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Gianfranco Ravaglia

L'INTENZIONE RITROVATA
Intenzioni e vissuti nel lavoro analitico



CAPITOLO 2

Soggettività, intenzioni e scelte

1. Considerazioni preliminari
I concetti di soggettività, intenzione e scelta, non hanno un'applicazione precisa e condivisa nelle teorie psicologiche perché rinviano inevitabilmente al tradizionale "problema mente-corpo" che è un problema filosofico, ovvero un problema destinato a restare aperto.
Le sollecitazioni della filosofia della scienza nella prima metà del secolo, che dovevano favorire la nascita della psicologia come disciplina scientifica, hanno spesso avuto il risultato di rendere più sofisticate le componenti speculative della psicologia (e della psicoterapia). Per alcuni la psicologia poteva diventare scientifica nella misura in cui diventava materialistica e gli avversari di queste teorie "scientifiche" suggerivano inevitabilmente obiezioni di tipo filosofico.
Contro il materialismo non si sono schierati solo studiosi legati a filosofie spiritualistiche. Molti autori hanno respinto il materialismo in quanto concezione non meno metafisica di quelle a cui si opponeva, proprio per la natura speculativa dei suoi assunti di base. Questo è stato appunto il programma della scienza unificata, sostenuto nel secondo quarto di secolo dal neopositivismo.
Su un altro versante, scienziati e filosofi, influenzati dalla cultura orientale hanno messo in discussione la tipica impostazione del problema mente-corpo della filosofia occidentale (Capra,1975,1982; Tart,1975), mentre sviluppi più recenti della parapsicologia e studi sulle tradizioni mediche orientali (e occidentali "non ortodosse") hanno prodotto congetture e ricerche relative a "piani di realtà" piu` "sottili" di quello fisico (Moss,1974; Green,1968; Tart,1968,1974).
Non è probabilmente possibile formulare spiegazioni psicologiche filosoficamente "neutrali". Forse però è possibile entro certi limiti fare delle considerazioni psicologiche, psicoterapeutiche ed analitiche in termini compatibili con più filosofie. Questo è l'orientamento che ho scelto in questo lavoro. A differenza della maggior parte degli analisti, non discuterò problemi di filosofia per agganciare la teoria clinica a presupposti ontologici, ma proprio per sganciare le considerazioni sul percorso analitico dal maggior numero possibile di assunzioni speculative.

2. Soggettività
Ciò che rende sia inevitabile che tanto difficoltosa una indagine sul cosiddetto problema "mente-corpo" nella filosofia della conoscenza è costituito dal carattere soggettivo dell'esperienza, ovvero dal fatto che fra tante cose che semplicemente esistono, alcune "cose" oltre ad esistere sanno di esistere ed osservano dal loro punto di vista la realtà.
Infatti, ciò che sollecita gli uomini e non solo i filosofi di professione ad interrogarsi su "cosa" essi siano, sulla limitatezza o eternita` della "loro" vita, sulla loro diversità dagli animali o dalle cose è proprio il fatto di esistere in un mondo inteso come realtà oggettiva, disponendo tuttavia di un particolare punto di vista.
La difficoltà di ogni tentativo di definire la soggettività sta nel fatto che per noi stabilire il "cos'è" di qualsiasi oggetto o evento equivale a cogliere certe caratteristiche in termini oggettivi. E l'oggettivazione della soggettività suona come qualcosa di assurdo.
L'esistenza di punti di vista soggettivi in una realtà concepita comunque oggettivamente comporta necessariamente una opposizione epistemica (la mia conoscenza delle mie sensazioni, intenzioni o credenze ha basi diverse dalla mia conoscenza delle sensazioni, intenzioni o credenze altrui). La dimensione soggettiva rende inoltre problematico ogni sforzo di stabilire la realtà del soggetto poiché qualsiasi tentativo di definirlo lo oggettiverebbe.
La soggettività rinvia a due problemi squisitamente filosofici. Il primo è di tipo ontologico e il secondo è di tipo epistemologico:
a) Problema ontologico.
La soggettività (o coscienza, in un'accezione ampia del termine) è riducibile a fatti di ordine fisico? ovvero, la dimensione soggettiva va intesa come un aspetto o processo dell'unica realtà costituita dai fatti osservabili oggettivamente, oppure ha una sua realtà distinta e specifica?
Mentre il monismo idealistico non ha influito significativamente sulla psicologia contemporanea, possiamo ricordare che se le varie formulazioni del monismo materialistico affermano l'esistenza di un'unica realtà (fisica), nonostante essa possa venir descritta sia in un linguaggio fisicalistico che in un linguaggio fenomenistico, le varie filosofie dualistiche hanno affermato che i due linguaggi delimitano due classi di oggetti (quelli fisici e quelli psichici o mentali). Per completare la "mappa" delle idee sull'argomento dobbiamo ricordare anche gli orientamenti riconducibili al "dualismo delle proprietà" (secondo cui una unica sostanza avrebbe proprietà sia fisiche che mentali), e quelli che vorrebbero "superare" o "dissolvere" il problema mente-corpo.
