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Seminari
di Neuropsichiatria, Psicoterapia e Gruppo Analisi
2009 - 2010

I solisti nella musica

Prof. Alessandro Tenaglia
Coordinatore Dr.ssa Anna Maria Meoni
® da registrazione vocale con elaborazione testi dialogo a cura Dr.ssa Antonella Giordani.


® La Dr.ssa Anna Maria Meoni , coordinatrice dell’incontro, esprime il piacere di presentare il Maestro Prof. Alessandro Tenaglia che ormai ci onora della sua presenza da diversi anni e gli anticipa l’invito del Prof.Pisani per averlo nel gruppo anche l’anno prossimo. Il Prof. Tenaglia oggi ci parlerà dei solisti nella musica e l’anno prossimo proporrà, se possibile, il discorso sull’armonia per concludere così il ciclo seminariale sul tema della comunicazione attraverso la musica. La comunicazione atraverso la musica merita un approfondimento interdisciplinare per l’importanza che riveste nella psicopatologia e psicoterapia, dove domina il ritmo su articolazioni più complesse dal punto di vista musicale. Il Prof.Tenaglia saluta tutti affermando che si sente tra persone familiari ed inizia a trattare il tema scelto per questo seminario.

®[ Il riferimento mitologico è quello di Orfeo:l’umano che per le sue doti di cantore viene ammesso alla mensa degli dei e a cui, sempre per le sue doti di cantore, viene concesso di entrare nell’Ade a riprendersi la sua Euridice, che era morta. Quindi il grande musico, il grande solista che è uomo e che però per la sua valentia musicale e poetica si pone come il tramite perfetto tra il modo degli umani e il mondo dei divini.

Tenaglia pensa che basti questo riferimento essenziale per porre la forza simbolica che il musicista solista ha sempre ricoperto e tuttora ricopre nella comunicazione umana. Le delimitazioni:si potrebbe parlare del solista in varie forme. Iniziando da Orfeo si potrebbe parlare del solista cantante e sarebbe un discorso con tantissime implicazioni. Ha però preferito concentrarsi su qualcosa che gli appartiene di più e cioè il solista pianista, visto che è un pianista. Solista strumentista prima di tutto e il pianoforte come strumento prescelto.

La mentalità e la formazione del solista strumentista si distinguono fortemente dalla mentalità e formazione del solista cantante ; in qualche modo sono dei mondi paralleli che appartengono entrambi al regno della musica e della grande comunicazione ma sono come rette parallele che non si incontrano mai nelle loro caratteristiche essenziali, oppure si potrebbe dire che sono due rette che si sovrappongono perfettamente. Riguardo al solista strumentista potrebbe parlare delle sue tante possibili espressioni ma, poiché egli è pianista, e si è nutrito sin da ragazzo della storia del pianoforte e dei pianisti, per sua maggiore competenza si riferirà esclusivamente al solista pianista piuttosto che al solismo violinistico o degli altri grandi strumenti solistici.

Il solismo pianistico nasce col pianoforte; il pianoforte nasce intorno alla metà del 700; il primo grande compositore pianista è stato Mozart. Il fatto che il solismo pianistico nasca con quello che dalla maggioranza dei musicologi viene ritenuto come il maggior genio musicale della storia dell’umanità, non è cosa secondaria. Il maggior genio della musica è l’inventore del pianista solista nel senso che porta nella sua scrittura per concerti di pianoforte ed orchestra quelle che sono le immense possibilità comunicative del cantante d’opera e le trasferisce nella scrittura pianistica e le attribuisce al solista di pianoforte, cioè in pratica le attribuisce a se stesso. Al tempo di Mozart infatti non era pensabile che qualcuno altro suonasse i suoi concerti: i concerti di Mozart li suonava solo Mozart. Per questa ragione, e quindi per inventare il solismo pianistico che equivale al solismo strumentale moderno, deve trovare delle modalità di scrittura musicale innovative che permettano di riportare alla scrittura pianistica tutte quelle che erano le caratteristiche d’impatto, ancor più che tecniche, della scrittura musicale per il solista cantante d’opera.

