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Seminari
di Neuropsichiatria, Psicoterapia e Gruppo Analisi
2010 - 2011

Le forme del silenzio

di Dr.ssa Maria Antonia Ferrante
Coordinatore Prof. Rocco Antonio Pisani
(t) testo di relazione fornita dal relatore (r) elaborazione testi dialogo a cura Dr.ssa Antonella Giordani


Il Prof. R. A. Pisani presenta la Dr.ssa M. A. Ferrante, che collabora alla organizzazione di questi seminari dal 1977-78, cioè da quando, insieme ad altri, in pochi, si riunivano nell’ambulatorio della Clinica di Malattie Nervose e Mentali da lui diretto. Ricorda che la Dr.ssa Ferrante è stata parte attiva di questi seminari ed ha collaborato in modo sempre efficace alla loro organizzazione ed è membro onorario di questo nostro gruppo tanto è vero che abitualmente le assegna il compito di fare la sintesi dei seminari e il seminario di chiusura. La Dr.ssa Ferrante è dottoressa in Psicologia e in Lettere ad indirizzo archeologico. Ha approfondito temi di Archeologia che sono stati fondamentali anche agli studi sulla correlazione tra Antropologia Culturale e Gruppoanalisi in particolare nell’ambito dei gruppi intermedi. Aggiunge, inoltre, che M. A. Ferrante è stata la sua prima allieva in quanto si è formata come gruppoanalista, prima in un gruppo condotto dal Professor Jaime Ondarza Linares dove Pisani era co-terapeuta, poi in un gruppo condotto da Pisani quando il Prof. Ondarza Linares non ha più lavorato alla Clinica di Malattie Nervose e Mentali. Infine ringrazia la relatrice a nome personale e di tutto il gruppo e le dà la parola perché presenti l’argomento scelto: “ Le forme del silenzio”.

La Dr.ssa Ferrante lo ringrazia per gli elogi ricevuti e per la possibilità che le è offerta, ogni anno, di riprendere i libri e approfondire temi relativi all’Archeologia e alla Gruppoanalisi.

(t) [ Le forme del silenzio (il silenzio e la parola)

Ho appena visto l’odore delle foglie bagnate, ma non so dove sia la parola che dovrebbe esprimere questo odore, questa foglia, quest’acqua. Un’unica parola per dire tutto, visto che molte non ci riescono”. (Viaggio in Portogallo, José Saramago”).

dal dialogo “Cratilo” di Platone:

Il testo “Cratilo” è stato trascurato dai linguisti moderni, ma attualmente è rivalutato. Platone, con questa opera, anticipa infatti di due millenni i moderni studi della Linguistica (Ferdinand De Saussure, 1857-1913; Emile Benveniste, 1902-1976).

Nel dialogo, Socrate si dispone ad ascoltare la tesi di Ermogene, seguace della dottrina di Parmenide, circa l’etimologia delle parole. La tesi di Ermogene è contrapposta a quella di Cratilo, maestro di Platone, appartenente alla scuola eraclitea.

Il “Cratilo” è stato definito prolisso e noioso per le tante parole utilizzate nelle tre parti che lo compongono. Il tema centrale del dialogo è relativo alla domanda: “la parola permette l’accesso alla conoscenza ? ”

L’Etimologia non è ancora nata al tempo di Platone, non è disciplina scientifica; è del tutto diversa da quella moderna che è comparativa, cioè mirata a prendere in esame diverse lingue per ritrovare tracce comuni a tutte. Quella antica, non ancora vera etimologia, considera soprattutto il senso mitico – magico - religioso della parola.

Come e dove trovare il significato vero della parola? Andiamo indietro di qualche millennio

Per gli Stoici c’è perfetta adeguatezza fra significato e significante: la parola dice la verità. Il nome, soprattutto quello di una divinità, è nome-rivelatore; il nome rivela il Dio. Allah si rivela anche attraverso i suoi 114 nomi.

Sebbene la moderna Linguistica si basi sulla scientificità, non si può escludere che in certi attuali contesti la parola sia ancora impregnata del significato originario e che sia ancora in grado di recuperare i connotati archetipici che la arricchirono di sacralità e dove anche i suoni della parola; i fonemi, veicolavano immagini di esperienza primordiale.

Nei dialetti di parecchie regioni italiane sopravvivono parole di antica struttura, riferite a strumenti musicali, a composizioni poetiche, a forme di ballate e di riti carnevaleschi.

Quanto detto rinvia agli archetipi junghiani: parole e disegni. Il mandala, di solito di forma circolare, indica colui che possiede l’Essenza. Permangono, in ambito religioso, di ogni attuale religione, le parole ripetute: le litanìe, le salmodìe, la recita del rosario. Sono ripetizioni magiche di parole o di frasi rivolte alla Divinità perché non si faccia sorda alla preghiera umana.

L’archetipo della parola torna in particolari stati della coscienza. In certe forme di psicoterapia, il livello comunicativo, detto degli archetipi junghiani, è esperienza comune agli psicoterapeuti ed ai pazienti. Negli scritti di Raul Usandivaras, gruppoanalista argentino troviamo ripetuti riferimenti all’uso delle parola mitica nelle sedute da lui condotte.

Per Parmenide solo il pensiero ci permette la conoscenza: non è possibile pensare il nulla; perciò pensare è conoscere; nè alla parola, nè alla frase si deve dare credito, ma solo al pensiero.

Eraclito si fida della conoscenza sensoriale: i sensi, a suo avviso, ci fanno udire e vedere con chiarezza.

Per i Sofisti, Retori, il linguaggio è mirato all’unico scopo di persuadere, di influenzare i politici: la parola è strumento utile, ma non fa accedere alla conoscenza. I Retori utilizzano diversi espedienti per rendere persuasivo il discorso. Si avvalgono di metafore e dividono il discorso in parti ordinate in modo che all’introduzione faccia seguito la parte saliente ed una conclusiva, la più importante, che deve suggestionare positivamente l’ascoltatore. Il politico moderno tenta di usare la Retorica; non ci riesce perché usa male la parola; il politico moderno non sa parlare.

