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Gianfranco Ravaglia

L'INTENZIONE RITROVATA
Intenzioni e vissuti nel lavoro analitico



CAPITOLO 3

Livelli d'analisi

1. Considerazioni preliminari
Le difficoltà relative alla specificazione del livello d'analisi adatto alle elaborazioni teoriche in psicoterapia riguardano sia la legittimazione (o il rifiuto) del punto di vista soggettivo, sia il riconoscimento degli ambiti osservativi pertinenti.
Rilevanza di due punti di vista.
Nella raccolta dei dati osservativi di fatto adottiamo due punti di vista alternativi: quello soggettivo e quello oggettivo; infatti non si può comprendere adeguatamente una situazione individuale senza considerare sia ciò che la persona ha fatto e che risulta pubblicamente accertabile, sia ciò che la persona ha soggettivamente percepito, compreso e inteso fare. Tuttavia il ricorso alla dimensione soggettiva dell'esperienza ha sollevato molte discussioni.
Rilevanza di più ambiti osservativi.
Ci riferiamo ad un concetto psicologico (ad es. quello di emozione) osservando il comportamento (fisico o verbale) di una persona, ma anche osservando fatti più fisiologici che comportamentali (pallore, dilatazione pupillare, sudorazione, tipo di respirazione e così via); la persona può anche descrivere come si sente; inoltre possiamo considerare sia ciò che la persona fa "per conto suo" (è ordinata o disordinata, attiva o "accasciata" o "tesa"), ma anche ciò che fa con gli altri (è prepotente o seduttiva o sottomessa); quindi sia l'ambito osservativo comportamentale, che quello fisiologico, che quello introspettivo risultano pertinenti per chiarire una situazione emotiva;
L'accettazione del punto di vista soggettivo solleva delle questioni epistemologiche relative alla validità dei dati non pubblicamente controllabili, mentre la presenza di più ambiti osservativi comporta dei problemi relativi alla costruzione dei concetti teorici. Avendo già esaminato nel capitolo precedente la questione relativa all'utilizzazione dei dati soggettivi, in questo capitolo discuterò la possibilità di integrare le osservazioni ricavate da ambiti osservativi diversi in una teoria unitaria collocata al livello d'analisi della persona.

2. Livelli d'analisi
La conoscenza scientifica si sviluppa a partire dalla formulazione di un problema, delimitando un ambito in cui cercare possibili soluzioni e individuando il livello d'analisi più adatto per comprendere le variabili rilevanti. Secondo M.Sherif, "L'unità di analisi in psicologia sociale, come in tutta la psicologia, è quindi l'individuo, solo o partecipante a relazioni interpersonali" (1967,p.71). Credo che, a maggior ragione, per le considerazioni teoriche sulla psicoterapia, la persona costituisca l'unità di analisi più ragionevole.
Il fatto di teorizzare a livello della persona non comporta di per sé un minor rigore. D.Deutsch sottolinea espressamente che esistono spiegazioni ad ogni livello gerarchico: "molte implicano deduzioni nella direzione opposta a quella ipotizzata dal riduzionismo, cioè spiegano i fatti non analizzandone le componenti ... ma considerandole invece come parti di cose più grandi e più complesse riguardo alle quali si hanno nondimeno teorie esplicative" (Deutsch, 1977,p.22).