Ovviamente quando parliamo del solismo, di storia del solismo, fino a tutto l’800 possiamo parlare solamente dal punto di vista delle cronache e dal punto di vista della storia della composizione perché per l’assenza della tecnologia in quel epoca, non abbiamo riferimenti acustici. Sappiamo come era la vita dei musicisti, sappiamo della famosa gara tra Mozart e Clementi. Clementi era l’altro grande “inventore di pianoforte” contemporaneo di Mozart, italiano ma vissuto e prosperato a Londra sia come compositore musicista pianista che come costruttore di pianoforti.

La grande diatriba tra i due era che Clementi veniva considerato un meccanico non tanto perché costruisse pianoforti, ma perché la sua accentuazione di un certo virtuosismo digitale e certe sue innovazioni nella scrittura puramente virtuosistica erano in qualche modo fuori dal gusto corrente e decisamente anticipatrici di qualche cosa che è venuto successivamente con Beethoven e quindi veniva ritenuto come un compositore “troppo meccanico”. Mozart invece fin da piccolissimo, e questo vedremo che è un altro tratto importante, viene portato ad esibirsi come compositore di fronte ai sovrani di tutta Europa e nelle maggiori sale dove si faceva musica, ma la cosa che sbalordiva non era la quantità di note che faceva, non la sua valentia dal punto di vista quantitativo, quanto l’incredibile novità e arguzia del suo spirito compositivo e musicale. Con Mozart siamo alla nascita del solismo dove il solista è ancora il compositore, è colui che si scrive la sua musica e che si propone innanzitutto come compositore, con in più lo smalto di essere un grande virtuoso nella esecuzione.

Un secondo momento appena successivo a quello di Mozart è il versante del solismo pianistico rappresentato da Beethoven .

Beethoven arriva a Vienna da Bonn quando aveva circa venti anni e, come si doveva fare allora per farsi conoscere, cerca di fare effetto sul pubblico viennese molto difficile, presentandosi come virtuoso del pianoforte con delle composizioni, scritte ovviamente da se stesso, molto virtuosistiche: un virtuosismo molto più affine alla scrittura di Clementi che non a quella di Mozart. Beethoven però abbandona presto questo modo di comunicare e comincia a dedicarsi alla scrittura sinfonica, alla scrittura concertistica, ad una scrittura più concettuale. Quando consideriamo la serie delle sue 32 suonate per pianoforte e la serie dei 5 concerti per pianoforte e orchestra vediamo che c’è un salto estetico e poetico notevole. Il pianoforte nella versione di Beethoven è lo strumento del musicista colto, del musicista filosofo, del musicista titano, del musicista in qualche modo demiurgo. Beethoven ha una grandissima consapevolezza di sè e della funzione del musicista e dell’artista nella società: musicista è colui che è in grado di condensare le migliori energie per portare l’umanità ad un livello di consapevolezza superiore. Nelle sonate di Beethoven troviamo pochissime concessioni al puro virtuosismo pure se di virtuosismo ce ne è moltissimo; anche dove c’è pretesa virtuosistica per l’esecutore, c’è prima di tutto un enorme pensiero musicale, un pensiero razionale sulla musica ed insieme a questo un fuoco impetuoso che sta a nutrire questa grande forza di pensiero. Questi sono i due poli che fanno da imprinting a tutta la storia del solismo pianistico e si può dire, attraverso la storia del solismo pianistico, a tutta la storia del solismo della musica occidentale. Da una parte il polo della genialità pura e ottimamente coltivata di Mozart che sgorga spontaneamente e dall’altra con Beethoven il polo della genialità mediata, consapevole del suo fine, della sua missione. In Mozart non c’è assolutamente l’intenzione di arrivare a soddisfare una missione; Beethoven invece sente di dover portare a termine una specifica missione per l’umanità.

