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Gianfranco Ravaglia

L'INTENZIONE RITROVATA
Intenzioni e vissuti nel lavoro analitico



CAPITOLO 4

Intenzionalità delle difese

1. Considerazioni preliminari
Cercherò di mostrare perché trovo sia sensato che opportuno considerare le difese come azioni, ovvero come interventi intenzionali della persona sulla realtà attuati per impedire o limitare o alterare il contatto con qualche forma di sofferenza emotiva.
Tra le azioni difensive includo molti comportamenti ed atteggiamenti che in genere vengono presi in considerazione separatamente: ciò che si fa in senso stretto, ciò che si fa "nella testa" (dialoghi interni, illusioni, costruzione di immagini non realistiche di sé, ecc.), il modo in cui si comunica o si opera (atteggiamenti, tratti caratteriali, strutture caratteriali o della personalità), ciò che si fa interagendo in qualche specifico rapporto (sintomi, provocazioni, "giochi"), oppure che si attua nel tempo (atteggiamenti verso la propria esistenza e "copioni"), ciò che si fa con maggiore o minore consapevolezza (comportamenti ammessi e in qualche modo razionalizzati o disconosciuti), ciò che si fa nel proprio corpo (alterazioni del tono muscolare o di specifiche funzioni).
Questa accezione decisamente ampia del concetto di difesa è giustificata dalla concezione intenzionale delle azioni; in questa prospettiva, cose molto diverse vengono accomunate proprio dall'essere una costruzione personale che ostacola il contatto col dolore.
Il lavoro analitico sulle difese ha quindi l'obiettivo di aiutare il cliente a rinunciare alla sua pretesa infantile di vivere senza soffrire ed a scoprire che ha sia le risorse adulte per tollerare il lato doloroso dell'esistenza, sia la possibilità di vivere per qualcosa anziché per evitare qualcosa.
Le difese non proteggono dal dolore, ma solo dalla consapevolezza di un dolore già sperimentato (impedendone l'elaborazione ed il superamento) o di un dolore comunque inevitabile (riducendo però anche la capacità di sperimentare la gioia e la felicità).
Vorrei ora elencare alcune proposizioni fondamentali per una concezione intenzionale delle difese che in parte svilupperò in questo capitolo ed in parte in quelli successivi.
a)L'esistenza umana è costitutivamente intrisa di dolore come di gioia; gli adulti hanno la capacità di tollerare sia le esperienze gioiose che quelle dolorose ma tale capacità manca ai bambini, i quali percepiscono e classificano come una vera minaccia per la loro sicurezza le esperienze più dolorose di solitudine, rifiuto, sostegno inadeguato e contatto labile.
b) Il sistema delle difese individuali elaborato nell'infanzia, è una risposta adeguata al dolore in quanto riduce il contatto con il dolore; produce tuttavia altre forme più superficiali di sofferenza.
c) Tale sistema viene inoltre costruito "senza scadenza", e quindi si protrae anche nelle epoche successive in cui la persona, diventata adulta, dispone di risorse sufficienti per l'elaborazione del dolore.
d) Le difese servono quindi a non soffrire (o almeno a soffrire in modo più tollerabile nell'infanzia). Le sofferenze che gli adulti vorrebbero "curare" con la psicoterapia, sono appunto conseguenze (divenute troppo ingombranti) del mantenimento delle difese. Tali sofferenze sono cioè il prezzo che il cliente inconsciamente sceglie di pagare per mantenere atteggiamenti e comportamenti difensivi rispetto al lato realmente doloroso della vita. Il cliente vorrebbe mantenere le difese (di cui non è cosciente) senza però soffrire nemmeno per le loro conseguenze.
e) Il paradosso dell'analisi sta nel fatto che il cliente entra in analisi perché si sente sofferente e vorrebbe sbarazzarsi della sofferenza, mentre l'analisi lo conduce al dolore profondo, più temuto di quello creato con le difese.
f) L'analisi, quindi si articola in certi passaggi logicamente connessi: riconoscimento dell'intenzionalità difensiva, confronto con i vissuti dolorosi temuti, riclassificazione dei vissuti (da intollerabili a tollerabili); elaborazione del dolore antico; accettazione del dolore come uno degli aspetti costitutivi dell'esistenza; sperimentazione di nuove e più profonde esperienze umane e ridefinizione del progetto esistenziale (dal progetto di vivere per evitare qualcosa a quello di vivere per qualcosa).
g) Questa concezione va intesa in senso forte, cioè va applicata a tutte le problematiche che il cliente porta in analisi: il paziente fobico ridottosi a vivere in uno spazio limitatissimo, il depresso, il cliente con crisi d'ansia sono da considerare come degli edonisti incalliti e non delle vittime. Ogni cedimento "pietoso" equivale ad una collusione e comporta la rinuncia ad un cambiamento profondo.
h) Questa chiave di lettura per le difese non si applica solo a processi difensivi associati a sintomatologie, ma si applica a tutte le azioni difensive che purtroppo permeano la sfera della "normalità": tante cose che vengono spacciate per scelte ideologiche o etiche, interessi culturali o convinzioni filosofiche, gusti o abitudini, istanze libertarie, senso di responsabilità, passioni o manifestazioni d'amore, effetti dello "stress" o incapacità di scegliere, ecc. sono semplicemente tentativi di evitare il contatto con il dolore.
i) Uno dei prezzi che si paga per portare a buon fine un percorso analitico personale e per diventare coscienti delle proprie difese è quello di scoprire che la realtà sociale, è in buona parte costruita proprio per "dimenticare". Realizzare un buon rapporto con se stessi, diventare capaci di gioire e di stabilire rapporti costruttivi, acquisire la sensazione e la convinzione di vivere una vita significativa sia nei momenti belli che in quelli brutti, costa quindi molto: infatti comporta sia l'elaborazione del dolore antico, mai integrato, sia l'accettazione del dolore inevitabile nella vita attuale e futura, sia la consapevolezza di una solitudine prima mai percepita con chiarezza, rispetto a persone, realtà sociali e culturali marcatamente orientate a occultare la morte ed il dolore e ad alimentare forme illusorie di potere e di piacere. Ritrovare se stessi comporta quindi un più chiaro margine di solitudine attuale nel mondo.
Vorrei ora fare alcune precisazioni su questa concezione delle difese, confrontandola con il concetto freudiano di "meccanismi di difesa" e con quello reichiano di "difesa caratteriale" e di "blocco". Considererò l'aspetto clinico più che quello epistemologico della questione, dando quindi per scontate le osservazioni già fatte nel primo capitolo sull'ambiguità di queste due scuole rispetto alla lettura causale ed a quella intenzionale delle difese.

