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Seminari
di Neuropsichiatria, Psicoterapia e Gruppo Analisi
2011 - 2012

La formazione del Super Io. L'evoluzione delle leggi dalla preistoria ad oggi

Avv.to Massimo Filiè con la collaborazione di Avv. Simona Corvi
Coordinatore Prof. Ignazio Majore
(t) testo di relazione fornita dal relatore (r) elaborazione testi dialogo a cura Dr.ssa Antonella Giordani


Il Prof. I. Majore, coordinatore dell' incontro, presenta il seminario del Dr. M . Filiè dal titolo “La formazione del Super Io. L'evoluzione delle leggi dalla preistoria ad oggi” e lo introduce in riferimento al concetto di Super Io. Majore afferma che il Super Io è un sistema congenito ma che, secondo lui, non va visto come forza che controlla gli istinti. Evidenzia due aspetti diversi del Super Io. Primo aspetto: il Super Io non è un' istanza che deve bloccare gli istinti, ma va considerato come un limite delle nostre capacità corporee e mentali. Super Io è uguale al concetto del limite di possibilità e capacità, il quale ci dice che oltre non possiamo andare, ponendosi come salvaguardia dal pericolo e non come punizione; la punizione viene da sé, perché ogni pericolo implica una punizione. L'altro aspetto, che tratterà l'avvocato Filiè, è quello del Collettivo e riguarda la sua organizzazione che deve controllare il sistema di rapporti interpersonali.

L 'avvocato dirà come si sono sviluppate e a cosa servono le leggi, che sono fatte dal collettivo per controllare se stesso. Secondo Majore infatti il Collettivo ha paura di se stesso e ha dovuto organizzarsi per non farsi del male, anche se poi si fa male ugualmente, ad esempio con le guerre che si pongono al di fuori delle leggi. Il Prof. Majore dà la parola all'avvocato Dr. Filiè

t [ La formazione del Super-Io. L’evoluzione delle leggi dalla preistoria ad oggi.

Brevi cenni sul Super-Io

Non si ritiene di dover essere noi, in questa sede, considerata anche la platea a cui il presente seminario viene presentato, ad illustrare compiutamente cosa sia il “Super-Io”.

Dei brevi cenni, però, riteniamo di poterli e doverli dare, anche per dare senso al titolo del seminario e riuscire ad inquadrare nella giusta cornice tutto quanto si dirà in appresso.

Con il termine Super-Io si designa una istanza psichica, una regione, che insieme all'Es e all'Io costituisce la personalità umana: tale definizione si deve a Sigmund Freud e alla teoria psicoanalitica da lui elaborata.

Il Super-Io, secondo la teoria freudiana, è una delle tre istanze intrapsichiche che compongono il modello strutturale dell'apparato psichico ed è quella che, secondo lo stesso Freud, si origina dalla interiorizzazione dei codici di comportamento, divieti, ingiunzioni, schemi di valore (bene/male; giusto/sbagliato; buono/cattivo; gradevole/sgradevole) che il bambino attua all'interno del rapporto con la coppia dei genitori.

La divisione psichica Freudiana in Io, Super-Io ed Es, precedentemente già accennata, venne ufficialmente formalizzata nel 1922-1923 in seguito all’uscita del trattato “L’Io e l’Es” ed è stata poi costantemente ripresa sempre da Freud in quasi tutti i propri lavori, tra cui citiamo – proprio perché, per la sua semplicità e chiarezza, risulta accessibile anche ai profani – uno scritto apparso nel 1926 dal titolo “Il problema dell’analisi condotta dai profani”, dove, sotto forma di dialogo scientifico, il problema che Freud solleva costituisce l’occasione per l’esposizione del metodo dell’analisi psicoanalitica.

Il Super-io è considerato, quindi, una funzione dell’Io che si manifesta principalmente in un ruolo censore e critico e in una osservazione permanente degli aspetti dell’Io da cui si differenzia. In gran parte inconscio, viene rilevato come parte in causa nel conflitto psichico relativo ad un divieto e al mancato appagamento di un desiderio e la contemporanea consapevolezza di questo desiderio.

Può coincidere con la censura onirica ed è definito dallo stesso Freud un “ideale dell’Io“. In realtà il Super-Io contiene in sé sia un aspetto prettamente imputabile alla censura ed al divieto, sia un aspetto di modello o ideale.

La formazione del Super-Io nell’individuo si attua come fase finale del complesso edipico quando sia maschi che femmine, in modi diversi, introiettano i divieti dei genitori ed i sensi di colpa delle proiezioni su di loro, sublimandole in “identificazione” con le figure genitoriali.

Ciò viene in seguito arricchito dalle influenze sociali ed educative dell’ambiente d’origine, così il Super-Io si struttura sempre più e: “non viene costruito secondo il modello dei genitori, ma su quello del loro Super-Io, si riempie dello stesso contenuto, diventa il veicolo della tradizione, di tutti i giudizi di valore imperituri che per questa via si sono trasmessi di generazione in generazione” (S. Freud “Introduzione alla psicoanalisi” – 1915-1917).

Ciò detto, riteniamo opportuno fermarci qui e passare ad illustrare quale sia stata, nella storia dell’uomo, “l’evoluzione delle leggi”. In altre parole, come si sia andato formando e sviluppando il concetto di “diritto” o di “ordinamento” così come oggi noi concepiamo il sistema delle regole che sovrintende lo svolgimento della vita sociale e civile.

Brevi cenni di filosofia del diritto

Uno studio di tal genere non può prescindere da alcuni brevi cenni di natura filosofica e, in particolare, di quella particolare branca che è la filosofia del diritto.

Invero, il problema etico (morale, politico, giuridico) più antico e discusso è sempre stato la giustizia: quali azioni, ma anche quali regole e istituzioni, sono giuste?

Mentre però i giuristi (gli scienziati del diritto) si sono sempre limitati ad occuparsi del quid iuris (la soluzione di problemi concreti), del quid ius (la definizione del diritto e, quindi, della giustizia) se ne sono occupati soprattutto i filosofi (la distinzione tra giuristi e filosofi del diritto e tra il quid iuris e il quid ius la dobbiamo al filosofo tedesco Kant (fine 1700) che è stato uno dei padri della filosofia del diritto).

La domanda preliminare ad ogni tipo di riflessione sul diritto non può che essere: “che cosa è il diritto?”

E’ una domanda apparentemente semplice, ma la risposta è estremamente complessa.

Anche se ci piacerebbe avere una risposta contenente una definizione concettuale del diritto, una definizione teorica che consenta di leggere la realtà e la nostra esperienza (il diritto esiste e la nostra stessa esistenza si svolge, consapevolmente o inconsapevolmente, all’interno di regole giuridiche), non è possibile fornire una definizione univoca di diritto: esistono diverse definizioni e ogni definizione dipende dal diverso approccio al diritto.

Come dicevamo, due sono gli approcci principali: quello scientifico e quello filosofico. Ovviamente, sono due ambiti diversi del sapere e utilizzano metodi diversi.

La scienza studia la realtà e i fatti mediante l’osservazione empirica, la formulazione di ipotesi e la verifica sperimentale.

La filosofia si interroga sul “perché” della realtà, cercando la verità dei fatti oltre i fatti.

Se nell’età antica è stata indiscutibile la superiorità della filosofia sulla scienza, nell’era moderna si parla di crisi della filosofia e di supremazia della scienza, essendosi andato affermando il principio che tutto deve essere convalidato scientificamente per essere considerato vero.

Il metodo scientifico applicato al diritto consente di studiare e descrivere come è il diritto, partendo dall’osservazione e dalla rilevazione del diritto esistente e trovando la soluzione per problemi concreti. E’ un atteggiamento per certi versi passivo, che prende atto a posteriori di ciò che si manifesta.

La filosofia del diritto studia il perché del diritto, articolandosi su diversi livelli (fondamento del diritto; critica del diritto esistente; elaborazione di un possibile diritto futuro).

Il primo di tali livelli è quello al quale ci fermeremo, essendo quello che si prefigge il fine di indagare le condizioni a priori di possibilità e pensabilità del diritto, attraverso delle domande preliminari: perché esiste il diritto piuttosto che l’assenza del diritto? Quali sono le condizioni in cui è pensabile e possibile il diritto? Perché è meglio che esista il diritto piuttosto che l’assenza del diritto?

Secondo l’approccio filosofico al diritto, tale indagine, prendendo le mosse dalla domanda preliminare (che cos’è il diritto?), conduce ad una prima elementare classificazione che può essere quella che individua diverse categorie del diritto: il diritto naturale (che ha origine nella natura), il diritto positivo (che deriva dalla volontà di un legislatore) e il diritto reale (che proviene dai comportamenti sociali diffusi, ripetuti e frequenti o dalle decisioni dei giudici).

Vi sono quindi diverse scuole di pensiero e diverse teorie (ad esempio giusnaturalismo, positivismo giuridico e realismo giuridico, tanto per non discostarci dalla classificazione appena accennata) e, a seconda delle teorie, si possono avere diverse definizioni del diritto: ad esempio, secondo il giusnaturalismo il diritto è un insieme di norme che regolano il comportamento sociale secondo giustizia; secondo il positivismo il diritto è un insieme di norme emanate dal legislatore; secondo il realismo il diritto è un insieme di norme effettivamente osservate dai cittadini e dai giudici.

Questi brevi accenni di filosofia del diritto si rendono dunque necessari perché nel diritto (e nel tema di questo seminario) è indispensabile una giustificazione, Ciò in quanto non si può prescindere da un punto di partenza e da un fatto inconfutabile: l’uomo è libero e vive accanto ad altri uomini liberi.

Da sempre ci si interroga sull’esistenza, il significato, il fondamento, la struttura e lo scopo della libertà. Non è questa la sede per soffermarci su tali interrogativi.

Ci limitiamo a dire che per libertà si intende, generalmente, la capacità (interna) di scegliere il proprio agire e la possibilità (esterna) di eseguire ciò che è stato scelto.

Ai nostri fini, non potendo nemmeno dare spazio in questa sede alla secolare polemica (in filosofia) tra deterministi (che ritengono che l’uomo sia in realtà necessitato nelle sue azioni) e indeterministi (che ritengono invece l’uomo in grado di scegliere tra diverse possibilità di agire), ci interessa soffermarci sulla dimensione esterna della libertà, in quanto è evidente che il diritto è uno strumento che dovrebbe garantire le condizioni di manifestazione esterna e sociale della libertà.

Il diritto, infatti, qualunque ne sia la definizione, è comunque un insieme di prescrizioni, ossia di norme che prescrivono un “dover essere”, che pone un limite alla libertà.

Il diritto, come fenomeno prescrittivo, esiste in quanto esiste l’uomo libero, anzi in quanto esistono gli uomini liberi. E’ necessario che esistano regole, perché l’uomo non è solo, ma esiste insieme ad altri uomini. La libertà e la socialità dell’uomo rendono necessaria l’esistenza di regole.

Lo stesso Kant ha fornito una definizione del diritto che si è rivelata importantissima sia per lo sviluppo della società moderna (ovviamente occidentale) e sia per la comprensione di quanto accaduto nel passato: per lui diritto indicherebbe le condizioni alle quali la volontà di ognuno può accordarsi con la volontà di ogni altro secondo una legge universale di libertà.

Possiamo passare ad esaminare l’aspetto più squisitamente storico di questo seminario : l’evoluzione delle leggi dalla preistoria ad oggi.

Aspetti del fenomeno giuridico nel tempo e in diversi luoghi e gruppi sociali

Congetture sulle comunità primitive

Sembra opportuno iniziare questo discorso con la descrizione, a grandi linee, degli aspetti assunti dal fenomeno giuridico nel corso del tempo e in alcuni fra i luoghi e i gruppi sociali più significativi.

Secondo gli antropologi, il diritto è sorto quando si costituì una comunità, sia pure embrionale, dotata di un minimo di organizzazione.

Gruppi umani embrionali sono da immaginarsi posteriori all'inizio della cosiddetta età paleolitica (nella quale potrebbe aver avuto influenza un dominio del fuoco sufficiente a creare focolari attorno a cui riunire gruppi parentali: cfr. B. Chiarelli, Origini della socialità e della cultura umana, Roma-Bari 1984, pp. 123 s. .

In una comunità di questo tipo, i rapporti tra le persone sono molto stretti, ognuno conosce tutti gli altri e la divisione dei compiti è limitata alla distinzione delle mansioni rispetto al sesso ed all’età. In tali realtà esiste una forma assai forte di solidarietà tra i membri e le fonti di conflitto sono limitate.

Nelle comunità primitive le attività economiche prevalenti sono la caccia e la raccolta dei frutti. Presto gli uomini hanno imparato, osservando la natura, quali sono i cicli di crescita e maturazione delle piante, le fasi lunari che regolano le maree, i segnali che accompagnano i fenomeni meteorologici. L’osservazione dei fenomeni naturali ha sicuramente fatto nascere, nelle comunità primitive, l’esigenza di organizzare i tempi della vita in funzione dei cicli naturali. Un po’ alla volta, quindi, si è realizzata una “standardizzazione dei comportamenti”: le comunità, in altre parole, hanno uniformato le loro azioni a modelli di comportamento, che hanno assunto la forma delle “norme sociali”. Si tratta di regole spontaneamente seguite dai membri delle comunità; mentre, all’inizio, alla loro trasgressione scattava semplicemente ed in modo automatico, la riprovazione sociale, con il tempo, in tutte le comunità si è avvertita la necessità di mettere a punto meccanismi di controllo del comportamento da utilizzare nel caso di mancato rispetto delle norme sociali stesse.

Sebbene sia molto difficile determinare la datazione e la localizzazione dei fatti inerenti alla nascita del diritto, questa, come detto, pare individuarsi nel momento in cui alcuni uomini cominciarono a coltivare regolarmente certi vegetali e, più tardi, ad allevare stabilmente certi animali.

Poiché tracce sicure di agricoltura e pastorizia si sono rinvenute nel Vicino Oriente per un'epoca compresa fra i 12.000 e gli 8.000 anni fa, si può supporre che quella coltivazione e quell'allevamento siano iniziati in tali luoghi circa 10.000 anni a.C. (su tutto il tema cfr. Transitions to agriculture, a cura di A.B. Gebauer e T.D. Price, Madison, Wis., 1992, e Pastoralism in the Levant, a cura di O. Bar-Josef e A. Khazanov, Madison, Wis., 1992).

In tale epoca, gruppi umani organizzati certo esistevano già e la nascita dell'agricoltura e della pastorizia influì soltanto sulla loro struttura.

Il luogo d'origine dell'umanità suole porsi nell'Africa centromeridionale, ma prima di aggregarsi in embrionali comunità gli uomini hanno certo compiuto molte migrazioni. Si può supporre che le comunità che, avendo sviluppato l'agricoltura estensiva, cominciarono a stanziarsi in villaggi, abbiano avuto sedi nei territori (quali Mesopotamia, Siria, Palestina, Egitto, Anatolia, poi India e Cina) il cui diritto, all'inizio della protostoria, aveva raggiunto le punte più avanzate.

Si immagina che le comunità più antiche siano state gruppi parentali (o lignaggi) matrilineari, per l'assenza di una paternità accertata o riconosciuta. (Hoebel anzi ha rilevato che i gruppi parentali Ashanti - Ghana, rimasero matrilineari anche dopo l'istituzione di un matrimonio legittimo).

La stabilizzazione di tali gruppi si ebbe quando i componenti riconobbero, espressamente o di fatto, un proprio capo nella persona, di solito, dello zio materno o del fratello maggiore.

Nelle “moderne” comunità primitive, il gruppo parentale è incluso in comunità più ampie (clan o tribù). Ciò, nelle comunità “antiche” dovette avvenire forse solo dopo unioni occasionali per lottare con gruppi vicini, organizzare cacce, difendersi da belve o pericoli naturali.

L'allargamento stabile delle comunità “antiche” implicò un salto di qualità del diritto, che comprese regole organizzative più complesse, divieti (alcuni forse analoghi ai tabù polinesiani), pene umane e/o magiche. L'insieme era di certo influenzato da credenze in entità soprannaturali, per il momento non personificate in divinità, di cui si faceva interprete uno sciamano o stregone.

Le regole organizzative, pur assai varie in concreto, dovevano avvicinarsi a due modelli che si notano nelle comunità primitive “moderne”: il primo, un modello quasi paritario o a potere diffuso, come quello osservato da E. Biocca fra gli Yanoàma (Amazzonia), con un capo e/o un consiglio degli anziani ispirati dallo stregone e dotati - l'uno e gli altri - di scarsi poteri, mentre il resto della comunità si reggeva praticamente da sé, secondo gli usi e/o secondo regole magiche; il secondo, un modello autoritario o a potere centralizzato, con un capo guerriero dotato di ampi poteri e forti disuguaglianze tra i consiglieri del capo o altri “nobili” e la restante popolazione.

Varianti e modelli più articolati si ebbero con lo sviluppo delle attività pastorali e agricole, che aggiunsero nuovi beni a quelli già oggetto di appartenenza, mentre peraltro le terre continuarono ad appartenere alla collettività o al capo, pur spettando probabilmente i prodotti a chi le coltivava. Lo sviluppo dell'agricoltura - oltre all'insediamento delle comunità nei primi villaggi - favorì anche, grazie al matrimonio, l'enuclearsi di famiglie nel gruppo parentale.

Cenni sui diritti del Vicino Oriente antico - Sguardo generale ai diritti della civiltà “palaziale”.

Dall'epoca sopra considerata (intorno al 10.000-8000 a.C.) fino agli ultimi secoli del IV millennio a.C., le comunità più avanzate di Mesopotamia, Siria, Egitto, accelerarono - in modo prima non immaginabile - il loro sviluppo, dato che tra il 3200 e il 3000 a.C. furono scritti documenti di contenuto giuridico, i quali presuppongono, oltre che, ovviamente, la padronanza della scrittura, un'organizzazione giuridica abbastanza evoluta.

Tali documenti attestano che la città sumera di Uruk (bassa Mesopotamia) era retta da una monarchia e aveva raggiunto, fra il 3000 e il 2500 a.C., una considerevole importanza politica ed economica.

Uno di quei documenti riferisce che furono gli dei (personificazione prevalente ormai delle forze soprannaturali) a creare la città e a far scendere per essa il re dal cielo; leggenda, questa, singolarmente analoga a quella di una comunità primitiva moderna (quella dei già menzionati Ashanti), secondo la quale il capo della tribù Kumasi, dopo aver vinto altre tribù, poté diventare re dell'intero popolo grazie al miracolo, propiziato dal sommo sacerdote, della discesa dal cielo di un trono d'oro, segno della volontà degli dei che gli Ashanti fossero uniti sotto quel re.

La civiltà allora sorta in Mesopotamia, Siria, Anatolia, ed estesasi con nuove forme a Creta e poi ai Regni micenei, suole qualificarsi “palaziale”, perché il palazzo del re - da questi costruito ai margini di uno degli antichi villaggi - costituiva il centro politico, militare, legislativo, giudiziario, amministrativo, economico della comunità.

In quei palazzi si conservavano i prodotti, per lo più agricoli, che i sudditi dovevano farvi affluire e che poi l'amministrazione provvedeva a distribuire. Partendo da quei palazzi, gli eserciti di alcuni re riuscirono a costituire estesi imperi, come quello babilonese, assiro, hittita. In questi Imperi, ma anche nei regni minori, si svolse un'intensa attività giuridica che faceva leva su leggi anche complesse, testimoniate da stele di pietra e tavolette d'argilla, e si concretava in una miriade di negozi privati e di atti amministrativi documentati da migliaia di piastrelle di ceramica, il tutto in scrittura cuneiforme.

I diritti mesopotamici, anatolici e altri della civiltà palaziale

Alla fine del III e durante il II millennio a.C., risultano emanate leggi composte di vere e proprie norme. Esse constano di una protasi, descrivente in forma astratta un fatto o un insieme di fatti, e di un'apodosi, enunciante la relativa conseguenza (una prescrizione di condotta, una pena, ecc.).

Le più note finora scoperte sono le leggi di Ur-Namma (intorno al 2100), le leggi (o codice) di Lipit-Ishtar (di poco posteriori), le leggi di Eshnunna (tra il 1900 e il 1800), il Codice di Hammurabi (intorno al 1740), di gran lunga la più ampia raccolta (282 “articoli”) e la prima a essere scoperta (nel 1902), le leggi assire (1400-1100) e quelle hittite (1400-1300).

In particolare, la raccolta di 282 leggi del re Hammurabi di Babilonia fu scolpita su di una stele in diorite, roccia molto resistente, alta circa 225 cm, e venne rinvenuta verso la fine dell'Ottocento nella città di Susa (Shushi capitale amministrativa della Contea di Shushi, nella provincia iraniana di Kh?zest?n). Si ritiene che fosse originariamente esposta nella capitale, e che sia stata trasportata sul luogo del ritrovamento come bottino di guerra dall'esercito elamita. Attualmente si trova a Parigi, nel Museo del Louvre. Una copia si trova al Pergamonmuseum a Berlino.

Il corpus legale è suddiviso in capitoli che riguardano varie categorie sociali e di reati, e abbraccia in pratica tutte le possibili situazioni dell'umano convivere del tempo, dai rapporti familiari a quelli commerciali ed economici, dall'edilizia alle regole per l'amministrazione della cosa pubblica e della giustizia. Le leggi sono notevolmente dettagliate, e questo ha fornito un aiuto prezioso agli archeologi, consentendo loro di ricostruire importanti aspetti pratici della società mesopotamica. L'importanza del codice di Hammurabi risiede certo nel fatto che si tratta di una delle prime raccolte organiche di leggi a noi pervenuta, ma soprattutto nel suo essere pubblico, o per meglio dire pubblicamente consultabile, esplicitando il concetto giuridico della conoscibilità della legge e della presunzione di conoscenza della legge.

Il cittadino babilonese aveva perciò la possibilità di verificare la propria condotta secondo le leggi del sovrano, e quindi di evitare determinati comportamenti, o di scegliere di attuarli a suo rischio e pericolo. Per la prima volta nella storia del diritto, i comportamenti sanzionabili e le eventuali pene vengono resi noti a tutto il popolo (o almeno a chi fosse in grado di leggere).