Sia la riduzione comportamentista della soggettività al comportamento (Ryle,1949; Skinner,1953) che la concezione fisicalista dell'identità fra dati psicologici e neurofisiologici (Feigl,1954; Bassin,1967) implicano significativi presupposti ontologici.
Il programma "funzionalista", divenuto dominante nelle recenti scienze cognitive, riconduce gli stati mentali al modo in cui qualcosa è organizzato e quindi gli stati mentali, in quanto stati funzionali possono appartenere ad un cervello come ad un computer (Dennett,1987). Secondo Hilary Putnam, poiché è concepibile produrre qualcosa con lo stesso programma del cervello ma con una composizione fisica e chimica diversa (cioè un altro sistema funzionalmente isomorfo), non è accettabile la riduzione degli stati mentali a stati cerebrali perché il sistema fisico che fa da supporto per gli stati mentali potrebbe essere un altro: "...il problema dell'autonomia della nostra vita mentale non dipende e non ha niente a che vedere con la fin troppo nota e giubilata questione della materia e dello spirito. Fossimo anche fatti di emmenthal svizzero, la cosa non avrebbe nessuna importanza" (1973,p.318).
Le radicali obiezioni a questa nuova filosofia (Dreyfus,1972; Searle,1980,1991; Edelman,1992) hanno evidenziato lo scarto fra la semplice utilizzazione dei modelli computazionali e l'idea di ridurre ad essi i fenomeni della coscienza. Il passaggio è inevitabilmente di tipo speculativo nonostante con esso si eviti di collegare i processi mentali ad una particolare "sostanza". Il funzionalismo, pur non presentando i classici punti deboli del materialismo e del dualismo, lascia inspiegato come la soggettività possa costituire un aspetto di un programma, cioè di un elemento puramente formale.
Il nepositivismo aveva considerato priva di significato conoscitivo la metafisica in quanto tale (Carnap,1932,1950), e in questo modo si era presentato come il background filosofico di qualsiasi indagine scientifica. Tuttavia, tale programma antimetafisico che doveva ridimensionare la filosofia a pura analisi logica del linguaggio è fallito. Ad uno ad uno i "punti fermi" del neopositivismo sono stati messi in discussione, modificati o abbandonati: la derivabilità dei termini teorici da quelli osservativi (Carnap,1956; C.G.Hempel,1952; Quine,1961), il principio di verificazione (Popper,1934,1976), la distinzione fra verità analitiche e sintetiche (Quine,1961) e il concetto stesso di verità (Austin,1962).
Tali sviluppi hanno quindi ristabilito la convinzione che almeno alcuni problemi filosofici non possano semplicemente essere "dissolti" con l'analisi logico-linguistica, anche se il neopositivismo ha comunque ceduto alla filosofia contemporanea strumenti concettuali più rigorosi e sofisticati.
Thomas Nagel ha cercato di mostrare che le tradizionali risposte ontologiche monistiche o dualistiche al problema mente-corpo, indipendentemente dalla loro persuasività o debolezza, sono irrilevanti per una effettiva chiarificazione del problemma della soggettività. La soggettività non risulta infatti "comprensibile" né se si tenta di ridurla alla realtà fisica né se la si qualifica come proprietà di una seconda e specifica sostanza. Infatti, come nessuna riduzione della soggettività alla materia può distogliere qualcuno dal sentirsi piu` di un "oggetto", anche l'idea di una sostanza mentale manterrebbe invariato lo "scarto" fra un particolare punto di vista soggettivo (ora sostanzializzato) e le altre soggettività che comunque risulterebbero "esterne" o "oggettive" rispetto al punto di vista in questione: "Il problema più ampio tra personale e impersonale, o soggettivo e oggettivo, si pone anche per una teoria dualista della mente" (T.Nagel, 1979,p.195; cfr.anche 1986,p.36).
Dopo la crisi del neopositivismo è difficile sia tornare alla tradizionale speculazione metafisica che negare la rilevanza dei problemi che essa ha sempre indagato. "Può essere che alcuni problemi filosofici non abbiano soluzione. Soprattutto che questo sia vero per i più profondi e i più antichi di essi. (...) Problemi irresolubili non sono per questa ragione immaginari" (T.Nagel, 1979,p.5).
b) Problema epistemologico.
L'esperienza soggettiva ha una sua dignità conoscitiva? ovvero, fornisce dei dati accettabili (come quelli intersoggettivamente controllabili) per una teoria psicologica?
Questo problema, a differenza di quello ontologico, non può essere relegato nell'ambito delle idee personali degli psicologi; una risposta a tale problema è infatti necessaria per delimitare la base empirica di qualsiasi teoria.
Mentre il riduzionismo considera le descrizioni di stati soggettivi come inaccettabili oppure traducibili in enunciati relativi a dati fisici e/o fisiologici e/o comportamentali, la tesi dell'irriducibilità considera valide (a certe condizioni) e non traducibili in termini oggettivi le descrizioni di eventi "privati".