2. Meccanismi di difesa e difese caratteriali
Nella teoria psicoanalitica i meccanismi di difesa sono considerati sbarramenti contro le pulsioni. Freud considera ogni difesa come una protezione dell'Io rispetto alla minaccia costituita dalle richieste dell'Es. In realtà, non si capisce la necessità di ipotizzare un "Es" in sé pericoloso, una sorta di mina vagante stupidamente salvata dalla selezione naturale. Se si tiene conto del fatto che le cosiddette "pulsioni" sono "pericolose" solo nella misura in cui l'ambiente famigliare non risponde adeguatamente al bambino, diventa più ragionevole concepire come significativo il conflitto fra le azioni del bambino e quelle delle figure genitoriali e considerare le difese come tentativi di ridurre il contatto con frustrazioni percepite come intollerabili. Anche per Anna Freud le difese sono rivolte contro i "pericoli istintuali" (1936,p.63) e "Le ragioni della difesa contro l'affetto si trovano semplicemente nel conflitto tra Io e istinti" (p.70).
Wilhelm Reich diede un grande contributo alla psicoanalisi, alla psichiatria ed alla psicoterapia sottolineando la specificità e l'importanza delle difese caratteriali. Prima di spendere qualche parola sul passaggio dalla lettura psicoanalitica delle difese alla caratterologia reichiana, vorrei però accennare all'uso corrente dei termini "carattere" e "personalità".
Sul rapporto fra questi due termini si devono registrare diverse posizioni discordanti, anche se spesso tali termini sono trattati come intercambiabili. Il DSM-IV, nel glossario, include una definizione del concetto di personalità, ma non riporta la voce "carattere"; la riflessione teorico-clinica sulle difese caratteriali e sulle strutture caratteriali finisce quindi inevitabilmente per rientrare nello studio dei tratti non adattivi della personalità che configurano un "Disturbo di Personalità". Dato che comunque non solo nella scuola reichiana ma anche nella psicoanalisi ed in altri indirizzi della psicoterapia il concetto di carattere ha una sua (più o meno centrale) collocazione, non rinuncerò ad utilizzarlo.
Se accettiamo di considerare la personalità come l'insieme delle "Modalità perduranti di percepire, rapportarsi o pensare a sé stesso e all'ambiente" (A.P.A., 1994,p.830) dobbiamo fare una distinzione fra le componenti che consideriamo semplicemente "date" e quelle che consideriamo significative per i disturbi psicologici. Tra le prime sono da tener presenti il tipo di intelligenza, i particolari talenti e le specifiche inclinazioni o sensibilità. Tra le seconde si possono invece includere le difese caratteriali. Esse, a differenza delle difese più circoscritte, si riferiscono alle modalità diffuse e stabili con cui le persone limitano le loro possibilità di autopercezione, comunicazione e contatto.
Il carattere fu considerato da Freud in pochi scritti senza assumere comunque un ruolo fondamentale nella teoria. In termini abbastanza generici Freud considerò il carattere come formato da pulsioni infantili, da costruzioni ottenute per sublimazione e da costruzioni destinate a frenare moti perversi (1905,p.542). In seguito egli incluse tra le componenti del carattere anche il processo di identificazione (1922,p.491) e la formazione del Super-io (1932,p.200). In alcuni brevi saggi (1908,1916,1917,1931) descrisse alcuni meccanismi caratteriali senza giungere comunque ad una elaborazione sistematica ed approfondita del concetto di carattere. Ricondusse la differenza fondamentale fra carattere e sintomo nevrotico al fatto che solo in quest'ultimo si verificherebbe un "fallimento della rimozione ed un ritorno del rimosso" (1913,p.241).
Karl Abraham (1925) sviluppò in modo più sistematico la caratterologia freudiana e Sandor Ferenczi sottolineò l'importanza del lavoro analitico sulle difese caratteriali (1928) nell'ambito della sua "tecnica attiva". Le più approfondite riflessioni sul carattere e sul lavoro analitico-caratteriale di Otto Fenichel (1941,1945) e di molti altri psicoanalisti presuppongono comunque i contributi radicalmente innovativi portati da Wilhelm Reich allo studio dell'argomento. Infatti, prima di Reich, "la teoria psicoanalitica della patologia psichica si sviluppò in una concezione che sottolineava l'importanza di particolari ricordi repressi patogeni per la loro carica emotiva, del tutto separati dalla personalità. I sintomi nevrotici risultavano in quel periodo specifiche intrusioni nella normale vita psichica" (D.Shapiro, 1996,p.4) .
Reich avviò le sue indagini sulle strutture caratteriali concentrando la sua attenzione su particolari resistenze: "Certe esigenze cliniche ci costringono a distinguere, fra le varie resistenze che incontriamo nel trattamento dei nostri malati, un gruppo particolare che chiamiamo "resistenze caratteriali". Queste non si distinguono per il loro contenuto, ma per il modo specifico di agire e di reagire dell'analizzato" (1945a,p.69). Nella concezione reichiana a volte carattere e corazza muscolare vengono considerati concetti distinti (1945a,p.8), mentre altre volte vengono sovrapposti (1948, vol.II,p.378). Sia nella iniziale ricerca psicoanalitica sul carattere, che nella seconda fase centrata sullo studio delle difese muscolari (ipertonia) Reich sottolineò la "funzione attuale" del carattere, consistente nell'impedire l'orgasmo genitale. In altre parole, sia parlando di libido e di intralcio alla genitalità, che parlando di bioenergia e di blocco della scarica dell'energia, l'interpretazione "economica" (quantitativa) delle difese fu centrale nelle riflessioni di Reich.
Questa impostazione comporta inevitabilmente uno spostamento di attenzione dalla persona che agisce in modo difensivo alla "realtà oggettiva" degli squilibri energetici "nella" persona. Lasciando da parte lo slittamento del livello d'analisi di cui ho già parlato, vorrei fare alcune osservazioni di tipo clinico su questa impostazione che finisce inevitabilmente per sottovalutare gli aspetti più significativi degli atteggiamenti caratteriali.