Il codice fa un larghissimo uso della Legge del taglione, ben nota nel mondo giudaico-cristiano per essere anche alla base della legge del profeta biblico Mosè. La pena per i vari reati è infatti spesso identica al torto o al danno provocato: occhio per occhio, dente per dente. Ad esempio la pena per l'omicidio è la morte: se la vittima però è il figlio di un altro uomo, all'omicida verrà ucciso il figlio; se la vittima è uno schiavo, l'omicida pagherà un'ammenda, commisurata al "prezzo" dello schiavo ucciso. Il codice suddivide la popolazione in tre classi:

-aw?lum (lett. "uomo"), cioè il cittadino a pieno titolo, spesso nobili e paragonabili agli ateniesi della Grecia classica.

-mušk?num, uomo "semilibero", cioè libero ma non possidente e paragonabili ai perieci spartani della Grecia classica (in seguito la parola passò a definire un povero o mendicante, e pare che sia all'origine dell'attuale termine "meschino", arabo maskîn),

-wardum (fem. amat), a tutti gli effetti schiavo di un padrone, ma con molte analogie con i servi della gleba medievali.

Le varie classi hanno diritti e doveri diversi, e diverse pene che possono essere corporali o pecuniarie. Queste ultime sono commisurate alle possibilità economiche del reo, nonché allo status sociale della vittima. Non viene riconosciuto nel Codice il diritto di responsabilità personale, ossia la pena non è differente a seconda che il danno commesso sia volontario o colposo. Un esempio classico è l'architetto che progetta una casa; se essa crolla e uccide coloro che vi abitano, la colpa è di chi l'ha progettato, e la pena è come se egli avesse ucciso di persona le vittime. L'impostazione basata sulla legge del taglione modifica il pensiero giuridico dominante nel periodo precedente, attestato dal Codice di Ur-Namma, che prevedeva per alcuni reati semplici sanzioni pecuniarie invece di quelle fisiche. Non si sono invece finora trovate raccolte di norme a Ebla, in Siria (palazzo almeno del 2500 a.C.), ma forse parte del diritto potrà ricostruirsi con l'analisi delle tavolette, una delle quali (TM 75 G 2420) presuppone atti normativi. Altre norme risultano emanate nella stessa epoca a Larsa.

Le norme di queste leggi sono spesso particolari, come se avessero preso lo spunto da un caso specifico, fossero cioè 'casistiche'. La maggior parte delle norme generali è invece presupposta con una specie di rinvio alla consuetudine. La norma consuetudinaria base aveva semplicemente stabilito che il re aveva tutti i poteri, purché li esercitasse nell'interesse del suo popolo e facendo regnare la giustizia. Autori e garanti di questo limite appaiono gli dei, come si desume principalmente dal prologo e dall'epilogo del Codice di Hammurabi e dalla relativa stele custodita nel museo parigino del Louvre, nella cui parte alta, il re, ossequente dinanzi al dio Marduk, sembra riceverne i suggerimenti. Il prologo, a sua volta, riferisce la chiamata del re da parte degli dei Anum ed Enlil e l'ordine, impartitogli da Marduk, di far regnare la giustizia nel paese, e fa appello, come poi fa anche l'epilogo, al dio della giustizia Šamaš. La religione era ormai il solo tramite fra gli uomini e gli esseri soprannaturali, e gli stregoni erano stati non solo messi da parte, ma puniti (cfr. Codice di Hammurabi, 2; leggi assire, A. 47). Nel Regno di Hammurabi e nei regni consimili in Mesopotamia, Siria e Anatolia il re era raffigurato in diretto rapporto con gli dei, senza l'intermediazione di sacerdoti, e le norme da lui emanate avevano in definitiva carattere puramente regio, non teocratico.

Esistevano beninteso sacerdoti e templi, e questi erano anche importanti centri economici, ma non esisteva una casta sacerdotale che si contrapponesse al re o, all'occorrenza, ne guidasse l'opera di governo. Dall'insieme delle norme legislative pervenute, si desume che in materia penale la vendetta privata, talvolta sotto forma di taglione, coesisteva con la repressione giudiziaria, promossa nel tribunale del re o di altri giudici con un'accusa fondata su regolari prove, quali testimonianze e scritture. Era anche prevista in alcuni casi l'ordalia del fiume, la quale probabilmente si eseguiva con modalità diverse.

Una di queste - secondo il Codice di Hammurabi, 2, in merito all'accusa di stregoneria - consisteva nell'attraversamento dell'Eufrate da parte dell'accusato, il quale, se veniva inghiottito dal fiume, risultava colpevole e subiva con ciò stesso la prevista pena di morte, mentre, se usciva sano e salvo dando così la prova della sua innocenza, poteva impadronirsi dei beni dell'accusatore, colpevole di calunnia. Le restanti norme indicano che il matrimonio era monogamico, che solo il marito poteva divorziare, che solo la moglie aveva il dovere di fedeltà e subiva (così come il suo complice) la pena dell'adulterio, in dati casi anche capitale (Codice di Hammurabi, 129; leggi assire, A. 13).

Risulta inoltre che, oltre ai beni mobili, anche certi immobili potevano essere goduti in modo esclusivo da un privato (sia o no corretto parlare al riguardo di proprietà: Codice di Hammurabi, 42-47; leggi assire, B. 10-20) e che erano riconosciuti vincolanti i contratti di mutuo e locazione e certi contratti di lavoro (legge di Eshnunna, 5;9;32; Codice di Hammurabi, 218-233; 238-239). (Su tutto il tema cfr. R. Haase, Die keilschriftlichen Rechtssammlungen in deutscher Ubersetzung, Wiesbaden 1963; R. Yaron, The laws of Eshnunna, Jerusalem 1969; E. Szlechter, Codex Hammurabi, Roma 1977; G. Cardascia, Les lois assyriennes, Paris 1969; F. Imparati, Le leggi ittite, Firenze 1964).

Dall'inizio del II millennio a.C. la civiltà palaziale è attestata a Creta, presso i Minoici, e poi nei regni micenei di Grecia e della stessa Creta da questi conquistata verso la metà del millennio. Non vi si sono finora scoperti codici né leggi. Il re dei Micenei, in qualche modo rievocato da Omero (cfr. E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, Milano 1979), era chiamato wanax; è controverso se egli fosse a capo di un regno teocratico o di una monarchia più simile a quelle mesopotamiche e anatoliche.

Dal Regno miceneo provengono documenti di contratti di vendita (cfr. The Knossos tablets, testo traslitterato a cura di J. Chadwick, J. T. Killen e J.-P. Olivier, Cambridge 1971; per una visione generale cfr. L.R. Palmer, Mycenaeans and Minoans: Aegean prehistory in the light of the Linear B tablets, London 1961, tr. it.: Minoici e micenei: l'antica civiltà egea dopo la decifrazione della Lineare B, Torino 1969).

Il diritto dell'Egitto faraonico

I faraoni avevano costituito il loro Antico Regno in epoca anteriore anche al Regno di Ebla ed erano stati iniziatori di una civiltà avente caratteristiche inconfondibili. Nessun codice né raccolta di leggi è stato trovato in Egitto, pur non potendo negarsi che i faraoni emanarono leggi (cfr. J.M. Kruchten - a cura di - Le décret d'Horembeb, Bruxelles 1981; A. Théodoridès, La formation du droit dans l'Égipte Pharaonique, in AA.VV., La formazione del diritto nel Vicino Oriente antico, Napoli 1988, pp. 13-33). Pare certo, ad ogni modo, che il diritto egizio fosse di origine consuetudinaria; forse era anche giudiziario-casistico, poiché sembra che il supremo giudice, il Ciaty, e anche altri organi giudiziari, godessero, nel decidere i singoli casi, di una certa discrezionalità.

Invero, il diritto egizio appare più flessibile di quello degli altri regni e, d'altro canto, più egualitario verso le donne, mentre recepiva più che negli altri regni l'influenza dei sacerdoti (cfr. in generale B. Menu, Recherches sur l'histoire juridique, économique et sociale de l'ancienne Égypte, Versailles 1982).

Il diritto biblico

Una ben più profonda influenza della religione e della casta sacerdotale si riscontra nella comunità ebraica, la quale, fuggendo dall'Egitto (secondo la tradizione biblica) o emigrando dall'Arabia (secondo alcuni studiosi), si stanziò verso la fine del II millennio a.C. nella terra di Canaan. Essa merita di essere qui considerata, soprattutto come esempio di una comunità teocratica retta da un diritto strettamente legato alla religione. Il suo effettivo costituirsi fu infatti preceduto dalla diretta imposizione al popolo, tramite Mosè, della Torah (legge) da parte di Dio sul monte Sinai. Alcuni libri del Pentateuco - in particolare i capitoli 20-31 dell'Esodo, ma anche alcuni capitoli successivi, nonché il Levitico e il Deuteronomio - contengono, oltre ai dieci comandamenti, norme enunciate, in parte scritte su pietra (cfr. Esodo, 32,13; 34,1-49), da Dio stesso: norme che possono bensì distinguersi in religiose, rituali e giuridiche (per la somiglianza di queste ultime, quanto a materia regolata e, talvolta, a forma di prescrizione, con norme delle leggi mesopotamiche), ma che formalmente sono tutte accomunate dalla natura divina della fonte (cfr. D. Piattelli, Tradizioni giuridiche d'Israele, Torino 1990; R. Yaron, The evolution of Biblical law, in La formazione del diritto del Vicino Oriente antico, cit., pp. 77 ss.).

La conseguenza fu che dette norme furono considerate non modificabili né integrabili, nemmeno quando furono istituiti in Israele i re, titolari invero di poteri tanto deboli da non comprendere quello di emanare leggi atte a incidere, almeno a scopo di aggiornamento, sul diritto divino. L'intrinseca rigidità di questo diritto venne attenuata con l'ammissione di leggi tramandate oralmente (Torah orale) e con le sottigliezze interpretative mostrate soprattutto dai dottori della legge ispirati dal sacerdote Esdra dopo il ritorno dalla cattività di Babilonia (fine del VI secolo a.C.). Si formarono così, accanto alla Torah, prima un insieme costituito dalle leggi morali e dalle varie interpretazioni, noto complessivamente come Mishnah (200 a.C. circa), poi, a grande distanza di tempo (VI secolo d.C.), i Talmud (il babilonese in 12 libri e il più succinto palestinese), nei quali persisteva, beninteso, la tradizionale commistione tra religione e diritto.

I diritti greci

Quanto sia stato importante il contributo greco alla civiltà umana non ha bisogno di essere illustrato. Non occorrono nemmeno molte parole per sintetizzare l'apporto della Grecia antica allo sviluppo del diritto. Intorno al X secolo a.C., re molto più deboli dei wanaktes micenei erano a capo di singole città e della campagna circostante e vennero poi sostituiti da (o inglobati in) magistrature repubblicane. Sorse così la “polis” la quale costituì (nonostante l'eventuale presenza di re fra i suoi organi) il più antico e sostanzialmente il più illustre modello di repubblica. Quest’ultima era imperniata su tre organi: assemblea dei cittadini, consiglio, magistrati. La natura di questi ultimi e la concentrazione di poteri nell'uno o nell'altro organo determinavano il tipo di governo. Secondo i pensatori greci, da Aristotele a Polibio, i tipi possibili di governo erano sei, alternativamente uno buono e uno cattivo: monarchia o tirannide, aristocrazia (governo dei migliori) o oligarchia (governo di pochi privilegiati), democrazia (governo del popolo) o oclocrazia (governo delle masse). Si è immaginato, schematizzando e sintetizzando la storia costituzionale di alcune città, che vi fu un passaggio ciclico dall'uno all'altro tipo.

In concreto, la costituzione di Sparta, caratterizzata dalla persistenza di due re e dalla radicale disuguaglianza degli abitanti (gli Spartiati, dediti alle armi, beneficiari di terre loro concesse dalla “polis”, soli ammessi al “consiglio” e agli altri organi pubblici; gli Iloti, semischiavi, costretti a coltivare le terre degli Spartiati; i Perieci, abitanti dei territori conquistati, liberi solo di dedicarsi ad attività economiche, rimase sempre, pur con varianti, aristocratica o oligarchica.

Diversamente, la costituzione di Atene fu, a partire da Solone (inizio del VI secolo), tendenzialmente democratica, malgrado non irrilevanti parentesi di tirannide e nonostante la generale inferiorità socio-giuridica delle donne (escluse, fra l'altro, dai diritti politici), nonché le disuguaglianze tra i cittadini pieni (πολ?ται) e i Meteci (stranieri autorizzati ad abitare in territorio ateniese sotto la protezione di un patrono).

Eccetto che nei periodi di tirannide, i πολ?ται avevano tre fondamentali diritti politici: partecipare attivamente all'assemblea, rivestire una magistratura (spesso, tranne quella degli strateghi, per estrazione a sorte), essere giudici nel tribunale eliastico.

Il diritto ateniese (che si prende qui ad esempio come il più noto) era costituito anzitutto da leggi (ν?μοι) votate dall'assemblea, e se ne scorgeva la divina ispiratrice in Temi, dea della giustizia e moglie di Zeus.

Le leggi apparivano quindi tendenzialmente immutabili; tuttavia le costituzioni del V-IV secolo avevano stabilito che ogni anno l'assemblea dovesse deliberare se o quale legge dovesse modificarsi.

Il diritto derivava pure dalla consuetudine (legge non scritta). Gli atti contrari alla legge erano colpiti con una pena o un'altra sanzione. L’irrogazione della sanzione da parte dei giudici, se l'interesse violato appariva individuale o familiare (tale anche quello degli stretti parenti di un assassinato), poteva essere chiesta dal singolo interessato con un'azione giudiziaria, se invece appariva collettivo, poteva essere chiesta da qualunque cittadino.

I pensatori greci trattarono del diritto e dell'organizzazione della “polis” sotto il profilo filosofico o sociologico. Altri autori scrissero le orazioni con cui attore o accusatore e convenuto o accusato sostenevano le loro rispettive ragioni dinanzi ai giudici, citando spesso le leggi attinenti al caso e svolgendo argomenti con la tecnica della retorica.

Mancò invece in Grecia uno studio scientifico del diritto (su tutto il tema cfr. H.J. Wolff, Rechtskunde und Rechtswissenschaft bei den Griechen, in "Beiträge zur Rechtsgeschichte Altgriechenlands", 1951, XLIV, pp. 243 ss.; E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, cit.; A. Biscardi, Diritto greco antico, Milano 1982; M. Talamanca, Il diritto in Grecia, in Il diritto in Grecia e a Roma, di M. Bretone e M. Talamanca, Roma-Bari 1981; J. Bleicken, Die athenische Demokratie, Paderborn-Zürich 1988).

Il diritto romano e i suoi modelli

Quasi cinque secoli dopo la fine dei Regni micenei in Grecia e mille anni dopo il Codice babilonese di Hammurabi, ossia nell'VIII secolo a.C., secondo la tradizione fu fondata Roma, ma solo intorno al 450 a.C. la relativa comunità cominciò a mostrare le sue capacità di organizzazione giuridica e solo dal II secolo cominciò a emergere per la qualità dei suoi giuristi. Già nel 450 a.C. (epoca delle XII tavole) i Romani conoscevano la cultura greca e, specie successivamente, ne sentirono l'influenza, ma nel campo del diritto, senza rendersene del tutto conto, essi la superarono largamente. Il diritto formatosi a Roma durante sette o otto secoli fornì a lungo i modelli per la nascita dei diritti europei ed extraeuropei. Basterà qui indicare i principali fra questi modelli.

Il regime repubblicano

Questo primo modello concerne la struttura della comunità politica (la struttura repubblicana: V-I secolo a.C.). La repubblica romana, sulle orme della “polis” greca era imperniata su tre organi - assemblea popolare (comitia), consiglio (senatus), magistrati (consules, praetores, ecc.) - ma la distribuzione dei poteri fra essi era tale, nel III-II secolo a.C., che lo storico greco Polibio poté dire che Roma era contemporaneamente, a seconda dell'organo considerato, una monarchia, un'aristocrazia e una democrazia.

In realtà, fra il V e il II secolo a.C., Roma fu essenzialmente un'aristocrazia temperata dalla presenza dei tribuni della plebe, i quali, eletti dall'assemblea plebea, potevano, ciascuno con la propria tempestiva intercessio, arrestare il corso di qualsiasi provvedimento e, inoltre, a partire dal 286 a.C., far approvare dalla stessa assemblea atti normativi (plebiscita) vincolanti per tutto il popolo.

I tentativi di rendere la repubblica più democratica, iniziati dai Gracchi grazie all'esercizio dei poteri attribuiti ai tribuni della plebe, determinarono tensioni che, attraverso guerre civili, intermezzi democratici e poteri personali, condussero nel 27 a.C. al principato di Augusto (sul molto più complesso tema cfr. P. De Francisci, Storia del diritto romano, 3 voll., Milano 1936-1939²; F. De Martino, Storia della costituzione romana, 5 voll., Napoli 1972-1975²; J. Bleicken, Die Verfassung der römischen Republik, Paderborn 1975; S. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana, vol. I, Milano 1981).

Invero, l'età di Augusto rappresentò un momento di svolta nella storia di Roma e il definitivo passaggio dal periodo repubblicano al principato. La rivoluzione dal vecchio al nuovo sistema politico contrassegnò anche la sfera economica, militare, amministrativa, giuridica e culturale.

Augusto, negli oltre quarant'anni di principato, introdusse riforme d'importanza cruciale per i successivi tre secoli:

  1. -riformò il cursus honorum di tutte le principali magistrature romane, ricostruendo la nuova classe politica e aristocratica, e formando una nuova classe dinastica;

  2. riordinò il nuovo sistema amministrativo provinciale anche grazie alla creazione di numerose colonie e municipi che favorirono la romanizzazione dell'intero bacino del Mediterraneo;

  3. -riorganizzò le forze armate di terra (con l'introduzione di milizie specializzate per la difesa e la sicurezza dell'Urbe, come le coorti urbane, i vigiles e la guardia pretoriana) e di mare (con la formazione di nuove flotte in Italia e nelle provincie);

  4. riformò il sistema di difese dei confini imperiali, acquartierando in modo permanente legioni e auxilia in fortezze e forti lungo l'intero limes;

  5. -fece di Roma una città monumentale con la costruzione di numerosi nuovi edifici, avvalendosi di un collaboratore come Marco Vipsanio Agrippa;

  6. -favorì la rinascita economica e il commercio, grazie alla pacificazione dell'intera area mediterranea, alla costruzione di porti, strade, ponti e ad un piano di conquiste territoriali senza precedenti,[9] che portarono all'erario romano immense e insperate risorse (basti pensare al tesoro tolemaico o al grano egiziano, alle miniere d'oro dei Cantabri o quelle d'argento dell'Illirico);

  7. -promosse una politica sociale più equa verso le classi meno abbienti, con continuative elargizioni di grano e la costruzione di nuove opere di pubblica utilità (come terme, acquedotti e fori);

  8. -diede nuovo impulso alla cultura, grazie anche all'aiuto di Mecenate.

  9. -introdusse una serie di leggi a protezione della famiglia e del mos maiorum chiamate Leges Iuliae.

  10. -riordinò il sistema monetario (23-15 a.C.), che rimase praticamente immutato per due secoli.


I giuristi artefici e scienziati del diritto

Il secondo modello riguarda, principalmente, il diritto inerente ai rapporti fra privati, parte privilegiata dell'eredità giuridica romana, ed è costituito dall'opera dei giuristi fra il IV secolo a.C. e il IV d.C.

Tale opera consistette, dapprima, nell'interpretazione evolutiva delle XII tavole da parte dei giuristi appartenenti al collegio sacerdotale dei pontefici, poi, divenuta laica la categoria, si estrinsecò soprattutto in modo casistico, mediante pareri (responsa) sull'esatta soluzione di casi concreti sottoposti da uno degli interessati, discussioni di casi controversi tradizionali (quaestiones), esposizioni del diritto vigente nelle varie materie.

Fra queste, almeno dal I secolo d.C., vi fu anche il diritto penale che, a differenza del privato, era stato spesso regolato da leggi, molte delle quali, verso la fine della repubblica, avevano istituito ciascuna una giuria di cittadini di elevato rango sociale presieduta da un magistrato (quaestio), affidandole il compito di giudicare le persone accusate del singolo delitto da tale legge precisamente descritto e punito con pena fissa (in genere, più lieve della pena capitale).

I giuristi romani (le cui punte più alte furono Labeone, Giuliano, Papiniano) si distinsero per la loro capacità di combinare ragionamenti rigorosi con valutazioni etico-sociali dei singoli casi ispirate a giustizia ed equità (entro i limiti - beninteso- della persistente schiavitù e delle gravi disuguaglianze sociali). Essi contribuirono largamente alla formazione del diritto, grazie al loro prestigio più che a poteri loro ufficialmente conferiti, e fornirono il primo esempio in Occidente (un altro, intrinsecamente diverso, ne vedremo in India) di uno studio scientifico e imparziale del diritto (cfr. F. Schulz, History of Roman legal science, Oxford 1963²; M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, Napoli 1982²; F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte, vol. I, München 1988).

Il “ius honorarium

Un terzo modello è costituito dall'attività dei pretori e di altri magistrati operanti nell'amministrazione della giustizia. Chiave del modello fu costituita dal potere di quei pretori, e in parte degli altri magistrati, di derogare più o meno ampiamente al diritto vigente, se esso appariva inadeguato alle nuove (o diversamente valutate) esigenze sociali, e di introdurre quindi procedure e criteri di giudizio da esso divergenti.

Tali soggetti furono in grado, così, di tutelare sia persone, sia interessi per i quali fino alla loro innovazione o non esisteva nessuna tutela o ne esisteva una arretrata e (divenuta) ingiusta. Essi intervennero dapprima, a quanto sembra, caso per caso (altro probabile esempio di formazione casistica del diritto), poi con promesse di intervento formulate in modo generale o astratto nell'editto emanato, di regola, ogni anno. Si formò così, accanto al diritto delle XII tavole, aggiornato e arricchito dalla consuetudine e dai giuristi e da quanto era stato sporadicamente introdotto da leggi, e poi anche da disposizioni del senato e del principe (nell'insieme ius civile), un diritto parallelo (ius praetorium o honorarium) destinato, secondo Papiniano, a integrare, supplire, correggere il ius civile.