Tra le teorie costituite a livello d'analisi intrapsichico, non si può non considerare la metapsicologia freudiana. Rapaport, sistematizzatore metodico della psicoanalisi, comprese perfettamente sia l'importanza di una chiara esplicitazione del livello d'analisi della teoria, sia l'impossibilità di una elaborazione dei dati clinici in termini esclusivamente intrapsichici e formulò con chiarezza la tesi secondo cui la teoria freudiana si articola su più livelli d'analisi opportunamente integrati: "la teoria psicoanalitica, attraverso la sua concezione di "sovradeterminazione" o determinazione molteplice è rimasta aperta a ogni importante "livello di analisi" e non si è limitata ad uno solo, come molte altre teorie, ma i concetti riguardanti l'"intrapsichico" in generale e le pulsioni in particolare rimangono al centro della teoria" (1960,p.27). Ovviamente questa imponente architettura teorica limita la semplicità della teoria ed aggiunge ai limiti della teorizzazione al livello d'analisi intrapsichico quelli della difficile integrazione dei vari livelli d'analisi. Inoltre, di fatto, ogni psicoanalista non pensa ai suoi clienti in seduta nei termini in cui teorizza sul loro percorso analitico. In studio finisce inevitabilmente per ragionare sulla base di ciò che la persona che ha di fronte fa, intende fare ed evita di fare. Consapevole di questa situazione, Schafer ha preferito abbandonare la metapsicologia psicoanalitica per proporre una teoria basata sul concetto di "azione" della persona. La demolizione dei concetti di autocontrollo, Sé' e motivazione operata da Schafer è ragionevole e decisamente valida per le conseguenze che comporta negli interventi analitici. Infatti, secondo Schafer tutte le espressioni che, introducendo forze o spinte interne, negano il ruolo attivo della persona in un'azione costituiscano dei "disconoscimenti dell'azione" personale: "E` la persona quella che agisce in maniera conflittuale, non i processi mentali" (1978,p.123). Anche Brenner (1994) sostiene che la concezione freudiana delle tre strutture mentali distinte (Es, Io e Super.io), è clinicamente "insostenibile" . Essa dovrebbe essere rimpiazzata da una nuova teoria riguardante non già l'Io e le altre strutture intrapsichiche, ma "l'individuo, la persona o la mente della persona" (p.6 dell'Electronic Text on line).
Ogni prospettiva più "rigorosa" perché limitata ad un livello d'analisi più povero produce dei risultati modesti. Anche la terapia comportamentale, per affrontare disturbi del comportamento più complessi di quelli inizialmente trattati, ha dovuto integrarsi con il cognitivismo. Resta il fatto che il comportamento umano non è comprensibile ad un livello d'analisi esclusivamente comportamentale, semplicemente perché a differenza del volo degli uccelli migratori, non ha un significato preciso se non in relazione al complessivo atteggiamento della persona che agisce.
Le intenzioni ed i vari stati o processi "mentali" non sono da concepire come "cose" che la persona "ha", ma come concetti che ci aiutano a capire le persone. Sono cioè concetti relativi a ciò che le persone fanno.
Anche il livello d'analisi neurofisiologico non è adeguato per i concetti e gli enunciati fondamentali in psicoterapia. I primi passi della teoria psicoanalitica furono ispirati al riduzionismo neurologico (Freud,1895) ed anche in seguito Freud, pur rassegnato a teorizzare in un linguaggio psicologico continuò a sostenere che "tutte le nozioni psicologiche che noi andiamo via via formulando dovranno un giorno essere basate su un sostrato organico" (1914a,p.448). Si può tuttavia sostenere, in contrasto con questo ottimismo riduzionistico, che nessuna acquisizione della neurofisiologia, per quanto preziosa, può dar luogo a spiegazioni esaurienti dell'azione personale, semplicemente perché la persona comunica, si orienta in una direzione, istituisce e interrompe legami e quindi agisce in modi che solo inadeguatamente o erroneamente possono essere spiegati in termini fisiologici.

3.La persona come livello d'analisi
Tentare di valutare tutti i possibili (ipotetici) rapporti causali fra 1)l'interruzione di un comportamento (ad es. una comunicazione verbale), 2)un processo fisiologico (ad es. l'inizio di un pianto), 3)il blocco di un processo fisiologico (ad es. l'interruzione del pianto mediante un'alterazione della respirazione), 4)la comunicazione di uno stato soggettivo (ad es."non ne posso più!"), una situazione interpersonale (ad es. una seduta di psicoterapia), sarebbe probabilmente complicato anche per un computer. Parlare ha causato il pianto o il pianto ha causato l'interruzione del discorso? L'idea di "non farcela più" era presente fin dall'inizio ed ha causato il pianto? o è stata causata dal pianto (o dall'interruzione del pianto)? oppure ha causato l'interruzione del pianto? Mi fermo qui, ma volendo si potrebbero riempire decine di pagine. In alternativa a questo modo di ragionare si può ammettere che in psicoterapia si considerano vari piani d'osservazione e si teorizza al livello d'analisi della persona. Questa non è una "proposta originale", ma un'ammissione di quello che comunque in genere si fa in psicoterapia anche quando si pretende di teorizzare ad altri livelli d'analisi.