Sia la diagnosi che la strategia terapeutica focalizzate su tensioni fisiche, atteggiamenti rigidi ed impedimenti all'espansione, trascurano tutto l'ambito delle difese più primitive, in cui scissioni, acting out, manteninemto di immagini illusorie di sé e degli altri limitano il contatto in modalità ben più radicali ed irriducibili a qualsiasi oggettivazione fisiologica. Certe persone sono relativamente morbide e "sciolte" semplicemente perché "sono altrove", altre hanno un'estrema facilità nella comunicazione ed anche nell'espressione della sessualità semplicemente perché non sono realmente coinvolte. Certe persone riescono a disconoscere quello che fanno o ad annullare un'emozione facendo un'azione che drasticamente li catapulta in un altro universo esperienziale. Cosa "bloccano"? Gli occhi? La respirazione? Il bacino? I tentativi di ricondurre tutte le modalità caratteriali difensive a rigidità fisiologiche omogenee è un tentativo fallito in partenza. Immagini grandiose di sé orientano la vita di persone diversissime sul piano corporeo e sul piano del comportamento. Si può fallire apposta in tutto con qualche scusa per evitare un confronto coi propri limiti ed alimentare l'idea che "in altre condizioni" la propria natura "speciale" potrebbe esprimersi. Però si può anche dimostrare una competitività sfacciata ed imporre il proprio successo in continuazione. Come osserva Kernberg, "in alcuni gravi disturbi del carattere, l'esprimersi alternativamente di aspetti complementari di un conflitto, come la messa in atto di un impulso in certi momenti e di specifiche formazioni difensive del carattere contro l'impulso in altri, è un'espressione della scissione" (1976, p.46) ed in tali casi solo un lavoro sulla scissione stessa può consentire un'utile analisi dei due aspetti del conflitto. Kernberg ha inoltre sottolineato che la semplice opposizione di impulso e difesa non riesce a cogliere in profondità il fatto che nella strutturazione di certe difese il bambino non si limita a trattare difensivamente un certo impulso, ma un'intera relazione oggettuale: "In certi momenti, mentre proietta una rappresentazione oggettuale parentale sull'analista, il paziente riattiva una rappresentazione del Sé nell'interazione con quella figura traslativa; in altri, proiettando la rappresentazione del Sé sull'analista, il paziente s'identifica con la corrispondente relazione parentale" (1976,p.80)
Secondo George Downing il modello reichiano "Rispecchia in modo inadeguato le strutture della nostra esistenza e immagina un corpo privo di soggettività. Va completamente perduto proprio ciò che è importante capire nell'unità mente-corpo, l'intenzionalità, quell'essere diretti all'esterno di noi stessi che ci caratterizza, e il senso di essere soggetti delle nostre azioni" (1995, p.358). Downing, oltre a riconsiderare i fondamenti di un lavoro analitico anche corporeo, fa delle interessanti correzioni ed aggiunte relative alla diagnosi corporea e propone molti validi suggerimenti tecnici per il lavoro sugli aspetti fisici degli atteggiamenti difensivi. La sua attenzione alle fasi preverbali dello sviluppo individuale e quindi alle difese più primitive così come sono state spiegate dalla teoria delle relazioni oggettuali e da altre teorie, gli consente di inquadrare il lavoro corporeo in un quadro di riferimento profondo ed articolato.
La concezione reichiana delle difese caratteriali come blocco dell'espansione si sviluppa da una lettura iniziale del carattere come meccanismo di protezione dell'Io in una lettura del carattere come reazione difensiva dell'intero organismo. Inizialmente la persona è il teatro in cui varie entità "interne" operano, e alla fine la persona si dissolve in una globale realtà biofisica o "vitale". Questo modo di trattare l'argomento non lascia spazio all'interpretazione delle difese caratteriali come attività della persona.
Solo in termini personali possiamo capire cose semplicissime, altrimenti inspiegabili, come la differenza fondamentale che esiste fra le modalità di autocontrollo deliberate e giustificate e quelle inconsce (o consce ma razionalizzate) intese a evitare il contatto con emozioni profonde: sia una persona che evita un incontro di natura sessuale perché ritiene che non sia il momento giusto che una persona che fa la stessa scelta per paura di sentirsi dipendente (e razionalizza il fatto svalutando chi potrebbe incontrare) dovrebbero registrare lo stesso "blocco" sul piano "energetico", eppure solo la seconda si sentirà tesa, rabbiosa o depressa, o avrà mal di testa o nausea.
Le più delicate forme di difesa caratteriale vengono costruite non in seguito ad esperienze di rifiuto o di punizione, ma nell'ambito di relazioni con figure genitoriali emotivamente distanti o manipolative. Con il genitore che dà per scontato di conoscere i veri bisogni del figlio, o con il genitore che è fisicamente presente ma privo di autentico contatto, il bambino non deve arginare nulla che possa rientrare nella metafora del "flusso": deve piuttosto ridefinire la propria immagine di sé per non trovarsi in una situazione cognitivamente insostenibile e deve smorzare le sensazioni di dispiacere non comprensibili all'interno di una relazione apparentemente perfetta. Il bambino preferisce non sentire piuttosto che sentire ciò che non può capire e preferisce pensarsi in modi conformi alla definizione del rapporto data dall'adulto. Se anche questa modalità di protezione non funziona, il bambino può trovare vantaggioso sprofondare in una situazione di distacco autistico o di confusione.
La logica dello "sblocco" è inoltre pericolosa proprio in quanto collude con le aspettative del cliente di "star bene". Non riesco a vedere come un terapeuta che opera con l'obiettivo di "riequilibrare" dei flussi o di "liberare" la motilità possa condurre il cliente a confrontarsi con la tragicità dell'esistenza e con la possibilità di affrontarla in modo comunque costruttivo. Gli esseri umani godono pur sapendo di dover morire ed anche di morire un po' ogni giorno: tuttavia godono in un modo tipicamente umano che non è la pura "espansione" ma è l'amore per ciò che si scopre come significativo, l'intimità giocosa ma seria con un partner accettato come particolarissima presenza, la costruzione e la creazione di situazioni considerate buone. L'uomo è fatto di protoplasma come un'ameba, ma sicuramente sperimenta il fatto di esistere in un modo molto diverso. Anche se "blocca" la sua "vitalità", fa qualcosa di più complesso di quello che a volte fanno le amebe. Ogni promessa "terapeutica" di "liberazione" tradisce l'aspetto profondamente umano del progetto analitico: quello di esplorare la realtà interna ed esterna anche negli aspetti più aspri per scoprire il modo personale più costruttivo di spendere la vita.

3. Dolore e angoscia
Sia Freud che Reich hanno posto l'angoscia al centro delle loro riflessioni sulla formazione dei sintomi e del carattere. Reich ha scritto molto sull'antitesi basilare del piacere e dell'angoscia e nelle sue speculazioni sessuoeconomiche ha discusso la cosiddetta "angoscia dell'orgasmo".