Platone è convinto, e lo fa esprimere nel Cratilo da Socrate, che la parola è fallibile perfino quando è infiocchettata e resa bella, gradevole e convincente dagli artifizi retorici. Platone conferma, tuttavia, la validità del dialogo in quanto strumento comunicativo fra tu e me, impegnati, se appartenenti alla stessa cultura, a modellare e a rimodellare parole e frasi in senso costruttivo, sperando che quello che dice il tu sia compreso dal me e ciò che il me dice sia compreso dal tu.

Platone, sebbene sia scettico sulla possibilità che la parola sia rivelatrice di verità, in quanto la verità è al di là della parola è nell’idea, riconosce che l’uomo non può esimersi dal dialogare.

Il Duale

Il fascino della Linguistica, la disciplina che penetra nella struttura di una lingua esaminandola sotto diversi e molteplici aspetti: storici, geografici, sociologici, commerciali, religiosi, si pone anche come ricerca che possa rivelare a quali livelli gli aspetti sopra nominati siano implicati nel nascere e nel divenire di una lingua. Molti e continui cambiamenti avvengono all’interno di una lingua; cambiamenti dettati da esigenze nuove, dall’intrusione di termini importati da altre lingue, dalle ondate di migrazioni umane e dalla perdita di parole non più utilizzabili; dinamica augurabile e provvidenziale, altrimenti la lingua invecchierebbe inaridendosi. Le prime frasi dei nostri avi si suppone che fossero utilizzate soprattutto ai fini della sopravvivenza in una condizione di vita piuttosto impegnativa per la ricerca del cibo, per la difesa dai pericoli e dalle intemperie. I reperti archeologici aggiungono, alla giusta supposizione della parola primitiva come comunicazione per l’azione immediata, la constatazione che già 30.000 anni fa l’uomo esprimeva, attraverso la parola, concetti astratti. Formulava simboli ed esprimeva, attraverso grafemi: linee tratteggiate, curve, spirali, figure geometriche, quali triangoli e cerchi incisi su ossa lunghe di animali, sul legno, su ciottoli, un’idea, un segno che rinviava a qualcosa di molto importante; di vitale. Secondo l’accurata analisi dell’ antropologo-archeologo e glottologo André Leroi-Gourhan (Il gesto e la parola, vol. I, trad. Ital., 1977) la vita sociale dei gruppi umani di 35.000 anni fa richiedeva una forte collaborazione che Leroi- Gourhan definisce simbiosi (non nel senso di fusione) che riguardava soprattutto la coppia coniugale (A. Leroi-Gourhan, op.cit., pag. 184).

L’insieme”due”, nell’arte preistorica, si rappresenta tramite simboli: eventi, persone e oggetti di segno opposto: maschio-femmina, giorno-notte, vita-morte, luce-ombra, sole-luna. Tutto ciò all’interno di una visione religiosa del mondo. Tacche, punti, linee oblique, cerchi etc., incisi, sarebbero utilizzati per una recitazione magica. L’officiante segue con la punta del dito i segni incisi mentre declama l’orazione (vedi le frasi scandite passando da un grano all’altro del rosario).

La concezione dualistica dei popoli cacciatori, di fatto, è ancora nel nostro modo di pensare. Fa parte della nostra logica, a migliaia di anni di distanza”. (E. Anati, Origine dell’Arte e della concettualità, 1988).

Il pronome personale riferito a due individui, il cosiddetto “duale”, attualmente è riscontrabile nelle lingue di alcune aree geografiche del globo: in Groenlandia, in Nuova Zelanda, nelle sedi delle lingue semitiche, nella penisola di Malacca, nelle Filippine, nell’America del Nord, (il cherokee, lingua indiana dell’America settentrionale, comprende dai sessanta ai settanta pronomi contro quelli della lingua italiana; circa dieci) in Slovenia, a Malta. Nella Grecia colta il duale era addirittura un abbellimento della lingua. Attualmente permane nel dialetto attico, ma la sede originaria del duale è l’Asia. Una funzione importante il duale la ricopre nella lingua araba (voi due:‘antuma”; maschio e femmina; loro due: “huma” ; maschio e femmina).

Nel linguaggio popolare, quotidiano, pratico, spesso diciamo, ad esempio.” ho mangiato due spaghetti”...; “ho fatto due passi”; “ho scambiato due chiacchiere”; come se il due fosse più pregnante di ogni altro numero.

Il duale, secondo l’analisi di von Umboldt, si è inserito in alcune lingue per un motivo, quello più accreditato: “Un gruppo di oggetti spicca di per sé in quanto si può abbracciare all’istante con lo sguardo ed è in sé concluso. Successivamente, nell’uomo la percezione e la sensazione della dualità passa nella separazione dei due sessi e in tutti i concetti e sentimenti che vi si riferiscono; essa lo accompagna inoltre nella formazione del suo corpo e di quello degli animali in due metà uguali con membra e organi di senso presenti a coppie. Infine, proprio alcuni dei fenomeni più maestosi e più grandi nella natura, che circondano in ogni istante anche l’uomo allo stato di natura, si presentano come dualità o sono concepiti come tali: i due grandi astri che determinano il tempo, il giorno e la notte, la terra e il cielo che l’avvolge, la terra ferma e le acque e così via.

Ma è nell’invisibile organismo dello spirito, nelle leggi del pensiero, nella classificazione delle sue categorie che il concetto di dualità si radica in maniera ancora più profonda e originale: nella tesi e nell’antitesi, nel porre e nel togliere, nell’essere e nel non essere, nell’io e nel mondo. Anche là dove i concetti si dividono in tre o più, il terzo membro trae origine da una originaria dicotomia o viene ricondotto volentieri nel pensiero a base di una tale dicotomia”.

L’origine e la fine di ogni essere diviso è unità. Per questo se ne può desumere che la prima e più elementare divisione, in cui il tutto si scinde soltanto per ricongiungersi subito dopo in forma articolata, è la divisione predominante nella natura, e nell’uomo la più illuminante per il pensiero e la più piacevole per la sensazione”. (W. Von Humboldt, Scritti filosofici, 2007, pag.795).

Il duale, afferma Humboldt, è un particolare “collettivo del numero due”, esso è singolare e plurale al contempo. Singolare, perché le due parti possono ricomporsi recuperando l’unità, e plurale perché composto da due individui.

La forma duale si esprime, grammaticalmente, come convenzione (alla pari delle altre strutture grammaticali). Ma a livello di metalinguaggio il duale esprime un concetto fondamentale, quello della reciprocanza, termine adottato da filosofi, linguisti e antropologi moderni.

