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Gianfranco Ravaglia

L'INTENZIONE RITROVATA
Intenzioni e vissuti nel lavoro analitico



CAPITOLO 5

Emozioni e vissuti

1. Considerazioni preliminari
In questo capitolo mi propongo di definire almeno a grandi linee i termini "emozione" e "vissuto", dato che il primo compare in teorie diversissime con significati altrettanto diversi, mentre il secondo, che in genere è utilizzato in modo abbastanza vago, viene qui impiegato in un'accezione molto specifica. Vorrei quindi iniziare con qualche precisazione su come non tratterò l'argomento relativo alle emozioni.
Non osserviamo mai delle emozioni, ma solo delle persone che agiscono in modi che conveniamo di etichettare come emotivi; non è quindi il caso di discutere su "cosa siano" le emozioni, poiché esse non vanno intese come "oggetti dati" su cui riflettere, ma come il risultato di un nostro modo di considerare le azioni delle persone. Ai fini del presente lavoro risultano di scarsa importanza anche le varie classificazioni delle emozioni, così come le ricerche volte a distinguere le componenti biologiche e quelle culturali delle espressioni emotive.
Le costruzioni teoriche non servono a "rispecchiare" la realtà, ma ad affrontare un particolare problema relativo ad una certa fetta di realtà. Il nostro problema (ovvero il rapporto fra difese, emozioni e vissuti) richiede un concetto di emozione molto essenziale, che lasci spazio alle necessarie puntualizzazioni relative al rapporto fra emozioni e difese e fra emozioni e vissuti.
Nulla vieta che si propongano teorie in cui la componente cognitiva e quella espressiva dell'emozione vengono tenute distinte. Si può ad esempio affermare che "Da un lato, la valutazione cognitiva gioca un ruolo causale nell'insorgere di molte emozioni; dall'altro, queste ultime hanno un ruolo causale nel formarsi delle cognizioni" (Johnson-Laird e Oatley, 1988,p.119). In tal modo però nella teoria vanno specificate le relazioni causali fra componenti cognitive e non cognitive, collocate presumibilmente a livelli d'analisi diversi e comunque non al livello d'analisi della persona.
Per elaborare teoricamente i dati analitici nel modo più essenziale, senza presupposizioni ontologiche e con un riferimento costante alla persona, tratterò il concetto di emozione come un concetto teorico, collocato al livello d'analisi della persona e tale da riferire ad un'unica azione personale vari elementi osservativi relativi a piani diversi: quello introspettivo (cognizioni e sensazioni), quello fisiologico e quello comportamentale. Ciò appare ragionevole, se si tiene presente che le emozioni sono "esperienze complesse, le cui componenti cognitive di eccitazione, espressive e comportamentali non sono del tutto isolabili, bensì parti di un'intero, che contribuiscono a rendere l'intero ciò che esso è" (Calabi, 1996,p.277).
Una volta collocate le emozioni fra le azioni della persona e una volta accettata l'idea di poter identificare un'emozione in base alla presenza di costruzioni cognitive e/o di sensazioni, e/o di reazioni fisiologiche e/o di comportamenti manifesti, siamo solo all'inizio del cammino. Non abbiamo ancora chiarito quali azioni consideriamo come "emotive". Il problema potrebbe sembrare semplice, ma presenta notevoli difficoltà, se si esaminano i vari tentativi di definire le emozioni. Facilmente si cade in un circolo vizioso, come quello di definire uno "stato emotivo" come condizione dell'organismo in esperienze cariche di "tonalità affettive", per poi definire l'"esperienza affettiva" come "un'esperienza emotiva piacevole o spiacevole, debole o intensa" (Hilgard,1953, Glossario). Il DSM-IV, nel Glossario dei termini tecnici definisce così il termine "affetto": "Modalità di comportamento rilevabile all'osservazione che è espressione di una condizione di sentimento soggettivamente sperimentata (emozione)..." (A.P.A.,1994, p.823). Il termine "sentimento" non è però incluso nel glossario.