Tuttavia questa opposizione, pur evidente non può stare al centro di una teoria esplicativa volta a focalizzare il nucleo intenzionale delle difese. Si ha simpaticotonia o parasimpaticotonia indipendentemente dal fatto che la persona si stia difendendo da vissuti profondi o sia in contatto con sé e con la realtà. Si può essere angosciati in una situazione conflittuale nevrotica oppure perché una reale minaccia incombe. In entrambi i casi c'è una contrazione ma per ragioni molto diverse. Anche sul piano della riflessione esistenziale, ogni sottolineatura dell'angoscia rispetto al dolore ha dato luogo a speculazioni filosofiche ambigue. Ciò che nel contesto difensivo di un disturbo psicologico viene evitato è il dolore, non l'angoscia. Ciò che rende l'esistenza umana una sfida per la nostra saggezza è la compresenza di gioia e dolore, vita e morte, e l'angoscia "esistenziale" costituisce solo un modo raffinato per non accettare davvero la componente dolorosa dell'esistenza.
Il dolore, quello vero, non corrisponde ad uno stato di contrazione, ma di afflizione. Nel dolore, nel pianto, nell'accettazione di una perdita, non c'è riduzione della respirazione, non c'è sudore freddo, non c'è tensione muscolare. Parlerò più avanti del dolore e del processo del lutto. Ora mi basta sottolineare che gioia e dolore costituiscono le due polarità della consapevolezza e del sentire, quelle che delimitano la "pienezza" e la "mancanza" nella nostra vita personale. In entrambi i casi non c'è angoscia né difesa. L'angoscia, salvo nei casi di pericolo reale indica il rifiuto di integrare il dolore. Nei disturbi psicologici "ci si ferma a metà", ci si irrigidisce nella contrazione proprio perché ci si rifiuta di integrare i due lati dell'esistenza. Le persone si proteggono dal dolore e scelgono l'angoscia, cioè la "sospensione" dell'esperienza anziché il confronto lucido e sentito con la realtà. Fanno questa scelta quando, nell'infanzia, sono troppo fragili per determinate esperienze oppure quando, pur essendo diventati adulti, continuano a classificare come intollerabili certe situazioni dolorose e per questo si sentono troppo fragili.
L'angoscia, non costituisce quindi il nucleo del percorso analitico. L'angoscia è il problema su cui si lavora, non l'elemento da scoprire, affrontare, integrare. Questo elemento è il dolore. E l'analisi mira appunto a smascherare le apparenti "difficoltà" in quanto manipolazioni compiute per evitare il contatto con il dolore, e per mentenere l'illusione che l'esistenza possa essere un semplice e continuo stato di appagamento e benessere. Nelle situazioni in cui c'è effettivamente un pericolo ed in cui le persone agiscono in contatto con la realtà, l'angoscia è l'emozione che viene sentita ed espressa, almeno fino a quando il disastro viene sventato o subito. Una volta che il pericolo è scomparso, la persona torna rilassata nella gioia, ed una volta che il pericolo è diventato catastrofe, la persona torna rilassata, nel dolore.

Una cliente, che chiamerò Cecilia, aveva fatto per circa quattro anni un lavoro analitico abbastanza soddisfacente attraverso il quale aveva superato le crisi di bulimia e affrontato il senso di vuoto da cui si era in vari modi sempre difesa. Il lavoro sui suoi vissuti non era ancora completo, ma ormai conduceva una vita soddisfacente, aveva stabilito un buon legame sentimentale con un ragazzo e aveva realizzato gli obiettivi che si era proposta sul lavoro. La morte improvvisa e drammatica di un suo amico fu un'esperienza difficile da gestire e Cecilia mi comunicò di aver avuto sensazioni di panico che da tempo non aveva più.
C. Non riesco ad accettare l'idea che non ci sia più. Era un amico davvero caro e mi era stato molto vicino nei miei momenti più difficili. Non ho voluto vederlo morto. Non avrei resistito a vederlo ... tutto rigido. Di sera ho avuto momenti di panico con palpitazioni. Ho dormito con la luce accesa perché non mi bastava avere il mio ragazzo vicino.
GF. Di cosa esattamente avevi paura?
C. Non so. Della morte, del fatto che la morte possa essere così improvvisa. Del fatto che potrei morire improvvisamente o che qualcun altro potrebbe non esserci più da un momento all'altro. Mi terrorizza il pensiero di non poter più toccare chi toccavo, o l'idea di persone morbide che sono diventate rigide. Di giorno sto meglio che di notte. Appena ricevuta la notizia ho pianto, poi non sono stata più capace di piangere e ho cominciato ad aver paura.
Cecilia fa delle considerazioni e delle fantasie sulla morte in termini emotivamente intensi e questo è comprensibile per una persona in lutto. Devo tuttavia isolare il punto meno ovvio del suo discorso per poter identificare un elemento capace di rendere conto del panico. Infatti, non accettando l'idea che la perdita possa "causare" una paura irragionevole, voglio capire di quale vissuto personale doloroso (associato alla morte dell'amico) Cecilia abbia realmente paura. Noto la ripetuta sottolineatura della rigidità cadaverica. Sembra che quello sia l'elemento chiave di fronte a cui Cecilia ha interrotto il pianto e l'elaborazione di un lutto attuale per costruire una barriera di confusione e di paura tale da impedire il contatto con un vissuto di perdita.
GF. Non credo che tu non sia stata più capace di piangere. Con le paure hai interrotto il pianto. Vorrei che mi aiutassi a capire di cosa realmente hai avuto paura dopo aver iniziato a sentire e ad esprimere il dolore.
In passato Cecilia mi aveva descritto il comportamento respingente della madre come "rigido", e ovviamente prendo in considerazione l'idea che l'evidenza della morte, dell'andar via di qualcuno oggi abbia favorito in Cecilia il riaffiorare del suo vissuto di desiderio non appagato. Tale vissuto era già stato affrontato in analisi, ma una tragedia come la morte di un amico può sollecitare strati molto profondi di una situazione emotiva. Tuttavia non credo di avere elementi sufficienti per questa interpretazione e penso che proponendola a Cecilia non farei altro che favorire una inutile chiacchierata. Voglio invece che la mia cliente mi fornisca o una conferma della mia congettura o una pista alternativa.
GF. Non ho capito la ragione di questo brusco slittamento dal dolore ragionevole alla paura irrazionale, ma ho notato che fra i tanti aspetti che si possono sottolineare a proposito della morte tu hai ripetutamente parlato della rigidità.