Passando dalle considerazioni generali alle indicazioni metodologiche più precise, in che modo possiamo definire ed utilizzare i concetti chiave per il lavoro analitico, una volta stabilito di collocarci al livello d'analisi della persona piuttosto che a livello intrapsichico o comportamentale o fisiologico?
Dobbiamo distinguere A) i concetti teorici che non riguardano dati direttamente osservabili e che sono definibili almeno parzialmente nel contesto della teoria B) i concetti primitivi che invece non vengono definiti, ma possono in qualche modo essere precisati mediante esemplificazioni (Popper, 1934,pp.97-98; Hempel, 1952).
Sono propenso a considerare primitivo il concetto di persona ed a trattare come concetti teorici quelli di emozione, intenzione, scelta e vari altri. Non è tuttavia questo il tema sul quale vorrei soffermarmi, dato che trovo decisamente prematuro qualsiasi tentativo di presentare una teoria dell'analisi nella forma di un sistema formalizzato. In psicoterapia si è ancora ai primi passi e sarei più che soddisfatto se le mie considerazioni suggerissero semplicemente qualche elemento utile per ulteriori elaborazioni. Ciò che voglio discutere (sia argomentando, sia riportando esempi clinici, sia riproponendo le riflessioni pertinenti di epistemologi ed analisti) è la possibilità di definire a livello d'analisi della persona i vari concetti teorici fondamentali per la psicoterapia. Gli enunciati relativi a specifici piani osservativi (osservazioni soggettive, descrizione di dati fisiologici e comportamentali), in tale prospettiva, possono essere così utilizzati per spiegare le azioni delle persone anziché per identificare microeventi riferibili di volta in volta alla "mente", all'organismo o al comportamento.
Il filosofo Peter Strawson ha proposto delle riflessioni molto importanti sulla questione; la sua "teoria del doppio aspetto" è proposta come sistema di "metafisica descrittiva" e in questa formulazione filosofica non può essere accettabile per le riflessioni teoriche in psicoterapia; tuttavia fornisce delle ragioni valide per scegliere la persona come livello d'analisi. Egli definisce il concetto di persona come relativo ad "un tipo di entità tale che sia i predicati che attribuiscono stati di consapevolezza che quelli che attribuiscono caratteristiche corporee ... sono egualmente applicabili ad un'entità individuale di quel tipo" (1959,p.104). Da questo assunto filosofico (che però potremmo tradurre in chiave epistemologica come indicazione per un dato livello d'analisi), Strawson ricava alcune considerazioni del tutto condivisibili e tali da poter essere incluse in una teoria clinica: "Noi parliamo dell'agire in modo depresso (o di comportamento depresso) ed anche del sentirsi depressi (o di sentimento della depressione). Si è inclini a concludere che quel sentimento può essere sperimentato ma non osservato e che quel comportamento può essere osservato ma non sperimentato (...). Ma forse è meglio dire: la depressione di X è qualcosa ed è la stessa cosa che è sperimentata ma non osservata da X e osservata ma non sperimentata dagli altri" (1959,p.108-109). In altre parole non riferiamo una certa condizione emotiva né ad uno stato "mentale", né al comportamento, ma alla persona che è sia quella che dichiara le sue sensazioni, sia quella che osserviamo quando si comporta in certi modi.
Finché limitiamo la nostra indagine a domande del tipo "cosa ha causato (ora) quelle lacrime?" possiamo anche accettare una teoria costruita a livello d'analisi comportamentale. Tuttavia, per domande (più significative) del tipo "sono lacrime di dolore, o sono una comunicazione vittimistica fatta per colpevolizzare qualcuno?" occorre una teoria sia più complessa che posta ad un altro livello d'analisi. Quelle lacrime sono di una persona che sta interagendo in un particolare modo con un'altra persona. Esse risultano comprensibili solo quando siamo in grado di capire se la persona che piange ha l'intenzione di esprimere (e forse condividere) un dolore oppure vuole esibire una certa immagine per ottenere certi risultati. In altre parole, ciò che quella persona sente e che noi osserviamo va inteso come un processo intenzionale. L'intenzione non può riguarda né una mente né i dotti lacrimali, ma solo una persona.
