere in modo particolarmente intenso dall'altra persona. Molte relazioni sono costituita da manovre volte a "rubare" pseudogratificazioni sentite come indispensabili, oppure volte a "bilanciare" la dipendenza con segnali di autonomia, fastidio, svalutazione. Il risultato è la costruzione di rapporti a due livelli: al livello più profondo si vivono inconsapevolmente illusioni di appagamento infantile e rancori per il mancato appagamento, mentre al livello superficiale si dichiarano desideri adulti (che in genere sono poco sentiti) o si esibiscono manifestazioni di scarsa dipendenza.
Nei legami superficiali si chiede poco e si finge che ciò che si ottiene sia sufficiente; nei legami idealizzati si dichiara che si è completamente appagati e ci si illude di esserlo (finché non ci si confronta col fatto che il/la partner è solo una persona, una persona reale); nei legami sadomasochistici (che sussistono anche senza bizzarri comportamenti sessuali) un partner respingente e svalutante sperimenta l'illusione di stare nel "comodo" ruolo della madre frustrante anziché nel proprio ruolo (caratterizzato da vissuti atroci), mentre l'altro partner subisce umiliazioni pur di sentirsi vittima e quindi fondamentalmente superiore al partner svalutato. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma di fatto la gente sta assieme principalmente per ragioni di questo tipo. Queste non sono le ragioni più profonde, né le uniche, ma sicuramente sono le ragioni che con più efficacia danno un particolare "colore" alle relazioni. Basta notare alcune stonature "minime" nei rapporti di coppia per capire il gioco distruttivo che viene tenuto in piedi sempre ed a tutti i livelli. Io sono un appassionato dei dettagli. Essi chiariscono più cose di un'ora di "confidenze" (ovvero razionalizzazioni, bugie, manipolazioni).

L'amore va considerato un'emozione?
Dopo le riflessioni già fatte, non voglio più aggirare una domanda che merita di essere posta, e che riguarda la legittimità o opportunità di collocare il concetto di amore nella teoria fra quelli che costituiscono la classe delle emozioni (o azioni emotive). In altre parole: l'amore va inteso come una delle tante emozioni? Di getto risponderei "sì e no", ma questa non è una gran risposta.
Penso che l'amore vada considerato un'emozione come le altre, in quanto, come la paura o la gioia delimita un insieme di azioni con le quali una persona affronta la realtà. La presenza fisica o immaginata di una cosa o di una persona o di un'entità astratta ci dà l'occasione per rispondere ad es. con dolore, con rabbia oppure con amore.
Tuttavia, se tutte le emozioni sono "uguali" (al di là delle specifiche diversità), in qualche modo l'amore è "un po' più uguale delle altre". L'amore non esprime semplicemente il modo in cui la persona si sente rispetto all'asse piacere/dispiacere, in una data circostanza. Esprime anche la capacità di entrare in contatto con qualcosa o qualcuno prescindendo dai desideri. Amando si fa un'azione particolarmente sottile e complessa che non siamo certi di poter attribuire ai bambini o agli animali superiori. I bambini ed i cani sentono e mostrano desiderio di contatto, e dipendenza affettiva, ma non sappiamo se e quanto riescano ad amare. L'amore, così come è stato qui presentato richiede un'elaborazione cognitiva del rapporto molto più sofisticata di quella implicata dal desiderio, richiede una concettualizzazione della persona in quanto entità indipendente dalla relazione e richiede una capacità di appagamento "di tipo contemplativo" che (a seconda dell'ontologia preferita) è quantitativamente o qualitativamente più profonda di quella normalmente collegata ai desideri. I genitori, quando non sono in difficoltà psicologiche, trattano i figli come persone, ma i figli li trattano solo come genitori; solo col tempo imparano a trattare i genitori come persone ed imparano anche ad amarli.
Per questi motivi trovo ragionevole considerare l'amore come una emozione "di ordine superiore". Tra l'altro è un'emozione che non è mai implicata nei disturbi psicologici. E' molto facile scovare nelle difese o tra le difese la paura di dipendere affettivamente, la paura di non essere amati, la seduttività manipolativa ecc. Non si "trova" mai l'amore scomponendo i problemi, ma ci si sente letteralmente abbagliati da slanci amorosi quando i clienti abbandonano le difese, le paure e le convinzioni irrazionali. In quei momenti diventano "liberi di amare" poiché proprio la paura dei vissuti ostacola l'amore. Inoltre, amare è piacevole in un modo assolutamente diverso dall'essere amati.
Martin Buber ha scritto: "I sentimenti si "hanno"; l'amore accade" (1923,p.69). Trovo molto bella questa frase che coglie in modo profondo la differenza fra l'amore e le altre emozioni. Ho qualche riserva, tuttavia sulla formulazione, perché non direi né che le emozioni si "hanno", né che "accadono", ma che risultano teoricamente comprensibili in quanto "si fanno". Credo comunque che Buber non avesse in mente un problema epistemologico, e apprezzo la sua idea dell'amore come indipendente dalla logica del desiderio.
Quando la paura dei vissuti dolorosi viene superata, l'amore si sviluppa e si manifesta in modo del tutto spontaneo poiché corrisponde ad una capacità fondamentale di tutte le persone. E' un'emozione che matura nel processo della crescita individuale, e che non va in alcun modo "insegnata", così come non va considerata un obiettivo dell'analisi. E' tuttavia una conseguenza inevitabile di un lavoro analitico ben riuscito. La capacità di amare affiora con il superamento della paura. della persona.