C. Sì; non so perché ma questo aspetto mi colpisce molto.
GF. Va bene. Vuoi fare un piccolo lavoro, magari inutile, che però potrebbe anche chiarirci meglio la cosa?
C. D'accordo.
La invito a passeggiare con me per la stanza tenendomi sottobraccio. Ogni tanto mi blocco improvvisamente irrigidendomi. Cecilia, stando a stretto contatto fisico con me percepisce più con il corpo che con la vista il mio repentino cambiamento.
GF. Cosa senti?
C. Una gran rabbia. Capisco che è solo un esercizio ma non sopporto che tu faccia così.
GF. Perché tanta rabbia per qualche piccola sosta?
C. Non so, ma quando fai così mi sento "persa".
A questo punto ho la conferma della mia ipotesi. Il vissuto è quello (già noto) di smarrimento e la rigidità "terribile" non riguarda l'amico. Voglio che Cecilia collochi la sua emozione vera nel contesto giusto.
GF. Quanti anni senti di avere?
C. Pochi. [Scoppia a piangere, con lacrime e singhiozzi].
GF. [Dopo un po']. La morte del tuo amico è una cosa molto dolorosa. Come donna ne sei davvero afflitta, ma non spaventata. La tua paura non riguarda eventuali nuove perdite che non sono certo diventate più probabili dopo quell'evento. La tua paura riguarda la possibilità di sentire più intensamente una vecchia sofferenza. Una disperazione che da bambina non potevi tollerare. Oggi non puoi annullare una sofferenza che comunque fa parte della tua vita e costituisce la persona che sei. Puoi sentirla quanto basta per non temerla più e per non confonderti più se riaffiora.
Questo piccolo lavoro è importante per le nostre considerazioni sulla teoria del percorso analitico. Finché si fa ruotare l'analisi attorno all'angoscia, alla paura e al panico non si può intervenire per produrre un vero cambiamento proprio perché si considerano tali emozioni come effetti di qualcosa e non come azioni difensive (modificabili). Inevitabilmente ci si dedica a "rafforzare" ipotetiche "strutture" della persona e si rinuncia a capire ciò che la persona fa e come può cambiare (pagando il prezzo di un confronto col dolore). In altre parole la paura (come le sue varianti) non è né meno importante né meno brutta del dolore (o delle sue varianti), ma non è ciò che si cerca in analisi: essa va attraversata per cercare il dolore. La paura non può essere "elaborata" ma solo dissolta. La paura reale di un pericolo attuale cessa con il cessare del pericolo, mentre la paura di un vissuto emotivo cessa nella misura in cui si prende confidenza con tale vissuto.

4. Alcune precisazioni
a) Contatto. Credo che sia il caso di chiarire l'uso di un concetto che finora ho evitato di definire. Quando affermo che le difese riducono o interrompono il contatto con il dolore, non uso il termine "contatto" come sinonimo di percezione o sensazione, e nemmeno come sinonimo di "accettazione".
Noi possiamo accettare una situazione dolorosa, cioè capire che è "data" e comprenderne i vari aspetti e le varie implicazioni, senza tuttavia percepire tutta la sua intensità. Ad esempio, quando parliamo di sventure o catastrofi non siamo emotivamente molto coinvolti. Quando parliamo della morte pensiamo sempre a qualcosa di astratto che riguarda tutti, ma non davvero noi. Eppure non neghiamo nemmeno i dettagli della questione. In questo caso si accetta, ma si sente poco. In altre situazioni si reagisce ad una perdita o ad un rifiuto con rabbia, indignazione, incredulità. Si è toccati, scossi; si sente quindi qualcosa, ma si evita l'emozione dolorosa.
Uso il termine "contatto" per indicare proprio la capacità di capire e accettare una situazione sentendo anche l'emozione ad essa relativa.
Si prova un dolore quando si sente un desiderio e quando si capisce che esso non può essere soddisfatto. Se si ridimensiona il desiderio (come nel caso del "distacco") o si ignora la frustrazione (come nel caso delle illusioni rassicuranti) il dolore cessa. Nei due casi, la realtà (interna o esterna) non ci "tocca" davvero e possiamo dire che non siamo in con-"tatto".
Il contatto non è l'essere passivi di fronte a degli stimoli o il reagire ad essi in modo automatico. Il contatto è un'azione, o una sorta di "meta-azione". Si mantiene il contatto quando si riconosce una realtà e si salva la consapevolezza dell'emozione con cui immediatamente rispondiamo ad essa.
Una delle mie frasi preferite (e quando la recito mi sento un po' il saggio vecchietto del far-west) è la seguente: "l'essenza di tutte le difese è l'ottimismo". Ci si difende dal dolore perché non ci si arrende ad esso, e si finge che ci possa essere o che ci debba essere un lieto fine.
Se si rinuncia all'ottimismo, alla manipolazione, all'illusione, ci arrendiamo alla realtà come è. La prima cosa che sentiamo è quella che abbiamo cercato di ignorare: il dolore. Poi scopriamo che la realtà non è solo dolore e che possiamo anche essere felici di vivere nonostante il dolore. Anzi, così facendo ci apriamo a possibilità più sottili e più intense di piacere una volta che abbiamo accettato il dolore: la porta chiusa lasciava fuori il dolore ma anche l'autentica gioia e la porta aperta consente il passaggio ad entrambe. L'analisi, favorendo il contatto non aumenta in senso aritmetico il piacere, ma rende più intensa la qualità del piacere di esistere. La resa al dolore non equivale ad un atteggiamento rinunciatario. Anzi, solo la resa al dolore inevitabile ci rende realmente combattivi nelle situazioni in cui un dolore può essere evitato o un'esperienza gioiosa può essere realizzata.

b) Difese primitive. L'analisi consente di arrivare a riconoscere le difese come costruzioni intenzionali elaborate in situazioni critiche del passato ed attivamente mantenute nel presente. Può sembrare bizzarro considerare un lattante come soggetto intenzionale di un processo difensivo, ed ovviamente non voglio sostenere una tesi così rozza. Tuttavia le difese primitive costruite nel primo anno di vita raggiungono un risultato preciso, come quelle dei bambini più grandi.