2. Emozioni
Credo che potremmo inizialmente caratterizzare le emozioni come "reazioni" della persona, distinguendole così dalle intenzioni (che sono "pro-azioni" o "orient-azioni"). Sottolineo che stiamo parlando ancora in prima approssimazione. La persona non recepisce stimoli in modo passivo, ma elabora qualsiasi informazione sulla base dell'idea del mondo e di sé che si è fino a quel momento costruita. L'idea che le emozioni vengano "compiute" più che "possedute" (Schafer,1976,p.357) oltre che ragionevole può anche risultare liberatoria, e almeno questo sembra essere l'idea di Bannister: "Io non mi considero più una vittima delle mie "emozioni". Esse possono tormentarmi, ma le accetto come parte essenziale di me, implicate in tutto ciò che ho pensato" (1977,p.35). Lo stesso squillo del telefono fa sentire il signor X incuriosito ed il signor Y disturbato. Chiaramente la recezione degli stimoli è più passiva nella misura in cui gli stimoli sono poco importanti ed è più attiva e strutturante nella misura in cui gli stimoli sono importanti. Tuttavia la persona distingue anche l'importanza o non importanza degli stimoli in base all'idea del mondo e di sé che si è fatta.
Possiamo quindi considerare l'emozione come l'insieme delle azioni (o microazioni) che la persona fa (nella propria testa, nel proprio corpo e col proprio corpo) recependo, elaborando, rispondendo ad una situazione (esterna o interna) e registrando anche le proprie reazioni. L'intenzione va invece considerata come ciò che la persona fa di sua iniziativa (nella propria testa, nel proprio corpo e col proprio corpo) nei confronti di un dato segmento di realtà. In altre parole, possiamo considerare come emotiva l'azione con cui una persona "accoglie" una certa situazione e possiamo considerare come intenzionale l'azione con cui una persona "aggredisce" una certa situazione. Emozione e intenzione quindi non sono due "dati" ma due modi di considerare la persona in azione. In fondo siamo noi ad affermare che X reagisce (emotivamente) con entusiasmo ad un'offerta di lavoro o che esprime la sua intenzione di impegnarsi nel lavoro proprio dimostrandosi interessato ad una particolare proposta. Le due espressioni non sono in conflitto perché non descrivono un oggetto (che quindi deve essere un'emozione oppure un'intenzione). La prima coglie un segmento di realtà ristretto in cui uno stimolo viene accolto da una persona in un certo istante; la seconda coglie un segmento di realtà più ampio in cui una persona si definisce e si orienta in una certa direzione per poi rispondere in un certo modo ad un particolare stimolo. Entrambe le formulazioni sono vere, anche se ognuna può essere più o meno utile a seconda di ciò che vogliamo capire.
Questa distinzione fra azioni emotive ed azioni intenzionali può sembrare poco chiara, ma voglio ricordare che se davvero evitiamo di trattare le emozioni e le intenzioni come "entità" o "oggetti", non ha senso voler precisare "dove finisce" un'emozione e "dove inizia" un'intenzione, così come si stabilisce che a metà della tal pagina finisce un paragrafo e ne inizia un'altro. Fra le mille microazioni in cui si sviluppa l'azione di rispondere ad una telefonata, possiamo (per dare un nostro ordine ai fatti) evidenziare una sottoclasse che riconduciamo al concetto di emozione (sorpresa, curiosità, diffidenza, ecc. relativa all'ascolto di qualche squillo) e possiamo evidenziare un'altra sottoclasse che riconduciamo al concetto di intenzione (di sapere, di non voler sapere, di impedire che scatti la segreteria,ecc.). Noi abbiamo dato un ordine ai fatti, ma nella "realtà" qualcuno ha udito un suono, ha costruito qualche fantasia, ha alzato un braccio ed ha afferrato il ricevitore e detto "Sì?". In senso stretto non ha nemmeno "risposto ad una chiamata".
Le emozioni sono spesso considerate uno "stato" della persona; però quello "stato", di fatto è un processo dinamico, è una risposta diffusa e personale ad una certa situazione, è una specifica forma di adattamento. Le emozioni, come le intenzioni non sono "stati" in senso stretto, ma sono un modo di descrivere ciò che la persona fa fra sé e sé (e quel che sente di ciò che fa) e ciò che la persona fa con le persone e con le cose. Altre volte le emozioni sono considerate pure esperienze soggettive, ma tale scelta è pericolosa perché operare una riduzione dell'emotività al piano soggettivo conduce facilmente a discussioni inconcludenti sulle "relazioni" (causali) fra fattori fisici ed emozioni o fra emozioni e comportamenti.