Passano venti, trent’anni e si afferma un altra coppia dialettica: Chopin e Liszt che sono due compositori eterodossi per origine geografica.
Chopin è un polacco e la Polonia dal punto di vita musicale fino ad allora non ha voluto dire nulla per il mondo occidentale. Liszt è ungherese e anche l’Ungheria fino ad allora non ha voluto dire nulla per la storia della musica occidentale. Sia le origini polacche che ungheresi sono però origini le cui culture musicali popolari sono estremamente caratterizzate e forti: l’identità musicale popolare polacca è molto definita quanto lo è quella ungherese. Di conseguenza questi due geni arrivano ad affermarsi entrambi nell’Europa dell’asse franco-tedesco, cioè in Germania ed in Francia, venendo da outsider ed essendo cresciuti su un territorio musicale completamente eterodosso. Proprio per questa eterodossia originaria riescono a rivoluzionare completamente non solo il linguaggio compositivo, ma anche il modo di proporsi al loro pubblico. I loro modi comunicativi sono antitetici come lo sono i loro modi di scrittura per pianoforte. Chopin nasce in Polonia ed è là che da ragazzo comincia a studiare e a suonare. Il suo cognome è francese perché suo padre era francese; soldato napoleonico che nel ritiro delle truppe dalla Russia si era fermato in Polonia trovando li la sua compagna e mettendo su famiglia. Chopin intorno ai 18- 19 anni va a Vienna per farsi conoscere; mentre è a Vienna scoppia la rivoluzione in Polonia che viene repressa ed egli non vi può più tornare. Non avendo trovato a Vienna il riscontro che sperava di trovare, si sposta a Parigi dove vivrà praticamente per sempre, con una breve parentesi alle Baleari: Chopin quindi è un compositore parigino anche se non di nascita. Intorno alla sua figura c’è tutto il romanticismo patriottico dell’ interprete estenuato dal grande dolore del popolo polacco. Egli a Parigi si propone come il primo musicista ad essere veramente consapevole dell’importanza della comunicazione della propria persona alla società che conta per poter avere successo. Questo aspetto di cura dell’immagine colpisce prima ancora della sua arte, che non è comunque assolutamente di secondo piano. Chopin è il primo ad avere una grande consapevolezza della comunicazione sul piano simbolico: di come ci si presenta e si comunica e a quale pubblico ci si presenta e si comunica. In realtà egli ha suonato pochissimo in pubblico. Se andiamo a fare una somma dei suoi concerti pubblici scopriamo che sono veramente pochi; ha centellinato le sue esibizioni da grande maestro dell’assenza e ha saputo costruire intorno a se una grande aura di preziosità e lontananza e di eleganza irraggiungibile; ha saputo costruire intorno a questa aura un grandissimo nome come insegnante. Chopin ha vissuto una vita agiata facendo l’insegnante privato di pianoforte rivolto ad un pubblico di studentesse, signorine di buona famiglia alto borghese o aristocratica, le quali avevano molto tempo da spendere e si dedicavano non agli affari a cui erano indirizzati i rampolli maschi delle famiglie bene, ma allo spirito. Quando si dedicavano alla musica raggiungendo Parigi o anche in Inghilterra, dove Chopin soggiornava per prendere lezioni da Chopin era come oggi si pratica l’abitudine di seguire un “Master” in luoghi diversi dalla propria redidenza. Chopin ha saputo costruire intorno a se un’incredibile aura non basata esclusivamente su ragioni di mera capacità di comunicazione del singolo personaggio, ma scrivendo una musica sovversiva. Chopin con un retroterra musicale che è niente è sostanzialmente autodidatta ed è il primo grande musicista che prende Bach come proprio riferimento. Bach era morto nel 1750 ed era stato dimenticato, poi con Mendelsshon era stato recuperato alla conoscenza del grande pubblico con l’esecuzione delle grandi passioni secondo Matteo e secondo Giovanni, ma le grandi composizioni di Bach per la tastiera, per il clavicembalo e per l’organo erano fondamentalmente territorio degli organisti, specializzazione che faceva come “mondo a sé”. Il clavicembalo non era più usato e tutta la letteratura clavicembalistica di Bach era caduta nel dimenticatoio. Chopin è il primo grande compositore che afferma che la base di tutto sono i due volumi del clavicembalo ed è il primo compositore che dopo diversi decenni imposta il proprio insegnamento sull’insegnamento di Bach. Questo è molto rivoluzionario perché tutto quello che è stato lo stile da Mozart a Chopin fino a quel momento è stato uno stile contrario alla polifonia. Mozart nasce dallo stile galante che è la negazione della polifonia. Beethoven inserisce spesso dei tratti polifonici nelle sue composizioni, ma abbiamo detto che le composizioni per pianoforte di Beethoven erano composizioni comunque recepite come esoteriche, erano fatte per musicisti di elevato spirito razionale, non erano per tutti i musicisti, invece Chopin è il primo che riesce a mettere la polifonia al centro dello studio musicale. La grande evoluzione stilistica di Chopin, che scrive quasi esclusivamente per pianoforte, è di portare il pianoforte a cantare come i grandi cantanti dell’opera, portando alle estreme conseguenze quello che era stato il primo input dato dalle origini mozartiane e nello stesso tempo a far cantare il pianoforte come i grandi cantanti d’opera su un tessuto profondamente e intricatamente polifonico che si nutre di Bach. Quindi dentro la scrittura operistica di Chopin la rivoluzione si basa sul fatto che riesce a mettere insieme due cose che apparivano inconciliabili: il mondo dell’opera lirica e il mondo della scrittura polifonica bachiana.