Daniel Stern inquadra il nostro problema esponendo un importante risultato delle sue ricerche: "La maggior parte delle posizioni psicologiche sostengono che non esiste nessun sé, se l'individuo non possiede l'autoconsapevolezza o non è autoriflessivo (...) Io concordo con Schafer nel dire che il "senso di sé" è un concetto vago, e penso che facciamo bene a lasciarlo intenzionalmente vago in questo senso. Io intendo una prospettiva organizzante soggettiva che tenta di ordinare l'esperienza vissuta a qualsiasi livello tale esperienza venga registrata e organizzata. I neonati cominciano a ordinare soggettivamente le loro esperienze con le persone e con gli oggetti sin dal momento della nascita, in maniera attiva, a qualsiasi livello siano capaci, per giungere sino al livello più raffinato di organizzazione raggiungibile in quel periodo" (1997, p.79). Considerando lo sviluppo del cosiddetto "sé" come un processo graduale che si avvia fin dalla nascita, possiamo anche pensare ai processi intenzionali come tali da maturare gradualmente
Con ciò non abbiamo però ancora messo in evidenza l'aspetto davvero significativo della "continuità" fra la costruzione delle difese più primitive e la loro riattivazione negli anni successivi: i comportamenti difensivi degli adulti, non sono mai davvero automatici, e inconsapevolmente vengono attivati ogni volta. In ogni percorso analitico una delle tappe più importanti è quella in cui una persona "scopre" che nelle situazioni in cui riscontra una consueta reazione difensiva, non è semplicemente spettatrice ma parte attiva. Frasi del tipo "mi sono resa conto che prima di scollegarmi ho un attimo di paura, poi faccio qualcosa dentro di me e mi ritrovo lontana" sono la condizione di possibilità di un vero cambiamento. La persona percepirà sempre meglio e sempre prima quel "fare qualcosa", arriverà a sperimentare i vissuti che "affiorano" se non fa quel "qualcosa", li riclassificherà come tollerabili anche se dolorosi, li collocherà nel passato anziché nel presente e ... si sentirà libera di non scollegarsi. Allora, se le difese primitive come la scissione non sono "automatiche" ma vengono agite intenzionalmente, risulta legittimo pensare che come l'adulto sceglie ogni volta, in qualche modo anche il neonato ed il bambino scelgano ogni volta. Se c'è sicuramente un progressivo slittamento da scelte che sono "quasi-scelte" a scelte vere e proprie (anche se inconsce), possiamo, con le dovute cautele parlare di una continuità di fondo nella costruzione dell'intenzionalità difensiva dall'epoca della culla all'epoca adulta.

c) Lesioni o intenzioni? E' giunto il momento di toccare una questione particolarmente delicata, ovvero quella della possibilità di applicare una chiave di lettura intenzionale alle manifestazioni patologiche più gravi. Mi limiterò a suggerire qualche riflessione sulla base della mia esperienza che comprende analisi anche soddisfacenti di patologie di confine ma non comprende esperienze di lavoro nell'ambito delle psicosi. Senza dare per scontato ciò che scontato non è, vorrei suggerire una riflessione sull'applicabilità in generale della lettura intenzionale dei disturbi psicologici. Tale chiave interpretativa è ovviamente incompatibile con le "teorie del deficit" secondo cui la manifestazione di certi disturbi psicologici risulterebbe da un incompleto sviluppo psichico. Vorrei quindi considerare attentamente le ragioni che sembrano deporre a sfavore di una lettura intenzionale dei disturbi psicologici non lievi.
Una prima considerazione riguarda il fatto che dei farmaci riescono a ridurre delle sintomatologie gravi, e che in questo processo terapeutico qualsiasi analisi delle difese viene semplicemente "saltato". Arieti chiarisce molto bene i termini della questione: "E' vero che molti pazienti depressi e, per inciso, molti che provano la tristezza normale, possono trovare sollievo con l'assunzione di certi farmaci. Questa possibilità non smentisce l'origine psicologica del sentimento. Essa prova soltanto che qualunque fattore intermedio fisiologico o biochimico esistente tra gli aspetti psicologici e l'esperienza soggettiva può essere modificato. Un interesse esclusivo per lo stadio intermedio biochimico rappresenta un orientamento riduzionistico" (Arieti-Bemporad, 1978,p.154).
Se i sintomi non sono l'effetto dei vissuti ma le azioni con cui il soggetto si anestetizza, si dissocia, o si oppone al contatto con certi vissuti, i farmaci, modificando le condizioni fisiologiche della percezione dei vissuti e della reattività ad essi possono incidere sui comportamenti manifesti riducendo la propensione alle azioni difensive. In realtà il problema così non viene affrontato e superato, ma ridimensionato. Le terapie farmacologiche sono in molti casi necessarie proprio perché spesso, in presenza di sintomatologie gravi, nessun tipo di lavoro analitico può essere portato avanti. In certi casi sono necessarie anche delle misure di sicurezza se si ritiene che il cliente possa danneggiare se stesso o altre persone. Tuttavia si può ipotizzare la legittimità di un lavoro analitico nel senso descritto in queste pagine anche con clienti in condizioni gravi. Persino Milton H.Erickson, così pragmatico (oltre che geniale) nei suoi interventi ed estraneo a qualsiasi interesse analitico in senso stretto, non ha evitato di sottolineare che le sintomatologie psicotiche siano comprensibili come attive modalità di azione del soggetto: "il catatonico vuole ottenere qualcosa con la sua catalessi. O sta controllando l'ambiente esterno o si sta ritraendo dall'ambiente esterno; comunque sta facendo qualcosa di dotato di uno scopo in rappporto alle cose a lui esterne" (E.L.Rossi-M.O.Ryan, a cura di, 1985, p.181).
Nelle patologie di confine, per le quali spesso si parla di "mancanza" di integrazione delle funzioni psichiche o di scarsa "coesione del Sé", sicuramente i vissuti sono più penosi e le difese sono più radicali di quanto siano nelle nevrosi più lievi, ma parlare di strutture del Sé "difettose" (Kohut 1977,p.20) o "danneggiate" (Kohut, 1977,p.27) equivale a reificare un processo intenzionale difensivo di cui la persona è artefice. Spesso l'uso di tali termini si associa ad un atteggiamento "riparativo" dell'analista, presente quando questi si sente più portato a "dare" che a chiarire il modo in cui il cliente usa le sue capacità. Tuttavia, lo stesso Kohut ritiene che l'analisi non debba fornire un'esperienza riparativa in senso stretto; infatti, anche se il paziente esprime con l'analista un intenso bisogno di "oggetti-sé" dell'infanzia, l'unica cosa da fare è comprendere empaticamente questi bisogni e spiegarli, perché ciò può aiutare i pazienti a riprendersi dalle deprivazioni subite nel passato (Kohut, 1996,p.21). Comunque, non è ben chiaro come il semplice lavoro psicoanalitico dell'interpretazione possa aggiustare "qualcosa" che si è rotto o che non si è sviluppato.