Si impara ad usare la parola udendo la parola. All’inizio, come nel rapporto madre-feto, può sussistere una forma di simbiosi fra il sé e l’oggetto, ma la simbiosi, per la sopravvivenza dei due, deve rompersi in pezzi che tendano, dopo la separazione-rottura, a ricomporsi in unità non più fisse e legate, ma mobili, autonome e tensive e in relazione.

I Filosofi affermano che il sé e la cosa (l’oggetto filosofico) si ricostituiscono ed avviano un rapporto dialogico dal quale il pronome personale egli, la terza persona, è esclusa. “Egli” è distante dall’io; è il non-io. La pluralità, il collettivo allargato, nasce da questa prima frammentazione (il duale). Tramite la stessa, come afferma Karl Lowith, si approda al “co” o “con”; lo stare insieme con altri; la pluralità. Nel dialogo è possibile conoscere la verità, purché i dialoganti abbiano fiducia l’uno dell’altro, purché il dialogo si snodi non in mere chiacchiere, ma nella tensione del disvelamento; nell’impasto e nel rimpasto della parola, nello sforzo che lo spirito umano, intriso di memorie e di storia, penetri le parole e le renda parole vive.

Il silenzio entra nel dialogo non come parola che è venuta meno, ma come parola che rinforza la tensione conoscitiva.

Cercherò, parlando delle forme del silenzio, di non banalizzarle proponendo frasi fatte, proverbi, detti etc., che pur possiedono una valenza intrisa di implicazioni antropologiche, religiose, storiche, folosofiche, ma porterò solo alcuni esempi, sperando che siano abbastanza pregnanti, mentre sottolineo ancora che solo per motivi espositivi ho separato la parola dal silenzio.

Spesso il silenzio è programmato. Colui che si avvale della facoltà di non parlare lo fa con intenzione e convinzione. Rientra in questa forma il silenzio di Gesù durante il processo che lo condannò a morte. Gli Evangelisti ripetono, riportando i fatti, la stessa frase:“...E Gesù non rispose...”. Non rispose perché era consapevole della fallacia del dialogo in cui lo si voleva trascinare facendogli ammettere ciò che vero non era: è, quello di Gesù, il silenzio che dice senza dire.

Nel racconto “La stanza dei bambini”, l’autore, Louis-René des Forets, ci ragguaglia su un caso clinico; non sappiamo fino a che punto il racconto sia reale o frutto di fantasia.

La trama non è molto chiara. Georges da bambino ha adottato, come difesa, il silenzio volontario perché è in disaccordo con il mondo circostante. Le uniche parole che pronunzia sono quelle relative alle lezioni scolastiche; parole memorizzate e meccanizzate. Da giovane vive un sogno: quello di essere dietro la porta di una stanza dove un gruppo di bambini si adopera affinché uno di loro, che si chiama Georges, colui che sta zitto, si decida a parlare. Ogni tentativo per farlo uscire dal silenzio fallisce, per cui il gruppo decide di adottare lo stesso metodo di Georges: tacere come sta facendo lui.

Il nostro Georges (lo stesso nome), quello che origlia, entra, restando fuori, nella trama del gioco dei bambini; anzi entra nel personaggio fittizio, il piccolo Georges che non parla. Quando il silenzio continua e si fa minaccioso, il giovane Georges si chiede se sta ancora dietro la porta oppure c’é stato solo apparentemente. Deve verificare; e per verificare non c’é altro sistema che parlare, gridare: “Sieti lì bambini?” - dice a voce alta – “Siete ancora lì?”. Apre gli occhi; è nel letto. Uno dei bambini che nel sogno era nella stanza, Paul, suo nipote, entra, realmente, e sorridendo gli dice che da basso qualcuno chiede di parlargli:”Parlarmi, dici, piccolo mio? Parlarmi, a me?”. E mentre si alzava in fretta, vide ancora il bambino sorridergli, ma era un sorriso lontano, indecifrabile”. (L. R. des Forets, la stanza dei bambini, 1996, pag. 76).

Tramite il vissuto onirico si ripropone il dramma del silenzio contestatario, del silenzio che non fa accedere al dialogo e tramite lo stesso vissuto onirico Georges ripristina il dialogo vero; parla.

Il silenzio non è fuori di noi. Il mondo è pieno di voci: il mare, il vento, i rumori della natura ed i rumori degli uomini e degli animali. Tonalità alte, basse, minime: sussurri, soffi, lamenti, bisbigli, ma tutte voci e suoni. Il silenzio è dentro di noi, nell’intimo di noi stessi. Ma, anche questo silenzio vede e parla, perché il flusso della nostra coscienza non si interrompe se non con la morte. Del dopo, del dopo la morte, non sappiamo.

Il silenzio vede, parla, spesso è tonante, è colorato; è il silenzio che agisce. Il silenzio, nel tiro con l’arco, precede ed accompagna il lancio della freccia. Il silenzio alberga nell’intimo del tiratore il quale prima che la freccia scocchi, in un particolare stato di coscienza, divenendo un tutt’uno con l’oggetto, si avvicina alla realtà ultima, alla individuazione di sé. Basta spostare un accento nella parola greca bios, per avere due significati: biòs con la ò accentata è arco; bìos, con la ì accentata, è vita (l’arco dell’esistenza come un arco-baleno); magia della parola!

Lo studioso Eugen Herrzgel, nel 1948 ha pubblicato un libretto che ha riscontrato favore dei lettori: “Lo Zen e il tiro con l’arco”. Herrzgel ha vissuto in Giappone, inviatovi come insegnante, per parecchi anni. Appassionato di Arti Marziali, e soprattutto del tiro con l’arco, si affida ad un famoso maestro, Zenzo Awa, che lo addestra attraverso anni di dure prove. In questa disciplina bellico-sportiva non è importante ed interessante l’apprendimento della tecnica, ma lo stato della coscienza che accompagna il tiro. Altrimenti, ci sarebbe riuscito Robin Hood a colpire la mela ? Una serie di cerimoniali eseguiti con calma, pazienza, capacità d’attesa, anticipano il momento culminante. Il corpo, la mente e l’oggetto entrano in una intima comunicazione. Un lungo esercizio, estenuante, addestra il tiratore il quale nel silenzio che accompagna le varie fasi, comunica con il suo inconscio, lo capisce, lo comprende attraverso una ferrea disciplina che controlla i gesti indirizzandoli allo scopo finale. Maometto aveva sei archi, l’ultimo era detto l’invisibile perché volava silenzioso. Il profeta ha dedicato 40 detti, le hahadith all’arcierìa che per gli Arabi è disciplina di preghiera. Il tiro con l’arco, oltre la funzione di caccia e/o di piacere ludico, rinvia ad un rito religioso, al fine di afferrare la totalità e la individualità di tutte le cose: l’inizio e la fine di esse; biòs e thànatos vita e morte.