L’altra grande personalità che s’impone a Chopin è quella di Liszt. Sono contemporanei anche se Chopin è morto giovane (1848) mentre Liszt ha vissuto molto più a lungo avendo avuto la fortuna di arrivare alla sua vecchiaia, ma comunque hanno trovato il successo negli stessi anni.

Liszt ha inventato completamente per la terza volta il suono del pianoforte e il ruolo del pianista nella società. Il suono del pianoforte di Liszt è il suono che si moltiplica per cinque; sotto le sue mani non sembra che a suonare sia un solo pianoforte, ma cinque sia per complicatezza di quello che viene recepito all’orecchio musicale, sia per quantità di suono richiesta. Non si era mai sentito prima di Liszt una ricerca del volume sonoro così accentuata e così mirabilmente raggiunta, tra l’altro su strumenti che tecnologicamente erano ancora abbastanza primitivi con notevole difficoltà di resa dal punto di vista del volume. Liszt inventa il grande suono per la grande sala. Chopin le poche volte che si era esibito nella sua vita lo aveva fatto in sale piccole con la dimensione del grande salotto privato. Invece Liszt comincia ad esibirsi nella grande sala dove ci sono non solo centinaiadi ascoltatori, ma si cominciano a sfiorare la migliaia di ascoltatori. Per questo inventa un modo di scrivere per pianoforte che è massiccio, è potente. La caratteristica principale del pianismo di Liszt è l’incredibile, e mai ascoltata prima, potenza del suono. Altra grande invenzione comunicativa di Liszt è che inventa la cerimonia del concerto moderno. Liszt è il primo che si presenta al pubblico in una sala buia, con un pianoforte su un palco ed è illuminato solamente il luogo dove c’è il pianoforte. È il primo quindi che pone la situazione teatrale come determinante per la situazione di comunicazione del concerto solista. Una curiosità: Mozart nell’eseguire i suoi concerti per pianoforte ed orchestra aveva il pianoforte incuneato con la coda nell’orchestra, perché il solista era anche il direttore, per cui il solista guardava l’orchestra e dava le spalle al pubblico. Il primo a dare un’altra parte del corpo, a dare il profilo al pubblico è stato un pianista decisamente secondario rispetto a questi grandi nomi: è Dussek , famoso per la sua bellezza. Quindi è stato il primo a mettere la bellezza come merce di scambio per il solista non cantante; il primo a sottolineare questo aspetto mettendosi di profilo e presentando il suo volto particolarmente bello e affascinante. Liszt porta a compimento definitivamente questo aspetto di comunicazione visiva tanto è che tuttora noi andiamo ai concerti dei solisti e seguiamo la situazione cerimoniale inventata da Liszt un secolo e mezzo fa: sala buia, pianoforte solo, solista che entra ieraticamente e si mette al pianoforte da solo; si prende i suoi tempi e da lì comincia il suo gesto demiurgico d’invasione dell’uditorio con la sua incredibile, enorme mole di suono da parte di questo strumento. Qui siamo a metà 800. A fine 800, al giro fra 800 e 900, un grande compositore italiano, ma naturalizzato tedesco, Busoni, mette insieme tutti questi filoni; resta il grande sacerdote demiurgico della musica, si propone sempre in modo ieratico, ha però dentro di se una strutturazione musicale estremamente profonda ed esoterica, quindi si propone anche come il vero erede dello spirito beethoveniano ed è quello che in qualche modo apre alla storia del grande pianismo del 900. Altra cosa interessante dell’epoca di Busoni è che dalla fine dell’800 all’inizio del 900 cominciamo ad avere dei reperti acustici. Le prime modalità per registrare quello che un musicista suonava, avvengono per i pianisti perché, prima che venisse inventata la registrazione su disco, vengono inventati dei pianoforti meccanici con dei rulli di cera sui quali veniva inciso quello che il pianista suonava. Questi rulli esistono ancora; chiaramente molti sono andati in rovina essendo di cera che è un materiale deperibile però dalla fine dell’800 inizio 900 cominciamo ad avere dei documenti. Parallela all’epopea di Busoni comincia l’epopea di un altro grande musicista che è vissuto fino agli anni 60: Alfred Cortot.