A ciò, deve aggiungersi che, comunque, gli interventi dei magistrati furono spesso consigliati o tecnicamente elaborati dai giuristi, chiave di volta dell'intero diritto del tempo. Un ponte, poi, fra il ius civile e il praetorium fu il ius gentium, diritto applicabile anche agli stranieri, in parte derivato dagli usi internazionali e da quelli del commercio con stranieri, in parte creazione pretoria, sempre con la guida dei giuristi (cfr. E. Betti, La creazione del diritto nella 'iurisdictio' del pretore romano, in Studi in onore di G. Chiovenda, Roma 1927, pp. 89 ss; M. Kaser, 'Ius honorarium' und 'ius civile', in "Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte", 1984, CI, pp. 1 ss.; G. Pugliese, 'Ius honorarium' e 'equity', in "Rivista trimestrale di diritto e procedura civile", 1988, XLII, pp. 1101 ss.).

Il cristianesimo del tardo Impero

Ci siamo riferiti fin qui a quelli che si suole chiamare periodi “preclassico” e “classico”. Cominciò, poi, nel corso del III secolo d.C., quello detto postclassico, concluso con l'epoca giustinianea e caratterizzato dall'instaurazione della monarchia assoluta (detta “dominatio”), dal forte sviluppo della burocrazia e della relativa disciplina giuridica, dal largo impiego dei testi classici riuniti in raccolte di varia natura e ampiezza (talvolta in versione 'volgare' per la prevalenza dello sbrigativo senso pratico sui concetti e i ragionamenti precisi), dall'influenza del cristianesimo (da Costantino in poi, IV-VI secolo d.C).

Il diritto romano, dopo l'iniziale stretta connessione con la religione e la magia, era stato fino allora caratterizzato dalla “laicità”. L'influenza cristiana, che iniziò con Costantino e non determinò mai quella commistione fra religione e diritto che si avverte nel diritto biblico, si manifestò prevalentemente nel campo delle persone e della famiglia, mitigando, per esempio, la condizione degli schiavi e introducendo nuovi modi o cause di acquisto della libertà, conferendo ai figli maggiore autonomia dalla patria potestà, punendo il divorzio unilaterale senza giusta causa, nonché i comportamenti di un coniuge che costituissero giusta causa per il divorzio dell'altro, vietando, con Giustianiano, anche il divorzio consensuale.

Inoltre, nel campo del diritto penale, l’influenza cristiana causò la soppressione della pena della crocifissione, ma non la mitigazione delle altre pene; solo Giustiniano alleviò la condizione dei carcerati e invitò i vescovi a curarsi di essi. In tutti gli altri campi tale influenza si manifestò in modo diffuso e capillare con nuovi modi di legiferare (ne sono esempio le costituzioni imperiali del IV-VI secolo), nuovi modi di interpretare e applicare il diritto, forse anche - ma il punto è controverso - con alterazioni dei testi raccolti (cfr. S. Riccobono, L'influsso del cristianesimo sul diritto romano, in Atti del Congresso internazionale di diritto romano, vol. II, Pavia 1935, pp. 59 ss.; A. Beck, Christentum und nachklassische Rechtsentwicklung, in Atti del Congresso internazionale di diritto romano, vol. II, Pavia 1935, pp. 89 ss.; O. Robleda, Diritto romano e cristianesimo, in "Atti dell'Accademia Costantiniana", 1981, IV, pp. 268 ss.).

Giustiniano promosse, inoltre, la grande compilazione dei testi classici e postclassici, attuata tra il 529 e il 534.

Opera eccezionale per qualità e rapidità di esecuzione, il Corpus iuris civilis, è composta dal Codex e Novellae, che raccolgono tutta la legislazione imperiale precedente, dalle Digesta (o Pandectae), compilazione di migliaia di casi giurisprudenziali risolti dai più eminenti giuristi della storia di Roma, e dalle Institutiones, manuale per chi studiava il diritto.

Il diritto hindu fino al 500 circa

Il diritto hindu è meno antico di quelli mesopotamici, siriaci, anatolici e di quello egizio, poiché le sue più antiche tracce, connesse con la letteratura “vedica”, non risalgono più indietro del 1500 a.C., mentre le sue fonti più importanti, costituite da opere di autorevoli saggi, sono di un'epoca compresa tra il III secolo a.C. e il IV-V d.C.

La nozione hindu più simile a “diritto” è dharma, che significa “rettitudine”, “giustizia” e comprende insieme aspetti etici, religiosi, giuridici. Che cosa fosse il dharma era teoricamente intuito e percepito dal singolo individuo come frutto della rivelazione divina (?ruti), ma in pratica lo chiariva la tradizione (sm?ti) e lo riferivano e spiegavano i saggi (bramini), che in fondo erano - a modo loro - giuristi. Le numerose opere di questi ultimi erano chiamate dharma??stra, che significa, pressappoco, “scienza della giustizia (del bene, del diritto)” (cfr. P.V. Kane, History of dharma??stra, Poona 1968).

Queste opere, nell'epoca considerata (fino al 500 circa d.C.), erano anonime, frutto della riflessione della dottrina braminica, e costituivano un intreccio di religione, morale e diritto, con qualche vaga somiglianza, per la commistione del contenuto, con la Torah biblica (la quale però era una legge imperativa emanata da un Dio persona, intrinsecamente molto diverso dall'indefinita e cosmica divinità indiana). Le regole che se ne desumevano erano diverse per le varie caste (varna, donde varnasramadharma) e anche, in pratica, per i vari regni in cui il vastissimo territorio indiano era diviso. Uno dei temi trattati in quelle opere era appunto il Rajadharma, ossia le regole che i re dovevano osservare, mentre altre opere (artha??stra) consigliavano ai re l'arte di governare. La più nota delle opere prima indicate è quella di Manu (Manusm?ti: cfr. G. Bühler, The laws of Manu, Oxford 1886), anonima nonostante l'indicazione dell'autore e probabilmente del III-II secolo a.C. ma con aggiunte posteriori (è da notare che cronologia ed esatto tenore testuale di questa e altre opere sono ancora incerti, ma un'edizione critica dei testi, in corso a Torino presso il CESMEO, si propone fra l'altro di dissipare per quanto possibile queste incertezze). Oltre che da tali opere le regole di condotta degli individui si desumevano dalle consuetudini locali. Non sembra invece che i re abbiano emanato leggi o altri atti normativi, tranne che in materia amministrativa e processuale. Nei riguardi dei privati, i re si limitavano a giudicare o far giudicare se avessero violato il dharma e meritassero una pena corporale, di regola inflitta con la frusta, danda. (Più ampie e precise notizie possono leggersi in R. Lingat, The classical law of India, Berkeley 1973; J.D.M. Derrett, Religion, law and State in India, London 1968, e Essays in classical and modern Hindu law, voll. III-IV, Leiden 1977-1978; W.F. Memski, Diritto dell'India, in Enciclopedia Giuridica, vol. XI, Roma 1988, pp. 2-6).

Il diritto hindu successivo

Tutte le caratteristiche peculiari del diritto hind? subirono però alterne vicende, conseguentemente alle dominazioni straniere che si impadronirono dell'India.

I contatti col mondo arabo, iniziati nel VI secolo, come rapporti commerciali, sfociarono nell'effettiva occupazione del suolo indiano, avvenuta nel 1192, ad opera dell'esercito dei turchi, guidati da Muhamm?d di Gh?r. Fino al 1206 gli indiani vennero trattati come dhimmi, con l'introduzione della gizya, una tassa che essi erano costretti a pagare se desideravano continuare a praticare la propria religione. I capi del governo islamico erano soddisfatti con l'imposizione della gizya, e si astennero dall'interferire con le leggi civili degli Hind?. Era un governo interessato a prendere tasse, e non a fare leggi.

Per questo motivo l'influenza islamica non riuscì a indebolire i fondamenti del dharma; fu invece l'Impero britannico, che dal 1798 al 1947 detenne il totale controllo dei territori indiani, a introdurre modelli e ideali giuridici che ancor oggi caratterizzano il diritto indiano.

Già quasi un secolo prima del 1798, le istituzioni coloniali britanniche avevano l'autorità politica necessaria per legiferare, ma non intervenivano nel diritto privato o nelle relazioni fra gli indiani. Inoltre non vi erano norme precise che indicassero quali fonti applicare e in quali casi.

Nel 1781 l'autorità delle corti regie fu estesa anche alle dispute fra indiani, nelle quali fino a quel momento veniva solitamente applicato il diritto hind? o islamico. Ancora nel 1781 il governatore del Bengala Warren Hastings, al servizio della Compagnia delle Indie Orientali, attuò una riorganizzazione della struttura giudiziaria della colonia, cercando di dare al sistema legale un carattere il più possibile indigeno. Per questo fece tradurre numerosi codici hind? e decise che, almeno per lo statuto personale della popolazione locale (matrimonio, filiazione, capacità giuridica, successioni), sarebbe rimasto in vigore il diritto hindu o musulmano. In tutte le altre situazioni si sarebbero dovuti applicare i ‘principles of justice, equity and good conscience', senza imporre la common law. D'altra parte neanche i giudici erano common lawyers inglesi, e pertanto si tentava di risolvere i conflitti ispirandosi ai metodi e alle concezioni locali. Questo sforzo restò invariato anche quando, nel 1858, il governo regio acquisì il controllo diretto del subcontinente indiano. I giudici britannici lavorarono autonomamente all'individuazione del principio fondamentale del diritto hind?. Avendo compreso che questa principio era il dharma, essi si impegnarono nell'applicazione dei dharma??stra e dei nibandha, senza tener conto del fatto che questi non contenevano la somma complessiva dei criteri di giudizio.

Proprio allo scopo di conoscere gli altri criteri di giudizio, nacque l'iniziativa di raccogliere e codificare le consuetudini, al fine di consentirne una ordinata applicazione. Ma l'impresa non fu priva di errori: consuetudini locali vennero ritenute generali, ed inoltre le informazioni subirono sostanziali travisamenti, sul piano logico e pratico, a causa dell'uso della lingua inglese.

L'intromissione del diritto inglese fu invece vantaggiosa laddove il diritto hind? mancava di precisione, tanto che in determinati casi erano gli stessi soggetti coinvolti nella disputa a richiedere l'applicazione delle norme britanniche. Ciò accadeva soprattutto per i problemi riguardanti le obbligazioni, che a differenza di altri ambiti, quali la famiglia, la casta, la terra o la successione, non erano trattate in modo particolareggiato dalle fonti hind?. Ad esempio, non era previsto un esplicito provvedimento da attuare nel caso in cui un debito non fosse stato pagato, anche se l'inosservanza degli obblighi di pagamento era considerata un peccato.

A poco a poco, i giudizi della magistratura inglese vennero raccolti e pubblicati in modo da renderne possibile l'utilizzazione a tutti i giudici, i quali preferirono largamente adattare le proprie decisioni ai precedenti casi simili o identici, piuttosto che ricorrere alle enigmatiche fonti hind?. Questo modo di procedere permise una certa autonomia dalle effettive fonti indigene; la complessità di quest'ultime, agli occhi dei funzionari inglesi, era tale da definirle un mostro chiamato diritto hindu.

Fu perciò abbandonata l'idea di compilare semplici raccolte e si cercò invece di conferire alle fonti hind? un assetto in gran parte nuovo e più funzionale, sistematizzandole in base ai principi e alle interpretazioni inglesi.

L'efficienza delle modifiche apportate, almeno dal punto di vista inglese, consisteva nell'aver reso l'ordinamento più attuale e uniforme, sia idealmente sia materialmente. In effetti, oggi molti studiosi, indiani e non, valutano questa rielaborazione non necessariamente come un fattore negativo. Anche i giudici hind?, gli avvocati hind?, e il pubblico hind? nell'insieme accettarono completamente questo benintenzionato ma perfettamente ibrido sistema giuridico creato dai britannici. Lo accettarono prima dell'indipendenza, e continuarono a vivere di esso dopo il 1947.

Le trasformazioni introdotte furono considerevoli: il dharma venne considerato come un diritto astratto e naturale; esso comprendeva norme derivate da principi generalmente validi, anche se storicamente determinati, e percepiti nella coscienza di ciascun individuo come ideale di giustizia. Pertanto, questo modello astratto inutilizzabile fu tradotto in norme positive (dal latino positum = posto), cioè in norme poste dallo Stato, e non dalla divinità; e vigenti in un determinato momento storico, piuttosto che eternamente immutabili.

La consuetudine venne teoricamente considerata di legittima applicazione, ma assunse un ruolo sempre più limitato, almeno all'interno delle Corti. Il diritto consuetudinario popolare, infatti, continuava ad essere praticato come prima dell'arrivo degli inglesi, con la differenza che l'autorità superiore a cui esso si contrapponeva non era più un diritto divino, ma un diritto statuale.

Le nuove norme si applicavano a tutti coloro che si trovavano sul suolo indiano, ma ne vennero create alcune dirette esclusivamente agli indigeni, i quali avevano goduto ancora di una certa autonomia nello statuto personale. Perciò queste leggi specifiche riguardavano soprattutto il diritto personale e di famiglia, e miravano in particolare all'abolizione del sistema castale, e all'affermazione della capacità giuridica della donna. Questo significava rendere le donne soggetti giuridicamente attivi e passivi, capaci quindi di essere, sia titolari di diritti, sia vincolate dagli obblighi della legge.

L'opera di codificazione fu svolta dalla Indian Law Commission, istituita nel 1835. Dalla sua attività nacquero: un codice di procedura civile (1859), uno di procedura penale (1861), leggi sui contratti (Contract Act, 1872), sulle prove (Evidence Act, 1872), sul trasferimento della proprietà (Transfer of Property Act, 1882, e poi 1929), sul trust (Trusts Act, 1882), sull'esecuzione forzata delle obbligazioni (Specific Relief Act, 1872), sui titoli di credito (Negotiable Instruments Act, 1881).[34]

Ma le norme che suscitarono le reazioni più consistenti furono quelle che intervenivano nell'ambito delle persone, della famiglia e delle successioni, comprese nei Succession Act del 1865 e del 1925.

Dunque, l'intervento britannico non si è limitato all'applicazione del diritto hind?, con le ampie alterazioni di cui abbiamo parlato ma, tramite un'intensa opera legislativa, ha provocato l'introduzione di un intero apparato straniero, che ha distorto o abbattuto il diritto hind? tradizionale e sacro. Nonostante l'assorbimento dei fondamenti del diritto inglese, il nuovo diritto indiano non rappresentò affatto una brutta copia dell'ordinamento britannico. Infatti, i giuristi incaricati della riorganizzazione ritenevano che lo stesso diritto inglese richiedesse una riforma sostanziale. Molte norme erano considerate desuete, in contrasto con la logica e la funzionalità moderne; i legislatori attinsero quindi abbondantemente a sistemi non inglesi (scozzese, francese). Il risultato fu che il diritto indiano rielaborato, sembrava piuttosto un diritto inglese rielaborato, privato di tutti i suoi aspetti più criticati nel periodo in questione.

Le idee e le concezioni giuridiche occidentali non poterono essere cancellate nel momento in cui l'India ottenne l'indipendenza politica dall'Impero britannico. Nel 1947, dopo lunghe lotte, l'Unione indiana si è liberata dal dominio coloniale, e ha inoltre sancito la propria separazione dai territori più fortemente islamizzati, riuniti nel Pakistan.

Il mantenimento di buona parte dell'apparato giuridico inglese dipende probabilmente da ciò che è stato definito il più grande contributo alla posterità fatto dalla tradizione indiana. Seymour Vesey-Fitzgerald, autore di questa affermazione, si riferisce all'estrema apertura mentale della cultura indiana, la quale rifugge da ogni brusco cambiamento, e si affida invece alla continuità, accogliendo punti di vista anche del tutto differenti. In breve, possiamo definirlo inclusivismo. L'India è vista come un enorme contenitore culturale, al cui interno aspetti apparentemente inconciliabili si fondono e si ricombinano in una solida armonia; ogni nuovo elemento introdotto non costituisce un fattore di rottura o di contaminazione, ma contribuisce ad arricchire l'esistenza collettiva. Allo stesso modo il moderno giurista indiano, guardando al suo antico diritto con orgoglio patriottico, volge anche lo sguardo al diritto inglese con l'affetto di chi ne è possessore. Non separerebbe neanche se potesse i due sistemi dei quali egli è la sintesi vivente; un attuale giurista non fa altro che fornire, al diritto dei suoi avi, i requisiti richiesti dall'epoca e dalla società in cui vive, cosa che anch'essi furono in qualche misura tenuti a fare.

È così che il sistema indiano ha tratto alcuni benefici dalla tradizione giuridica occidentale. Le decisioni prese dalla Commissione legislativa, incaricata della riforma del diritto indiano dopo il 1947, dimostrano largamente l'acquisizione giuridica dei principi di uguaglianza. L'impegno dell'autorità politica nell'opera legislativa è già un fondamentale passo verso la rigenerazione della società indiana.[38] Tuttavia, le comunità di villaggio restano profondamente legate alla loro cultura tradizionale. Per questo motivo, soprattutto nelle zone rurali, l'acquisizione sociale e culturale di quei principi risulta difficoltosa, come anche il controllo dell'applicazione delle nuove leggi.

Ad esempio, nella Costituzione del 1950, viene apertamente ripudiato il sistema delle caste (art.15), ma sul piano sociologico il problema è rimasto irrisolto. Perciò il governo ha istituito delle speciali misure protettive e delle agevolazioni per aiutare gli ex fuoricasta. Molti di loro però si erano convertiti ad altre religioni abbandonando l'induismo, la cui pratica era causa della loro condizione di fuoricasta, e quindi, ufficialmente, anche della loro emarginazione; nonostante questi soggetti subiscano ancora gravi svantaggi pregiudiziali, solo in ragione della loro origine familiare, legalmente essi non possiedono lo status di ex fuoricasta, e pertanto non possono essere loro applicate le misure speciali.

È da precisare però che nelle città la situazione è spesso differente; il desiderio di modernità, inevitabilmente collegato all'Occidente, porta a vedere il proprio diritto tradizionale come un oggetto di studio accademico, e non come l'eredità su cui modellare il proprio presente e futuro. Al contrario, specialmente tra i giovani, l'esempio da imitare è dato dalla cultura occidentale e dai suoi ideali ugualitari. I nuovi atti legislativi, a partire dai 395 articoli della Costituzione, si muovono quindi in questa direzione.

Dopo l'indipendenza, l'India ha visto il sorgere di problemi in realtà non nuovi, ma che il dominio inglese aveva in qualche modo celato. Fra questi in primo luogo la mancanza di coesione, in uno Stato che racchiude più Stati, anche molto diversificati.

L'Unione indiana è uno Stato federale, che ha il potere di sospendere l'autorità dei singoli Stati, se necessario al mantenimento della pace e dell'ordine (art. 160 Cost.). Normalmente però, l'autonomia dei singoli Stati è piuttosto ampia, proprio a causa delle diversità interne. Ad esempio in campo linguistico, in India si contano almeno 177 lingue, distribuite in 4 gruppi. Secondo la Costituzione (art.345), ognuno dei 22 Stati federati ha libertà nelle scelte linguistiche, anche se la lingua nazionale è la hindi.

Ma l'inglese è la lingua della cultura, e l'unica attualmente dotata di un vocabolario scientifico adatto ad esprimere gli argomenti e i ragionamenti giuridici. Si spera che con il tempo, la hindi si arricchirà dei vocaboli moderni e specifici che gli permetteranno di soppiantare del tutto l'inglese come lingua unificante dell'India. Al momento però, è chiaro che il rapporto fra il cittadino indiano e la legge, espressa in inglese, non può essere chiaro e stabile come potrebbe esserlo se essa fosse enunciata nella sua lingua di uso comune. Questo è solo uno dei problemi emersi nella compilazione della Costituzione, e causati dall'eterogeneità interna dello Stato indiano.

L'attività legislativa è continuata con i quattro statuti che costituiscono lo Hindu Code. Con questa grande opera di codificazione sono state attuate delle importanti riforme. È stato regolamentato il matrimonio, con un'età minima stabilita, l'obbligo del consenso dei coniugi, la monogamia, la possibilità di sciogliere il matrimonio, anche fornendo una pensione alimentare all'ex coniuge (Hindu Marriage Act, 1955 e 1964).

Altre leggi sono state fatte per tutelare i minori, vietando l'alienazione dei loro beni al cosiddetto tutore de facto, cioè a chi si occupa del minore pur non essendo un genitore o un tutore legale (Hindu Minority and Guardianship Act e Hindu Adoption and Maintenance Act 1956).

Lo Hindu Succession Act (1956) sancisce la parità tra uomo e donna nell'ambito delle successioni. Infine, viene ridimensionato il ruolo della potestà della famiglia sui beni del singolo affermando il diritto alla proprietà individuale.

La stesura di questi statuti si è valsa, in gran parte, dell'apporto dei principi occidentali, non contenendo praticamente nessun elemento dei Dharma??stra, o comunque del diritto tradizionale; anzi se qualche somiglianza può essere scoperta si tratta di una coincidenza.

Non c'è stato neanche il tentativo, di inserire nella nuova codificazione, aspetti dell'antico diritto, anche se una parte di esso è stata mantenuta poiché non entrava in conflitto con le nuove leggi.

Dal punto di vista sociale, la caratteristica principale del nuovo diritto hind? è la tendenza, non ancora pienamente realizzata, al riconoscimento dei diritti e della dignità dell'individuo, indipendentemente dall'origine, dalla posizione sociale o dal sesso.