7. Felicità
Concepire la felicità come una "grande gioia", sarebbe uno spreco concettuale. Quindi, a mio avviso, o rinunciamo ad un uso teorico di questo concetto, oppure lo introduciamo in modo da precisarne specifiche condizioni di applicazione. Sono convinto che sia opportuno optare per questa seconda possibilità e definire il concetto di felicità indipendentemente da quello di gioia. Credo che esso sia indispensabile in una teoria di riferimento per l'analisi, così come lo è il concetto di amore. Per una psicoterapia focalizzata sui sintomi entrambi i concetti sarebbero un lusso inutile, ma per qualsiasi psicoterapia di tipo analitico, invece è essenziale la possibilità di distinguere gli stati emotivi "piacevoli" che seguono ad uno specifico appagamento e quelli che sono indipendenti da una gratificazione.Come possiamo amare anche chi non è più con noi, o chi non ci è utile, o anche chi ci ha ferito, così possiamo essere felici anche quando non riceviamo gratificazioni particolari o addirittura quando siamo tristi. Ovviamente occorre chiarire a cosa ci riferiamo quando parliamo di felicità, se parliamo di qualcosa che non ha a che fare con la gioia.
Basandoci sui dati osservativi a disposizione di chi studia e lavora sui disturbi psicologici, dobbiamo tener conto del fatto che certi stati d'animo non sono collegabili con quello che è appena accaduto o con quello che la persona si accinge a realizzare. Sono una sorta di "condizione" di base. Uno di questi può essere descritto in termini soggettivi come una sensazione/convinzione che comunque vadano le cose la nostra esistenza merita di essere vissuta. Più i vissuti personali sono integrati, meno ci si sente in balia delle possibilità di appagamento; in questi casi si cerca il piacere, ma con la serenità di un adulto e non con l'urgenza di un bambino. In altre parole, più i vissuti sono integrati, più si sente di tollerare qualsiasi eventualità; più i vissuti sono integrati più si ha un senso della propria dignità, importanza e completezza che porta a non mettere in discussione il significato di tutta l'esistenza anche nelle situazioni più difficili.
Tale stato d'animo di base può essere opportunamente indicato col termine "felicità". Quando si è presi dalla "fame" (soprattutto dalla ricerca di ciò che è mancato nell'infanzia, rispetto a cui si pretende una compensazione) si può distruggere, tradire, rinnegare, ferire chiunque, compresi noi stessi; infatti ci si sente "incompleti". Con l'integrazione dei nostri vissuti sentiamo invece compassione per noi, amore per la nostra particolare storia, diamo un senso a ciò che abbiamo fatto di giusto e di sbagliato e di ciò che abbiamo ricevuto, di bello e di brutto, consideriamo gli altri a noi vicini come persone e consideriamo la vita come un'avventura da compiere, come un capitale da spendere e non come un bancomat da cui fare prelievi. Per me, il termine "felicità" è un termine appropriato per indicare il "sentirsi a posto". Se ci sentiamo a posto, possiamo attraversare un momento buono o pessimo, sentendo che comunque attraversiamo un momento importante. La felicità può essere quindi intesa come una condizione di relativa indipendenza: anche se comunque dipendiamo dagli altri per l'ottenimento di gratificazioni, possiamo in piena autonomia sentirci comunque felici di esistere.
A questo punto, possiamo considerare la felicità come un'emozione? Preferirei introdurre nella teoria il concetto di felicità come relativo ad una sensazione che si realizza nella misura in cui diamo spazio all'emozione dell'amore. Quando si ama una persona (compresa la nostra persona), o si ama quel che si fa, o quel che si capisce, o la realtà nel suo complesso, si è felici.
A volte si sente dire che la saggezza è la chiave della vera felicità. Sicuramente non è la chiave per una gioia intensa e stabile, che comunque vacillerebbe al primo banalissimo mal di denti. Credo che quando si parla di quella "vera felicità" si parli di questo "sentirsi a posto" o del sentire che comunque "le cose sono a posto", in ogni caso. E' inutile "sforzarsi di essere se stessi" o inseguire "l'autorealizzazione". Meglio cercare in tutt'altra direzione: cercare ed affrontare il dolore. Dalla certezza di poter tollerare il dolore (quello inevitabile) ricaviamo sia la capacità di procurarci la gioia, sia la possibilità di essere fondamentalmente felici. Questo non è il compito dell'analisi: è la ricerca di tutta una vita. Però il lavoro analitico sulle emozioni e sui vissuti è di aiuto. Gli analisti non sono guru. Quando si confondono su ciò fanno dei disastri. Se un cliente desidera fare analisi per "perfezionare la sua evoluzione interiore" va scoraggiato. Forse, parlando della questione, troverà qualche ragione per risolvere il vero problema da cui fugge con l'ossessione del cammino interiore. Io penso che tutti facciano un cammino interiore, e che la ferrea volontà di raggiungere esperienze mentali più raffinate sia paragonabile alla fame di "spontaneità" che contraddistingue le persone più legnose e impacciate. Gli analisti possono aiutare a realizzare alcune condizioni basilari per la felicità. Fatto questo lasciano i clienti liberi di cercare la felicità in una vita normalissima vissuta in tutta la sua intensità o in discipline formali rivolte al raffinamento della loro vita interiore, o in qualsiasi esperienza essi ritengano valida.


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