Il comportamentismo ha fornito uno degli esempi più coerenti ed implausibili dell'orientamento riduzionista: "Skinner si rifiutava di guardare 'dentro l'organismo' e rifiutava di trattare eventi 'privati'. La sua decisione sarebbe lodevole se la scienza fosse libera di sciegliere. Comunque il compito della ricerca scientifica è di cercare la verità, sia essa intersoggettivamente visibile ed osservabile, o privata. Se ci sono eventi privati li dobbiamo studiare. Li dovremo studiare il più obiettivamente possibile, perché la scienza cerca una verità oggettiva. La scienza tuttavia deve studiare le cose come sono e non può rifiutarle perché non sono adatte alle preferenze intellettuali di qualcuno o ai suoi modi di pensare (Wolman, 1965,p.12).
Lo stesso Rudolf Carnap ha così corretto le sue precedenti vedute sull'empirismo scientifico: "Oggi preferisco non dare alla condizione di confermabilità intersoggettiva quel rilievo che eravamo soliti dargli in precedenza, ma piuttosto considero come significante per me tutto ciò che posso per principio confermare soggettivamente" (Carnap, in Schilpp, 1963, vol.2, p.859).
Questi due problemi filosofici (ontologico ed epistemologico) hanno attraversato la storia della psicologia "scientifica". Essi sono spesso stati considerati congiuntamente, pur essendo logicamente distinti; infatti, l'accettazione o l'esclusione di concetti relativi a stati soggettivi non implica necessariamente alcuna assunzione ontologica sulla soggettività.
Robert Nozick ha difeso una concezione della filosofia secondo cui essa dovrebbe chiarire i problemi senza pretendere di risolverli: "In filosofia della scienza, è ormai un luogo comune il fatto che l'evidenza è incompleta, che si possono immaginare ipotesi alternative, che le teorie vengono sostenute solo provvisoriamente fino a che se ne presenta una migliore, e così via. La filosofia ha sempre avuto aspirazioni più elevate e un tempo anche la scienza esplicativa le aveva; ma sicuramente è ormai ora che la filosofia smetta di mirare così in alto per ottenere così poco" (1981,p.39). Questa prospettiva sobria e serena delineata da Nozick può insegnare molto agli psicologi che, al contrario, tendono a subire il fascino delle filosofie fino a inquadrare in qualche "sistema" i risultati delle loro indagini.

3. Intenzioni
Nel suo senso filosofico generale, l'intenzionalità indica il riferimento ad altro da se stessi. Gli scolastici usavano il termine intentio per descrivere il rapporto fra la cognizione o l'azione volontaria ed il loro oggetto.
Franz Brentano attribuì a tutti i fenomeni psichici la proprietà differenziante della "in-esistenza intenzionale", ovvero la relazione con qualcosa in quanto oggetto. "Ogni fenomeno psichico contiene in sé qualcosa come oggetto, anche se non ogni fenomeno lo fa nello stesso modo. Nella rappresentazione qualcosa è rappresentato, nel giudizio qualcosa viene o accettato o rifiutato, nell'amore c'è un amato, nell'odio un odiato, nel desiderio un desiderato, ecc." (1874,p.175). In tale accezione, le credenze, le speranze e i dubbi sono processi intenzionali quanto le intenzioni.
In un senso piu` ristretto e aderente al linguaggio quotidiano, parlare di intenzionalità significa semplicemente parlare di intenzioni; in questo lavoro userò sempre il termine in quest'ultima accezione perché non mi occuperò delle caratteristiche generali della mente ma della legittimità di concepire il comportamento delle persone in termini intenzionali piuttosto che come effetto di qualche causa.
Una posizione orientata all'analisi delle intenzioni piuttosto che alla ricerca delle cause non implica necessariamente alcuna definizione in senso ontologico del concetto di intenzione; tuttavia non si può ignorare il fatto che nelle discussioni sui fondamenti della psicologia il concetto di intenzione è stato accolto o respinto in base a precise assunzioni filosofiche relative al problema mente-corpo ed a quello del riduzionismo. Per questo farò alcune sintetiche osservazioni sul dibattito che fa da sfondo alle considerazioni che proporrò nelle pagine successive.
Prima di tutto voglio ricordare che la discussione sulla concezione intenzionale o causale dell'azione va tenuta distinta da quella sulle spiegazioni teleologiche e causali.
Una volta escluse le ipotetiche "entelechie" capaci di orientare certi sviluppi ed equilibri nei processi naturali, anche i filosofi della scienza di impostazione neopositivista hanno riconosciuto la legittimità delle spiegazioni teleologiche o "funzionali" in quanto logicamente riducibili a spiegazioni causali.
Quando si fornisce una spiegazione causale di un dato evento si fa dipendere logicamente un enunciato che descrive tale evento da una legge generale che collega quell'evento ad altri. Si considerano invece spiegazioni teleologiche quelle formulate in relazione ad uno scopo o fine, e spiegazioni funzionali quelle formulate in relazione ad una direzione nell'orientamento complessivo di un sistema (biologico, sociale o di altro tipo) in cui rientra l'evento da spiegare.