Nella Sardegna nuragica (VIII-IX e X sec. a.C.), l’arciere riveste un ruolo importante nella categoria dei combattenti. All’arciere, più che al pugile o al guerriero con spada e scudo, è devoluto il compito di combattere. Il bronzetto votivo rappresentante l’arciere afferma l’appartenenza etnica, quella sarda, intesa come privilegio perché la classe dei guerrieri è classe di potere. ( confr. bronzetto nuragico; arciere corazzato di Teti, Abini (Nuoro); Museo archeologico di Cagliari in Quotidiano di Storia e archeologia Vittorio Brizi e Cinzia Loi http://pierluigimontalbano.blogspot.it/2013/06/sardegna-nuragica-arcieri-di-bronzo.html )

In Giappone e in Cina permane ancora viva la pratica delle Arti Marziali. Ci sono scuole di monaci guerrieri dove le armi, ora, si utilizzano simbolicamente. In alcune di tali scuole la meditazione è al centro delle attività. Si impara ad assumere la posizione corporea giusta imitando quella degli animali prima che attacchino la preda. Immaginiamo un leone: è immobile, ma tutti i muscoli sono tesi; le zampe nella posizione

più idonea allo scatto; gli occhi fissi; perfino il respiro è rallentato; nessun rumore, solo attesa, attesa paziente. La sinestesia è il fenomeno relativo ad uno stato percettivo dove i sensi si contaminano. Per cui, espressioni quali: vedere una voce, sentire un colore, sentire con gli occhi, vedere con l’udito, non ci meravigliano; esse rinviano ad un’esperienza sensoriale che, sebbene non sia sperimentata da tutti, è reale, soprattutto negli artisti. Più frequenti sono le sinestesie dove l’odore di un oggetto o di persona genera immagini mentali relative ad una situazione regressa dove lo stesso odore era stato percepito. Si dice che l’immagine di Padre Pio sia preceduta dal profumo delle violette. Ben noto il caso di Marcel Proust il quale, mangiando un biscotto intinto nel thé, avverte un particolare stato d’animo, nostalgico e dolce che, in un primo momento, non riesce a decifrare. Ripetuto l’atto di bagnare nel thé la madaleine, la scena antica si realizza e ritorna netta e distinta. In campagna, quando era bambino, sua zia bagnava la madaleine nel thé per darla a Marcel. Penso che gran parte di noi abbia sperimentato questo fenomeno. Quando ho la fortuna di tornare a provarlo, la mia coscienza è avviluppata in un’atmosfera fiabesca di connotazioni inusuali, altre da quelle consuete. Vorrei restarvi dentro il più possibile. E’ esperienza carica di un piacere che supera quello erotico; piacere di ogni senso. In tali situazioni ho provato un’assolutezza che, purtroppo, sfugge mentre tenti di trattenerla.

I momenti più belli della mia infanzia, se non di tutta la mia vita, li ho spermentati in due situazioni rimeste indelebili nelle memoria. Ho dato i nomi a tali ineffabili momenti: “la paperella colorata”, avevo cinque anni, e “le capriole nel fieno”; ne avevo otto.

Visita al Museo-lascia sentire gli occhi.

Coloro che hanno la fortuna di avere i cinque sensi integri, possono sperimentare il piacere estetico di visitare una pinacoteca utilizzando soprattutto la percezione visiva. Ma, l’osservatore il quale, per cause genetiche , per una propensione personale o per un particolare allenamento, mette in gioco tutti i sensi, interscambiandoli, speriementa il godimento estetico, non solo della vista, ma dell’udito e dell’olfatto in contemporanea.

Presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, dal 2009 funziona un laboratorio; “La via dell’Arte attraverso le emozioni”, di esperienza multisensoriale per i visitatori disabili: ciechi, sordi, sordo-muti. Attualmente, sono proposti agli utenti quattro dipinti di diverso stile e di diversa epoca: danza campestre, di Filadelfio Simi; nello specchio, di Giacomo Balla; linea angolare, di Vasilij Kandisnskij e l’informale “grande rosso” di Alberto Burri. Monitor, tavola perforata, cuffie auricolari, didascalie in braille, modellini tridimensionali per non vedenti, musica ed emanazione di profumi in assonanza con le quattro tele, permettono ai disabili di vedere ed udire il quadro, di toccarlo, sentirne il profumo e gustarlo.


Il silenzio dei mistici-Jean Joseph Surin.

Una particolare forma di silenzio è quella mistica. Il silenzio dei mistici, di quegli individui che nel raccoglimento isolato, lontani da ogni altra cura, dialogano con la divinità, sembrerebbe una forma di silenzio passivo. Al contrario. A dispetto dell’etimo della parola mistico ( myen chiudere, tacere) , la mistica parla un linguaggio speciale nella condizione di estasi, di trance (stato allucinatorio con visioni, sensazioni tattili ed olfattive e segni di lacerazione sul corpo). Il mistico esce dal proprio Sè per entrare nella sfera dell’Altro, il Divino, agognato e continuamente cercato. Molti mistici hanno scritto sulla loro esperienza al limite dell’umano. Tanti sono stati i mistici, soprattutto nel Medio Evo, periodio particolarmente importante per i movimenti religiosi che interessarono Occidente ed Oriente. L’estasi si segna sulla carne generando le piaghe, le stimmate che hanno impegnato e continuano ad impegnare scienziati scettici ed autorità religiose. Il gesuita francese Jean Joseph Surin (1600-1665) fu un grande mistico dalla vita travagliata. Inviato in un convento per liberare dalla possessione un gruppo di suore, cade egli stesso, come suppone, nella possessione. Seguono somatizzazioni definite fenomemi isterici in un soggetto affetto, dopo l’esperienza delle suore, da grave forma di melanconia. Viene ricoverato in manicomio. La parola gli muore in gola ( “suicidio linguistico” è definito da Domenico Cofano; 2003) e se parla è parola di autoaccusa, parola di morte. Si butta giù dalla finestra; non muore. Ma proprio da questo episodio rinasce la parola e Surin riprende a scrivere; più di seicento lettere ed altri saggi. E’ del tutto rinsavito. La personalità di Surin, come per quella di tutti i mistici, è presa in esame e discussa da psichiatri e religiosi.