La progressiva decadenza della ‘famiglia congiunta' (joint family), i cui diritti erano riconosciuti in quanto unità sociale indivisibile, è stata confermata dall'affermazione dei diritti di proprietà separati. Nella joint family Il soggetto normativo […] è costituito non da un singolo uomo, ma da un gruppo di persone che formano un intero. […] Invece dell'indivisibilità (l'individuo), il soggetto è una totalità di opposti, empiricamente multipla, ontologicamente unica. In altri termini, l'unità elementare è la più piccola nella quale l'ordine è ancora presente, perché la realtà umana è contigua all'ordine, non all'individuo.

Nella tradizione hind?, mentre l'individuo è collegato al movimento e al cambiamento, e quindi al disordine, la famiglia rappresenta la stabilità, la continuità, l'eterno ripetersi delle vicende dell'Universo. Il soggetto che agisce nel dharma è un sé che accetta l'eticità della comunità a cui appartiene come eticità sua propria, si conforma alle regole che essa gli impone, svolge il suo ruolo in relazione alla famiglia, alla società, allo Stato, come anche in relazione a se stesso e agli dèi.

Fra le idee occidentali penetrate in India, vi è l'enfasi data all'individuo, alle sue possibilità di modificare la realtà in suo favore e di crearsi il proprio futuro. Queste idee hanno avuto perciò un forte impatto in una società per cui l'ordine esistente, sia esso sociale o universale, non è suscettibile all'intervento umano.

Dal punto di vista strettamente giuridico, l'intenzione manifestata dai legislatori è quella di conferire uniformità alle leggi indiane e alla loro applicazione. Il compito presenta notevoli difficoltà: un unico sistema legale che dovrebbe abbracciare, effettivamente, più società, con tradizioni e leggi differenti; gruppi umani la cui cultura spazia dalla successione patrilineare a quella matrilineare, e in cui si distribuiscono almeno una decina di religioni diverse, a loro volta divise in varie scuole.

Sono attualmente presenti anche numerose scuole di legge hind?, tra cui tuttavia è stato raggiunto un discreto livello di uniformità. Tutta la moderna legge hind? si basa sui codici, secondo un modello generale di tipo occidentale, ma lo specifico metodo di interpretazione adottato è quello inglese; con precisione si tratta dello schema interpretativo più peculiarmente inglese della common law, libero dalle influenze del diritto romano della civil law. La procedura tipica della common law (‘legge comune'), è l'utilizzo delle sentenze precedentemente applicate ai casi simili. Le sentenze più frequentemente emesse per gli stessi casi saranno le più autorevoli, semplicemente in quanto sono le più comuni. Chiunque si occupi del diritto in India si sente legato all'idea del precedente. Si ricerca la norma nel precedente. L'amministrazione si occupa della redazione di raccolte di decisioni giudiziarie, della loro pubblicazione e diffusione.

Questo è dunque l'indirizzo generalmente seguito dalle scuole di diritto hind?, ma l'autorità politica mira a raggiungere ancora una maggiore coesione sul piano giuridico. L'importanza attribuita a questo fattore è testimoniata dal fatto che esso rientra fra i principi di indirizzo politico-statale espressi nella Costituzione (art.44).

L'aspirazione all'uniformità cui tenderebbe il governo, è stata spesso imputata dall'opinione pubblica indiana del rischio di violare il diritto fondamentale alla libertà di religione. Ma i membri dell'Assemblea Costituente hanno espresso un diverso parere: La religione deve restare confinata nella sua propria sfera, e gli altri aspetti della vita devono essere regolati e unificati, così che si possa diventare una nazione forte e consolidata. Il nostro primo problema è l'unità nazionale.

È utile contrapporre a queste parole quelle di Ludo Rocher, il quale afferma: Nell'induismo, legge, religione e tutti gli altri argomenti che sono trattati nei Dharma??stra sono inestricabilmente intrecciati. Ogni tentativo di scindere la varie categorie ed etichettare particolari concetti o istituzioni come essenzialmente religiosi o essenzialmente legali, è destinato a imporre su di essi categorie che sono estranee al modo di pensare hindu.

Questa concezione, opposta alla prima, mette in luce quanto l'influenza del punto di vista occidentale abbia modificato l'effettivo modo di pensare hind?.

Oggi l'India si trova ancora in un momento di transizione: non può opporsi alle trasformazioni scientifiche, tecnologiche e sociali, in atto; ma deve anche raggiungere un compromesso con una realtà che, in virtù di fattori prevalentemente economici, minaccia di cancellare la memoria della sua preziosa ideodiversità.

Il diritto cinese fino al 500 circa

La tradizione cinese fa risalire la storia della Cina, anche giuridica, alla fine del III millennio a.C., ma in realtà una precisa documentazione è del tutto assente. Non solo non esiste qualcosa di simile alle fonti giuridiche mesopotamiche, ma il diritto, in quanto munito del suo apparato sanzionatorio (detto fa), non occupava affatto nella società cinese una posizione centrale.

Una leggenda lo diceva creato nel 2200 a.C. dal popolo barbaro Miao, che aveva bisogno della sua forza repressiva, non sapendo altrimenti governare. Al fa si contrapponeva il li, come insieme di regole etico-religiose, che Kong Fuzi (Confucio, 551-479 a.C.) avrebbe successivamente precisato e sviluppato.

Vi fu nel I millennio a.C. un contrasto politico-culturale tra i 'legisti', sostenitori del fa, e i confuciani, nonché i taoisti, sostenitori della sufficienza del li. I legisti ebbero un momentaneo sopravvento sotto la dinastia Qin, fondatrice dell'Impero cinese (221-206 a.C.), ma con la dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) la prevalenza tornò ai confuciani. Ci si è a lungo chiesto se la società cinese fosse una società senza diritto; al proposito, due punti devono essere tenuti presenti:

a) la sostanza del li non era soltanto etico-religiosa, ma aveva anche aspetti giuridici, essendo una specie di diritto naturale a maglie larghe;

b) la società cinese era, come le altre società, giuridicamente organizzata, sennonché, a differenza delle altre, non aveva una densità di diritto uniforme in tutti i settori, bensì l'aveva “normale” in alcuni (quelli della struttura e amministrazione dell'Impero, delle corti giudicanti, della repressione penale), mentre l'aveva molto tenue negli altri, dove il diritto scolorava nei riti e nell'etica o in una specie di diritto naturale.

La repressione penale fu il precipuo oggetto delle leggi e dei codici emanati dai re e poi dagli imperatori che diedero inizio alle varie dinastie. Un libro delle pene (Hing-shu) sarebbe stato inciso su un tripode di bronzo (536 a.C.) e il Li Kuei sarebbe stato il primo codice, modello dei successivi, dei quali però il primo a essere conosciuto è quello della dinastia Tang (624 d.C.).

Esso prevedeva i “cinque castighi” (marcatura a ferro rovente, amputazione del naso, dei piedi, dei testicoli, pena di morte per strangolamento o, considerata più grave, per decapitazione); più tardi le amputazioni furono convertite in altre pene (di solito un dato numero di colpi di bambù). La pena di morte era comminata per delitti "che il Cielo e la Terra non possono tollerare" (ribellione all'imperatore, distruzione di templi, aggressione dei propri genitori, ecc.). Fra i delitti più lievi erano compresi anche violazioni dei doveri inerenti ai rapporti fra privati, il destinatario dei quali non poteva esigere l'adempimento, ma soltanto accusare penalmente l'inadempiente, e questo era sconsigliato dal costume (la cosiddetta 'paura dei tribunali'). Un aforisma di Confucio diceva che "il li non discende fino alla gente comune e il fa non sale fino ai nobili letterati".

Questi ultimi, in particolare, erano coloro per i quali era sconveniente adire i tribunali. La distinzione tra fa e li si fondava, dunque, anche su una contrapposizione di classe.

La società cinese era, in verità, profondamente divisa in classi, e Confucio predicava agli inferiori la pazienza e la tolleranza nelle "cinque relazioni" (cfr. J. Escarra, Le droit chinois, Pékin-Paris 1936; I. Lanciotti - a cura di - Il diritto in Cina. Teoria e applicazioni durante le dinastie imperiali e problematica del diritto cinese contemporaneo, Firenze 1978; O. Weggel, Chinesische Rechtsgeschichte, Leiden-Köln 1980; Tche-Hao Tsien, Le droit chinois, Paris 1982; J. Gilissen, Diritto cinese. I, in Enciclopedia Giuridica, vol. XI, Roma 1988, pp. 1-30).

Il diritto cinese successivo

C'è da rilevare che, da un certo periodo in poi, i cinesi hanno iniziato a scrivere le proprie leggi, particolarità che li accosta, per periodo storico e caratteristica, ai Romani. Dal VII secolo in poi infatti si sono succeduti vari codici, che loro chiamano lü, a carattere però essenzialmente penale. Nulla hanno a che vedere con i codici europei come quello francese, italiano o tedesco, dato che mai si sono occupati di organizzare lo Stato o le varie amministrazioni. Solitamente si trattava di una copia del codice precedente il quale conteneva alcuni precetti, solitamente penali, che comunque prevedevano poi una pena da infliggere, debitamente aggiornato a seconda dell'evoluzione sociale e culturale.

Si suole far cessare il diritto antico cinese con l'evento chiamato Guerra dell'Oppio (1842).

Fattore determinante furono i rapporti tra Cina e i Paesi Occidentali, in particolare l'Impero Britannico che siglò il Trattato di Nanchino a fronte del quale ottenne il controllo del porto di Hong Kong fino al 1999. Grazie a questo evento cominciò un'occidentalizzazione del diritto cinese. Fu nel XX secolo che iniziò uno studio approfondito dei sistemi occidentali e le varie codificazioni che susseguirono erano sostanzialmente basate sulle esperienze tedesca e giapponese. Nonostante la legislazione varata non ebbe mai una gran effettività date le turbolenze successive tra nazionalisti e comunisti.

Con l'avvento della Repubblica Popolare Cinese tutte le codificazioni preesistenti vennero però abrogate. L'eredità giuridica di quella esperienze rimase nella Repubblica di Cina, dove tutt'oggi la realtà normativa attuale è figlia di quell'elaborazione.

L’evoluzione del diritto nella Repubblica Popolare Cinese può essere diviso in tre fasi:

1949-1957: i primi anni dalla fondazione della repubblica comunista videro un grosso interesse per il diritto ma la totale presa di posizione negativa nei confronti del vecchio sistema cinese storico e, soprattutto, dei sistemi occidentali. Si mirava a costruire uno stato simile all'Unione Sovietica rinnegando completamente i sistemi basati sul diritto romano.

1958-1977: in questa fase si viene addirittura a negare il ruolo del diritto, complice anche lo strappo con l'Unione Sovietica conseguente alla destalinizzazione. Questa fase viene definita dai giuristi cinesi come il momento del nichilismo giuridico, che raggiunse l'apice nella famosa Grande Rivoluzione Culturale.

1978-1989: con la conclusione della Rivoluzione Culturale, la morte di Mao Tse-tung e l'insediamento definitivo di Deng Xiaoping al Partito Comunista, la Cina conosce un'apertura verso il mondo esterno e un'immediata rivalutazione del diritto. Si riconosce valore anche al diritto romano, in quanto il diritto è una scienza patrimonio dell'umanità e non di un solo stato.

Nell'ultimo periodo vengono elaborati tre concetti che rivoluzionano l'impostazione giuridica cinese: l'ereditarietà di altre forme di diritto, soprattutto quello romano; il significato sociale di quest'ultimo in un'ottica di mercato e la sua razionalità anche qualora uno stato socialista non lo ammettesse. Partendo da questi presupposti (e facilitati dall'introduzione successiva della proprietà individuale) i giuristi cinesi si sforzano di armonizzare il loro sistema a quello di impronta romanistica (sia di common law che di civil law) predominante in ambito di mercati internazionali.

I regni e le altre comunità organizzate nell'Europa medievale - I Regni germanici, l'Impero carolingio, il feudalesimo

Alla caduta dell'Impero romano d'Occidente esistevano già, all’interno del suo territorio, alcuni regni germanici. Altri se ne formarono sia nello stesso territorio, sia al di là dell'antico limes dell'Impero. I regni principali nei primi secoli furono quelli dei Visigoti (prima nella Gallia meridionale, poi in Spagna), dei Franchi (che dal nord presto si estese verso sud ed est) e dei Burgundi, in una fascia a cavallo del medio e alto Reno fino alla Gallia orientale, alla Svizzera occidentale e alla Valle d'Aosta.

Questi popoli, aventi allora un grado di sviluppo inferiore a quello romano, nonché diverso tra loro, erano dotati di caratteristiche e qualità proprie, descritte efficacemente da Tacito (Germania, 6-20). La struttura politica che questi popoli si diedero, quando si stanziarono stabilmente in un territorio, fu, come già accennato, la monarchia. Ma i loro re, pur con poteri ed entro limiti diversificati da regno a regno, non avevano poteri assoluti sui loro sudditi germanici, i quali, anzi, erano spesso chiamati con le loro assemblee a partecipare alle deliberazioni e svolgevano in varia guisa funzioni giudiziarie.

Molto diverse erano le condizioni della popolazione romana o romanizzata sottomessa, che non aveva diritti politici ed era stata privata, al momento della conquista, dei due terzi delle proprie terre, sicché era dedita soprattutto all'artigianato e al piccolo commercio.

Tra il VI e il IX secolo, il regno più forte era quello dei Franchi, estesosi in definitiva all'intera Francia; i Visigoti di Spagna erano certo civilmente più evoluti, ma col tempo si erano indeboliti e al principio dell'VIII secolo il loro regno venne quasi interamente spazzato via dagli Arabi. Così, durante l'VIII, secolo i Franchi cominciarono ad espandersi e, sotto la guida di Carlomagno, essi conquistarono vasti territori germanici a est del Reno, la Boemia e il Regno longobardo d'Italia. Grazie anche agli importanti legami stabiliti con la Chiesa, Carlomagno fu in grado, nell'anno 800, di farsi incoronare imperatore dal papa Leone III, quale restauratore dell'Impero d'Occidente.

Detto ultimo evento è molto importante, perché implicò, come si vedrà in appresso, il riconoscimento dell'autorità del papa nel campo politico costituzionale.

Nell'Impero carolingio prese corpo il sistema feudale, già in embrione nel tardo Impero romano e confacente ai caratteri propri dei popoli germanici.

Questo sistema comportò la concessione di terre in feudo da parte dal sovrano (nell'Impero carolingio l'imperatore) ai suoi stretti seguaci - che gli si sottomettevano come vassalli - con l'attribuzione a questi ultimi, mediante una speciale investitura, dei poteri di godere e governare dette terre, del tutto autonomamente, in cambio di un atto di omaggio e della promessa di fedeltà e di servizi. I vassalli, che potevano anche avere il rango di re o di principi, erano autorizzati a subinfeudare in tutto o in parte le terre, avendo quindi insieme la veste di vassalli e di signori.


Il Sacro Impero romano-germanico

L'Impero carolingio durò fino all'anno 888. Al suo scioglimento, si affermarono principalmente i Regni di Francia, Italia e Germania, e circa cento anni dopo, il re Ottone di Germania, dopo aver conquistato parte dell'Italia, riuscì a sua volta a farsi incoronare imperatore dal papa, fondando il Sacro Impero romano-germanico (in tedesco modernizzato Heiliges römisches Reich deutscher Nation).

Ottone I si volle considerare continuatore dell'Impero carolingio, ma il re di Francia rifiutò di essere suo vassallo e i suoi esperti coniarono le formule, utilizzate poi anche dai re normanni d'Inghilterra e di Sicilia, "rex superiorem non recognoscens est princeps in regno suo", "rex in regno suo est imperator". Questi re rivendicarono a sé, inoltre, il potere di concedere feudi e di investire quindi propri vassalli. Anche il papa fu riconosciuto sovrano e titolare del potere di concedere feudi, pur con riguardo soltanto a territori estranei a quelli donatigli dai re franchi Pipino e Carlomagno e agli altri che con essi formarono lo Stato della Chiesa: bastò che la loro popolazione o il loro capo (re, duca, ecc.) ne invocasse la protezione e gli si sottomettesse, rendendogli omaggio. Ciò favorì il sistema medievale dei due poteri simmetrici (del papa e dell'imperatore). Molto si disputò (in sede non dottrinale, bensì politica) se si trattasse di poteri uguali, provenendo entrambi direttamente da Dio, o se quello del papa fosse superiore, in quanto l'imperatore da lui riceveva il titolo e la corona: i guelfi sostenevano quest'ultima teoria, i ghibellini la prima, che fu, fra l'altro, sostanzialmente difesa con particolari argomenti da Dante nel De monarchia. Il regime feudale rese deboli tutti gli Stati e talvolta determinò anche situazioni paradossali, come quella in cui si trovò per qualche secolo il re d'Inghilterra, che, avendo ereditato ampi feudi nella Francia occidentale, era divenuto vassallo del re di Francia e ancora lo era, sia pure in misura ridotta, nel momento in cui tra Inghilterra e Francia scoppiò la guerra dei Cent'anni (1339-1453). In tutti gli Stati il potere centrale era debole, ma - prima in Inghilterra, come si dirà, poi anche in Francia e in Spagna - esso si venne rafforzando.

Lo svolgimento storico fu opposto nell'Impero romano germanico, nel quale i vari vassalli, sia civili (capi di autentici Stati, qualunque fosse il loro titolo ufficiale), sia ecclesiastici (vescovi o arcivescovi di date diocesi), godevano di forte autonomia e, pur con oscillazioni, la accrebbero fortemente nel corso del tempo.

Alcuni di questi vassalli avevano addirittura il potere di scegliere il nuovo imperatore, anche se, di regola, nell'ambito della medesima dinastia. Quali fossero questi vassalli (o principi elettori, Kurfürsten) fu stabilito definitivamente con la Bulla aurea del 1356 dall'imperatore Carlo IV di Boemia. La debolezza del potere centrale dell'Impero rese inoltre possibile l'autonomia che i Comuni italiani e le città delle Fiandre e della Germania occidentale riuscirono in vari modi e in vari tempi a conquistarsi. In particolare, i Comuni italiani, pur rimanendo sottoposti al potere imperiale, ottennero autonomia normativa, amministrativa e giudiziaria e, grazie a essa, si diedero una struttura costituzionale imperniata su tre organi (magistrati, consiglio, assemblea) simili a quelli istituiti per la prima volta nella “polis” greca. La composizione di questi organi rispecchiava il loro orientamento, per lo più aristocratico. Le lotte politiche al loro interno, anche per far prevalere l'indirizzo democratico, furono tali che i Comuni finirono col cadere nel potere di un signore, con qualche analogia col passaggio, a Roma, dalla repubblica al principato (cfr. H. Mitteis e H. Lieberich, Deutsche Rechtsgeschichte, cit.; F. Calasso, Medioevo del diritto, Milano 1954, pp. 419 ss.).

Le Chartae medievali e la Magna Charta

Nel regime feudale, anche i vassalli di secondo o terzo grado (valvassori) e gli ecclesiastici di alto rango (abati e, talvolta, vescovi) avevano poteri politici sugli abitanti del loro territorio e facilmente ne abusavano; a maggior ragione, ne abusavano i signori di più alto rango e i sovrani. Ora, a cominciare, all’incirca, dal X secolo, i sudditi, approfittando di un periodo o momento di debolezza di tali titolari di poteri o di una particolare situazione sociale, riuscirono a estorcere loro una charta con cui questi signori promettevano l'immunità da uccisioni, aggressioni, arresti da parte dei loro agenti, salvo che a seguito di un regolare procedimento giudiziario, e riconoscevano il diritto di libera circolazione e soggiorno nella loro giurisdizione, nonché la proprietà dei beni posseduti e il potere di disporne tra vivi e per causa di morte.

Simili chartae erano di solito confermate con giuramento e talvolta prevedevano il diritto di resistenza delle popolazioni. La loro efficacia non fu molto grande, ma bastò a porre non trascurabili limiti ai poteri delle varie autorità feudali. L'unica charta, comunque, che nonostante numerose violazioni ebbe efficacia ed influenza durevoli fu quella che Giovanni d'Inghilterra dovette concedere nel 1215 e che è nota come Magna Charta. Essa è da riconnettere all'opera di rafforzamento del loro potere centrale condotta in precedenza dai re inglesi, i quali, mentre, da un lato, rispettarono sostanzialmente i diritti patrimoniali dei feudatari - che infatti sono sopravvissuti fino all'attuale secolo e ancora si intravedono nell'odierno regime fondiario inglese e degli stessi Stati Uniti – dall’altro lato riuscirono a limitarne notevolmente i poteri, sia sul terreno giudiziario, sia su quello finanziario e amministrativo, il che non fu certo cosa gradita alla Chiesa, né ai grandi feudatari (baroni).

Così, quando il re Giovanni Senzaterra, valendosi di tali più ampi poteri, intraprese una politica nociva a quasi tutte le classi sociali “subordinate” e alla Chiesa, queste gli si coalizzarono contro (eccettuati i contadini, che per il momento non venivano presi in considerazione, in quanto semischiavi) e riuscirono a conciliare le loro diverse rivendicazioni in un unico documento, appunto la Magna Charta, che il successore di Giovanni Senzaterra, Enrico III, nel 1217 dovette confermare e impegnarsi a rispettare.

Tale documento ripristinò i diritti e le libertà della Chiesa e la competenza dei baroni a giudicare delle rivendicazioni di diritti fondiari da parte dei loro vassalli (competenza per altro risultata di breve durata), riconobbe libertà di movimento ai mercanti, ma soprattutto introdusse importanti diritti in materia giudiziaria, come quello, per tutti i cittadini, di non essere giudicati da sceriffi o altri funzionari di polizia e, per gli accusati di omicidio, quello di ottenere, con un espediente processuale, che l'esito del processo fosse determinato dal giudizio di una giuria anziché dal duello giudiziario (come era in precedenza la regola). Fu questa, in notevole parte, una vittoria della Chiesa e dei grandi baroni, ma anche la premessa dell’affermazione di diritti di libertà e di garanzie giudiziarie che sarebbero stati più ampiamente tutelati nel XVII e XVIII secolo, facendo dell'Inghilterra il modello dei regimi liberali (cfr. G. Pugliese, Appunti per una storia dei diritti umani, in "Rivista trimestrale di diritto e di procedura civile", 1989, XLIII, pp. 643-651).