Nonostante queste distinzioni, le spiegazioni teleologiche e funzionali sono sostanzialmente assimilabili a quelle causali, se hanno una reale forza esplicativa, in quanto stabiliscono comunque un ordine nel mutamento degli stati di un dato universo di eventi o sistema. Tali stati risultano cioè orientati al mantenimento o raggiungimento di un particolare stato "privilegiato" fra quelli possibili. Tali spiegazioni manifestano certamente una eccedenza di significato rispetto alle spiegazioni causali, in quanto affermano sia una regolarità in cui cade un dato evento, sia una proprietà di un sistema, come un'autoregolazione. Ciò non impedisce comunque la riducibilità di tali spiegazioni a spiegazioni causali. "Sebbene le formulazioni funzionali in fisiologia siano riconoscibili dalle locuzioni distintive che utilizzano, il loro contenuto fattuale può comunque venir esaustivamente rappresentato da formulazioni non funzionali che sono ricorrenti nelle altre sezioni delle scienze naturali" (E.Nagel, 1957,p.251).
Mentre la discussione su causalità e teleologia verte sul tipo di spiegazioni suggerite comunque a livello impersonale ed oggettivo, la discussione sulla concezione dell'azione come processo intenzionale o causalmente determinato rinvia alla questione della soggettività, poiché -comunque intesa- l'intenzionalità viene introdotta proprio per respingere una lettura puramente oggettiva del comportamento. Infatti, parliamo di intenzioni per parlare di un soggetto che agisce.
Il programma comportamentista (così come, in termini diversi, il riduzionismo fisiologico), negando la legittimità delle espressioni mentalistiche, respinge il concetto di intenzione. "Possiamo pensare prima di agire nel senso che possiamo comportarci in maniera non manifesta prima di avere un comportamento manifesto, ma la nostra azione non è una "espressione" della risposta non manifesta o la conseguenza di essa. Le due sono attribuibili alle stesse variabili" (Skinner,1953,p.320).
Nell'ambito della psicologia cognitiva si è cercato di colmare il vuoto che il comportamentismo lasciava fra lo stimolo e la risposta introducendo "variabili intervenienti" (Tolman,1951), ma anche negli ulteriori sviluppi del "behaviorismo soggettivo" il "recupero" dell'intenzionalità è stato comunque tentato in un orizzonte oggettivistico e deterministico: "Il termine viene usato in riferimento alle parti incomplete di un Piano la cui esecuzione è già iniziata" (Miller,Galanter e Pribram, 1960,p.77). Come ha notato Stuart Shanker, discutendo i vari sviluppi cognitivisti del comportamentismo che hanno reintrodotto il concetto di intenzione, tale recupero secondo la logica delle sequenze causali si riduce alla "creazione di un omonimo fuorviante" (1991,p.83).
Nella sua battaglia su due fronti, contro l'introspezionismo e contro il comportamentismo, Wittgenstein ha notato come entrambi gli orientamenti (affermando o negando le intenzioni) finisssero comunque per descrivere l'azione in termini causali, mentre egli si proponeva proprio di contrastare questa prospettiva. Provocatoriamente Wittgenstein si è chiesto: "che cosa rimane, quando dal fatto che io alzo il mio braccio tolgo il fatto che il mio braccio si alza?" (1953,n.621). Il senso di questa domanda e la implicita risposta possono essere rintracciati in un'altra sua affermazione: "Quando muovo 'volontariamente' il mio braccio, non mi servo di un mezzo per provocare il movimento. Neppure il mio desiderio è un tale mezzo" (1953,n.614). Il movimento può cioè essere classificato come intenzionale, ma non ritenuto "la conseguenza" di un processo intenzionale.
Si sa che Wittgenstein non era un chiacchierone e bisogna accontentarsi di frasi lapidarie. Egli comunque non ha tentato di risolvere il problema dell'intenzionalità, ma piuttosto di dissolverlo riconducendo l'intenzionalità all'esercizio di determinate pratiche linguistiche. Parlare di intenzioni sarebbe quindi più un modo di comunicare, che una comunicazione su dati o entità.
Anche Anscombe ha evitato un'indagine sulle intenzioni come "stati" soggettivi preferendo qualificare l'intenzionalità in relazione ad "una forma di descrizione degli eventi" (1957,p.84). Anscombe collega l'attribuzione di intenzioni alla possibilità di rispondere ad un certo tipo di domanda (ad es. "perché lo hai fatto?"). In tal modo, le questioni ontologiche vengono aggirate e l'intenzionalità viene riproposta come una modalità interpretativa del comportamento.
Nel recente dibattito filosofico che verte sulla reale o apparente qualita "mentale" della cosiddetta intelligenza artificiale, Daniel Dennett ha sostenuto l'opportunità di considerare il comportamento umano (ma non solo umano) in prima approssimazione come intenzionale: "si stabilisce di trattare l'oggetto di cui si deve prevedere il comportamento come un agente razionale; poi si individuano le credenze che l'agente in questione dovrebbe avere, data la posizione e il suo scopo nel mondo. Quindi si determinano i desideri che dovrebbe avere, sulla base delle stesse considerazioni, e infine si puo` prevedere che quest'agente razionale agirà per favorire i suoi obiettivi alla luce delle sue credenze" (1987,p.33)
Quest'approccio pragmatico non riconoce però alcuna intenzionalità intrinseca al sistema, e infatti Dennett pur ritenendo opportuno adottare un "atteggiamento intenzionale" per prevedere comportamenti, nega differenze qualitative tra le "intenzioni" di un distributore di bibite, di un computer e di un uomo. A chi sottolinea che il computer ha intenzioni "derivate" da quella degli ingegneri, egli obietta che gli uomini hanno intenzioni derivate dalla selezione naturale. In ciò egli è coerente con la sua adesione al "mondo oggettivo, materialistico, impersonale delle scienze fisiche" (1987,p.16).