IL mito della Caverna di Platone.

Continuando a tessere la trama silenzio-parola; parola-silenzio, inserisco un altro termine : luce – lume, che con parola e silenzio ha a che vedere perché parliamo di conoscenza, di accesso alla verità e il termine luce diventa metafora di ben vedere, di capire. Platone racconta che degli schiavi vengono incatenati all’interno di una caverna, rivolti verso la parete di fondo dell’antro. Fuori viene acceso un fuoco dietro un muretto lungo il quale delle persone trasportano degli oggetti. Il fuoco fa sì che sulla parete della grotta, verso la quale gli incatenati sono rivolti, si proiettino le ombre delle persone e delle cose reali che transitano lungo il muretto. Gli incatenati percepiscono le ombre come persone e cose reali. Un cavernicolo viene liberato. Esce fuori, ma i suoi occhi, abituati all’oscurità, sono abbagliati dalla luce viva. All’inizio non distingue, ma poi, pano piano, la realtà si evidenzia. Torna nella caverna e incoraggia gli altri ad uscire. Comunica loro che la realtà è fuori.

Platone conferma che è nella Luce e con la Luce che è possibile la conoscenza. La luce è metafora e cosa reale; in ogni caso, è disvelatrice.

Mi sembra evidente l’analogia fra questo racconto e la trama della Commedia di Dante: Sebbene dei millenni separino i due grandi: il filoso e il poeta, tutti e due tracciano la via dell’Individuazione, della piena conoscenza di Sè, attraverso il passaggio dalle tenebre alla Luce. Il Sole, in ogni cultura, ha rivestito il ruolo di divinità superlativa, garante della vita. Ne parliamo, attualmente, perché al Sole ci rivolgiamo, come gli Egizi, I Sumeri, I Maya, ed altri popoli prima di loro, perché il sole ci dia energia alternativa alla energia nucleare. La luce la chiediamo non con intento religioso, ma scientifico. Credo, tuttavia, che il pensiero magico: inconsapevole e misconosciuto, continui ad agire nelle nostre speranze, nelle fantasie negative e positive che guidano le attese quotidiane. Inconsciamente, continuiamo a supplicare il Sole affinché elargisca la sua energia per i tanti nostri bisogni e perché ci faccia vedere chiaro così come per gli uomini preistorici i quali al Sole chiedevano di far maturare il raccolto. Platone e Dante sono vissuti senza luce elettrica. Hanno, più di noi, sofferto l’oscurarsi ed il tramontare del sole. Il Sole, un bene comune, di tutta l’umanità, l’oggetto più cantato e più osannato, incarnato in Apollo, il dio di Nisa dagli occhi fulgenti; in Lucifero, nell’Arcangelo San Michele.

Retorica del silenzio nella Divina Commedia.

I tanti silenzi e le reticenze che Dante adotta nel suo capolavoro mirano ad uno scopo preciso: comunicare in maniera chiara e comprensibile utilizzando gli strumenti linguistici a disposizione: analogie, esempi, sospensioni, reticenze, allegorie, metafore, sinestesie. Il silenzio nella Divina Commedia, è silenzio retorico, posto al punto giusto perché completi la parola. Nell’ultima cantica del Paradiso la parola viene meno; è incapace, essendo parola umana, di esprimere il Divino (richiami platonici). E’ il silenzio che domina in una delle sue forme poetiche più alte e sublimi. E’ silenzio-linguaggio che “solo amore e luce ha per confine” Pd. XXVII 54).

Le sinestesie nella Divina Commedia.

Dante si avvale della sinestesia allo scopo di incidere sulle visioni che ci propone. La scrittura si fa: immagini, si fa colore, suono, odore e sapore, nella sequenza ascenzionale, nella faticosa scalata; allegoria, metafora e simbolo del duro cammino verso la salvezza. Spazio e tempo si inseriscono nella struttura della parola. Così, nel gioco delle esperienze sensoriali, ( “il sol tace...(Inferno I, 58) :sinestesia rigorosa, secondo Gino Casagrande, 1997), inquinamento della vista che più che vedere, ascolta l’ immagine di grande bellezza. (“Chi, per lungo silenzio parea fioco… Inferno, I, 63) Virgilio non parla, il silenzio è vasto; ha connotazione spaziale; significato visivo e uditivo insieme.

Il “lungo silenzio” è “la spiaggia diserta”, la “selva oscura”, il “gran diserto”; il luogo della non conoscenza. Il silenzio dantesco è visivo, spaziale. E ancora,“d’ogni luce muto” (Inferno, I V 28); “il visibile parlare”, la parola che è vista (Purgatorio, X 93); “odor di lode al sol che sempre verna” (Paradiso XXX 124-26).

La Luce e la Visione

Io levai li occhi, e come da mattina - la parte orientale de l’orizzonte

soverchia quella dove ‘l sol declina, - così, quasi di valle andando a monte -con li occhi, vidi parte ne lo stremo -vincere di lume tutta l’altra fronte.” (Paradiso, XXXI-118-123) Dalla valle verso il monte; parola e silenzio guidano verso la parte che vincere di lume tutta l’altra fronte.]