Il concetto di persona, così importante da fissare il livello d'analisi della teoria, meriterebbe una buona definizione. Anche concependolo come concetto primitivo -secondo il parere di autori molto diversi come Strawson (1959,p.105) e Schafer (1976,p.217)- dovremmo circoscrivere almeno in linea di massima le condizioni della sua applicabilità a livello clinico. Nell'ottavo capitolo riprenderemo la discussione di questo concetto per chiarire un'altra sua importante utilizzazione. Ora però ci occorre una definizione precisa e rilevante sul piano epistemologico, dal momento che cerchiamo il modo di utilizzare il concetto di persona per definire il livello d'analisi della nostra riflessione teorica.
Un'indicazione interessante è quella suggerita da Mauro Fornaro: "Riassumendo, proporrei di definire: Persona = l'essere umano nella sua totalità/unità psicologica (per quanto mai conchiusa, anzi problematicamente aperta dacché c'è inconscio) nonché nella totalità/unità di mente-corpo, e ad un tempo nella sua essenziale relazionalità. Si può discutere se adottarlo come termine tecnico in psicoanalisi (sostituendo peraltro certi usi forzati di "Sé"); ma se lo si usa come termine non tecnico, si tenga conto del ventaglio semantico che comporta nella nostra tradizione. Individuo = persona in quanto considerata per astrazione come entità unitaria ovvero avulsa dal contesto relazionale" (1998,pp.56-57).
Ciò consente anche di evitare o ridimensionare l'uso del concetto di Sé, che ormai si è insediato nelle teorizzazioni (o speculazioni) cliniche in modo a mio avviso preoccupante. Schafer non evita di sottolineare tale questione, che non è puramente terminologica: "Anche se è lecito usare come sinonimi Sé e persona, negli enunciati sistematici è consigliabile l'uso di un solo termine. Questo termine dovrebbe essere il più diretto e inequivoco, quello che nella sua normale accezione più si avvicina all'idea di azione. Questo termine è persona. Né Sé, né identità, né Io, ma persona. Il Sé e l'identità sono azioni rappresentative della persona; l'Io, spogliato delle sue bardature meccanicistiche è la classe delle azioni o delle modalità delle azioni o degli aspetti di queste, che la persona compie"(1978,pp.63-64).
Ovviamente, la scelta della persona come livello d'analisi può essere considerata discutibile da chi ritiene che la persona sia proprio ciò che andrebbe spiegato. Ora, prevenendo questa obiezione voglio sottolineare che le elaborazioni teoriche in psicoterapia (e a maggior ragione quelle epistemologiche relative alla definizione del livello d'analisi) hanno senso in quanto contribuiscono a chiarire ciò che accade in analisi e ciò che si può fare per favorire il cambiamento. Certe questioni a cui, da Freud in poi, gli analisti non hanno rinunciato a dare "risposte cliniche" non sono questioni cliniche. Alcune non sono nemmeno questioni empiricamente trattabili, ma filosofiche. Tra queste, la meno opportuna è stata proprio quella relativa al "cos'è" una persona. Il più delle volte i teorici della psicoterapia hanno fornito risposte a queste domande o si sono limitati a collocare le risposte di qualche filosofo le premesse delle loro teorie scientifiche. Ciò che hanno ottenuto è stato più che altro un appesantimento delle loro teorie. Abbiamo ragione di credere che uno psicoterapeuta marxista lavorerebbe in modo diverso con un cliente ossessivo se un giorno si convertisse al cristianesimo o diventasse positivista? Io non credo. Per questo non credo che gli analisti debbano decidere cos'è una persona né che debbano "arricchire" le loro riflessioni con speculazioni metafisiche prese a prestito dai filosofi. Nei trattati di equitazione mancano fortunatamente le "spiegazioni" relative all'essenza della cavallinità, ma in psicoterapia questa parsimonia sembra una virtù rara. Di fatto, però, poiché gli analisti, come gli istruttori di equitazione, sanno distinguere una persona da un cavallo, potrebbero quindi dedicarsi solo alla soluzione di problemi modesti (non filosofici) ma importanti per le persone che chiedono il loro aiuto, contribuendo al chiarmento delle ragioni per cui le persone agiscono e per cui tanto spesso agiscono in modo irrazionale e distruttivo.