Senza presupporre un'ontologia dualista ed anzi, affermando un "naturalismo biologico", il filosofo John Searle si è comunque nettamente opposto al punto di vista di Dennett: "Uno degli errori più comuni consiste nel supporre che, poiché possiamo attribuire l'intenzionalità come-se a sistemi che non hanno alcuna intenzionalità intrinseca, abbiamo in qualche modo scoperto la natura dell'intenzionalità" (1992,p.98). Searle difende l'intenzionalità"intrinseca" senza considerare però lo stato intenzionale come precursore dell'azione (.1983,pp.127-128): egli infatti ha cercato di dimostrare che la causazione intenzionale non viene "ricavata" dall'osservazione delle azioni, ma viene riconosciuta proprio nell'esperienza di un'azione intenzionale.
La dissoluzione dell'ontologia nel linguaggio lascia sempre una certa insoddisfazione, dal momento che parlando di intenzioni noi comunque siamo convinti di parlare di qualcosa e non solo di comunicare in un certo modo. D'altra parte le definizioni filosofiche collocano il concetto di intenzionalità in un ambito in cui ogni posizione è inevitabilmente discutibile. Forse possiamo convivere con un'incertezza relativa alle nostre domande fondamentali che non sono né facilmente risolvibili né facilmente "dissolvibili".
Roy Schafer ha considerato come requisito minimo di una definizione di intenzionalità accettabile per una teoria dell'analisi che le intenzioni non vengano considerate come "qualcosa" che "determina" i comportamenti; così si perderebbe la possibilità di comprendere l'azione umana come un processo attivo e modificabile in base a nuovi insights e si tornerebbe alla concezione dell'analisi come cura rivolta a qualche "guasto nel meccanismo": "L'intenzione non crea problemi per il linguaggio dell'azione quando è usata per designare decisioni consapevoli, o ragioni o mete per l'agire. E' chiaro che in questi casi non ci si riferisce ad entità che fungono da propulsivo, ma ad azioni finalizzate" (1976, pp.199-200).
La questione dell'intenzionalità e quella del libero arbitrio sono connesse ma logicamente distinte. Infatti, le spiegazioni intenzionali, se ammesse, rendono intelligibile una certa azione, ma non spiegano perché sia stata compiuta un'azione anziché un'altra. Le due questioni hanno in comune il fatto di essere una spina nel fianco di ogni tentativo di spiegare causalmente il comportamento in un orizzonte fisicalistico.

4. Scelte
Va preliminarmente ricordato che la questione relativa al libero arbitrio non può essere risolta in termini empirici. Infatti, "non si può mai dimostrare né che ciò che ho fatto poteva essere fatto altrimenti, né che ciò che si fa deve essere fatto (...) Posso provare di nuovo la stessa azione: se viene fuori in modo differente dico che avrei potuto farla altrimenti, mentre se è la stessa dico che non avrei potuto. Ma nel frattempo il contesto è naturalmente cambiato. Per questo motivo non si può mai ripetere la stessa azione" (Watts, 1961,p.55).
Una seconda osservazione va fatta a proposito delle ricerche empiriche sui fattori condizionanti rispetto alla libertà individuale. Per quanto estese e spesso significative, le indagini su tali fattori non contribuiscono alla soluzione del problema (filosofico) del libero arbitrio in quanto non possono stabilire se al di là dei condizionamenti empiricamente accertati vi sia o no un margine di "libertà".
Thomas Nagel (1979,cap.14) ha collocato, con la sua tipica chiarezza e profondità, il problema del libero arbitrio nel contesto più ampio caratterizzato dalla nostra duplice inclinazione: quella di vedere le cose dal nostro particolare punto di vista e quella di cercare una conoscenza oggettiva in quanto non compromessa da nessun particolare punto di vista (compreso il nostro). Secondo Nagel molte importanti questioni filosofiche esistono e continuano a non trovare una soluzione soddisfacente proprio perché si collocano in un ambito in cui queste due inclinazioni della nostra mente ci portano ad affermare tesi contraddittorie.
Possiamo dire che la questione del libero arbitrio è caratterizzata dalla compresenza di queste due istanze, quella soggettiva e quella oggettiva.
a) Da un punto di vista soggettivo risulta indubitabile la capacità del soggetto di poter scegliere liberamente fra due azioni incompatibili prima di agire. Tuttavia, come ha fatto notare Ryle, l'idea di una volizione che precede un'azione porta ad una regressione all'infinito e quindi, "Fare una cosa intelligentemente, cioè pensandoci, è fare una cosa sola e non due: l'azione si distingue per la maniera, non per qualche suo antecedente" (1949,p.30).
II) Da un punto di vista oggettivo il concetto di libertà risulta incomprensibile (se non in negativo come assenza di costrizioni): infatti, per spiegare un'azione o la consideriamo come effetto di qualcosa, oppure consideriamo casuale l'azione. In entrambi i casi non resta spazio per alcuna accezione del concetto di libertà. Tuttavia alla tesi deterministica si può obiettare che nessun bookmaker scommetterebbe contro di me se puntassi denaro sulla possibilità "indeterminata" di posare gli occhiali sul tavolo entro un minuto.