Elementi e modi di formazione dei diritti europei continentali nel Medioevo

L'esposizione degli elementi costitutivi dei diritti europei e del loro modo di formazione nel Medioevo richiede un discorso articolato. Innanzi tutto occorre distinguere l'Europa continentale dall'Inghilterra e trattare di quest'ultima a parte. Bisogna poi fare una distinzione cronologica: nell'alto Medioevo l'impronta del diritto fu prevalentemente germanica, in seguito essa divenne essenzialmente romanistica e la composizione del diritto risultò più complessa.

Origine della tradizione romanistica e leggi romano-barbariche

La compilazione giustinianea rappresenta, per il diritto, una specie di cerniera tra l'antichità e il Medioevo. Da essa derivò - attraverso riassunti, commenti e con l'aggiunta di nuovi atti normativi - il diritto bizantino, che da Costantinopoli penetrò nei Balcani, poi in Ucraina e in Russia.

Il contributo dato dal Corpus iuris civilis, nella sua versione originale, alla storia giuridica italiana e dell'Europa occidentale fu favorito dalla sua introduzione in Italia come diritto vigente nel 553.

La sua influenza cominciò tuttavia a manifestarsi attivamente solo nell'XI secolo e non fu, beninteso, l'unico fattore dei diritti europei, poiché vi concorsero anche i diritti dei popoli germanici, il diritto canonico e una serie di diritti particolari. Per effetto del principio della personalità del diritto, gli abitanti romani e romanizzati dei Regni germanici continuavano ad applicare il diritto romano e alcuni re del VI secolo emanarono leggi che contenevano un'antologia dei testi romani pregiustinianei utilizzabili, la migliore delle quali fu la lex romana Visigothorum (Tolosa 506). Nonostante l’emanazione di questa legge, la tradizione del diritto romano in Spagna (specie dopo l'invasione araba) e nella Francia meridionale si andò impoverendo, e sarebbe del tutto svanita se Giustiniano, come si è detto, non avesse fatto entrare in vigore in Italia la sua compilazione, la quale rese poi possibile la rinascita dello studio del diritto romano, a cui quelle evanescenti tradizioni si riagganciarono. Importante fu anche in questo senso la funzione della Chiesa, che applicava allora entro certi limiti il diritto romano (Ecclesia vivit secundum legem romanam).

Consuetudini e leggi germaniche

Fra i Germani, il diritto aveva essenzialmente origine consuetudinaria; molto importanti furono le consuetudini franche, che si radicarono in particolare nella Francia centrosettentrionale (coutumes). In alcuni regni, parte delle consuetudini furono sintetizzate in leggi generali o codici (per esempio Codex Euricianus del 480, liber indiciorum o lex Visigothorum II dei Visigoti prima in Francia, poi in Spagna; lex Salica nella prima versione, che si suppone dell'inizio del VI secolo, mentre altre versioni sono alquanto più tarde; edictus Rothari del 643 presso i Longobardi; lex Ribuaria, dei Franchi orientali, del VII secolo) oppure furono integrate da leggi (come quelle longobarde di Liutprando, Autari e altri re e i capitolari franchi di Pipino, Carlomagno, Lotario, ecc.). In linea di massima, i sovrani e i signori feudali di vario rango avevano nella loro giurisdizione potere normativo (subordinato o no a norme superiori), come poi l'ebbero i Comuni italiani e le altre città autonome dell'Impero (cfr. F. Olivier-Martin, Histoire du droit français des origines à la Révolution, Paris 1948, pp. 15 ss.; H. Mitteis e H. Lieberich, Deutsche Rechtsgeschichte, cit.).

Il diritto canonico

Intanto la Chiesa, grazie alla sovranità che le era stata riconosciuta con Carlomagno, aveva cominciato a costituire un ordinamento a sé stante, estraneo a qualsiasi Stato, e aveva cominciato a elaborare un diritto proprio (il diritto canonico). Per la precisione, già con la nascita delle prime comunità cristiane guidate da un vescovo (ecclesiae, chiese) si erano formate, con deliberazioni dei concili o disposizioni dei vescovi, norme (generali o relative alle singole chiese) aventi intrinseca natura giuridica, la cui validità però, non essendo tali comunità organismi sovrani (almeno se incluse nell'Impero romano), era subordinata alle norme di questo Impero: in un primo tempo tale validità fu spesso negata (formalmente anche all'interno delle singole comunità), dopo l'editto di Costantino invece fu ammessa, ma molte di tali norme, più che confermate, furono fatte proprie da costituzioni imperiali. A parte ciò, anche dopo la caduta dell'Impero d'Occidente quelle norme e le altre numerose emanate durante l'alto Medioevo (cfr. J. Gaudemet, Les sources du droit de l'Église en Occident du II au VII siècle, Paris 1985) valevano perché autorizzate o convalidate dal diritto romano, che si applicava alla Chiesa di Roma (ormai divenuta la Chiesa universale) in virtù del principio della personalità del diritto. Questo spiega la massima che afferma: "Ecclesia vivit secumdum legem romanam".

Ancora nel XII secolo, le norme stabilite da concili, collegi di vescovi, pontefici (canoni e decretali) venivano insegnate nella scuola di Bologna dal monaco Graziano sotto il nome di theologia practica. Solo dopo che questo monaco ebbe compilato nel suo Decretum parte di tale materiale, apparve evidente la sua natura di diritto avente valore di per sé, indipendentemente dalla tradizione romana, dall'Impero e da qualsiasi Stato, tanto più che veniva applicato da distinti organi giurisdizionali. Si trattava evidentemente di un diritto a sfondo religioso, tanto che una sua parte fu qualificata ius divinum (naturale e positivum); ma si differenziava dal diritto biblico (a cui era per l'origine apparentato), sia perché non era sorto per il popolo di un dato territorio o appartenente a una data stirpe, bensì per i fedeli dovunque si trovassero, sia perché riguardava solo la parte della vita sociale attinente alla Chiesa e ai sacramenti o rilevante per la salvezza dell'anima, mentre la restante parte era oggetto di uno o più fra i diritti laici vigenti al suo fianco e capaci di delimitarne la portata. Giova poi rilevare che, per la stretta connessione di varia natura col diritto romano, esso adottava termini, concetti, metodi romani, e che dal XII secolo in poi operò in concorso con la versione medievale e moderna del diritto romano giustinianeo. Infine deve menzionarsi la continuazione, dopo il Decretum Gratiani, delle raccolte di canoni di varia provenienza con le Decretales di Gregorio IX o Liber extra, il Liber Sextus, ecc.: l'insieme già nel XV secolo era chiamato Corpus iuris canonici, mentre solo alla fine del XVI, come sappiamo, fu chiamata Corpus iuris civilis la compilazione giustinianea.

Rinnovato studio e applicazione pratica del diritto romano

L’evento principale relativo alla formazione del diritto nel Medioevo fu appunto il ritorno allo studio del diritto romano, attestato dalla compilazione giustinianea. Di quest’ultima da secoli non venivano letti se non riassunti ed estratti più o meno attendibili, mentre era divenuto interamente ignoto il Digesto. Invece, intorno all'anno Mille, per effetto di una rinascita culturale che anticipò quella più vasta del XV-XVI secolo, si ricominciò, a Bologna e nella Francia meridionale, a leggere i testi originali e si recuperò gradualmente il testo del Digesto. I risultati si videro dapprima in opere modeste (come la Exceptiones Petri e la Summa Trecensis, ecc.), ma pur sempre ben superiori a quei riassunti ed estratti, poi anche in opere di alto livello (come la Summa codicis di Azone), e si raggiunsero soprattutto con l'istituzione, a Bologna, di una speciale scuola di diritto, in cui si leggevano e spiegavano i passi della compilazione giustinianea per trarne nozioni e regole utili alla vita attuale. Ciascun passo (lex) della compilazione giustinianea veniva spiegato con chiose chiamate glosse e proprio da esse derivò il nome di glossatori dato a quei maestri. Uno di essi, Accursio, pubblicò due secoli dopo l'intera compilazione annotata da glosse, sue o di altri da lui scelti (Magna glossa). Parallelamente, vennero glossati i passi (canones) delle compilazioni canoniche: da qui, la contrapposizione dialettica fra canonistae e legistae. I glossatori decaddero verso la metà del XIII secolo, mentre in Francia fioriva la scuola di Orléans, da cui in parte derivò la seconda scuola italiana, quella dei “commentatori”, con Bartolo e Baldo, fino a Giason del Maino (XVI secolo).

Deve sottolinearsi che gli avvocati, giudici e notai usciti dalla scuola di Bologna cominciarono, nel difendere in giudizio gli interessi dei loro clienti, decidere liti, redigere contratti e testamenti, ad applicare il diritto romano nella versione (a cui naturalmente d'ora in poi sempre ci si riferirà) insegnata in quella scuola, nonché, nei campi loro propri, il diritto canonico e il nuovo diritto feudale. E poiché la scuola di Bologna venne a essere frequentata da un numero crescente di studenti, sia italiani, sia stranieri, e nuove scuole sul suo modello - nuclei anch'esse delle nuove Università - furono man mano fondate in Italia, Francia, Spagna, poi anche in città tedesche e a Praga, si diffuse ampiamente il modo bolognese di organizzazione universitaria e di insegnamento del diritto (per un'accurata analisi cfr. H. Coing, Die juristische Fakultät und ihrer Leherprogramme, in Handbuch der Quellen und Literatur der neueren Europäischen Privatrechtsgeschichte - a cura di H. Coing - vol. I, München 1973, pp. 39 ss.). Contemporaneamente, si estese anche l'applicazione pratica del diritto (romano, canonico e feudale) ivi insegnato, ma con maggiori difficoltà e in modo diseguale: maggiormente, si capisce, esso venne applicato dove (Italia, Francia centromeridionale, Spagna) nell'alto Medioevo era rimasta una sia pur tenue tradizione romanistica; in misura minore, invece, dove (per esempio la Francia centrosettentrionale) una simile tradizione non era rimasta e operarono anche ostacoli politici. Nessuna applicazione vi fu, invece, nei paesi germanici a nord delle Alpi e a est del Reno. Al riguardo, deve osservarsi che l'influenza del diritto romano operò allora in Europa anche nelle esposizioni teoriche e nelle applicazioni pratiche di diritti non romani, come le raccolte di coutumes della Francia centrosettentrionale, il diritto inglese del XII e XIII secolo, i diritti germanici e, da un altro punto di vista, il diritto commerciale: fu un'influenza culturale, che si manifestò - oltre che nei termini e nei concetti - nel modo di impostare, discutere, risolvere le questioni giuridiche.

Diritto comune e diritti particolari

L'applicazione pratica del diritto ebbe un'infinità di varianti, dipendenti dal luogo, dal momento storico, dalla materia regolata. In media, prevalse un orientamento conforme al seguente schema: diritto romano e diritto canonico costituivano il ius commune, avente carattere generale e applicazione pratica limitata ai casi non considerati da una disposizione particolare.

Disposizioni particolari erano, in massima, quelle locali (consuetudinarie, legislative, giudiziarie: importanti fra le ultime le pronunzie dei Parlements francesi), ma ve ne erano anche per la specifica materia regolata, come quelle del diritto commerciale. Quest’ultimo, invero, sorse nel Medioevo all'interno delle corporazioni o delle Gilden dei mercanti e di alcune categorie di artigiani, ed ebbe la natura di usi, dapprima comunemente accettati, poi fissati per iscritto in statuta delle corporazioni o delle città mercantili, la cui interpretazione e applicazione venne spesso affidata ad arbitri o a organi interni delle corporazioni, poi anche a speciali organi giurisdizionali esterni, composti con la partecipazione di esperti.

Le esigenze del commercio determinarono il costituirsi di speciali rapporti fra mercanti, non solo di diverse città, ma anche di diversi paesi, con qualche tendenza alla formazione di un diritto comune o uniforme. Maggiori realizzazioni di questa tendenza possono riscontrarsi nel campo del diritto marittimo, commerciale e non, grazie alle consuetudini e agli statuti raccolti nelle varie città marinare e sfociate, per il Mediterraneo, nel catalano Consulat de mar (documentato dal 1370) e per il Baltico nel codice di Wisby (Lubecca, 1407). (Per fonti e dati bibliografici cfr. H. Pohlmann, Die Quellen des Handelsrechts, in Handbuch der Quellen und Literatur..., cit., vol. I, pp. 801 ss.). Passando al ius commune, la linea di confine tra diritto romano e canonico fu, in teoria, piuttosto stabile, poiché al canonico spettava occuparsi, oltre che dell'organizzazione ecclesiastica, dei sacramenti (fra cui il matrimonio), delle persone e della famiglia; in pratica, tuttavia, col favore dei canonisti, non di rado si oltrepassò tale linea, adducendo l'esigenza canonistica della salvezza delle anime (salus animarum) o la connessione con causae spirituales. La componente romana riuscì a farsi strada attraverso l'influenza culturale anche dove mancava una tradizione romanistica (eccettuata però l'Inghilterra). La penetrazione fu lenta e graduale nei francesi pays de coutumes, ma risultava ormai notevole nel XVI secolo, quando ai giudici del Parlement de Paris era richiesta la conoscenza del diritto romano. Essa si attuò invece rapidamente in Germania, dove il grandioso fatto storico della Rezeption - già iniziato alla fine del XV secolo con la prescrizione dell'imperatore Massimiliano al Reichskammergericht, supremo tribunale dell'Impero, di giudicare "nach des Reichs gemeinen Rechten" (secondo i diritti comuni, romano e canonico, dell'Impero) - maturò nel corso di pochi decenni tra il XV e il XVI secolo. Elementi e modi di formazione del diritto inglese nel Medioevo.

La common law

I Normanni, di origine scandinava, provenivano dalla Francia settentrionale dove, oltre alla lingua, avevano recepito la struttura feudale, che importarono in Inghilterra dopo la loro conquista (1066). Questa struttura comportava l'esistenza di una corte di giustizia presso ogni signore e determinava, insieme con le preesistenti e non soppresse corti di contea, un notevole particolarismo giudiziario, che si rifletteva nel particolarismo del diritto. L'opera dei re, che, come accennato, mirò a separare i poteri pubblici dei signori (lords) dai loro diritti patrimoniali, rafforzò in materia giudiziaria la regia corte (curia regis), riuscendo a farla prevalere sulle corti particolari senza sopprimerle, e a favorire così l'unificazione del diritto. La common law fu il risultato dell'unificazione. Intanto, la voce della scuola romanistica di Bologna era giunta a farsi sentire in Inghilterra, in particolar modo con Vacario, il quale risulta presente in Inghilterra presso l'arcivescovo di Canterbury nel 1140. Ne derivò un'influenza culturale romanistica che è palese in due note opere del XII e XIII secolo: Tractatus de legibus et consuetudinibus regni Angliae di Ranulf de Glanvil, e De legibus et consuetudinibus Angliae di Henry de Bracton. Intanto, alcuni ecclesiastici avevano fondato le Università di Oxford e di Cambridge, dove fu introdotto, accanto a quello del diritto canonico, l'insegnamento del diritto romano. Ma qui la penetrazione del diritto romano (non del canonico) si arrestò. I giudici e gli avvocati della curia regis (ormai articolata in più corti), i quali applicavano la common law esprimendosi in law French (il francese giuridico importato dalla Normandia e divenuto presto un linguaggio esoterico), difesero il loro monopolio, prima istituendo accanto alle corti speciali scuole per la professione forense (dette inns of court) e facendole riconoscere dal re Edoardo I (seconda metà del XIII secolo), poi, ottenendo da Edoardo III la conferma della loro prassi, che ammetteva alla professione forense solo i diplomati in tali scuole.

Così, in Inghilterra, a parte il diritto canonico in materia matrimoniale e di eredità nella personal property (in massima beni mobili), venne ad applicarsi la common law (qua e là intessuta di termini e concetti romanistici, come action, contract e res iudicata). In quel periodo si formò il diritto commerciale (law merchant), in parte con apporti continentali ma con pratico inserimento nella common law e venne recepito il diritto marittimo, considerato invece di origine continentale e quindi inserito nella civil law (nel senso inglese di diritto romanistico proveniente appunto dal continente).

La common law appare di formazione eminentemente giudiziaria, sebbene sia notevole, nella storia inglese, il numero e l'importanza anche delle leggi (statutes). Tale formazione è conforme a due caratteristiche dei common lawyers: lo spirito pratico e la concretezza. Lo spirito pratico esigeva che si considerasse ciò che il singolo soggetto poteva, mediante un writ concessogli dal chancellor, chiedere e ottenere dal giudice. Vi era un elenco dei writs, a cui per un certo tempo il cancelliere poteva (gratuitamente o anche a caro prezzo) aggiungerne uno adatto al caso del richiedente; ma verso la metà del XIII secolo l'elenco fu chiuso e solo il Parlamento poté con statute creare nuovi writs, rendendo preliminare in ogni causa la ricerca di un writ utilizzabile. La concretezza, a sua volta, esigeva che si discutesse di casi specifici e reali, non sulle fattispecie astratte delle norme.

In particolare, occorre rilevare che la giustizia centrale era amministrata inizialmente solo dai chierici, soggetti di estrazione ecclesiastica poiché erano le uniche persone istruite all'epoca. I chierici della cancelleria regia concedevano, dietro pagamento di una somma, a coloro che avevano subito un torto e che ne facevano richiesta un writ, cioè un ordine scritto inviato dal Re al suo funzionario, lo sceriffo. Nel writ erano riassunte le pretese dell'attore, il tipo di lesione, l'organo giurisdizionale competente, la procedura da seguire per ottenere una decisione e il rimedio da concedere.

Il writ veniva poi istruito dallo sceriffo presso la Curia Regis, l'assemblea, presieduta dal Re, con il compito di giudicare il caso. La Curia Regis era posta nella Westminster Hall a Londra. Presto poi venne creato il Magnum Concilium, un'assemblea di soli giudici poiché il Re (all'epoca Enrico I) non aveva la possibilità di essere sempre presente.

In linea di principio il contenuto del writ era libero, consistendo l'atto in una descrizione del fatto e delle richieste; in pratica tuttavia i chierici utilizzavano sempre le stesse bozze (forms), tanto che poco a poco il contenuto del writ venne a coincidere con l'azione. L'invenzione di un nuovo tipo di writ (form of writ) dava luogo così alla creazione di un nuovo tipo di azione (form of action) e, in ultima analisi, a una nuova branca del diritto (tale possibilità fu abolita con le Provisions of Oxford).

La common law era tendenzialmente avversa alle norme. Ma la concretezza doveva conciliarsi con l'altra esigenza fondamentale della certezza, e questa fu soddisfatta con la rule of precedent, per la quale la decisione di un giudice vincolava praticamente i giudici successivi a decidere allo stesso modo i casi in cui ricorresse la medesima ratio decidendi. Così si profilava, però, il rischio della cristallizzazione del diritto; a tale rischio si cercò di porre rimedio con l'arte del distinguishing, vale a dire la possibilità di discostarsi dai precedenti.

L'equity

Il rimedio del distinguishing non poté operare che in parte e non impedì che la common law rimanesse vincolata a decisioni ingiuste e socialmente arretrate. Un altro grave inconveniente era determinato dalla chiusura del registro dei writs e dalla loro conseguente tipicità, che non permetteva di tutelare interessi nuovi o divenuti nel frattempo rilevanti.

A ciò pose riparo il chancellor - ed è un aspetto tipico del diritto inglese - con l'esercizio di un particolare potere giurisdizionale di grazia, prima delegatogli dal re, poi divenuto di competenza propria.

Detto potere gli permise di decidere, su ricorso di una parte, liti ricadenti nella normale competenza delle corti regie o addirittura già decise da una di queste, e di assumere a criterio della propria decisione o del proprio provvedimento, anziché la common law o la specifica disposizione di uno statute, una propria valutazione guidata, come si disse, dall'equity, ossia dal senso di giustizia del chancellor, che allora era normalmente un ecclesiastico.

Il chancellor cominciò a pronunziare in equity verso la fine del XIV secolo, ma furono pronunzie saltuarie, e il principale effetto che produssero, ossia il nuovo istituto dell'use (precursore del trust), fu soppresso nel XVI secolo da Enrico VIII. Soltanto successivamente, come si vedrà, si ebbe un'attività costante del chancellor e della Court of chancery da lui presieduta e si formò un diritto distinto dalla common law, chiamato appunto equity.

Il diritto musulmano

L'origine del diritto musulmano risale al 622, una ventina d'anni prima che i Longobardi in Italia elaborassero l'editto di Rotari. Nel 622 Maometto, abbandonata la Mecca per Medina (egira), iniziò la predicazione della religione islamica (da isl?m, cieca sottomissione a Dio, All?h), che costituì l'energia vitale di quella civiltà e del corrispondente diritto. Questo è, infatti, anche in confronto al diritto biblico, l'esempio più coerente e duraturo di diritto religioso. Il concetto centrale da tener presente è quello di shar?'a, che letteralmente significa “via (diritta) rivelata da All?h” (metafora non nuova nel nostro campo, salvo la sottolineatura della rivelazione divina). La portata del termine, però, può essere più o meno ampia. La più ristretta, quella che qui interessa, indica la via rivelata ai soli musulmani per la loro condotta esterna. Connesso al concetto di shar?'a è quello di fiqh, in cui l'accento cade sulla formulazione e la conoscenza delle qualificazioni giuridiche della condotta umana. La fonte fondamentale del fiqh è il Corano (Qur'?n), che contiene le rivelazioni fatte in arabo a Maometto direttamente da Dio, ma solo in piccola parte (si dice meno di un decimo) relative al diritto. Seconda fonte è la sunna, tradizione consolidata e convalidata dagli atti e dalle parole del profeta. Terza fonte (non ammessa però dagli Sciiti) è l'i?m?', ossia l'accordo della comunità sul fiqh, come sulle credenze religiose. Quarta fonte (però controversa) è infine il qiy?s, ossia l'estensione analogica di una qualificazione giuridica a un caso prima non considerato. La natura religiosa di queste fonti, in specie delle prime due, non impedì, come a un certo momento non l'impedì nel diritto biblico, la loro interpretazione ed elaborazione da parte di scuole di dottori (fuqah?'). Dopo varie oscillazioni, le scuole sunnite si consolidarono in quattro: ?anafita, m?lichita, sciafiita, ?anbalita; altre scuole furono riconosciute dagli Sciiti. Il diritto musulmano, che si diffuse in seguito alle conquiste e alla penetrazione degli Arabi fino alla Spagna in Occidente, e all'Indonesia in Oriente, ha una storia ormai di quasi 1400 anni ed è stato applicato in tempi e paesi molto diversi, sempre però soltanto ai fedeli dell'islamismo e conservando quindi, nonostante le loro diverse origini etniche, immutata la propria sostanza. L'esistenza, tuttavia, nel suo ambito, di diversi Stati, fra cui principalmente per molti secoli l'Impero ottomano, gli impresse qualche particolare carattere e, in alcuni casi, rese necessaria l'emanazione di leggi, in deroga alla natura essenzialmente non legislativa delle sue fonti. Leggi più frequenti, e anche alcuni codici, furono emanate nell'ultimo secolo per effetto di contatti coi diritti europei e delle connesse trasformazioni economiche.