4.Persona, corpo ed "energia"
Una sollecitazione notevole alla teorizzazione del percorso analitico al livello d'analisi della persona è venuta dalle osservazioni sul linguaggio del corpo e dall'introduzione di tecniche corporee nel lavoro analitico. Se vari autori, fin dagli inizi della psicoanalisi hanno avuto delle intuizioni in proposito, è stato Wilhelm Reich ad aprire questo nuovo ambito di ricerca che inevitabilmente portava ad un superamento del livello d'analisi intrapsichico. Tuttavia approdando ad un rozzo riduzionismo biologico e biofisico (1949, 1950) Reich non è riuscito a sviluppare in modo conseguenziale e rigoroso alcune sue interessanti intuizioni.
Lasciando da parte qualsiasi considerazione riassuntiva o critica in merito alle ipotesi biofisiche di Reich, voglio solo sottolineare la fragilità della cornice epistemologica entro la quale Reich espose le sue scoperte psicologiche e le sue congetture biologiche e fisiche. Negli anni 20 egli adottò il materialismo dialettico come quadro di riferimento per la sua rielaborazione della dottrina psicoanalitica (1929) col risultato di integrare le speculazioni metapsicologiche con quelle engelsiane. Al di là dei meriti di Reich per il suo impegno volto a organizzare per i giovani proletari dei consultori in cui essi potevano ricevere informazioni, consigli ed anche prestazioni psicoterapiche, va ricordato che il materialismo dialettico è più una concezione della realtà, una ontologia, che una epistemologia (Frank,1941). Negli Stati Uniti Reich ripubblicò in lingua inglese i principali scritti degli anni '30 (1945b,1946) sostanzialmente non riveduti, salvo che per la sostituzione di tutte le espressioni "dialettico" e "materialismo dialettico" con le espressioni "funzionale" e "funzionalismo". Ciò suggerisce quindi che, quale che sia la base empirica dell'orgonomia, essa ha premesse epistemologiche abbastanza fragili. Orientando in questo modo le sue ricerche Reich perse l'occasione di realizzare una valida integrazione dei dati psicoanalitici con quelli ricavati dal lavoro sulle tensioni corporee in una teoria collocata ad un livello d'analisi della persona.
Anziché muoversi in questa direzione egli cercò di "risolvere" il problema (filosofico) del rapporto mente-corpo. Il suo schema della freccia che si sdoppia in due rami che si contrappongono divenne la rappresentazione di un'idea capace di spiegare ogni cosa (dalla nevrosi all'origine della vita ai sistemi galattici). Il concetto di "identità funzionale psicosomatica" (1942a,pp.88 e 279-280), per quanto suggestivo resta un concetto confuso che di volta in volta riassume o un orientamento riduzionistico o un orientamento "dialettico". L'idea che aspetti somatici e psicologici fossero due aspetti di una stessa funzione espressiva, anziché tradursi in un tentativo di spiegare i processi psicologici a livello d'analisi della persona diede luogo a considerazioni un po' poetiche ed un po' biologistiche sull'espressione emozionale come "funzione del vivente".
Un altro aspetto della concezione "funzionale" di Reich a cui vale la pena accennare è la concezione "cosale" dell'energia. Quando si dice che una pila o una centrale elettrica "contengono" dell'energia ci si esprime in termini approssimativi, adeguati alla comunicazione quotidiana. Tuttavia, in fisica il concetto di energia è costruito come concetto teorico e non utilizzato per descrivere dati osservabili (Carnap, (1956,p.279) e tanto meno interpretato in un'accezione sostanzialistica (Popper-Eccles, 1977,p.18). Reich invece, ha trattato il concetto di energia in un'accezione "cosale" o sostanzialistica; le sue considerazioni sul blocco e sulla scarica dell'energia degli anni '20 e dei primi anni '30 si sono poi tradotte nella convinzione secondo cui "La libido di cui Freud parlava ipoteticamente e che suggerì che avrebbe potuto essere chimica in natura, è un'energia concreta, qualcosa di molto concreto e fisico. E' nell'aria e può essere concentrata in un accumulatore di energia orgonica (...) E' una cosa concreta. La libido, invece, era solo un termine per definire un concetto" (1952, pp.131-132).