Ciò che è soggettivamente evidente non è la libertà della nostra scelta, bensì la sensazione di poter scegliere. Tale sensazione o è illusoria o corrisponde a qualcosa. Scartiamo per ora l'ipotesi che sia illusoria, e cerchiamo di capire a cosa potrebbe corrispondere. Non ad un'idea assoluta di scelta, cioè di una scelta senza criteri o motivi o scopi. Sarebbe come dire "ho scelto e basta". E questo non soddisferebbe nemmeno chi si pone da un punto di vista nettamente soggettivo. Se, dopo tante riflessioni, ho scelto A anziché B, su cosa riflettevo? Riflettevo sulla forza delle mie esigenze, o valori o scopi che evidentemente erano in conflitto. Senza ripopolare il soggetto di omuncoli motivanti che implicherebbero altri mini omuncoli e così via all'infinito, potrei parlare semplicemente della persona che sono, posto che sono ciò che sono proprio perché nella mia storia sono diventato questa persona e non un'altra. Ogni esperienza ha lasciato un segno e devo considerare come sovrapponibili il concetto della "persona che sono" e quello della "persona che sono diventato" (sia che io sia materia, spirito o materia e spirito o materia con due aspetti o qualsiasi altra cosa sul piano ontologico).
Cosa faccio quando "sto scegliendo"? Probabilmente sto sentendo. Sto accertando non cosa "voglio" in un "vuoto motivazionale", ma "per cosa sono diventato adatto ad agire", ovvero sto sentendo la mia persona, sto delimitando i miei confini, sto soppesando le mie caratteristiche, posto che quello che sono mi porterà a fare ciò che farò. Ogni situazione esterna mi modifica e se non ho "libertà assoluta" mi modifica in un modo preciso. L'unica "mia" variabile è quella di partenza. Se "io" (in un'accezione ontologica di qualsiasi tipo) in partenza fossi un'altra cosa, assimilerei in modo diverso gli stessi stimoli, li percepirei forse secondo modalità alternative e li elaborerei in modo diverso diventando quindi ad ogni nuova esperienza propenso ad agire in altri modi.
E' vero che questa soluzione favorisce il punto di vista oggettivo, quello del servo arbitrio: le esperienze mi formano e ad ogni tappa quel che sono diventato mi rende incline ad agire in certe direzioni. Va ammesso che in questa prospettiva, una mente onnisciente potrebbe prevedere alla mia nascita o anche prima per quale partito voterò a 80 anni se solo conoscesse le variabili esterne a me. Tuttavia questa risposta non mi disturba come le classiche risposte deterministiche. Perché? In che modo gratifica maggiormente la mia istanza soggettiva? Questa formulazione non implica il carattere meramente illusorio dell' esercizio della libera scelta, poiché in questa prospettiva la scelta non è solo apparente: agisco non a causa di una determinazione qualsiasi ma a causa di tutto ciò che sono. Nell'atto di "scegliere" non ho solo l'impressione di far qualcosa, ma faccio effettivamente qualcosa: entro meglio in contatto con me, sento se la tale o la tal altra azione "è da me". In fondo anche le persone che si sentono libere secondo la più estremistica ed implausibile versione del libero arbitrio, credono di scegliere in base al loro essere quella particolare persona piuttosto che un'entità qualsiasi. Nel nostro essere la persona che siamo, non siamo sospesi nel vuoto, ma delimitati da una storia e dalle nostre elaborazioni delle esperienze costitutive di tale storia. Chi crede nel libero arbitrio non nega che tante esperienze abbiano inciso sulla nostra identità. Perché non completare il quadro ed ammettere che la nostra libertà "è" qualcosa: un processo, quello di monitorare la nostra identità e di esprimerci in un'azione "adatta a noi"?
In tale prospettiva, se una pesca fosse consapevole di quello che fa, probabilmente sentirebbe di non avere alcuna voglia di maturare a febbraio; e cosi` un'aquila non vorrebbe galoppare e un cavallo troverebbe di cattivo gusto mangiar carne. Liberamente sceglierebbero di agire in base a ciò che sono.
L'idea di essere determinati dagli istinti o dall'educazione ci dà un senso di oppressione, mentre quella di essere determinati da ciò che siamo ci fa un effetto molto diverso. Forse non è casuale questa differente sensazione e dà un certo sostegno alla concezione secondo cui le tesi della libertà di scelta e della non libertà sono entrambe ragionevoli se riferite ad oggetti diversi. Si può negare il libero arbitrio per affermare che non possiamo essere altro che noi stessi e si può affermare il libero arbitrio per dire che in ogni scelta esprimiamo noi stessi e non qualcosa di esterno a noi (cioè non ancora integrato e diventato "nostro").