Un istituto caratteristico e spesso menzionato del diritto islamico è il waqf, insieme di beni vincolati a uno scopo per lo più di beneficenza o assistenza, assimilabile quindi funzionalmente all'istituto della fondazione nei diritti europei continentali. Ma il suo regime è particolare. I beni capitali (raqaba), da molti autori considerati senza soggetto, se non appartenenti addirittura ad All?h, sono sottoposti a un regime di indisponibilità che impedisce la nascita su di essi di qualsiasi diritto dominicale altrui; i frutti (mamfa'a) sono vincolati alla destinazione prestabilita dal fondatore (sotto questo aspetto si sono viste somiglianze col trust). Altro ovvio aspetto caratteristico del diritto musulmano è l'ammissione, da parte del Corano, che un uomo abbia fino a quattro mogli. Infine, è da segnalare l'esistenza di immobili ritenuti, per ragioni storiche, appartenenti alla comunità musulmana o allo Stato ed esclusi dalla proprietà piena dei privati, i quali possono avere su di essi soltanto un diritto chiamato tessaruf (in Egitto hukr), praticamente quasi equivalente alla proprietà, ma avente formalmente natura simile all'enfiteusi tardoromana o bizantina.

Cenni sui diritti europei - o di origine europea - dal XVI secolo agli inizi del XX

La generale conoscenza dei ricchissimi dati relativi al periodo considerato e l'impossibilità di riferirli con una certa completezza inducono a concentrare l'attenzione solo su alcuni importanti temi particolari: l'assolutismo e le dichiarazioni dei diritti umani, le scuole di diritto, la codificazione.


L'assolutismo e le dichiarazioni dei diritti umani

Dal XVI alla fine del XVIII secolo, le strutture costituzionali prevalenti (con l'eccezione di alcune Repubbliche a Venezia, Genova, Ginevra, ecc.) furono quelle delle monarchie assolute, che costituirono, essenzialmente, una reazione alla frammentazione feudale. Già i re inglesi, come si è visto, erano riusciti a rafforzare il loro potere centrale, ma la Magna Charta del 1215 aveva frenato le loro tendenze all'assolutismo, cosicché, dopo la guerra dei Cent'anni e quella delle Due Rose, nel XVI secolo la monarchia inglese non era più feudale, ma nemmeno assoluta.

L'assolutismo maturò invece in Francia (dove già pensatori del primo Cinquecento e poi specialmente Jean Bodin, Six livres de la République, 1575, ne avevano posto in anticipo le basi politologico-giuridiche: cfr. F. Oliver-Martin, Histoire du droit français..., cit., pp. 335 ss.) e si estese alle altre monarchie continentali, fra cui, da un lato, la Spagna e gli Stati tedeschi compresi nell'Impero (inclusa l'Austria unita stabilmente all'Impero dalla dinastia degli Absburgo), dall'altro, in Italia, il Ducato di Savoia (poi Regno di Sardegna), il Granducato di Toscana, il Regno di Napoli (cfr. G. Astuti, La formazione dello Stato moderno, Torino 1957, pp. 101 ss.).

L'assolutismo comportò, con varianti da Stato a Stato, la subordinazione al potere centrale degli antichi signori, che conservarono i titoli e, in linea di massima, i beni, ma perdettero il potere politico; inoltre, comportò la soppressione delle autonomie delle città e delle corporazioni. Una manifestazione dell'assolutismo fu l'emanazione di importanti atti legislativi. In Francia, dove si erano avute compilazioni private di coutumes fin dal XIII secolo (celebre fra tante quella di Philippe de Beaumanoir), Carlo VII aveva intrapreso compilazioni ufficiali nel XV secolo e i suoi successori le continuarono attivamente nel XVI, mentre molti giuristi, fra cui Tiraqueau, Du Moulin, Pithou, le commentarono; ma più importanti furono le ordonnances, come quelle emanate da Luigi XIV nel 1667 (touchant l'administration de la justice), nel 1670 (criminelle), nel 1673 (du commerce), ecc.

Altri atti legislativi notevolmente importanti sono la Constitutio criminalis Carolina (1532), che costituì a lungo la guida del diritto penale in Germania, e gli editti dei principi elettori; la Recopilaciòn de las leyes de estos Reynos in Spagna (1567), che si ricollegò alle varie leyes de fuero precedenti, volte a interpretare o integrare clausole delle romanistiche Siete partidas; i decreti e le costituzioni dei Savoia registrati nella raccolta di Sola (Commentaria ad decreta antiqua ac nova novasque constitutiones, Torino 1607) e le Reali costituzioni del 1770; nel Regno di Napoli gli atti normativi raccolti da D.A. Vario, Pragmatica, edicta, decreta, interdicta regiaeque sanctiones Regni Neapolitani (1772).

Naturalmente, questi e vari altri atti normativi - che riguardavano in prevalenza il diritto e il processo penale e il diritto amministrativo, ma in certa misura anche il privato - ridussero l'ambito di applicabilità del diritto romano comune, quale diritto sussidiario, ma in materia di diritto privato esse si riferirono per lo più a punti di dettaglio e non impedirono che le sue nervature fondamentali continuassero a essere di origine romanistica. Parallelamente l'assolutismo determinò l'istituzione o il rafforzamento delle Corti supreme, strumento essenziale della giurisdizione centralizzata, alla quale ovviamente le monarchie assolute aspiravano. E l'autorità delle sentenze pronunziate da queste Corti si accrebbe anche nel senso di costituire precedenti vincolanti, sì da assumere praticamente valore di fonte di diritto in modo analogo alle decisioni delle Corti inglesi.

Venne meno, così, come ha messo in luce G. Gorla (1981), un aspetto importante delle differenze tra common law e diritti continentali. In Inghilterra, d'altro canto, dove la monarchia era quasi in equilibrio tra feudalesimo e assolutismo, vi furono tentativi di instaurare l'assolutismo da parte dei re Stuart, ma in nome dei principî della Magna Charta essi furono respinti dalla violenta opposizione di Cromwell e poi dalla Glorious revolution del 1688, che - preceduta dall'Habeas corpus act del 1679, grande presidio della libertà - fu coronata da una dichiarazione dei diritti del Parlamento e dei cittadini (Bill of rights, 1689), capostipite delle numerose dichiarazioni di diritti che da allora si sono succedute contro l'assolutismo in particolare e contro gli abusi di potere in generale.

L'assolutismo aveva certo assicurato una maggiore efficienza del governo e dell'amministrazione e favorito in molti paesi la formazione o il rafforzamento della borghesia, ma i sovrani assoluti, sopprimendo le libertà politiche, violando molti diritti umani, procedendo ad arresti arbitrari, comminando pene crudeli, da tempo avevano sollevato l'opposizione di pensatori e filosofi, quali Giovanni Althusio, teorico agli inizi del Seicento della sovranità popolare, e di altri giusnaturalisti che, diversamente da Hobbes, concepivano in modo liberale il rapporto fra sovrano e cittadini, nonché degli illuministi, fautori di riforme dirette a limitare i poteri dei sovrani e a umanizzare il diritto penale.

In realtà, molte riforme furono attuate dall' “assolutismo illuminato” in Prussia, Austria, Toscana, Regno di Napoli (cfr. G. Astuti, La formazione dello Stato moderno, cit., pp. 201 ss.); ma queste non impedirono lo scoppio in Francia della Rivoluzione del 1789, che, sostenuta dalle cresciute forze della borghesia, spazzò l'assolutismo dalla Francia e anche dagli altri paesi. I principî formulati al suo inizio con la Déclaration des droits de l'homme, sul modello dei bills of rights di singoli Stati americani ribaditi dalla Costituzione federale del 1791, posero le basi nel continente europeo del moderno Stato di diritto.

Le scuole di diritto

Le scuole di diritto furono a lungo qualificate nel continente europeo dal loro rapporto col diritto romano. Alla fine del XV secolo cominciò, favorita dall'Umanesimo, la penetrazione, nello studio del diritto romano, di interessi storici e filologici.

I primi ad introdurre questo nuovo metodo furono il francese Guillaume Budé con le sue Adnotationes in XXIV Pandectarum libros e l'italiano Andrea Alciati, più attento ai problemi del diritto, il quale, avendo cominciato l'insegnamento ad Avignone e a Bourges, introdusse con successo il suo metodo in Francia, mentre in Italia, dove poi insegnò nelle Università di Pavia, Ferrara e Bologna, ebbe scarso seguito.

In Francia, sul suo modello e su quello del Budé, si sviluppò la scuola detta “dei culti”, il cui massimo esponente fu Jacques Cujas, e si ebbe, comunque, un'eccezionale fioritura di giuristi di alto livello e anche di vario indirizzo; infatti, oltre quelli (come François Duaren e Cujas) inseriti, pur col nuovo metodo, nella tradizione romanistica, vi furono François de Connan e Hugues Doneau (Donellus), che contribuirono enormemente a fondare l'elaborazione teorico-sistematica del diritto, il già menzionato teorico dell'assolutismo Jean Bodin e coloro, infine, che approfondirono la critica storico-filologica delle fonti romane, come lo stesso Cujas e Jacques Godefroy (Gotofredus), editore e commentatore del Codex Theodosianus.

L'Italia aveva perduto ormai il primato degli studi romanistici, nonostante la difesa del mos italicus contro il mos gallicus fatta da Alberico Gentili e nonostante ulteriori grandi figure di romanisti, come quella di Giambattista De Luca, esperto, del resto, in molti rami del diritto. Essa aveva, però. ancora illustri esponenti in altre branche degli studi giuridici: nel diritto internazionale lo stesso Gentili, nel diritto commerciale Benvenuto Stracca (De mercatura, Venetiis 1553), Sigismondo Scaccia (Tractatus de commerciis et cambio, Romae 1619), il De Ansaldis e altri; nel diritto penale - anch'esso solo marginalmente derivato dal diritto romano e, d'altro canto, già studiato con particolare impegno alla fine del XIII secolo da Alberto da Gandino (Libellus de maleficiis) - le grandi figure di Prospero Farinacci (Praxis et theorica criminalis, 1616), Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764), precursore delle dottrine penalistiche attuali, Gaetano Filangieri, una parte della cui monumentale Scienza della legislazione (1780-1791) delinea i principî generali del diritto penale. Importanti giuristi francesi resero illustre ancora la Francia nel XVII e XVIII secolo (basti ricordare Hérault, Domat, Pothier e il rapporto degli ultimi due col code civil), ma negli studi romanistici, sia nel senso attualizzante, sia in quello storico-filologico, il primato stava passando all'Olanda (da un lato Grozio e Voet, dall'altro van Binkerschoeck) e alla Germania (da un lato gli esponenti dell'usus modernus Pandectarum - fra cui, notevoli per la loro capacità di combinare i dati romani con quelli germanici, il Carpzov e lo Struve - dall'altro gli antiquari come J.G. Heinecke).

Contemporaneamente, era fiorita, su un piano più filosofico che storico-giuridico, la scuola di diritto naturale (giusnaturalismo). Di diritto naturale avevano parlato già Aristotele e gli stoici, nonché, a Roma, Cicerone e alcuni giuristi classici, e ne parlarono poi i pensatori cristiani, da Agostino a Tommaso d'Aquino, agli esponenti della seconda scolastica spagnola, come Francisco de Vasquez e Ayala, i quali, pur con ragionamenti e risultati diversi, ancoravano tutti il diritto naturale alla volontà di Dio.

Il giusnaturalismo invece, che sorse e si sviluppò in ambiente culturale protestante, fondò i suoi principi sulla natura razionale dell'uomo, senza espressamente negarne la radice divina, né contestarne i possibili presupposti religiosi, ma prescindendone. I primi giusnaturalisti, come Johannes Althuius e Huig van Groot (Grozio, forse tra tutti il più grande), considerarono soprattutto gli aspetti costituzionali ed internazionali; i successivi, in particolare Samuel Pufendorf e Christian Thomas Wolff, fecero esposizioni organiche, che comprendevano il diritto pubblico, il penale e il privato. In linea di principio, i giusnaturalisti avevano una posizione diversa dalla tradizione romanistica, anzi quasi antitetica, ma il contenuto delle loro esposizioni di diritto privato era in larga parte desunto dal diritto romano, depurato di quanto appariva eticamente inaccettabile o storicamente superato e inserito in un loro quadro sistematico, di cui, d'altronde, i romanisti Connan e Donello era stati gli iniziatori. È singolare, a questo riguardo, che autori tedeschi del Settecento (più giuristi che filosofi), quali Nettelbladt e Darjes, abbiano composto trattazioni elementari tanto di diritto naturale che di diritto romano comune. È normale porsi la domanda (e la si può porre per tutte le dottrine che in qualunque tempo o modo configurino il diritto naturale) se il diritto naturale fosse o fosse considerato diritto vigente (la pone di recente S. Cotta nel saggio Diritto naturale: ideale o vigente? in "Rivista di diritto civile", 1989, I, p. 639).

Fra i giusnaturalisti, la risposta rimase ambigua: molti di essi lo esposero come diritto vigente, pur consapevoli del suo carattere ideale; comunque in pratica, o direttamente o tramite l'illuminismo, essi influirono sul diritto realmente applicato e le loro teorie furono, d'altro canto, fattore fondamentale sia delle summenzionate

Rivoluzioni americana, francese e della codificazione.

Nel campo del diritto inglese, le scuole giuridiche non potevano certo classificarsi in base al loro rapporto col diritto romano; deve anzi più esattamente riferirsi che in Inghilterra, più che i giuristi (nel senso di studiosi e professori di diritto) contarono i giudici. Un esempio precipuo della fine del XVI secolo e prima metà del XVII è costituito da Edward Coke, che fu chief justice della Court of common pleas e del King's bench e la cui attività giudiziaria è documentata da 13 volumi di Reports (London, 1600-1613, 1656, 1659). Egli scrisse anche un'opera dottrinale (Institutes of the laws of England, 4 voll., London 1628-1644), il cui primo volume si apre col testo e il commento dell'opera del giurista del XV secolo T. Littleton, Tenures, relativa al regime fondiario di common law, indicazione significativa del proposito di Coke di valorizzare la tradizione della common law contro possibili simpatie romanistiche dei primi Stuart.

Altri nomi rilevanti tra il XVI e il XVIII secolo sono quelli dei chancellors (in particolare lord Ellesmere e lord Nottingham) che, dopo la soppressione dell'“use” da parte di Enrico VIII, gli ridiedero vita, in definitiva, col nuovo nome e la parzialmente diversa struttura del trust. Distinguendo, in materia di real property, i legal dagli equitable estates - questi ultimi aventi un contenuto limitato al reddito dei beni e non opponibili ai terzi, salvo date eccezioni - essi posero le basi dell'espansione del trust negli ultimi due secoli.

I chancellors estesero inoltre in vari modi l'equity ben al di là del trust, per esempio con l'imporre, mediante injunction, determinati comportamenti a una delle parti di una controversia, oppure con lo stabilire il principio che il consenso fra le parti bastava a trasferire beni e a costituire diritti su di essi.

Un altro noto giurista inglese, William Blackstone, fu invece prevalentemente uno studioso e un insegnante, il primo a coprire a Oxford la cattedra di diritto inglese, fino allora inesistente; e tuttavia anch'egli finì col divenire giudice. I suoi Commentaries on the laws of England (4 voll., 1765-1769) si distinguono, fra l'altro, per aver stabilito un ponte fra la dottrina inglese e quella del continente, specie quella francese.

La codificazione

Il giusnaturalismo, si è detto, fu uno dei fattori che sul continente europeo indussero alla codificazione. Questa, beninteso, corrispondeva, anzitutto, all'esigenza pratica di ordinare e semplificare la confusa molteplicità di norme, precetti, principi di varia natura e origine, di cui il diritto romano comune e i numerosi diritti locali erano composti. La consolidazione delle coutumes e certe raccolte private (come quelle citate di Sola nel Ducato di Savoia e di Vario nel Regno di Napoli) miravano proprio a soddisfare tale esigenza. Però solo i giusnaturalisti mostrarono che erano possibili una scelta e una sintesi logicamente ordinata delle norme da mantenere o mettere in vigore e indussero, nel XVIII secolo, giuristi e politici a compiere tale tentativo. I primi passi vennero fatti in terra tedesca e i primi risultati furono tre Codici bavaresi (di diritto penale, processuale e civile: 1751-1754). Invece i tentativi di Samuele Cocceio in Prussia non ebbero esiti apprezzabili, ma successive iniziative analogamente indirizzate condussero qualche decennio dopo all'emanazione dell'Allgemeines Landrecht (ALR, 1794), codice insieme di diritto privato, penale, processuale, amministrativo, avente validità locale - e in questo senso Landrecht - sì da risultare compatibile col diritto romano comune. Ormai il movimento per la codificazione era in corso: presto si ebbero il Codice civile della Galizia (1797), quello penale austriaco (1803), quello civile austriaco (1811). Intanto, i rivoluzionari francesi avevano tratto anch'essi, dall'ispirazione giusnaturalistica, l'iniziativa della codificazione, ma oltre a un Codice penale (1791) erano riusciti soltanto a elaborare e discutere un progetto di codice civile, che toccò a Napoleone riprendere, completare ed emanare nel 1804 (Code civil des Français, talvolta poi chiamato Code Napoléon), facendolo seguire dai Codici de commerce (1806), de procédure civile (1807), d'instruction criminelle (1808), pénal (1810).

Deve sottolinearsi che codici come quelli che si sono menzionati non erano stati mai emanati. Quelli dell'antica Mesopotamia, che così sono stati chiamati dagli studiosi moderni, erano raccolte più o meno ampie e più o meno ordinate di norme disparate, senza pretese né di completezza, né di organicità. Meno che mai erano codici in senso moderno il Corpus iuris civilis né quello iuris canonici, dato che erano anch'essi raccolte antologiche, talvolta (non sempre) guidate da un filo logico ma prive dei caratteri di sinteticità e organicità propri dei codici moderni. Né, ovviamente, vale diversamente per quelle raccolte di costituzioni imperiali, che i tardo-Romani stessi chiamarono codici, ma con allusione essenzialmente al tipo di libro utilizzato. I codificatori moderni si valsero di una tecnica tutta nuova.

Un altro punto da rilevare è che fino a poco dopo il 1815 i codici furono creazione originale di ogni paese in cui si applicarono; in paesi diversi essi si applicarono solo per effetto della conquista militare o dell'annessione (come per esempio i Codici francesi nei Paesi Bassi, nel Regno d'Italia ecc., durante il periodo napoleonico, o, dopo la Restaurazione, il Codice civile austriaco nel Lombardo-Veneto). Allo stesso modo, in precedenza si era più o meno integralmente trasmesso alle colonie extraeuropee il diritto della madre patria. Invece dopo il 1815 i Codici francesi, in specie quello civile, vennero in larga misura copiati o imitati in vari Stati, come quelli italiani preunitari, quelli dell'America Latina resisi indipendenti dalla Spagna, la Luisiana (1825), l'Olanda separatasi dal Belgio (1837), l'Italia unita (1865), più tardi la Spagna (1888-1889).

Il modello della codificazione fu parzialmente adottato in paesi di diritto musulmano nel quadro di una parziale occidentalizzazione. Venne così emanato nell'Impero ottomano, dopo il 1856, un Codice penale di tipo europeo, varie volte modificato e accompagnato da norme di procedura di ispirazione francese; ma più interessante fu la codificazione, mediante la cosiddetta Megelleh (1870-1876), del diritto musulmano attinente alle obbligazioni, a parte dei diritti reali, alla procedura.

Anche in Inghilterra, l'idea di una generale codificazione, suggerita dalle teorie continentali ma indipendente dai relativi modelli, fu insistentemente sostenuta da Jeremy Bentham in numerose opere, fra cui uno specifico progetto di codici civile e penale (General view of a complete code of laws, in Works, Edinburgh 1838-1843, vol. III, pp. 155-210); nel quadro di un certo avvicinamento inglese alle dottrine continentali, di cui sono prova le Lectures on jurisprudence di J. Austin, tale idea ottenne alquanto seguito, talché dal 1833 al 1876 furono prese alcune iniziative in quel senso dal Parlamento, ma nessuna ebbe successo. Venivano così ad accentuarsi le peculiarità del diritto inglese, ma esse costituivano ormai un vanto di quegli operatori giuridici, a cominciare da due grandi giuristi e storici, F. Pollock e F.M. Maitland. Si emanarono invece verso la fine dell'Ottocento numerose leggi di vasta portata, fra cui la riforma dell'ordinamento giudiziario (Judicature act, 1873-1875), con l'unificazione delle Corti di common law e di quelle di equity, e la legge sulla vendita commerciale (Sale of goods act, 1893).