A questo punto voglio fare alcune precisazioni per chiarire le ragioni di fondo per cui rifiuto l'utilizzazione del concetto di energia in psicoterapia, indipendentemente da qualsiasi valutazione di contenuto della teoria orgonica di Reich. La sua debolezza sul piano epistemologico la rende o rifiutabile o accettabile come teoria empirica solo in una versione radicalmente rinnovata, ma va notato che anche studiosi come Capra sono scettici su questa possibilità (1982,pp.284-286).
Non è da escludere che essa possa risultare accettabile, se adeguatamente rielaborata, come contributo ad una complessa tradizione di conoscenze che dall'antichità ad oggi si è sviluppata indipendentemente dalla scienza occidentale. L'idea di energie, più o meno "sottili" che costituiscono i vari "strati" di una sostanza onnipresente, quella che forma la "realtà" (fisica, emotiva, mentale, spirituale), per quanto estranea alla scienza occidentale è accettata in vari settori della medicina alternativa (omeopatia, pranoterapia ecc.), in vari ambiti della parapsicologia, nelle tradizioni mediche non occidentali (agopuntura, Shiatsu, Reiki, ecc.) e negli orientamenti spiritualistici non riconducibili alle religioni tradizionali (teosofia, antroposofia, ecc.). Tra tutte queste concezioni si riscontrano delle diversità, ma anche significative convergenze. Lasciando da parte quelle palesemente inconsistenti, dobbiamo sottolineare che in queste concezioni, alcune delle quali ormai accettatete almeno per le loro applicazioni terapeutiche (come ad esempio l'agopuntura), l'energia è sostanza, è un aspetto della realtà. In agopuntura si ritiene di lavorare sugli organi indirettamente, ripristinando cioè il flusso energetico che li riguarda e che è considerato reale quanto il flusso sanguigno, anche se non visibile.
In ogni caso, anche ammettendo che Reich abbia colto con l'orgonomia in qualche misura degli aspetti di tale energia, ed anche accettando l'idea di tale energia "basilare" (come concetto distinto da quello definito nelle scienze empiriche), dovremmo comunque respingere le interpretazioni "energetiche" del percorso analitico, perché ciò porterebbe ad ignorare l'intenzionalità dei disturbi e la loro effettiva ragion d'essere.
Considerare l'intenzionalità difensiva come squilibrio energetico è riduzionistico quanto ritenerla un disturbo neurologico o "famigliare". Le persone agiscono nel modo in cui intendono agire, e non da vittime o marionette. La consapevolezza dell'emotività espressa o negata o distorta, la consapevolezza degli obiettivi realistici o illusori perseguiti e la consapevolezza delle risorse adulte può aiutare le persone ad agire in modo più equilibrato e costruttivo. Tale cambiamento non è facile ma è possibile, se non è inteso come l'esito di qualche intervento sugli equilibri energetici. Il percorso analitico è un percorso personale, il rapporto analitico è un rapporto fra due persone, i vissuti su cui si lavora sono elementi di una storia personale. Descrivere le vicende personali in termini energetici è semplicemente sbagliato indipendentemente da ciò che si può pensare delle teorie ortodosse o alternative dell'energia.
Vorrei ora riportare una seduta per mostrare come di fatto le teorizzazioni sviluppate a livelli d'analisi "parziali" risultino del tutto inadeguate per una effettiva spiegazione di ciò che i clienti fanno e per una ragionevole giustificazione di ciò che l'analista può fare per aiutarli.