Siamo arrivati ad evitare assunzioni a priori di tipo speculativo limitando le considerazioni ad un livello molto elementare: siamo diventati una certa persona elaborando in un certo modo gli eventi della nostra storia. E "chi" ha fatto tale elaborazione? Si puo` dire, semplificando, che oggi stiamo agendo sulla base di come siamo maturati fino a ieri. E ieri eravamo maturati in un certo modo elaborando le esperienze del momento sulla base di ciò che eravamo diventati il giorno precedente. Anche qui c'è una regressione, ma non una regressione all'infinito; abbiamo a che fare con una regressione finita perché storica anziché logica. Risalendo di giorno in giorno a ritroso nella nostra storia arriviamo ad un'incertezza, ma non ad un'assurdità. Arriviamo ad un nucleo della nostra persona talmente piccolo da non essere "riconoscibile". Lì si apre la possibilitàdi definire tale nucleo in un modo che comunque trascende il piano dell'osservazione. Arriviamo cioè a ragionare in termini di monismo o di dualismo, di materialismo o spiritualismo. Questa problematica può comunque (e dovrebbe) essere trascurata in un ambito come quello della riflessione teorica in psicologia.
La tensione fra le due polarità evidenziate da Nagel resta e va accettata, ma in questi termini forse è meno disturbante. Nella scelta ci sentiamo soggettivamente liberi perché effettivamente scegliamo la "nostra" possibilità, ma siamo anche determinati perché possiamo essere soltanto ciò che siamo diventati.
Un altro vantaggio di questa prospettiva interpretativa sta nel fatto che essa non esclude la possibilità di ulteriori assunzioni metafisiche, soprattutto quelle relative alla definizione del "nostro punto di partenza". Esse sono legittime, anche se irrilevanti per la comunicazione quotidiana relativa alle scelte personali e per la discussione nel contesto analitico delle scelte fatte e delle possibilità di cambiamento. Resta cioè uno spazio "ulteriore" per il materialismo e per varie forme di spiritualismo. L'idea della scelta come "espressione" di ciò che si è diventati è invece per altri motivi incompatibile, nell'ambito di una teoria dell'analisi, con concezioni etiche e religiose che assumono un concetto assoluto di libertà per giustificare un concetto persecutorio di colpevolezza.
La prospettiva qui delineata lascia spazio alla tesi di Searle della causalità intenzionale, intesa come causalità intrinseca e non "come se", perché considera il soggetto come produttore di comportamenti intenzionali; lascia anche spazio alle concezioni "forti" dell'Intelligenza Artificiale. Essa sembra cioè abbastanza definita da rendere utilizzabile il concetto di scelta nella teoria dell'analisi e abbastanza indefinita da non implicare opzioni filosofiche non indispensabili.

5. Intenzioni, scelte e lavoro analitico
La prospettiva intenzionale sollecita nello psicoterapeuta un atteggiamento volto a capire quali obiettivi il cliente consciamente o inconsciamente persegua ed a capire per quali convinzioni o timori egli si vieti azioni alternative. La prospettiva causale invece sollecita nello psicoterapeuta la curiosità per il trauma, l'apprendimento, l'errore cognitivo, la carenza che determina l'azione del cliente, e sollecita pure l'idea di fornire un'interpretazione o un'esperienza che produca nel cliente gli effetti voluti.
Nella prospettiva intenzionale lo psicoterapeuta si colloca come persona vicino ad un'altra persona e discute le sue azioni in quanto azioni. Nella prospettiva causale, lo psicoterapeuta si interessa ad un ipotetico sistema per aggiustare un meccanismo (libidico, energetico, cognitivo, affettivo) in modo da produrre effetti alternativi.
In analisi si presentano spesso due tipi di situazioni in cui l'analista orientato in senso intenzionale interviene in due modi apparentemente contradditori.
Prima situazione. Una cliente afferma di non poter far altro che piangere quando il marito la offende o la svaluta in pubblico. L'analista si propone di far sentire e capire alla cliente che lei sceglie di piangere anziché reagire tutelando la propria dignità e che fa ciò sulla base di una valutazione cognitiva della situazione molto antica e tanto adatta in passato quanto irrazionale nel presente.
Seconda situazione. Un cliente è infuriato con la moglie perché è sempre respingente sul piano sessuale. In questo caso l'analista ha l'obiettivo di far sentire e capire al cliente che la moglie "non può far altro".
La prima cliente sceglie il pianto vittimistico per evitare un conflitto (che teme e che dovrà affrontare) e nega la propria capacità di scelta. Il secondo cliente si arrabbia proprio attribuendo alla moglie di avere una libertà di scelta che invece non le va attribuita, ed arrabbiandosi evita di sentire un dolore (che teme e che dovrà elaborare).
Spesso i miei clienti avanzano una protesta di questo tipo: "tratti sempre le mie azioni come scelte e le azioni degli altri come non-scelte". Rispondo sempre che infatti così si deve fare, almeno finché parliamo di azioni intenzionali nelle quali l'intenzione è inconscia.
Non c'è alcuna contraddizione in questo modo di vedere le cose, dal momento che in analisi non si discute la questione filosofica del libero arbitrio. Al di là delle speculazioni sulla libertà in senso metafisico, quando non siamo consapevoli di essere noi ad agire operiamo un disconoscimento del nostro coinvolgimento attivo in un'azione. In analisi le persone vengono aiutate proprio a "riprendersi le loro intenzioni", o meglio a ritrovare le loro intenzioni disconosciute. Se si fa analisi, infatti, si pensa che qualcosa non vada nella propria concezione della realtà. Però, finché una persona non si è "ripresa le sue intenzioni", non sa di agire intenzionalmente e non può nemmeno agire diversamente. Quindi, la moglie del cliente del secondo esempio sicuramente agisce in modo gelido per qualche sua intenzione difensiva, ma il marito deve accettare che lei non può riesaminare quel che fa finché sa soltanto di "non aver voglia" e magari si sente pure colpevole o inadeguata per questa sua "incapacità".