Un'iniziativa di codificazione sulla base del modello francese venne presa anche per gli Stati tedeschi non rientranti nell'Impero d'Austria: se ne fece promotore A.F. Thibaut. Ma la recisa opposizione manifestata col famoso scritto Vom Beruf unserer Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft (1815) da Carl von Savigny, fondatore della scuola storica, fu seguita dalla maggior parte dei giuristi e della classe dirigente. Rimase quindi in vigore la preesistente combinazione di diritti locali e di diritto romano comune; anzi il Savigny e i suoi continuatori, i pandettisti, mirarono a desumere, invece che dalla tradizione romanistica, direttamente dalle fonti romane, in particolare dal Digesto o Pandette, le norme, i principî, i concetti reputati utili per la disciplina attuale dei rapporti privati. Così, mentre in Francia si sviluppava sulla base dei codici l'école de l'exégèse (commento, al limite parola per parola, degli articoli dei codici e delle leggi), in Germania la dottrina giuridica privilegiava (sotto il nome di Dogmatik) la rigorosa formulazione di concetti e principî e il loro logico coordinamento.

Intanto, con la maturazione della pandettistica e il mutare delle condizioni politico-sociali, l'avversione ai codici era diminuita in Germania, talché, oltre a codici per singoli Stati, furono emanati nel 1861 il Codice di commercio (ADHGB), nel 1870 il Codice penale (SGB), e in seguito l'ordinamento processuale civile (ZPO); finalmente, dopo la vittoria sulla Francia di Napoleone III e la fondazione del II Reich (1871), ci si sentì di porre mano all'elaborazione del Codice civile (BGB), il cui testo definitivo fu però approvato solo nel 1896 ed entrò in vigore il 1° gennaio 1900. Esso divenne presto modello di altri codici; dei Codici giapponese e cinese, di quelli svizzero (1907), brasiliano (1916), greco (1941), portoghese (1967). Il Codice civile svizzero, a sua volta, insieme con altri codici di tipo europeo, fu assunto a modello del Codice civile turco, fatto emanare negli anni venti da Kem?l Atatürk nel quadro della laicizzazione ed europeizzazione di quell'ordinamento. La dottrina tedesca che stava alla base del Codice civile era già in quel momento molto discussa. Alla Begriffjurisprudenz o giurisprudenza concettuale, a cui in prevalenza si ispirava, si era cominciata a contrapporre l'Interessenjurisprudenz o giurisprudenza degli interessi, che, rifacendosi in parte a Jhering, badava, più che ai concetti, agli interessi in gioco e al modo pratico di soddisfarli. Si stava inoltre sviluppando la giurisprudenza sociologica, che aveva il suo più insigne esponente in F. Ehrlich, mentre H.U. Kantorowicz delineava la sua dottrina del diritto libero, che anteponeva il libero criterio del giudice ai codici e alle leggi (dottrina parzialmente recepita dall'art. 1, comma 2 del Codice civile svizzero). In armonia con un orientamento culturale di ampia portata nelle arti e in altri campi dello spirito, venivano contestati in quel primo decennio del XX secolo concetti e principî che nell'Ottocento erano sembrati indiscutibili. Anche la francese école de l'exégèse appariva superata e lasciava il posto alle idee di L. Duguit, F. Gény e altri innovatori.


Aspetti dei diritti dell'età contemporanea

Si può, ai fini di questa esposizione, far iniziare l'età contemporanea dalla prima guerra mondiale. Essa comprende, se si adotta questo principio, un periodo di quasi ottant'anni, che appare caratterizzato da rapidissime evoluzioni ed oscillazioni.

Socialismo e Stati totalitari

Verso la fine del XIX secolo, si era affermata la tendenza ad estendere a nuovi paesi il modello di Stato di diritto, perfezionatosi con l'introduzione della generale impugnabilità dei provvedimenti amministrativi, anche discrezionali, o dinanzi ad appositi organi giurisdizionali ovvero - come era allora regola senza eccezioni in Inghilterra e negli Stati Uniti - a quelli ordinari. Questa tendenza perdurò fino alla prima guerra mondiale, e non la turbarono né il rafforzarsi dei partiti socialisti (causato dalle persistenti gravi disparità delle condizioni di vita in molti paesi d'Europa e del mondo, ma guidato dall'ideologia ormai dominante di Marx ed Engels), né i falliti moti rivoluzionari bolscevichi del 1905 nella Russia zarista. Una grave scossa, invece, provenne dalla stessa Russia, quando nell'ottobre 1917 il secondo tentativo rivoluzionario bolscevico ebbe successo.

Attraverso varie fasi venne istituito, in quasi tutto il territorio dell'ex Impero zarista, sotto il nome di Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS), uno Stato socialista (marxista-leninista), il quale, per giungere alla soppressione della proprietà e dell'iniziativa economica privata, non esitò a sovvertire le regole dello Stato di diritto e ad usare metodi lesivi dei diritti umani. Mentre quelle fasi si svolgevano, la paura del bolscevismo e le incapacità dei partiti di governo determinarono, prima in Italia (1922), poi in Germania (1933), l'instaurazione di un regime illiberale e antidemocratico (fascista in Italia, nazionalsocialista in Germania), in qualche modo simmetrico al sovietico.

Si parlò di Stati totalitari, prendendo lo spunto da una formula del capo del fascismo ("tutto nello Stato, nulla contro lo Stato, nulla fuori dello Stato"), e si distinsero quelli di destra da quello di sinistra. Vi erano tra essi, nonostante le numerose differenze di fondo e di dettaglio, alcuni punti comuni: la concentrazione del potere in un uomo (dittatore), esente in pratica da controlli o, come in URSS, esponente di un ristretto organo collegiale (Politbjuro), né l'uno, né gli altri, comunque, eletti dal popolo; il coinvolgimento, non riscontrabile nelle passate tirannidi né nei passati regimi reazionari, delle masse popolari nell'attività politica sotto la guida del partito unico; l'inclusione nella loro struttura di assemblee svolgenti in teoria funzioni analoghe a quelle dei parlamenti o dei consigli comunali o provinciali degli Stati di diritto, ma prive in pratica di qualsiasi potere e composte di persone che, anche se elette, erano in realtà scelte dal partito.

Le differenze di fondo tra detti Stati riguardavano, da un lato, la proprietà e la gestione dei beni produttivi - che nei totalitarismi di destra erano, conformemente al loro indirizzo economico-sociale, lasciate ai privati (pronti però a seguire e plaudire le direttive del dittatore), mentre nell'URSS erano riservate allo Stato o ad altri enti – e, dall'altro lato, l'ideologia di base, che nei totalitarismi di destra consisteva nel nazionalismo (o nel razzismo) e nella supremazia militare, nell'URSS, invece, non era altro che l'utopia comunista, che prometteva l'abolizione delle classi sociali e dello sfruttamento capitalistico sia dell'uomo da parte dell'uomo, sia dei paesi poveri da parte di quelli economicamente più avanzati.

Nel 1939 la Germania nazista, incoraggiata da iniziali successi politici ed economici, scatenò la seconda guerra mondiale e fu travolta dalla sconfitta insieme con l'Italia fascista e regimi satelliti minori. L'URSS, invece, si trovò tra i vincitori e poté imporre con la forza l'istituzione di “repubbliche popolari” in molti paesi d'Europa, mentre veniva inoltre assunta a modello, per il suo anticapitalismo e anticolonialismo, da paesi come Cina, Corea del Nord, Vietnam e Cuba. Qui, lo speciale totalitarismo di sinistra sopravvive ancora oggi, più o meno alterato e annacquato, al definitivo dissolversi dell'URSS e delle repubbliche popolari. Questo dissolvimento ha determinato, negli ultimi anni, il riespandersi nel mondo dei regimi liberal-democratici a economia di mercato, anche se l'inarrestabile corso della storia ha presto suscitato altri problemi.

Tendenze della dottrina giuridica italiana prima e dopo la seconda guerra mondiale

Nell'Ottocento la dottrina giuridica italiana aveva recepito, dapprima, gli insegnamenti e l'esempio della scuola francese dell'esegesi e, in seguito, quelli della pandettistica e della successiva dottrina tedesca. In alcune discipline, però, quali il diritto penale e in parte il commerciale, i giuristi italiani furono fin dall'inizio del tutto autonomi, e tale fu anche il processualista L. Mortara. Negli altri campi, comunque, già alla fine del secolo essi avevano raggiunto una propria specifica fisionomia. È significativa la posizione di due maestri, Vittorio Scialoja e Giuseppe Chiovenda, che in tempi diversi fecero da tramite tra la dottrina tedesca e l'italiana, l'uno per il diritto romano e il civile, l'altro per il processuale civile e la storia del processo.

Scialoja fu, tra l'altro, il più autorevole esponente di un tipico carattere nazionale italiano: la versatilità, che gli permise di dare contributi, oltre che come studioso del diritto romano e civile, anche come avvocato e come politico. Passando ai giuristi che, formatisi prima o durante la prima guerra mondiale, emersero durante il periodo tra le due guerre, si menzionano a mero titolo di esempio Santi Romano, autore del famoso Ordinamento giuridico (1917) e costituzionalista e amministrativista di primo piano; F. Carnelutti (notevole in molte sue opere da La prova civile, 1916, alla Teoria generale del diritto, 1951); A.C. Jemolo (ecclesiasticista, amministrativista, storico, dotato di vastissima cultura e insieme sempre attento al concreto dato di esperienza); P. Calamandrei (processualista, costituzionalista, letterato finissimo e animato da alti ideali democratici); un'ampia schiera di romanisti, fra cui spiccano V. Arangio-Ruiz, P. De Francisci, E. Betti, e inoltre internazionalisti come D. Anzilotti, penalisti come V. Manzini e naturalmente molti altri. Si è attribuito ai giuristi italiani, specie di questo periodo, il difetto di astrattezza e mero tecnicismo. Il Merryman, che fra gli altri ha rilevato questo difetto (per un americano certo assai grave), lo ha giustificato (Lo “stile italiano”: la dottrina, in "Rivista trimestrale di diritto e procedura civile", 1966, XX, pp. 116 ss.) come un espediente adottato dai giuristi italiani, specialmente durante il fascismo, per isolare le loro opere da motivazioni o interferenze politiche; giustificazione in qualche misura condivisibile. Ma occorre anche osservare che, considerando l'insieme delle opere di quei giuristi, la loro astrattezza risulta molto minore, poiché alcune di queste opere, fra cui le numerose note a sentenza, per molti autori tutt'altro che secondarie, sono un chiaro esempio di concretezza. È difficile, d'altra parte, giudicare astratti giuristi come Jemolo o Calamandrei. Occorre dunque soprattutto guardarsi dalle generalizzazioni, e si potrà allora constatare che per molti di quei giuristi, nelle cui opere il punto nevralgico era costituito dall'interpretazione delle norme da applicare nelle questioni discusse, era già maturata l'evoluzione descritta da Gény con riguardo alla dottrina francese: dalla "interprétation strictement littérale" alla considerazione delle "réalités de la vie moderne" (cfr. F. Gény, L'évolution contemporaine de la pensée juridique dans la doctrine française au milieu du XX siècle, in Études offertes à George Ripert, vol. I, Paris 1950, pp. 3 ss.). La spiegazione teorica del loro modo di interpretare è poi venuta dopo la seconda guerra mondiale da E. Betti (il romanista prima menzionato), con le sue opere sull'interpretazione (L'interpretazione delle norme giuridiche, Milano 1949; Teoria generale dell'interpretazione, 2 voll., Milano 1955), nelle quali ha, fra l'altro, messo in luce come l'interprete e il giudice 'continentali', pur vincolati assai più di quelli di common law, possano nondimeno interpretare le norme e gli atti giuridici in modo abbastanza flessibile da tener ragionevole conto delle peculiarità dei casi controversi. La fine della seconda guerra mondiale determinò una svolta, che tuttavia non modificò il carattere di per sé variegato della dottrina italiana. Continuarono a esservi romanisti, che scrissero opere di diritto vigente, quali per esempio G. Grosso e G. Branca, e altri, come già prima Arangio-Ruiz e De Francisci, che diedero indirettamente grandi contributi alla dottrina giuridica. Nuovo rilievo assunsero poi i commentari articolo per articolo dei codici di recente entrati in vigore. Le vere e proprie innovazioni, a parte quanto si dirà nel prossimo paragrafo, furono dovute a cause in apparenza contraddittorie: da una parte alla cultura giuridica anglosassone, in ispecie a quella americana, che era in qualche modo una scoperta, dall'altra anche, in certa misura, a indirizzi politici di sinistra.

Specificamente vi furono vari filoni innovativi:

a) l'impiego della sociologia (oggetto, come la cultura anglosassone, di una specie di scoperta, dato il velo steso su di essa dal dominante idealismo crociano), che diede luogo sia alla nuova disciplina della sociologia giuridica, di cui fu antesignano R. Treves, sia a opere ( come per esempio il manuale di istituzioni di diritto privato di P. Rescigno) in cui aspetto sociologico e aspetto giuridico appaiono strettamente connessi;

b) la deduzione (in cui si distinsero, fra gli altri, S. Rodotà e A. Pizzorusso) dalla Costituzione del 1948 di principî e criteri interpretativi atti in generale ad adeguare a nuove esigenze il diritto in vigore e in particolare a proteggere gli interessi dei soggetti più deboli senza bisogno di nuovi atti legislativi;

c) l'asserita prevalenza delle pronunzie giudiziarie rispetto alle norme dei codici e delle leggi, suggerita chiaramente dai modelli inglese e americano (di ben difficile imitazione in Italia, eppure seguiti da molti autori, fra cui M. Cappelletti) ma sostenuta anche da un autore come S. Satta, ben poco sensibile invece a quei modelli;

d) l'interesse per gli studi comparatistici, già coltivati in Italia da M. Sarfatti e successivamente da M. Rotondi, ma assai sviluppatisi dopo la seconda guerra mondiale grazie soprattutto a G. Gorla, poi a R. Sacco e Cappelletti, infine a tutta una nuova generazione di studiosi.

In complesso, per opera dei suddetti fattori e di altri, è prevalsa in Italia dopo la seconda guerra mondiale la tendenza ad accantonare o superare quanto rimaneva del positivismo giuridico (caratteristiche in questo senso le posizioni, pur diverse, di S. Pugliatti, R. Orestano, M.S. Giannini).

Nuovi orizzonti del diritto

A. Pensiero dominante degli ambienti democratici, all'indomani della sconfitta del fascismo e del nazismo, fu l'apprestamento di strumenti giuridici atti a ostacolare la ricostituzione di regimi ad essi in tutto o in parte ispirati: il primo strumento fu l'adozione di costituzioni rigide che, come quella degli Stati Uniti del 1791, non potessero modificarsi in nessuna delle loro norme con legge ordinaria e che istituissero un organo giurisdizionale capace di annullare le leggi contrarie alla costituzione stessa.

Il secondo strumento fu costituito dalla previsione, nelle costituzioni medesime, di un elenco di diritti umani, simile al Bill of rights inglese e americano e alla francese Déclaration des droits de l'homme, e arricchito di un elenco di diritti sociali (diritti al lavoro, a un equo salario, alla salute, ecc.) sul modello, ampliato, della Costituzione tedesca di Weimar (1919). Si cercò anche di dare al riconoscimento e alla tutela di questi diritti una dimensione internazionale con la “Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo” delle Nazioni Unite (1948) e con convenzioni internazionali, di cui la più efficace è la “Convenzione europea per la protezione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali” (1950) garantita e rafforzata da una Commissione e da una Corte europea dei diritti dell'uomo con sede a Strasburgo. Fuori della sfera della Convenzione europea, tuttavia, le violazioni di diritti umani da parte di organi civili e militari degli Stati sono state e continuano a essere gravi e numerose, nonostante l'opera dell'ONU e di altre istituzioni internazionali come Amnesty International.

Un elemento da considerare è la possibile incompatibilità tra l'uno e l'altro dei diritti umani o tra uno di questi diritti ed i fondamentali compiti dello Stato. I diritti sociali, a differenza delle libertà tradizionali, comportano obblighi positivi dello Stato, che deve farvi fronte con risorse tutt'altro che illimitate. Sugli ostacoli alla diffusione e al rafforzamento dei diritti umani e sociali ha richiamato l'attenzione, fra gli altri, M. Villey (Le droit et les droits de l'homme, Paris 1983), il quale ha dedotto che questi diritti sono da considerare mere rivendicazioni di categorie o declamazioni dello Stato. Sembra invece preferibile trarne l'ammonimento a regolare con rigore, in sede nazionale e internazionale, l'ambito di ciascun diritto, in modo da assicurarne la compatibilità con (diversi o uguali) diritti altrui e con la realtà delle risorse finanziarie.

B. L'aspirazione a un diritto uniforme (se non “comune”, nel senso e nei limiti in cui si era attuato nell'Europa continentale e nei territori extraeuropei da questa dominati, nell'età moderna fino alla codificazione) si rinnovò poco prima della seconda guerra mondiale e, soprattutto, dopo di essa.

Essa venne soddisfatta, in qualche misura, spontaneamente, mediante l'estensione di diritti europei (romano-germanici o di common law) ai paesi extraeuropei divenuti indipendenti dopo la decolonizzazione. In effetti, i codici, specie civili, emanati negli anni quaranta e cinquanta in paesi islamici mediterranei e del Vicino Oriente, furono orientati a combinare norme o istituti di origine europea (francese per lo più, ma anche italiana o inglese) con norme o istituti nettamente musulmani. In un più ampio ambito geografico, leggi di paesi ex coloniali, attinenti allo sfruttamento di miniere e pozzi petroliferi, all'installazione di impianti industriali e ad altre attività economiche e finanziarie in quei territori, hanno avuto, pur con qualche oscillazione, componenti europee o americane. Quello dell’“uniformità del diritto” è un fenomeno certo molto più limitato di quello che tra il XVI e il XIX secolo aveva condotto alla diffusione, in vari continenti, dei diritti spagnolo, inglese, francese, olandese, ma è degno ugualmente d'attenzione. Esso, piuttosto, ha incontrato, e continua ad incontrare, seri ostacoli dall'inizio degli anni settanta nei movimenti nazional-religiosi diffusi soprattutto nelle aree a maggioranza musulmana, ma la proliferazione dei particolarismi etnici lo minaccia anche fuori di tali aree e indipendentemente da fattori religiosi.

Si pensi, ad esempio, allo Stato dello Yemen, che è quello rimasto a lungo il più chiuso a contatti con il diritto e l'economia occidentali. A ogni modo, è evidente che il cammino dell'uniformizzazione del diritto non può oltrepassare certi limiti.

Un diritto uniforme pare potersi creare a lungo termine attraverso gli arbitrati relativi al commercio internazionale, le cui decisioni, se sono state osservate le prescritte regole, devono essere riconosciute e rese esecutive dagli Stati aderenti alla Convenzione di New York del 1958 o a quella europea di Ginevra del 1961. Secondo queste convenzioni, gli arbitri devono applicare il diritto statale scelto dalle parti nell'accordo arbitrale, ma esse possono anche rimettersi ai principî generali del diritto o al diritto internazionale. In questo secondo caso, gli arbitri potrebbero, in definitiva, dettare essi stessi la regola adatta al caso, la quale, se ripetuta da successivi arbitri, potrebbe affermarsi come regola stabile e, unita alle altre regole nel frattempo formatesi in modo analogo (nonché agli usi che di per sé disciplinano il commercio internazionale), dare vita a un diritto non internazionale, bensì, come molti dicono, “transnazionale”, comune, se non a tutti, a una larga serie di Stati (per più ampi sviluppi cfr. R. David, L'arbitrage dans le commerce international, Paris 1982).

La prospettiva è affascinante, ma, ammesso che si realizzi, essa non può riguardare se non un limitato numero di operatori economici, sia pure di alto livello.

Un'altra via che si è percorsa e si sta percorrendo verso la stessa o analoga meta è quella di ottenere, mediante conferenze internazionali, l'accettazione, da parte di molti Stati, di leggi uniformi relative a vari settori del diritto, le quali vengono nel frattempo elaborate e discusse da comitati di esperti nominati da tutti gli Stati del mondo. Dopo un primo esperimento negli anni trenta in materia di cambiale e assegno bancario, si è adottata, in prevalenza dopo la guerra, una tecnica analoga a quella con cui negli Stati Uniti si sono emanate e si emanano leggi uniformi da applicarsi all'interno dei vari Stati (per esempio lo Uniform commercial code). Molte convenzioni di questo tipo sono state elaborate e sottoscritte, ma per ora solo in parte ratificate; la più importante fra queste ultime è la Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale di merci, il cui testo, per effetto della ratifica compiuta da un numero sufficiente di Stati, è entrato in vigore direttamente in ciascuno degli Stati ratificanti, l’01/01/1988. Tecnicamente lo strumento è stimolante, ma sembra che nemmeno esso possa condurre a vaste aree (geografiche e socioeconomiche) di diritto uniforme perché, nonostante labili dichiarazioni di intenti, esso urta contro la riluttanza di giuristi, burocrati e politici a discostarsi dalla loro tradizione.

C. Un diritto sovranazionale, nel senso proprio del termine, è quello delle Comunità di Stati: se ne sono progettate e in parte attuate alcune, ma le uniche Comunità realmente esistenti e operanti sono le Comunità Europee, che hanno dato vita, per effetto del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, all'Unione Europea. Il diritto sovranazionale dell’Unione Europea, chiamato “diritto comunitario”, è il prodotto di atti normativi, precetti e sentenze emanati da organi dell’Unione stessa (Consiglio, Commissione, Corte di giustizia) e aventi spesso diretta efficacia all'interno di ciascuno Stato nei confronti delle persone fisiche, delle società, degli enti ivi operanti. In seguito all'istituzione del SEBC (Sistema Europeo di Banche Centrali) e della BCE (Banca Centrale Europea), inoltre, si è avuto un'estensione del numero e della natura degli atti di organi comunitari operanti automaticamente all'interno degli Stati.