(r) Fa seguito alla relazione il dialogo tra i partecipanti:

Prof.Pisani : ringrazia M. A. Ferrante che ancora una volta ci ha dato un saggio delle sue capacità artistiche, perché noi parliamo sempre in senso tecnico di psicoterapia, di psicanalisi, di gruppi e di sottogruppi e dimentichiamo che, oltre l’aspetto scientifico delle psicoterapie, esiste un altro aspetto che è quello della personalità del terapeuta. La personalità del terapeuta si esprime essenzialmente attraverso l’arte. Il coordinatore evidenzia che Ferrante è una persona dotata di qualità artistiche. L’arte significa essenzialmente passione, partecipazione ed erotismo, elementi inseriti nello svolgimento delle proprie funzioni, cioè significa, in definitiva, creatività e la relatrice ancora una volta ci ha dato questa sera un saggio della sua creatività. La Dr.ssa Ferrante non ci ha proposto un’analisi scientifica del silenzio come silenzio di opposizione, silenzio mistico, silenzio di riflessione, ma ha sottolineato la componente artistica del significato del silenzio. Di grande interesse il collegamento con la sinestesia. Aggiunge che sente d’imparare sempre qualcosa di più dalla straordinaria, bellissima metafora della caverna di Platone, che, a suo avviso, significa essenzialmente che l’uomo vive nell’ombra, l’essere umano vive nell’ombra;vede delle ombre perché sta sempre di spalle e il sole non lo vede; vede solo le ombre riflesse sulla parete della caverna. Se per caso ha il coraggio di uscire all’aperto e si trova di fronte al sole, prima di tutto rimane abbagliato, distrutto dal sole, ma poi l’occhio si abitua alla luce; e vede la realtà. Cosa simboleggia la metafora del sole? E’ la conoscenza: uscire dall’ombra significa conoscere. Secondo il pensiero socratico, scoperta una verità, la mettiamo in discussione ( lo diceva Socrate attraverso Platone). La verità non è mai stabile, definitiva, non è mai sacrosanta; la mettiamo sempre in discussione. La conoscenza della realtà è infinita. Il sole che non parla, la luce che non parla , tuttavia, paradosso, parlano attraverso l’occhio, attraverso la luce. Secondo Dante Alighieri non basta arrivare alla conoscenza, ma conservarla ed usarla scrive il grande poeta: “ lo ritener l’aver inteso”. Pisani aggiunge che, a suo avviso il termine dialogo può riferirsi alla comunicazione di più persone e non essenzialmente e quella fra due individui. Cita Patrick de Marè, che diceva che la comunicazione fra due persone è un duologo, mentre il dialogo autentico è quello del simposio cioè il dialogo è multipersonale.

Dr. G. De Cinti : ringrazia la relatrice sottolineando di averla ascoltata non solo con la testa ma anche con la pancia, tanto è vero che mentre lei parlava si è trovato a recuperare una serie di ricordi personali dell’infanzia. Rispetto all’ambito concettuale reputa che la parola possa essere un ostacolo, a volte ha limitazioni e quindi, specialmente in un rapporto significativo, lui crede che a volte il silenzio sia un modo di comunicare: nel silenzio si comunica in modo importante, in modo profondo.

Dr.ssa Ferrante: è d’accordo e cita la frase di un poeta di cui non ricorda il nome che dice: “Nell’amore e nella sessualità ogni parola è superflua”. Aggiunge che in certi contatti di comunione intima il silenzio arricchisce molto di più; in realtà nel rapporto amoroso le parole sono inutili, ma anche in molti contatti umani: quanto più essi sono intimi tanto più la parola non è necessaria. Il silenzio ha una pregnanza, una valenza emozionale molto più forte della parola, soprattutto se la parola non è quella giusta. Quando gli innamorati si lasciano andare ad eccessive declamazioni di amore, come vediamo in certi films, viene il dubbio che le loro siano parole artificiose.

Dr.V. Lusetti : considera che le parole siano qualcosa di molto preciso ed esprimano i contenuti in modo razionale; però molto spesso parlando, discutendo, avendo relazione con gli altri ci accorgiamo che le parole si infiltrano di elementi irrazionali, affettivi, che a volte deformano anche il loro significato. E’ quello che succede nel delirio. Il meccanismo del delirio è proprio questo forzare la parola e trasmettere gli archetipi che sono molto intuitivi e che la parola non riesce a contenere per sua natura. Quindi, è come se si deformasse il tutto. Riferisce quello che gli è capitato con una paziente che ha una situazione tragica (tumore polmonare con metastasi al cervello). Sta malissimo, è terrorizzata da questo male perché sa di averlo. Fra l’altro, è una persona sola al mondo; si è trovata in questo momento a slatentizzare un aspetto delirante (strutturalmente è una delirante e c’è stata anche una fase in cui medici si chiedevano se dipendesse dalla situazione o se invece fosse un delirio suo). Gli ha telefonato in una situazione delirante nella quale prima parlava in maniera razionale ed era soltanto un po’ eccitata. Ad un certo punto gli ha fatto un discorso lunghissimo per dirgli che la sua macchina era guasta e che bisognava che venisse il carro attrezzi per poterla riparare. Era chiaramente un discorso metaforico: la sua macchina in realtà era lei stessa e gli stava chiedendo un aiuto. Lusetti si chiede se anche quest’aspetto possa rientrare nella sinestesia;, come se in certi momenti alcuni sensi non ce la facciano a trattenere le cose e chiamino in aiuto gli altri sensi, cadendo prima o poi nel pensiero delirante.

Dr.ssa Ferrante:condivide il pensiero del Dr. Lusetti, perché mentre lei ha parlato della sinestesia in senso positivo, Lusetti si chiede se l’attivazione di tutti i sensi non possa far male, piuttosto che bene. Quando c’è una patologia non si coglie il bello del vedere, il bello dell’udire. Diventa invece una sofferenza perché come dicevamo all’inizio ogni azione umana ha il suo contrario. Anche nella sinestesia ci sarà il contrario quando subentra una malattia così terribile.

Dr. Lusetti: aggiunge che, quando attraverso le parole messe anche in maniera razionale emergono gli aspetti irrazionali e deliranti si sta male in prima persona.

R.ssa Ferrante: richiama il piacere del sentire le sinestesie positive. Ci sono poi le esperienze in cui ad esempio, nell’ ambito di un incidente, il senso della vista è colpito perché vede il sangue, vede la ferita. Questa sera, aggiunge la relatrice, non mi sono interessata degli aspetti negativi del fenomeno sinestetico, ma del piacere che tale fenomeno sollecita quando tutti i sensi sono attivati.

Dr. S. Zipparri: dice di essere sempre ammirato dalla creatività e dalla ricchezza culturale della relatrice.

Dr.ssa Ferrante: interrompe per precisare che molto spesso scopre di non sapere abbastanza. Ha la consapevolezza che le piace apprendere, ma ogni volta che apprende si rende conto che ha ancora molto d’apprendere.