La cliente era una persona molto attiva nel costruire rapporti significativi in cui risultava indispensabile agli altri; gestiva con cura il suo ruolo "di potere" manifestando in certi casi una disponibilità materna verso gli altri, e negandosi in altri casi, come ad esempio sul piano sessuale con il compagno. In una delle prime sedute riconobbe di sentire ostilità nei miei confronti perché la nostra relazione non era paritaria e lei non accettava di stare nel ruolo di chi chiede aiuto. Esplorando la situazione dichiarò di sentire molta tensione alla bocca e una certa ostilità collegata a tale tensione. Le suggerii di mordere un tovagliolino ripiegato che io tenevo da un lato. Sentì un forte impulso a mordere e a tirare e fra noi si sviluppò una specie di braccio di ferro sul "possesso" dell'oggetto in questione. Per chi non fa analisi ricorrendo al lavoro corporeo questo può sembrare un esercizio stupido. Ovviamente lo è, quanto può esserlo fare associazioni su un sogno. Se portato avanti con attenzione può dar luogo sia a scoperte interessanti sull'atteggiamento della persona che sollecitare reazioni emotive molto intense. Nel corso del lavoro notai che questa cliente tanto restia a coinvolgersi si stava impegnando fisicamente con molta forza. Le chiesi di interrompere e le chiesi cosa sentisse e come si sentisse con me facendo quell'esercizio.
Rispose di essersi lasciata andare ad una forte emozione. Sentiva che per nessuna ragione al mondo avrebbe ceduto a me il tovagliolino. Tirando coi denti dalla sua parte pensava la frase "io non cederò mai". Le feci notare che stava falsificando la realtà. Quel tovagliolino era mio. Io lo avevo comprato, glielo avevo dato e trattenendolo mi rifiutavo di lasciarglielo. In realtà lei stava lottando per avere qualcosa, non per "tenersi qualcosa".
Questa ovvia puntualizzazione la colpì. Mi sembrò che in pochi secondi ricapitolasse il lavoro fatto secondo la nuova chiave di lettura e lasciò scendere qualche lacrima. Si sentì fragile, piccola, impotente. Questo esercizio "stupido" le permise di comprendere anche in termini emotivi che la sua ostinazione a collocarsi sempre nel ruolo di un genitore che dà o rifiuta qualcosa serviva a negare un vissuto di richieste insistenti respinte e svalutate. Per questo, abitualmente strutturava i rapporti interpersonali per dimenticare la sua dolorosa dipendenza e non per costruire delle esperienze positive.
Si potrebbe rendere conto di questo lavoro e del problema della cliente in termini di blocchi caratteriali, ingorgo energetico, stasi genitale. La bioenergetica e la vegetoterapia suggeriscono tale orientamento. In questa chiave si potrebbero dire molte cose sulla fase orale della cliente e sulla corazza costruita in seguito ad uno svezzamento traumatico. Si giustificherebbe anche l'esercizio del tovagliolino. Tuttavia tale esercizio non ha dato luogo ad una semplice accentuazione del tono muscolare, ad un crollo temporaneo dell'armatura ed al riaffiorare di un'emozione profonda e liberatoria. La cliente avrebbe continuato fino a sera il suo braccio di ferro ridendo contenta della propria capacità di "non cedere" proprio perché interpretava il suo sforzo muscolare in una logica difensiva. L'intima comprensione (scorretta) di ciò che faceva contava più dello "sblocco" che era ragionevole attendersi ragionando a livello d'analisi "energetico" (o fisiologico). Il sentimento profondo è affiorato non in seguito al lavoro sui muscoli della bocca e del collo, ma in seguito alla semplice osservazione che il tovagliolo era il mio e che quindi lei lottava per "averlo", non per "non darmelo".
Questo esempio non vuol suggerire che teorizzazioni relative all' immagine di sé, ai rapporti oggettuali e agli stati dell'Io siano più opportune di teorizzazioni relative ai segmenti della "corazza caratteriale" o ai comportamenti manifesti. Si cammina male sia se si dispone solo della gamba destra che se si dispone solo della sinistra. La cliente di cui ho appena parlato aveva sia delle tensioni che limitavano la mobilità della sua bocca, sia una tendenza ad assumere il ruolo genitoriale proprio esibendo un sorriso di superiorità. Il modo più ragionevole per capire questi vari aspetti, è a mio avviso proprio quello di considerare la persona come orientata ad agire e di considerare quindi il suo agire globale come un insieme di processi interni, comportamentali e fisici volto a limitare la percezione di vissuti dolorosi.


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