Innovazioni si sono avute anche nel diritto internazionale in senso stretto. Sono innovazioni soprattutto quantitative, consistenti nella grande estensione delle materie considerate, nella creazione di numerosi nuovi enti, nell'enorme aumento delle convenzioni internazionali, come, per esempio, la Convenzione di New York sull'arbitrato internazionale e quella di Roma sulla protezione dei diritti umani; a questa si è aggiunta a distanza di tempo una Convenzione americana (Josè de Costarica, 1969), per altro resa meno efficace dalla mancata adesione degli Stati Uniti. Deve anche menzionarsi la Convenzione di Bruxelles del 27/09/1968 sulla competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle sentenze in Stati diversi da quelli in cui sono state pronunziate. Un'innovazione anche qualitativa è stata l'istituzione dell'ONU al posto della vecchia Società delle Nazioni (a cui, fra l'altro, gli Stati Uniti non partecipavano). Si è tentato di creare un organismo più efficiente dandogli una struttura più compatta, assicurando la partecipazione degli Stati Uniti e rendendo più funzionale il meccanismo delle sanzioni. È grandemente cresciuto anche il numero dei suoi membri, a causa soprattutto della decolonizzazione e, molto di recente, per la partecipazione dei nuovi Stati sorti dalla frammentazione dell'URSS e della Iugoslavia.

Ma il punto cruciale in tema di efficienza rimane quello delle sanzioni, sia della capacità di deliberarle, sia di quella di attuarle con la forza. A quest'ultimo riguardo è ragionevole immaginare che la comunità internazionale possa o debba ripercorrere il cammino delle comunità primitive o anche protostoriche e limitarsi quindi per un certo tempo ad autorizzare, una volta accertata l'illiceità della condotta di un soggetto (di uno Stato), l'impiego della forza privata (di uno o più Stati). Ciò sembrerebbe essere avvenuto non tanto nei riguardi della Corea del Nord negli anni cinquanta, quanto nel più recente caso dell'Iraq con le (pur tanto criticate) operazioni di guerra autorizzate dall'ONU ed eseguite contro l'Iraq dagli Stati Uniti e da alcuni altri Stati. La fantasia, se non la speranza, corre alla teoria kantiana della comunità universale e alla connessione da Kant individuata tra pace internazionale e libertà individuale.]

(r) Fa seguito alla relazione il dialogo tra i partecipanti:

Prof. Majore sottolinea una certa differenza tra la posizione psicoanalitica e quella della organizzazione sociale e legale: quella legale sarebbe esterna mentre quella psicoanalitica sarebbe interna o per lo meno portata verso l’interno; gli stessi divieti, come diceva Freud, sono diventati una struttura interiore. Per Freud il Super Io è una istanza interiore.

Prof. Pisani evidenzia che l’istanza interiorizzata viene dalla necessità di stabilire delle regole di convivenza comune, regole sociali di cui i genitori, gli antenati e così via si sono fatti messaggeri, ad iniziare dall’individuo: si tratta di trasmissione delle regole. Da questo punto di vista ci sono due aspetti del Super Ego: i limiti, che sono al servizio della sopravvivenza, al servizio della vita, e invece l’abuso di questi limiti, per cui il Super Io diventa sadico, castigante, punitivo e, se all’inizio è al servizio della vita e della libertà individuale, nel momento in cui diventa super castigante è anti-libidico e quindi al servizio del castigo, della morte. In quei genitori, antenati che poi vengono introiettati dal singolo individuo, ci sono tutte le regole della convivenza. Il diritto è l’insieme di regole che dovrebbero servire alla convivenza, allo stare insieme, fermo restando che la nostra libertà individuale è circoscritta nella misura in cui dobbiamo rispettare la libertà altrui. Pisani elogia il relatore per l' excursus molto bello; a lui è piaciuta molto la storia dei cittadini coltivatori, raccoglitori, cacciatori, in quali si mettevano in circolo e stabilivano che cosa fosse più opportuno per la collettività e anche per la salvaguardia del singolo.

Avv.to Filiè chiarisce che inizialmente è stato uno spontaneo nascere di regole di comportamento dettate semplicemente da quello che era una distribuzione di mansioni, di compiti.

Prof. Pisani: poi il codice di Hammurabi: “occhio per occhio, dente per dente”.

Avv.to Filiè evidenzia che anche nel diritto biblico c’è la legge del taglione; in origine è stata una regola applicata quasi da tutti: la sanzione pari a quello che era stata la trasgressione.

Prof. Pisani è piaciuta molto la citazione che, in moltissime culture pre-moderne, il diritto ha un'origine religiosa, ad iniziare dai Faraoni anche se non hanno scritto nulla.

Avv.to Filiè chiarisce che l'influenza religiosa riguarda anche il codice di Hammurabi, perché nell’incisione che c’è in questa roccia, nella parte iniziale nel prologo, si dice: è il Re che è posto di fronte alla divinità e riceve le leggi da trascrivere. Il prologo a sua volta riferisce la chiamata del Re da parte degli Dei Anum ed Enlil e l’ordine impartitogli da Marduk di far regnare la giustizia nel paese, quindi lui dice: io detto queste regole perché me le hanno date le divinità. Nel codice di Hammurabi la pena per l’omicidio è la morte, però se la vittima è il figlio di un altro uomo, all’omicida verrà ucciso il figlio; se la vittima è uno schiavo l’omicida pagherà un prezzo al padrone dello schiavo. Poi lo stesso codice di Hammurabi divideva la popolazione in classi e a seconda della classe di appartenenza le pene potevano differenziarsi per cui, se appartenevi ad una classe più nobile e commettevi un reato, avevi una pena più leggera; se eri di una classe inferiore avevi una pena più pesante. Filiè aggiunge ciò che, per ragioni di tempo, non ha detto. Sempre sul codice di Hammurabi e sull’incidenza della religione, era previsto quello che ricorre anche in altre civiltà, in altre culture, che è chiamata “l‘ordalia”, cioè il giudizio divino. Era previsto anche nel codice di Hammurabi per cui, se c’era qualcuno che veniva accusato di un determinato reato, poteva dimostrare la propria innocenza sottoponendosi all’ordalia. Secondo il codice di Hammurabi l'ordalia consisteva nell’attraversare il fiume Eufrate: se colui che l’attraversava non moriva era innocente; se lo attraversava e moriva c’era stata contemporaneamente la prova della sua colpevolezza e la pena e, se colui che si sottoponeva a un'ordalia era stato accusato da qualcuno di aver commesso un crimine e sopravviveva, quindi attraversava indenne il fiume, all’accusatore venivano tolti tutti i beni e venivano dati all’accusato innocente.

Dr. V. Lusetti si riferisce a ciò che forse è un anello di congiunzione fra il diritto e la psicopatologia o psichiatria: la questione dell’imputabilità. Per quello che ne sa lui, vedendo i testi di medicina legale, il concetto di non punibilità nasce con il diritto romano intorno al terzo/quarto secolo avanti Cristo (la legge delle dodici tavole) con l’equiparazione del non punibile per ragioni di follia, al minore da zero a sette anni, per cui il non punibile-folle è equiparato al bambino. Questo perché non è capace né d'intendere le conseguenze degli atti che ha compiuto, né di autodeterminarsi in vista di queste conseguenze. Questi i due cardini dell’incapacità di intendere o di volere che nascono con il diritto romano e che ancora oggi ci sono. La cosa che lo ha interessato, però, è il fatto che nei diritti precedenti la responsabilità invece era considerata come oggettiva, cioè non si prescindeva totalmente dall’intenzionalità, il concetto di dolo non esisteva; se tu avevi commesso una cosa l’avevi commessa sia se tu l'avessi voluto o non l'avessi voluto: neanche se lo chiedevano se c’era un’intenzionalità. Questo gli sembra allaccia sia al discorso del libero arbitrio e sia al discorso del Super Io. Se veramente il Super Io è l’erede dell’introiezione delle proibizioni genitoriali, nei diritti barbarici preromani, come quelli antichi dell’ordalia, proprio perché tutto era oggettivo, si presupponeva che ci fosse un’introiezione collettiva del Super Io; il concetto di individuo non esisteva, non era nemmeno contemplato. Nel momento in cui si comincia a dire questo non è capace di intendere e di volere perché non è capace di autodeterminarsi e di capire, il correlato è ovviamente che ci sia qualcuno che è capace di intendere e di volere e quindi di autodeterminarsi e quindi che ci sia un libero arbitrio. Oggi noi prendiamo le distanze dal concetto di libero arbitrio, le neuroscienze lo stanno criticando moltissimo e c’è proprio un lavoro sull’inesistenza del libero arbitrio perché si è visto tramite le neuro-immagini che quando uno decide di fare una cosa in realtà il suo cervello si è mosso prima che lui pensi di aver preso la decisione, il che probabilmente è anche vero. Resta però il fatto che il concetto di libero arbitrio, quindi di libertà, di capacità di intendere e di volere, denoti lo sviluppo dell’individuo. È come se l’individuo nascesse per la prima volta con questo concetto, emergendo dal collettivo tribale che invece era molto più indifferenziato, molto più primitivo. Insomma, sembra che questo barlume di nascita dell’individuo si delinei con questo concetto di libero arbitrio.

Avv.to Filiè, osserva che il dato storico citato è assolutamente esatto. Ritorna al codice di Hammurabi, precisando che lo stesso codice non faceva nessuna distinzione, relativamente alla responsabilità personale, se la trasgressione fosse stata commessa volontariamente o involontariamente; soltanto con la Legge delle dodici tavole, databile intorno al 400/450 a.C., si inizia a differenziare il concetto di imputabilità e, quindi, si comincia a dire che i bambini non sono colpevoli di eventuali danni che possono arrecare ad altri. Nel diritto romano antico già si introduce la responsabilità dei genitori per danni che vengono provocati dai bambini. Sicuramente, prima di allora questa distinzione non c’era. Il discorso del libero arbitrio, come accennava prima (senza avventurarsi in discorsi scientifici o neurologici che non sono il suo campo), è leggibile dal punto di vista filosofico, in base al quale esiste da sempre questa diatriba tra i deterministi e gli indeterministi, tra coloro i quali ritengono che l’uomo sia sempre condizionato e necessitato nel suo agire e coloro che invece ritengono che abbia sempre la capacità di poter scegliere tra diverse possibilità di agire. Filiè ribadisce che, poi, se ci sia un discorso neurologico, se il cervello abbia già deciso prima o dopo, questo non è in grado di poterlo dire. Ritiene di differenziare quello che può essere un discorso filosofico - in cui indagare se l’uomo è libero di agire o non lo, o se ritiene di essere libero, ma in realtà non lo è, da quello che invece è un discorso più tecnico-giuridico circa l’imputabilità - nel senso che l’imputabilità per i minori, secondo il diritto italiano per i minori degli anni 14, o per chi non è sano di mente, attiene proprio al fatto oggettivo che quell’individuo sia in grado di comprendere o meno la valenza degli atti che compie.

Dr. Lusetti aggiunge che ci sono delle proposte anche in Italia. Gli risulta che il partito radicale abbia proposto di abolire il principio della non imputabilità del malato di mente. In America, anche se gli risulta che questo principio sia ancora in vigore, praticamente non viene osservato tant’è che finiscono sulla sedia elettrica i minori e i malati di mente; per cui nel momento in cui si abolisce questa convenzione, ammesso che sia una convenzione, alla quale magari non corrisponde una realtà neuropsicologica adeguata, si arriva a questi estremi. È il vecchio principio di civiltà giuridica che ci salvaguarda un po’ tutti perché nel momento in cui viene meno, si torna al diritto barbarico della responsabilità oggettiva.

Il Dr. Lo Turco è rimasto colpito dal fatto che all’inizio molti diritti siano direttamente di ispirazione religiosa - divina; questo lo fa pensare che, in fondo, il Super Io non sia direttamente legato alle norme. Anche Freud, nella stessa citazione fatta dal relatore, parla di valori; ora i valori non sono esattamente corrispondenti ad un codice e quindi alla formazione del Super Io, anche intesa in termini di internalizzazioni dei dettati genitoriali durante l’infanzia. Non gli sembra ci sia solo il problema della legge, dei codici e della punibilità, ma che ci siano molti altri rapporti, tra i quali la tradizione. La tradizione non è solo la tradizione del codice, tante è vero che nel proprio lavoro vede pazienti pieni di colpe e le colpe non coincidono con le sanzioni o con quello che prevede il codice di aver danneggiato una persona perché gli è stato detto una cosa e forse quella ci è rimasta male. In sintesi, il problema della colpa non è solo il problema giuridico: è anche un problema giuridico, ma è soprattutto un problema psicologico. Se si parla di Super Io, il problema è guardare gli aspetti della dinamica mentale, della dinamica interna individuale e collettiva che non è direttamente rapportabile al diritto, il quale è piuttosto l’esternalizzazione dei problemi mentali intesi sia in senso individuale che collettivo. Anziché dire che il codice, le leggi, hanno formato il Super Io diciamo che è la dinamica della mente dell’individuo e del collettivo che l' ha formato, nel tempo storicamente e continuerà a farlo.

Avv.to Filiè fa presente di non avere una risposta precisa. Ha comunque dovuto e voluto approfondire l’argomento, ma più che altro dal suo punto di vista, e ha compreso che anche secondo la costruzione freudiana ciò che deriva dall’influenza delle leggi non forma il Super Io, bensì è uno degli elementi che contribuisce alla formazione del Super Io. Il relatore ribadisce che questa è la sua interpretazione, ma che su questo argomento preferisce non addentrarsi non avendo la preparazione.

Dr. Lo Turco conosce e spesso usa la citazione fatta dal relatore e secondo lui essa evidenzia il fatto che nella formazione del Super Io bisogna tener conto delle dinamiche collettive; cioè, non è solo un fatto individuale ma è anche un fatto collettivo. Freud, in generale, pensa al Super Io come derivante dal rapporto con il padre, con i genitori; tende a parlare dei rapporti individuali o interpersonali, non parla quasi mai o solo in un paio di scritti del collettivo. È in quella unica citazione fatta dal relatore, tratta da “Introduzione alla psicoanalisi”, che Freud parla finalmente del collettivo, del rapporto con il collettivo. Riporta, comunque, alla dinamica e al rapporto con il padre anche nel suo scritto famoso “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” dove comunque finisce per riportare il Super Io ad un meccanismo nei confronti del padre; ci si identifica con il padre, col capo e a quel punto è possibile sentirsi uguale a tutti gli altri della massa. Freud non ha molto il senso del collettivo, però in questa citazione dice anche che la formazione del Super Io non è solo un fatto familiare tra il figlio e i genitori, non dipende solo dalle imposizioni, sanzioni, rimproveri dei genitori, ma è anche quello che arriva attraverso la tradizione, attraverso il collettivo, però non parla di leggi. Lo Turco reputa importante che Freud dica questo, perché crede che il problema sia che le leggi nascono dalla mente umana e dalla dinamica collettiva e non il contrario e che il Super Io non si forma con i tribunali.

Avv.to Filiè concorda che sia uno degli elementi che contribuisce, almeno Freud lo presenta così al di là della citazione che ha riportato proprio testualmente. Per quello che ha letto, in funzione della preparazione di questa relazione, e per come l’ha compreso, Freud parla della formazione del Super Io dicendo che: la formazione del Super Io nell’individuo si attua come fase finale del complesso edipico, quando sia i maschi che le femmine, in modo diverso, introiettano i divieti dei genitori ed i sensi di colpa delle proiezioni su di loro, ciò viene in seguito arricchito dalle influenze sociali ed educative dell’ambiente di origine ed in questo modo il Super Io si struttura. Questa è la definizione che più o meno ha cercato di dare, probabilmente senza riuscirci.

Dr. S. Zipparri sottolinea che la vera distinzione, come ha già detto Majore, è che il Super Io è un codice interiorizzato, là dove le leggi invece sono un codice esterno. Secondo lui, qui, di “super”, più che l’Io, c’è il lavoro fatto dal relatore: un super lavoro che comprende una serie di stimoli interessantissimi, soprattutto per chi come lui non è un addetto ai lavori. È rimasto molto colpito soprattutto da questa premessa della filosofia del diritto, che gli è sembrata molto importante. Si riferisce ai tre orientamenti di filosofia del diritto, citati da Filiè, cioè il diritto come l’espressione di qualcosa di naturale, oppure una spontanea corrispondenza che gli esseri umani si danno nel rispetto di regole, oppure il diritto positivo, e chiede quale sia la personale propensione del relatore, a quale di queste scuole senta personalmente di aderire. Altra questione che Zipparri vuole affrontare è quell’interessantissimo rapporto tra il diritto e la religione. È chiaro che anche oggi noi vediamo che le aule dei tribunali, con le toghe ecc., possono ricordare dei riti sacri, cioè c’è proprio un rituale sacro. Ci sono degli antropologi che hanno sostenuto una diretta filiazione tra le procedure del sacrificio umano e la pena di morte imposta dai tribunali, cioè i tribunali sarebbero (secondo queste scuole antropologiche) una sorta di eredità dei rituali di sacrificio che venivano imposti anticamente nelle società tribali. Quindi è interessante questo legame esplicitato molto bene dal relatore.

Prof. Majore evidenzia che tutta la cultura e la scienza sono sempre iniziati con la religione; in altri tempi il sole era Dio, perché l’uomo, non capendo le cose, si era creato un mondo religioso.

Dr.ssa A. M. Meoni parte da quella che è la sua sensazione, la sua storia, le sue esperienze, la sua cultura, che trovano conferma nella preziosa relazione, per affermare che normalmente, nella vita comune, in un atteggiamento intellettuale quasi spontaneo e comunque di consuetudine, si fanno troppo velocemente due tipi di ovazione: la prima è considerare la facoltà del giudizio come una facoltà che deriva dalle norme e non viceversa, cioè nella dimensione interiore il giudizio viene prima, poi dopo viene l’applicazione del comportamento: io faccio una cosa se penso che sia fatta bene, o non commetto un delitto se penso che non sia fatto bene, ma questo lo penso internamente non è che lo penso mutuato dalle leggi che ci sono nel mio ordinamento sociale; quindi la prima riflessione è: cosa viene prima il giudizio o la norma? La seconda riflessione è che, indubbiamente, quello di cui stiamo parlando ha avuto uno sviluppo storico, per lo meno in determinati ambienti, in determinati territori. Il relatore non ha parlato dell’Africa e del Sud America, ma diamo per scontato che ci sia stato in tutto il mondo uno sviluppo storico del diritto. Questo sviluppo storico del diritto non nasce dal nulla e, quindi, va data un’attenzione a quei comportamenti. Qui vuole introdurre un aspetto disciplinare, non trattato nella relazione, che è l’etologia, cioè quei comportamenti spontanei del collettivo animale, del collettivo naturale. Si ricollega così al Sole che, in realtà, ha delle norme, dei comportamenti, così come la Terra, che gira perché ha delle norme; la Luna, che gira perché ha delle regole e non è che si crea qualche problema quando queste regole vengono infrante, perché in realtà nel mondo naturale gli accadimenti malvagi sono nella natura delle cose: un terremoto, un alluvione. Però è vero che ad un certo punto l’uomo, molto anticamente, nel porsi domande su queste cose, ha strutturato quella che poi resta la base del diritto religioso odierno: considerare il sole un Dio e quindi aver bisogno di ingraziarselo perché continui a splendere e non crei sostanzialmente problemi. Riguardo il comportamento gruppale, sottolinea che forse si capisce bene non pensando all’uomo ma pensando agli animali, dove succede che l’organizzazione del branco ha un capo branco che non si discute. Chi è il capo branco? È quello meglio, che preserva il branco da tutti i guai, è quello fa le leggi e guai a chi non segue il capo branco! Questo poi viene trasferito nel concetto di Dio e nelle sue strutture. La terza riflessione, prima ancora di entrare nella diatriba di che cosa sia il Super Io in relazione alla legge, in relazione al diritto, riguarda un altro problema che è quello di considerare dal punto di vista epistemologico questa equivalenza legge/Super Io - legge sociale/Super Io. Se si considera il Super Io un'istanza dell’individuo, l’equivalenza non è affatto pacifica; è pacifico dire che si possa essere influenzati nelle dinamiche, quelle genitoriali e quelle di crescita, ma l’equivalenza tout court non è pacifica, perché allora bisognerebbe dire che il gruppo sociale allargato a sua volta ha un Super Io e questa materia, di grande discussione, implica la relazione tra il singolo individuo ed il gruppo di appartenenza. Siamo ben sicuri che il gruppo di appartenenza segua le stesse prescrizioni di comportamento individuato dalla psicoanalisi, quella ortodossa-freudiana?

Avv.to Filiè lascia a qualcun altro la risposta sulla seconda parte delle osservazioni della Dr.ssa Meoni. Sulla prima parte osserva che quando abbiamo parlato e quando parliamo di formazione del diritto e, quindi, di come hanno cominciato a nascere delle regole, ovviamente stiamo parlando di regole sociali; non gli è sembrato, quindi, molto pertinente il paragone con quello che succede nella natura; la terra gira intorno al sole, perché quelle sono regole fisiche, regole scientifiche, oppure quello che succede nel mondo animale, dove non c’è comunque un raziocinio, un libero arbitrio, che può determinare l’insorgenza di regole sociali. Il discorso affrontato questa sera era fondato sulle regole sociali, modelli di comportamento che sono riconosciuti costanti e da osservare in un contesto sociale dove alla trasgressione non corrisponde da subito la sanzione. Infatti, come aveva detto all’inizio, secondo gli antropologi, e peraltro senza elementi di assoluta certezza, nelle comunità primordiali, nelle comunità primitive, quando sono andati pian piano costruendosi dei modelli di comportamento e quindi delle regole sociali, la trasgressione inizialmente determinava la semplice riprovazione del resto della comunità; nessuno inizialmente aveva pensato di stabilire delle sanzioni; a mano a mano che le comunità sono andate sempre più organizzandosi e quindi crescendo, hanno stabilito delle sanzioni.

Dr. M. Muscarà rileva come rischio, nella intuizione religiosa dell’applicazione del diritto, quello della vendetta degli Dei, cioè gli Dei superiori possono anche essere invidiosi dell’operato umano, pensate a Prometeo che è stato punito per aver capito tante cose. Nel religioso portato nel diritto c’è questo grosso rischio, che si applichi o una vendetta degli dei, o una punizione divina, che può essere per conto della mente umana .]

 

Note di redazione:

(r) dialogo nel dibattito a seguire la registrazione vocale degli interventi dei partecipanti rivista dal relatore Avv.to Massimo Filiè.

Antonella Giordani agior@inwind.it e Anna Maria Meoni agupart@hotmail.com

 


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