Prima di ricevere l'obiezione che in questo modo tutto è troppo vago, voglio affermare che tutto ciò è davvero vago, perché la persona non fa mai nulla di semplice. Quando vogliamo capire meglio un'emozione dobbiamo specificare meglio ciò che la persona fa, ma non dobbiamo in alcun modo circoscrivere il concetto di emozione, per non sprofondare nelle sabbie mobili delle definizioni circolari o nelle sabbie mobilissime del problema (filosofico) mente-corpo. La quasi-definizione da me proposta (o qualche sua riformulazione più adeguata) ha il pregio di non separare la persona dalle sue emozioni ed inoltre consente di sgombrare il terreno da questioni irrilevanti per il lavoro analitico consentendo una più limpida riflessione sul rapporto fra emozioni, vissuti e difese.
Il rigetto di una lettura causale dell'azione comporta una messa in discussione del concetto di motivazione (e di "pulsione") tanto impiegato in psicoanalisi ed in psicoterapia. Le teorie motivazionali, pur formulate in termini diversissimi, concordano nell'attribuire a qualche tipo di motivazione la capacità di "spingere" un individuo (o organismo o mente) che altrimenti starebbe fermo. Per Kelly, le spiegazioni motivazionali sono da considerare alternative a quelle scientifiche, perché vengono introdotte quando il ricercatore non riesce a dare una spiegazione razionale del comportamento; certe ipotetiche determinanti interne sembrano così spiegare comportamenti non ancora compresi razionalmente e ci rendono "vittime delle dinamiche psichiche" (1977,p.1 e p.16).
Non è molto sensato che io dica che ho appena svuotato il bicchiere di birra che avevo qui sul tavolo per via della pulsione della sete. Di fatto ho prima finito la frase che stavo scrivendo, mentre se fossi stato al cinema probabilmente avrei atteso l'intervallo. Dunque bevo perché tenendo conto di tante cose, fra cui la sensazione della sete, decido di bere, e non perché qualcosa (in me) mi fa bere. Quando dico che qualcosa mi fa bere, sottolineo in base ad una semplicistica e gratuita lettura causale una delle ragioni per cui io ho scelto di agire.
Questo rigetto delle teorie della motivazione non è dogmatico né vuole offendere il senso comune. Spesso si usa il concetto di motivazione per sottolineare la presenza di uno stimolo rilevante per il comportamento. Nulla da obiettare a ciò. Gli stimoli "esistono" (frasi dette, stati fisiologici, ecc.). Tuttavia ogni stimolo viene elaborato dalla persona così come essa si è definita fino a quel momento. Non è regionevole sostenere che X ha picchiato Y perché questi lo aveva offeso o perché egli era ubriaco. I due stimoli (l'offesa ed il tasso alcolico nell'organismo) sono stimoli indiscutibilmente rilevanti (a meno che X picchi sempre e comunque tutti). Però non causano niente. Non tutte le persone offese reagiscono con violenza, ma solo quelle persone che in quella circostanza intendono attuare quella azione, dopo aver elaborato in modo particolare vari stimoli, tra cui la frase offensiva. Se si trascura che le persone agiscono si finisce sempre per ipotizzare che qualcosa le faccia agire, magari una pulsione, un'offesa o un bicchierino di troppo.