Nell'ambito della psicoanalisi si tende a far corrispondere un tipo di paziente ad un tipo di intervento, ove la scelta riguarda sostanzialmente la psicoanalisi classica, la psicoterapia "espressiva" e quella "supportiva" (o "di sostegno"). Vari aspetti della psicoterapia di sostegno non sembrano appropriati per certi clienti semplicemente perché non sembrano appropriati per nessuno; mi riferisco soprattutto al "rafforzamento" delle difese. Altri interventi che invece vengono ritenuti utili solo nell'ambito della psicoterapia di sostegno ma non nella psicoterapia "espressiva", come il dare consigli o sottolineare l'opportunità di utlizzare risorse che il cliente sottovaluta, a mio avviso possono essere in certe situazioni doverosi con qualsiasi cliente; se ben gestiti non disturbano il lavoro. Anche orientamenti non psicoanalitici propongono cambiamenti nell'approccio in relazione ai disturbi manifestati dai clienti o al tipo di personalità. Credo tuttavia che, una volta salvate le varianti opportune (integrazione farmacologica o supporti ospedalieri) in situazioni gravi, non siano da ipotizzare modificazioni sostanziali del lavoro analitico in relazione ai diversi disturbi. Ciò che va attentamente scelto di volta in volta (ma anche con persone che presentano disturbi relativamente lievi), è invece il modo più rispettoso ed efficace di affrontare le difese.
Se le "teorie della lesione" fossero valide il cambiamento nel corso di un'analisi sarebbe graduale perché dovuto ad una graduale assimilazione della presenza "nutriente e ristrutturante" dell'analista. Invece questo è il decorso dei cambiamenti superficiali. Quelli profondi, se vengono realizzati, si verificano puntualmente in seguito ad una ristrutturazione cognitiva del problema e al confronto con vissuti dolorosi di non considerazione, di rifiuto, di vuoto.
Va detto che con clienti che presentano disturbi classificabili come patologie di confine, l'analista ha effettivamente una forte sensazione traducibile con l'espressione "ho di fronte a me una persona molto fragile". La labilità della partecipazione al rapporto, la disponibilità a distruggere esperienze, acquisizioni e relazioni di punto in bianco con un acting out, la risoluta dichiarazione di non poter controllare certe reazioni o di "subire" pensieri o emozioni, il mutamento improvviso ad apparentemente incontrollato nel contatto, rendono queste persone davvero percepibili come fragili e "incapaci" di affrontare la realtà con sentimenti adeguati e con responsabilità. Tuttavia la sensazione che producono va riconosciuta come una sensazione e non come un indicatore attendibile di una realtà oggettiva. Essa è esattamente la sensazione che tali persone vogliono indurre negli altri e un analista non dovrebbe cadere in questa manovra. Solo il rifiuto dell'analista di arrendersi alle apparenze rende possibile prima o poi al cliente la consapevolezza di essere attivo nella produzione di certi sintomi o atteggiamenti. Ciò conferma l'idea che per trovare qualcosa occorre almeno cercare. Ovviamente questa prospettiva interpretativa non va considerata come una facile guida per la soluzione di qualsiasi problema. Gli atteggiamenti narcisistici, le tendenze distruttive facilitate da difese primitive, la consuetudine al distacco emotivo restano difficili da affrontare anche se ci si libera dagli schemi riduttivi di una logica causale. L'esito dell'analisi infatti non dipende solo dalla teoria dell'analisi ma dalle varie caratteristiche personali dell'analista e del cliente.
Gli approcci psicoterapeutici che presuppongono dei "difetti" o delle "lesioni" nello sviluppo del "Sé" si basano su assunzioni deboli e discutibili.
Una di queste assunzioni, che apparentemente sembra ovvia, può essere formulata in questo modo: poiché la crescita psicologica necessita di fattori relazionali specifici, in assenza di certe condizioni favorevoli non si realizza compiutamente. Questo assunto sembra evidente se assimilato a quello secondo cui in carenza di acqua le piante non crescono bene. Tuttavia, per il comportamento umano abbiamo il diritto ed il dovere di introdurre variabili significative fra i fattori esterni e gli esiti dello sviluppo. Non abbiamo bisogno di accurate ricerche per sapere che i bambini poco o mal accuditi crescono "male". La lettura "difettuale" dei problemi psicologici di un certo tipo non deriva logicamente da quel truismo, ma da altre premesse meno ovvie anche se apparentemente ragionevoli: tra queste l'idea che il processo di crescita dei neonati e dei bambini sia un processo impersonale, che semplicemente accade, in cui il soggetto non "fa nulla". La domanda d'obbligo da porre, se non si dà per scontato ciò che si voleva dimostrare, è invece la seguente: il bambino in situazioni di carenza, fa qualcosa? Se sì, cosa? Anche se non possiamo intervistare i neonati, possiamo però verificare che a trenta o cinquant'anni certi adulti fanno "le stesse cose". E le fanno anche se dicono (o credono) di non far niente e anche se molti credono alle loro incapacità. Di fatto, in seguito ad un lavoro analitico ben mirato cominciano a fare altre cose e ammettono di aver fatto sempre qualcosa. Questi elementi (che ho già evidenziato riportando alcuni resoconti clinici) costituiscono il fondamento razionale di una lettura alternativa a quella del deficit.
Un'altra assunzione apparentemente evidente si ricapitola nell'idea che la psicoterapia possa e debba fornire esperienze tali da compensare i danni di una crescita incompleta. Le ricerche che hanno documentato un analogo livello di efficacia in psicoterapie molto diverse ha fatto ipotizzare che proprio i fattori di rapporto ("aspecifici") siano quelli realmente determinanti per il cambiamento, ma la conclusione non è più giustificata di quella secondo cui poiché ci si ubriaca con una bottiglia di whisky come con una di grappa, la sbornia dipende dall'uso di una bottiglia. Resta infatti da spiegare la specifica rilevanza dei fattori che evidentemente le teorie più diffuse non considerano fondamentali.