Dr. Zipparri : riprende ed evidenzia , fra le tantissime suggestioni offerte dalla relatrice, di essere stato colpito dal discorso del duale e soprattutto della complementarietà che, secondo questo linguista tedesco, ci sarebbe nel duale; nel senso che i verbi sono complementari e quindi in qualche modo ti rimandano alla complementarità dei sessi o anche delle funzioni. Un’altra suggestione che lo ha colpito è quella della convenzionalità dei modi, col riferimento della relatrice allo scambio bicchiere-bottiglia- A questo riguardo propone uno dei brani letterari più interessanti della letteratura mondiale: il monologo di Giulietta sul balcone quando si rivolge a Romeo e, non sapendo che lui è giù, lo invoca col: “perché sei tu Romeo!” (ovviamente si riferisce più al cognome che al nome di Romeo perché è un cognome nemico) e gli dice: “perché sei tu Romeo; tu potresti chiamarti in mille altri modi diversi. Una rosa non perde il suo profumo se la si chiama in un altro modo”. E questo è il concetto della relatività del nome. Per dovere di completezza riferisce quanto è stato detto a Umberto Eco circa “Il nome della rosa”, titolo di uno dei suoi romanzi; quando si supponeva che tale titolo fosse convenzionale. L’autore rispose che il processo di nominazione è fondamentale e che titoli delle opere letterarie hanno un senso ben definito. Dr.ssa Ferrante: è convinta di quest’aspetto perché il nome si attacca all’oggetto, alla persona fino ad identificarsi con esso. Ad esempio, nel caso citato, il fatto di avere o no il nome biologico, siamo nella convenzione, però alla fine la convenzione non la percepiamo più. Siamo così abituati a dire questo è un bicchiere e non è che ogni volta che lo nominiamo pensiamo che potremmo chiamarlo bottiglia: ormai è un tutto, è entrato.
C ’è questo inserimento mentale anche dell’oggetto, perciò è certamente una convenzione, ma è stabile. Non è che l’oggetto definito “bicchiere” un giorno lo chiamiamo bicchiere, un giorno lo chiamiamo piatto, lo chiamiamo sempre bicchiere: la relatrice indica una categoria (qui bisognerebbe entrare nelle leggi della linguistica). Considera molto calzante, molto giusta l’osservazione di Zipparri. Chiarisce di aver pensato al soprannome perché è più indicativo. Porta l’esempio della lingua araba dove il prefisso bin (ad esempio Bin Laden) sta ad indicare che è il figlio di Laden, cioè conduce alla paternità, all’origine del nome: è la sacralità del nome. Alla fine il figlio ha il nome del padre, perciò è proprio l’ereditarietà del nome che si trasmette e diventa significativo: bin indica “è figlio di...

Dr.ssa Mauri: spiega che anche in Eritrea non c’è il cognome. Ad esempio il suo cognome è Mauri ed è chiaro che in Italia, se fosse maschio trasmetterebbe il cognome Mauri a tutti i suoi figli. Invece in Eritrea c’è solo il nome, cioè lei si chiama Claudia, se fosse stata maschio, il suo figlio si sarebbe chiamato Antonio Claudia.

Dr.ssa Ferrante: osserva il conseguente cambio di appartenenza. L ’appartenenza diventa poi importante, come quando si usa il soprannome che alla fine non appartiene solo alla persona ma a tutti quanti i componenti della famiglia perché identifica tutti.

Dr. G. Imperoli: presenta un proprio punto di vista che deriva da studi non Psicologia. Ascoltando quanto esposto ha notato alcune affinità con i suoi studi di ingegneria. A proposito del dualismo nella storia del pensiero, ragione per la quale trentamila anni fa dal duale è nata la parola e portato a riflettere, che la civiltà contemporanea sto ritornando al duale in forza alla tecnologia che è duale.

Dr.ssa Ferrante: commenta che noi siamo legati al passato.

Dr. Imperoli: considera che è come tornare in qualche modo all’origine. Evidenzia che il discorso parola/silenzio è analogo a quello luce/buio; il silenzio è proprio una forma di suono, così come il nero in Fisica non è un colore, non è come il verde o il rosso, è una mancanza di colore, quindi è l’equivalente del silenzio. Ha senso parlare di silenzio se c’è la luce che fa da contrapposizione, si domanda.

Dr.ssa Ferrante: rileva che la tecnologia, l’ingegneria sembrerebbero distanti dal tema di questa sera. In realtà non sono lontani perché l’esperienza umana che nasce da quel contatto immediato sensuale (dei sensi) si trasferisce e rimane. Rimane sotto forma che a volte è difficile cogliere. Evidenzia che l’intervento del Dr. Imperoli è stato fatto con questo linguaggio molto specializzato, molto tecnico, da ingegnere , però se vai ad approfondire, anche qui ci ritrovi quelle che sono le parole chiave primordiali archetipiche.

Dr.ssa Gargano: richiama gli aspetti psicoterapeutici e in particolare il silenzio della seduta terapeutica, quando c’è veramente una trasfusione di serenità che l’altro ritrova

rendendosi conto che quel silenzio è il proprio contenuto: un silenzio, che va dentro e che viene riconosciuto. E’ l’ importante silenzio della seduta terapeutica che evoca questa profondità.

Dr.ssa Ferrante: specifica che non ha trattato il tema del silenzio nelle psicoterapie per il tempo a sua disposizione. Condivide la constatazione che il silenzio nelle psicoterapie a volte è più significative della parola: certo deve accadere al momento giusto, perché se il silenzio è aggressivo può far male. Nelle psicoterapie ci sono silenzi che possono far male, ma c’è anche quel silenzio gratificante, rassicurante, creativo che fa bene. Anche i silenzi hanno il loro segno; stiamo parlando proprio di queste qualità positive e del loro contrario: quelle negative.