Quando si trattano le emozioni come effetti di qualche "causa" interna si trascura inevitabilmente anche la componente cognitiva delle emozioni, la quale costituisce un aspetto fondamentale sia nella elaborazione della situazione data che nella definizione della risposta emozionale. Se non sapessi che gli orsi possono essere pericolosi, saltellerei di gioia vedendo uno di quei bei batuffoloni di pelo in un bosco e gli correrei incontro. Senza una storia di esperienze vissute e di valutazioni di tali esperienze, nulla di quel che "sentiamo" sarebbe comprensibile
La dovuta considerazione degli aspetti cognitivi delle emozioni ci libera anche dalla perversa dicotomia fra ragione ed emozione. Quando si dice che una persona è "emotiva" e che un'altra è "razionale" si dice una stupidaggine poiché tutti siamo emotivi e solo gli stupidi non sono razionali. Se si vuol parlare di persone più o meno orientate a manifestare emozioni, si resta peraltro molto in superficie, dato che non si distingue fra le persone "emotive" che manifestano un'emotività genuina ed altre che manifestano una emotività tanto rumorosa quanto fasulla. Lo stesso dicasi per la definizione di persone "razionali". O con essa si intende semplicemente che una persona è normalmente intelligente, oppure si intende che è una persona molto controllata, gelida, impassibile. In questo caso, però, la "ragione" non c'entra nulla, poiché tali comportamenti sono altamente emozionali anche se in senso difensivo, e sono anche ... irrazionali. Per questo risulta più che condivisibile l'osservazione di Bannister, secondo cui la tradizionale contrapposizione in psicologia di ragione ed emozioni "ha impedito un'elaborazione adeguata del concetto di persona (...) Se avessimo considerato la persona anziché la coppia di omuncoli costituita dalla ragione e dall'emozione, avremmo potuto vedere l'uomo come un agente attivo piuttosto che come il passivo oggetto delle influenze ambientali o di incontrollabili forze interne" (1977,pp.24-25).

3. Vissuti
Molte teorie dello sviluppo psicologico infantile (compreso quello neonatale) si collocano a mio avviso tra gli aspetti più sconcertanti della psicoanalisi e della psicoterapia. Ho sempre avuto molte riserve sulla ragionevolezza di tante speculazioni fatte "su basi cliniche", e mi conforta quindi che anche autorevoli studiosi e psicoanalisti abbiano espresso delle dure obiezioni ad alcune di tali "ricostruzioni". E' d'obbligo a questo proposito un richiamo alle osservazioni di Peterfreund, il quale ha criticato le varie concezioni "adultomorfiche" della maturazione psicologica del bambino basate su concetti discutibili come il narcisismo primario, l'onnipotenza infantile, la "normale" fase autistica e quella simbiotica, la posizione schizoparanoide e quella depressiva, e cosi` via. Rispetto alla questione delle modalità dell'esperienza nella prima infanzia, Peterfreund ha affermato che le risposte che la psicoanalisi ha preteso di dare "non sono affatto delle risposte" (1978,p.431) dato che le caratterizzazioni dell'infanzia sono offerte dalla psicoanalisi nel quadro di riferimento del mondo degli adulti.
Al di là di ciò, va comunque sottolineata la relativa indipendenza della psicoterapia dalla psicologia dell'età evolutiva. Infatti, le conoscenze più solide relative alla vita interiore dei bambini costituiscono un utile quadro di riferimento per l'analista, ma non una base esplicativa per i problemi che egli deve formulare e risolvere, che sono essenzialmente due: "perché un cliente manifesta certi disturbi?" e "cosa può aiutarlo a cambiare?". Molte teorie dello svilupo infantile sono così fuse con le teorie dell'analisi semplicemente perché si presuppone che le cause dei disturbi attuali stiano in qualche aspetto del passato, e che il chiarimento di tali aspetti possa causare la "guarigione". Tutta questa impostazione teorica e clinica esclude qualsiasi possibilità di concepire i disturbi come risultati di processi intenzionali e di concepire il cambiamento come ridecisione consapevole relativa al proprio rapporto con gli altri ed al proprio progetto di vita.
Il concetto di vissuto è un concetto fondamentale per una teoria dell'analisi poiché le difese riguardano situazioni presenti solo nella misura in cui queste rinviano a esperienze passate non integrate. Cercherò ora di riassumere il mio punto di vista sui vissuti.
a) Nell'infanzia le emozioni valutate come intollerabili, sono state evitate con l'attivazione di specifiche modalità difensive, cioè quelle che a parità di efficacia erano meno limitanti o controproducenti; tutto questo riguarda il passato e non determina nulla nel presente.
b) Nel presente si ha però la possibilità di "recuperare" situazioni passate in circostanze simili e si ha la possibilità di sentire il dolore associato ad esse. Si parla di vissuti quando nel presente si realizza un "ricordo sentito" di situazioni antiche non integrate.