Un'altra assunzione discutibile delle teorie del deficit è riassumibile nell'idea che un autentico rispetto dei clienti più "deboli" comporti una sorta di "accettazione dei loro limiti" e quindi la disponibilità a rispondere alle loro effettive richieste, che sono modeste e che riguardano una riduzione della loro sofferenza o un rinforzo delle loro difese vacillanti. L'accettazione, a mio avviso, dovrebbe tradursi in una forma di rispetto per la persona e per le sue potenzialità, piuttosto che in una accondiscendenza o in una resa alle difese o alle illusioni. Il rispetto per un cliente grave, a mio avviso, si esprime rendendosi disponibili a tentare un difficile recupero di potenzialità inespresse, senza l'alibi delle "malattie inguaribili. Riflettendo sui casi in cui l'esito del mio lavoro analitico è stato scarso o nullo, ho sempre trovato dei limiti, delle imprudenze o delle eccessive cautele nei miei interventi, ma non ho mai trovato la ragionevole certezza di una impossibilità di cambiare, da parte dei clienti.
Nemmeno il timore di traumatizzare le persone più "fragili" giustifica la rinuncia ad un lavoro analitico sui vissuti. Il lavoro analitico è pericoloso solo se svolto in modo errato: se l'analisi delle intenzioni difensive è colpevolizzante, se non c'è un'autentica disponibilità umana da parte dell'analista, se l'analista ha paura dei vissuti che il cliente inizia ad esplorare. I clienti sentono perfettamente se l'analista lavora "per loro" o "per sé", se crede in quel che dice e se sente quel che esprime. Per fare un lavoro analitico sui vissuti non è indispensabile né una particolare intelligenza né una conoscenza enciclopedica della psicoterapia. E' indispensabile non aver paura del dolore. Non è sufficiente un'analisi personale se questa non ha portato ad una profonda confidenza con il dolore, quello risalente all'infanzia e quello comunque presente nella vita adulta. Condurre un lavoro analitico sui vissuti senza aver deciso una resa totale ed incondizionata al dolore (a quello inevitabile, ovviamente) può mettere in difficoltà i clienti. Il cliente ha bisogno di sentire che l'analista non ha paura della sua sofferenza. Infatti il suo primo tuffo nel dolore dopo il primo abbandono di una difesa significativa avviene in parte sulla base di una fiducia nell'analista. Per ottenere questa fiducia un analista deve conoscere il proprio dolore quanto basta per non temerlo più e per convivere con esso accettandolo come elemento costitutivo del suo percorso esistenziale. Al contrario, deve evitare questo tipo di lavoro analitico se non convive col proprio dolore, non sa piangere, è giudicante o è irritabile quando scopre di non essere "efficiente". Se l'analista non può gestire un lavoro emotivamente molto intenso, ha il diritto ed il dovere di fare altri interventi comunque utili. Ritengo discutibile solo l'idea che tali interventi siano gli unici praticabili nei casi meno semplici.
Se l'analista può gestire sentimenti di disperazione e di dolore (sia quelli dei clienti, sia i propri), il lavoro analitico non è pericoloso perché quando i clienti non si sentono pronti, semplicemente oppongono resistenze efficaci al lavoro analitico. Quando invece, nel quadro di una reale alleanza terapeutica, cominciano a guardare i loro incubi, soffrono, piangono, ma si sentono più interi. I "crolli" non avvengono mai in seguito ad un recupero di vissuti dolorosi, perché non sono "effetti" del dolore ma sono a loro volta manovre difensive estreme. Nelle sedute non ho mai registrato crisi psicotiche in seguito al confronto con vissuti dolorosi, nemmeno da parte di clienti che in passato avevano avuto temporanei episodi psicotici. Ho invece riscontrato in molti casi l'adozione di una strategia difensiva che chiamo "pianto cieco" quando l'elaborazione a casa del lavoro analitico apre livelli imprevisti di sofferenza che il cliente non si sente di gestire da solo. In questi casi ricevo telefonate del tipo "sto piangendo da quattro ore, non capisco più perché e non so come smettere". La mia tipica risposta è: "stai facendo un pianto cieco che non serve né a te né a nessuno. Datti un pizzicotto, raccontati una barzelletta o calcola la radice quadrata di 729. Oppure smettila e basta. Vuoi fare una seduta domani o ne riparliamo la prossima volta?" In questi casi smettono subito di piangere. Nell'incontro successivo si chiarisce bene che le "crisi di pianto" costituiscono un trucco per interrompere il contatto profondo con il vero dolore. Proprio per questo sembrano ingestibili ma possono essere interrotte "a comando". Al contrario, quando una persona sta elaborando davvero un lutto, non solo non va in confusione, ma non permette che qualcuno suggerisca di interrompere quella esperienza.
Purtroppo il lavoro analitico non dà sempre i risultati desiderati; ridurre le aspirazioni, però, impedisce di esplorare le potenzialità delle persone. Dieci anni fa, un po' per simpatia ed un po' per incoscienza, presi in analisi una donna che viveva in uno spazio mentale e sociale ridotto al minimo. Andava in ufficio ma non frequentava nessuno e non affrontava nessuna interazione sociale. Un'amica le andava a fare la spesa quando lei non se la sentiva. Aveva fratelli, zii e cugini psicotici e proveniva da una famiglia disastrata, ma non aveva disturbi psicotici. Mi colpì che lei "non potesse" interagire socialmente quasi con nessuno, ma che lavorasse fin da quando era giovanissima. Pensai che se fosse stata di famiglia ricca "non avrebbe nemmeno potuto lavorare". Certamente cercai di stabilire un rapporto umano, di incontrarla come persona e non come "caso clinico", ma non mi proposi di farle fare con me una esperienza che bilanciasse ciò che non aveva avuto da due genitori totalmente inadeguati. Cercai di lavorare con lei, sulle cose che faceva, che diceva di non poter fare e che non voleva fare. Sarei stato più tranquillo se mi fossi detto che lei non sarebbe potuta cambiare, ma ogni volta invece mi chiedevo cosa non stavo capendo io. Mi chiedevo soprattutto come farle toccare le emozioni che evidentemente temeva di sperimentare. Non stavo tranquillo quando mi diceva che forse non aveva senso vivere e le rispondevo che forse non trovava quel senso solo perché lei pretendeva che gli altri la rendessero felice. Questa cliente, dopo dieci anni è ancora in analisi con me, anche se da cinque fa sedute quindicinali. Non è mai stata confermata nelle sue illusioni (di essere più fragile degli altri, di essere vittima di un mondo nero, ecc.), ma ha cambiato casa, lavoro e città, guida l'automobile, vive con un uomo tutt'altro che materno, non si aspetta sostegno aalle amiche e nemmeno da me. In analisi sta cercando di superare alcune sue limitazioni nell'espressione della sessualità. Credo che non l'avrei rispettata se avessi deciso (per lei) che doveva aspirare a meno perché non aveva avuto uno sviluppo normale.


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