Un altro tema che vale la pena discutere è quello costituito dalla "ridecisione". Se assumiamo che la persona agisca intenzionalmente e scelga sulla base di quello che effettivamente è diventata, l'idea di lavorare per favorire una nuova decisione potrebbe sembrare strana, un po' come quella di far sì che un lupo "ridecida" di diventare erbivoro. Tuttavia, il lavoro analitico non ha come obiettivo quello di "convincere" una persona a far qualcos'altro, ma ha piuttosto l'obiettivo di incidere sulla persona portandola a fare significative esperienze emotive e nuove elaborazioni cognitive del presente e del passato. La ridecisione quindi in senso stretto non è una nuova decisione maturata "nel vuoto", ma è una conseguenza del fatto che la persona venuta in analisi è cambiata, ha acquisito nuove consapevolezze e ha fatto nuove elaborazioni cognitive della sua storia. Quando l'analista suggerisce al cliente di considerare la possibilità di ridecidere, non fa un invito "neutrale" ma un intervento che incide sulla consapevolezza delle risorse personali.
Voglio ora riportare alcune considerazioni che alcuni miei clienti hanno fatto scoprendo di agire intenzionalmente nelle situazioni in cui fino ad allora si erano sentiti "afflitti" da certi sintomi o "incapaci" di agire in modo appropriato o "indotti" ad assumere certi atteggiamenti difensivi.
A) "In questi giorni ho avuto sensazioni contrastanti. A volte quelle abituali di dispiacere misto a rabbia ed alla sensazione di non farcela, e in altri momenti, una nuova percezione di me e della mia capacità di tollerare certe emozioni. Recalcitro ancora a convivere con questi sentimenti. Un giorno ho pianto, ma il più delle volte torno a chiudermi in me stessa. La cosa nuova è che sento di scegliere e non mi sembra più di essere intrappolata in un gioco da cui non riesco ad uscire. Avverto anche il gusto di poter scegliere un modo di agire nuovo e più coinvolgente, però quando mi lascio andare in questa direzione, mi sento sola come se fossi piccola e orfana".
B) "A casa dei miei per il weekend mi sono di nuovo "perso". Però sono anche riuscito a "tornare". Parlando con mia madre ho avuto una sensazione molto spiacevole che aveva a che fare anche con il passato, dato che mi sono sentito come se fossi ancora bambino: la sensazione che lei fosse irraggiungibile. Parlava con me, ma non proprio con me. Era lontana. Sentendo quelle cose "me ne sono andato" pensando ad altro. Però la sera mi sono affiorati dei ricordi, nei quali ero davvero piccolo e mi sentivo " nel vuoto", come se fossi in una situazione "sospesa", quasi irreale. Allora ho accettato la tristezza come una cosa mia e ho pianto. In quel modo sono "tornato" alla realtà. Insomma io continuo ad andar via, però ora mi accorgo di fare qualcosa per andar via. So anche come fare a tornare".
C) "Ho passato la domenica col mio ragazzo e siamo stati molto bene, fino ad un certo momento. Lì ho sentito quella solitudine brutta, profonda, che in genere mi sembrava di non tollerare. Non era Carlo a farmi sentire sola, ma proprio la sua vicinanza e il suo affetto mi facevano sentire che il bisogno che sento non può essere soddisfatto in quel modo. Ora mi è chiaro che non può essere soddisfatto in nessun modo. In quel momento mi sono accorta che la mia testa si stava riempiendo dei soliti dubbi coi quali mi allontano da Carlo. Le solite cose: se lo amo davvero, se la storia può durare ecc. Per la prima volta ho sentito che mi faceva comodo riempirmi la testa con quelle sciocchezze perché così non mi sentivo vuota e non sentivo di non poter riempire quel vuoto. E questa volta non mi sono scollegata. Ho sentito sia quella tristezza, che il piacere per la situazione presente".
D) "Quando mi sveglio la mattina non sento subito di sprofondare nell'apatia, nella svogliatezza, in quello stato d'animo di cui ti ho spesso parlato. Un attimo prima mi accorgo di poter scegliere se stare in contatto con me (e ciò in questo periodo significa sentirmi triste) o se "organizzarmi" in modo da non sentire quella tristezza e da entrare nel ruolo della ragazza depressa, incompresa, demotivata".
Queste affermazioni danno sostegno alla lettura intenzionale dei processi difensivi espressa da vari autori ed in particolare all'affermazione di Roy Schafer secondo cui nel corso dell'analisi "l'analizzando presenta sempre più se stesso come agente della propria vita attuale. Gli analizzandi affermano sempre meno di essere guidati da impulsi, emozioni, difese o conflitti e si presentano sempre più come autori della propria esistenza" (1983,p.111).


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