c) Difese, sintomi, comportamenti irrazionali e distruttivi non sono causati da eventi del passato ma sono intenzionalmente attivati nel presente per evitare di entrare in contatto con vissuti dolorosi non integrati e quindi temuti. Quale che sia la teorizzazione dello sviluppo infantile adottata, un analista deve prima o poi fare i conti con dei vissuti estremamente penosi che il cliente non ha integrato e che attivamente continua ad evitare. Al di là delle spiegazioni o delle speculazioni sulla vita infantile, di fatto affiorano in analisi dei vissuti dolorosi. Il problema essenziale dell'analista è quello di aiutare i clienti ad elaborare i loro vissuti rinunciando alle operazioni difensive divenute superflue.
d) Le valutazioni (cognitive) di un'emozione (ad es. "non posso tollerare il dolore che provo quando mia madre non mi risponde") risultano "incollate" all'emozione come un'etichetta ad un pacco; se un adulto quindi "recupera" una "vecchia emozione" nel senso che ricostruisce attualmente il vissuto di una vecchia situazione, recupera anche la valutazione cognitiva di allora; come maneggeremmo con cautela un pacco con l'etichetta "fragile", anche se è già stato svuotato e riempito con degli abiti, così, attivando un vissuto, riattiviamo anche una vecchia valutazione cognitiva; l'intellettuale che teme di parlare in pubblico è presumibilmente alle prese con un vissuto di rifiuto più che con la possibilità di attuali manifestazioni di dissenso da parte dei colleghi, e valuta l'insostenibilità del rifiuto col cuore di un bambino, non con quello di un adulto.
e) Le difese intenzionalmente agite nel presente sono fondamentalmente quelle agite nel passato, perché le difese sono anche delle competenze e su questo terreno gli adulti sanno ciò che hanno imparato da piccoli. Chi "sa fare ad arrabbiarsi per scollegarsi da un dolore, in genere non riesce a svenire o a confondersi per raggiungere lo stesso scopo.
f) Le difese, non sono né necessarie, né automatiche, perché non sono causate da nulla. Sono agite nel presente perché nel presente la persona teme un vissuto classificato come intollerabile finché non verifica che dopo dieci, venti o quarant'anni esso è diventato tollerabile anche se penoso.
g) Le difese quindi possono essere abbandonate quando si sono realizzate tre condizioni (delle quali due sono cognitive ed una è esperienziale): 1) quando la persona ha capito che agisce delle difese, ovvero quando non crede più che le "capitino" certe cose o che "non riesca" a fare certe cose; 2) quando si confronta con un vissuto senza difendersi, verificando di sentire tristezza, impotenza, dolore, smarrimento, disperazione, ma verificando anche di non essere in pericolo come temeva; 3) quando, dopo aver ripetuto più volte l'esperienza, "cambia l'etichetta", cioè annulla la valutazione precedente ("intollerabile") e formula la nuova valutazione ("esperienza penosa ma tollerabile") che tiene conto dell'esperienza fatta con le nuove risorse di persona adulta.
h) Il lavoro analitico consente di rendere superflue determinate azioni difensive. Tuttavia, circostanze del tutto nuove possono risultare molto dolorose oppure possono riattivare vissuti ancor più profondi. La persona rischia quindi di agire nuovamente in termini difensivi, a meno che non abbia accettato la dimensione del dolore come una dimensione costitutiva di tutta la sua esistenza. Il passaggio dal piano "clinico" a quello "esistenziale" è quello che garantisce il mantenimento incondizionato di un atteggiamento adulto, razionale ed emotivamente limpido e profondo in qualsiasi circostanza.
Dopo aver suggerito in questi punti una specie di "definizione contestuale" del concetto di vissuto, vorrei approfondire tre temi che sono solo stati sfiorati:
a) il cosiddetto "etichettamento" (o valutazione di una esperienza emotiva);
b) la concezione non "cosale" dei vissuti;
c) l'idea secondo cui le difese non riguardano né il presente né il passato, ma la rivisitazione cognitivamente inadeguata ("datata") del passato nel presente.