Dr.ssa G. Valacca: sottolinea che se il silenzio significa assenza di suoni, quali che siano, ma comunque in una modalità di contatto silenziosa è possibile senz’altro entrare in comunicazione. A questo livello il riferimento alla sinestesia le pare particolarmente indicato. La sinestesia come un insieme di sensazioni molteplici. Sentire è un termine che indica più ambiti semantici, anche di senso. Quindi il riferimento alla sinestesia a suo parere è particolarmente indicato e può sussistere una comunicazione attraverso le sinestesie in situazioni di silenzio, intese come mancanza di suono. Poi sono in gioco i cosiddetti cinque sensi, ma il termine sinestesia indica qualcosa di più dell’attivazione dei cinque sensi. Ci sono delle modalità di sentire che non sono rappresentabili mediante i cinque sensi; ci sono altre situazioni per cui ad esempio il cieco che vede ha una immagine mentale. Quindi il termine vedere, può indicare una percezione sensoriale come la vista, ma può anche indicare una immagine mentale. Il discorso della sinestesia le pare molto importante, quasi come un insieme di modalità che non attiene al silenzio, ma attiene ad altre possibilità molteplici che vanno al di là del suono e di altre modalità sensoriali .

Dr.ssa Ferrante: questa annotazione della Dr.ssa Valacca aggiunge di più all’argomento da lei trattato e potrebbe essere amplificato perché comunque il flusso della coscienza non si interrompe mai, anche quando non parliamo il flusso della coscienza è continuo. Noi siamo sempre presenti a noi stessi. Ci capita qualche volta di dire a noi stessi “ esisto, sono , sono presente” e di porci degli interrogativi sulla nostra esistenza. Anche quando stiamo zitti la nostra mente lavora e tutto sommato continuiamo a sentire; gli stimoli esterni ci raggiungono.

Dr.ssa G. Valacca: il termine appropriato è coscienza cognitiva.

Dr.ssa Ferrante: chiarisce il significato, nel senso siamo vivi : “ Siamo, siamo, siamo……” continuamente, siamo sempre presenti a noi stessi; non c’è interruzione in questo stato di vigilanza continua escluso forse qualche attimo del sonno e guai se così non lo fosse. Certo, ci sono le percezioni oniriche con i paradossi e le stranezze del sogno che però percepiamo: vediamo i colori, ascoltiamo, parliamo i silenzi: il sogno è una realtà strana ma è anch’ essa realtà. Ci sono poi le patologie di cui non ha parlato in questo seminario.

Dr. Zipparri: pensa che le sinestesie, di cui ha parlato la relatrice, siano molto incrementate dall’assunzione di droghe, tipo la mescalina, che attivano i sensi.

Dr.ssa Ferrante: osserva che in queste circostanze si entra in un’altra dimensione dove non c’è la purezza. C’è una “ la purezza della sinestesia” quando nasce per una capacità che non è indotta. Il piacere puro è invece è nel poter godere di tutti i sensi in contemporanea: è questa esperienza che non ci fa male, anzi ci fa molto bene.

Dr.ssa A. Caterino: aggiunge che tante volte si definisce il silenzio come assordante in contrapposizione totale alla definizione della parola che invece richiama questo carico così grande di significato. C’è come un dualismo della condizione dell’uomo di oggi che in alcune situazioni si trova a vivere una solitudine estrema e per questo percepisce il silenzio come assordante, ma nello stesso tempo diventa quasi una necessità nei rapporti dove le persone sono sempre più portate all’ individualismo, alla concentrazione egocentrica di se stessi, per cui si tende a non ascoltare più l’altro. Quando la comunicazione in realtà non ti pone all’ascolto empatico con l’altro, si tende ad avere proprio la necessità del silenzio. Evidenzia che a lei succede così e alcune volte sperimenta il piacere di stare in silenzio, da sola a casa. Quindi vedeva questa contrapposizione tra la condizione della società attuale che può rendere il silenzio una necessità e l’altro aspetto completamente opposto per cui il silenzio diventa assordante.

Dr.ssa Ferrante: aggiunge una citazione ancora più forte di un poeta (non ne ricorda il nome) “ tonante silenzio” per sottolineare la capacità del silenzio che ha voce. La Dr.ssa Caterino sta parlando però di quel silenzio che è il contatto con se stessi nell’intimità contrapposto al silenzio chiassoso. Sottolinea che stiamo trattando il silenzio sotto una visione che non è quella usuale, ma d’altra parte è bello uscire fuori dagli schemi rigidi, perché noi siamo purtroppo incanalati e chiusi molto spesso nella funzione dei nostri cinque sensi in una maniera standardizzata .

Dr.ssa L. Taborra: rivela che è tornata indietro nei covoni di grano che ha ricordato in occasione della sua prima esperienza con un ragazzetto ai grandi sensi di colpa, anche se stavano solo dentro questo covone di grano senza nemmeno sfiorarsi. Il suo pensiero è stato già espresso da altri, però si sente di aggiungere il tema dell’ integrazione dell’animus e dell’anima, che forse si è ricordato. Jung diceva: “se non avviene un recupero dell’anima, dell’eros, l’uomo è destinato a distruggersi”. Si collega all’intervento della Dr.ssa Caterino su questo individualismo esasperato per cui l’ integrazione dell’uomo e della donna praticamente si va perdendo, se non si è già persa. Leggeva che settemila anni fa c’era ancora questa sostanziale integrazione e, secondo lei, era questo che mandava avanti; forse non c’era veramente bisogno della parola. Poi si diceva anche come questa evoluzione/involuzione della coppia, dell’animus e dell’anima, avesse visto anche un cambiamento della forma del silenzio; forse prima era un silenzio molto più autentico, molto più pregnante emozionalmente parlando. L’arte poetica lo insegna. La Dr.ssa G. Gargano, aggiunge, è una poetessa e come tutti i poeti, utilizza delle parole, per cui a noi, leggendo quella parola, viene trasmessa l’essenza emozionale proprio della parola. Il poeta non dice bicchiere intendendo il bicchiere. Si chiedeva quanto le forme del silenzio si fossero impoverite nel passare di tutti questi mille o milioni di anni. Ha trovato perciò molto interessante questo seminario ed esprime una fantasia a proposito della chiusura di quest’anno di seminari: come un invito a recuperare l’emozione, la componente emozionale, che secondo lei non solo è importante, ma anche di gran lunga maggiore di quella razionale.

Dr.ssa Ferrante: comunica il proprio piacere per le parole di chiusura della Dr.ssa Taborra.

 

Note di redazione:

(r) dialogo nel dibattito a seguire la registrazione vocale degli interventi dei partecipanti rivista dalla redazione.

Antonella Giordani agior@inwind.it e Anna Maria Meoni agupart@hotmail.com




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