a) Etichettamento. L'emozione è un'azione che include fin dall'inizio delle valutazioni cognitive; parlando di "etichettamento", però, mi riferisco ad una valutazione successiva all'esperienza emotiva. Tale etichettamento va inteso come un processo cognitivo che "classifica" un'emozione, che agisce al di sotto della consapevolezza e che risulta "definitivo". Quando consapevolmente valutiamo un'esperienza possiamo anche stabilire, come per i prodotti alimentari, una scadenza; ad es. "sono stanco di studiare" non implica che non aprirò mai più un libro, ma che sospenderò la lettura per mezz'ora o per il resto della giornata. Le operazioni di etichettamento, che nell'infanzia classificano determinate esperienze emotive come ingestibili, invece, sono inconsce e definitive. Se non si "riapre il caso", come in un percorso analitico, la classificazione resta valida finché la persona vive. Gian Vittorio Caprara formula un'ipotesi del tutto compatibile con quella appena sviluppata: "Non solo mi pare plausibile riconoscere alle precoci esperienze emotive una qualche valenza cognitiva in termini di intelligenza sensomotoria, ma mi pare anche plausibile riconoscere alle prime esperienze che si accompagnano alla soddisfazione e alla frustrazione ... una funzione di "appoggio" per il costituirsi delle strutture cognitive che successivamente verranno a modulare le varie manifestazioni emotive" (1988,p.281). Molti clienti hanno il terrore di piangere ed evitano costantemente di riattivare vissuti dolorosi per i quali si scioglierebbero in lacrime. Fanno esperienze coscienti che potrebbero invalidare la loro convinzione di non poter gestire certe situazioni; tuttavia, la loro convinzione è inconsapevole e quindi non soggetta a rettifiche.
Qualsiasi concezione dei vissuti come puro "ricordo emotivamente significativo" è inutilizzabile nel lavoro analitico perché molti ricordi del genere sono stati integrati e possono facilmente venir recuperati. E' la valutazione cognitiva dei vissuti come intollerabili a rendere certi vissuti attualmente delle occasioni per un'azione difensiva: "si deve parlare del vissuto come dell'azione che una persona compie nel rivedere altre azioni da lei stessa compiute in vari modi; fra queste azioni passate in rassegna vi sono le spiegazioni sviluppate in precedenza di ciò che si è fatto e degli eventi che si sono affrontati. Il vissuto è sempre mediato dall'interpretazione personale" (Schafer, 1983,pp.94-95).
Le difese non vengono agite in continuazione. La persona che evita un vissuto di non considerazione assumendo un atteggiamento di arroganza, probabilmente è normalmente molto gentile e solo quando riceve una critica reagisce in modo aggressivo. Ovvero, appena registra un'esperienza attuale come esperienza di non considerazione, fa un una sorta di veloce (e inconscio) controllo sull'argomento in questione e trova un rinvio alla classificazione fatta venti o cinquant'anni prima. Possiamo quindi precisare che un "vissuto" non va inteso come un semplice ricordo, ma come un ricordo emotivamente significativo e caratterizzato da una valutazione cognitiva che classifica come intollerabile l'emozione in questione e che produce un'operazione difensiva.
b) Concezione non "cosale" dei vissuti. R.Schafer respinge l'idea che "le emozioni possano essere accumulate e conservate. Non possono esserci "vecchi sentimenti". Le emozioni, intese come azioni e modalità di azioni possono essere manifestate solo in un contesto attuale (...) qualcuno potrebbe credere di descrivere un semplice stato di cose dicendo "Mi sono ricollegato con un vecchio sentimento", o "Quel vecchio sentimento è riaffiorato" o qualcosa del genere. Al contrario, nel linguaggio dell'azione dovremmo dire: "Sto pensando ad una vecchia situazione agendo più o meno negli stessi modi emotivi che ricordo di aver attivato in passato" (...) è la situazione non l'emozione ad essere vecchia" (1976,pp.313-314).
Questa osservazione è importante perché qualsiasi "affioramento di vissuti" non va inteso come un evento che accade "nella" persona e di cui la persona è vittima. Noi siamo "perseguitati" dai vissuti non integrati semplicemente perché attualmente manteniamo l'intenzione di non affrontarli e quindi li "teniamo presenti" per accertarci che nulla ci metta in difficoltà. Ciò va sottolineato poiché a volte, nella comunicazione con i clienti, non è agevole rispettare i canoni di una formulazione teoricamente corretta. Come a volte si dice "quando ti è venuto il mal di testa?" pur sapendo che il mal di testa non è una cosa che va e viene come le mosche, così può essere utile in una seduta esprimersi in questi termini: "se ti sei arrabbiato, c'era un vissuto che stava affiorando; torna mentalmente in quella situazione e descrivi come ti sei sentito un attimo prima di urlare con il tuo collega". Lo stesso Schafer ammette che a volte lui stesso trasgredisce le regole del suo Action Language per semplificare una formulazione (1983,p.148).
c) Passato e presente. E' errato dire che il conferenziere timido ha un problema "attuale" con l'uditorio ed è errato dire che è timido "a causa" del suo passato. Purtroppo spesso in psicoterapia i teorici del "qui ed ora" colgono bene l'infondatezza dell'idea che un'esperienza trascorsa da decenni abbia un effetto causale sul presente, ma tendono a confondere ciò che nel presente va inteso come emozione e ciò che va inteso come vissuto. I teorici del lavoro sul passato, d'altra parte colgono bene l'infondatezza dell'idea che i problemi dei loro clienti siano semplicemente "attuali", però tendono a "scavare" nel passato trascurando il lavoro di rielaborazione attuale dei vissuti non integrati.
Nel lavoro analitico è molto importante che il cliente possa affrontare i propri vissuti. Non per fare inutili "abreazioni" o sbloccare energie represse, ma per verificare con le risorse attuali se le esperienze non elaborate possono oggi essere accettate ed integrate. Accettare un'esperienza del passato sperimentandola in tutta la sua intensità emotiva conduce sia ad una rivalutazione cognitiva (nuova "etichetta") sia ad una esatta "collocazione" dell'esperienza stessa: il cliente cioè capisce che quell'esperienza terribile di solitudine va collocata tra le esperienze dell'infanzia e non fra quelle attuali o future. Nessuna esperienza adulta di solitudine è insostenibile.
A questo proposito vorrei discutere una considerazione di Kernberg che tocca un punto abbastanza delicato del lavoro sui vissuti fin qui delineato. Egli sottolinea che in certi casi i vissuti possono anche non riguardare reali interazioni del passato "Il mio modo di affrontare l'interazione psicoterapeutica si discosta notevolmente da un modello semplicistico che, sulla base di un rapporto a due, metta in relazione le interazioni attuali del paziente con le interazioni del passato. Nell'organizzazione della personalità al limite l'interazione in atto esprime strutture intrapsichiche patologiche che riflettono tipi primitivi di interazione di natura fantastica, sia nel senso che sono irreali, emotivamente minacciosi e misteriosi, sia nel senso che manifestano una relazione con un oggetto frammentato e distorto, solo indirettamente in rapporto con le reali relazioni patogene del passato (1984,p.161). E' sicuramente ragionevole ritenere che un un bambino piccolo sovrapponga aspetti fantasticati o elaborati in forme rudimentali di pensiero alle sue effettive esperienze. Tuttavia, pur tenendo conto di questo margine di deformazione, nel lavoro con i miei clienti ho sempre potuto verificare che i vissuti affrontati in analisi erano sostanzialmente realistici. I clienti che hanno vissuti di svalutazione osservano atteggiamenti di intransigenza e di disprezzo nei genitori, così come quelli che hanno vissuti di "vuoto", di "non rispecchiamento", di irrilevanza, notano nel genitore in questione atteggiamenti egocentrici, tendenze a dare per scontati bisogni e sentimenti altrui, scarsa empatia. Per questa ragione trovo tutt'altro che semplicistico considerare i vissuti come qualcosa di relativo a fatti reali, anche ammettendo che non possano essere una semplice "fotocopia" della realtà.
I bambini scelgono la fuga dal contatto non perché sono anormali, ma perché sono normalmente troppo fragili per affrontare le sofferenze a cui il rapporto con le figure genitoriali li espone. Ciò vale in certa misura anche nel rapporto con genitori non troppo disturbati psicologicamente, dato l'estremo bisogno di contatto dei bambini e la loro difficoltà a gestire anche frustrazioni relativamente modeste. Tuttavia, i disturbi più gravi rinviano in genere a modalità nettamente inadeguate di comunicazione e di contatto tra genitori e figli.


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