Sia Busoni che Cortot sono due grandi pianisti virtuosi, ma nello stesso tempo sono direttori d’orchestra, sono organizzatori musicali. Busoni è anche compositore non solo per pianoforte ma anche di sinfonia, di opera, compositore di qualsiasi genere musicale; anche Cortot è stato compositore però ha abbandonato presto la sua vena compositiva per dedicarsi soprattutto all’organizzazione e alla direzione dell’ orchestra e per dedicarsi alle sonate per pianoforte. Sono comunque entrambi musicisti ad ampio spettro, non solo pianisti e si pongono su versanti diversi: Busoni sul versante esoterico e razionalista, beethoveniamo appunto, di consapevolezza della funzione del dotto; Cortot invece si pone più dal punto di vista della grande genialità istintiva e superiore per innata forza interna. Comunque entrambi continuano a portare avanti questi due aspetti visti nell’arco della storia che tracciata fino ad ora e segnano la loro epoca.

Quello che invece si ha con la generazione dei pianisti degli anni ‘80 è la nascita del pianista puro. Con l’inizio del 900 cominciano i grandi concorsi solistici in cui i giovani possono andare a vedere se sono all’altezza d’intraprendere una grande carriera pianistica internazionale per la quale comincia ad esserci spazio. C’è il grande cambiamento, il grande giro di boa: dopo Cortot e Busoni i pianisti successivi cercheranno successo solo in quanto pianisti, non più in quanto musicisti ad ampio spettro. C’è la grande generazione degli anni ’80 dei pianisti tedeschi tra cui i principali sono: Fischer, Backhaus , Gieseking Kempff e Arrau che è un cileno, ma che avendo studiato a Berlino è del tutto assimilabile alla cultura tedesca. Con questi grandi pianisti nasce il vero e proprio interpretariato, la vera e propria “Storia” dell’interpretazione con la esse maiuscola . Sono i primi che propongono al pubblico le opere del passato in modo non solo episodico, non solo esotico, non solo reverenziale, ma dal punto di vista dello studio critico. Questi grandi pianisti tedeschi sono coloro che si pongono per primi l’idea di presentarsi al mondo come interpreti delle 32 sonate di Beethoven. Finora i pianisti facevano concerti di durata incredibile rispetto alle nostre abitudini di oggi; un concerto non durava mai meno di quattro ore di musica, cioè cinque, cinque ore e mezzo considerati i cambi, gli stacchi da un pezzo all’altro. I programmi ottocenteschi erano programmi molto vari dove c’era un po’ di tutto:il brano impegnativo subito alternato ad una fantasia su un’aria d’opera, poi s’inseriva qualcosa d’altro; il concetto era più simile ad una serata di varietà che non a quello di un recital odierno che è un concetto moderno inventato appunto dai pianisti dell’800. Da questi pianisti nasce l’atteggiamento filologico; nasce l’atteggiamento critico rispetto alla musica del passato; nasce l’esigenza di riscoprirla e di riviverla dal punto di vista dell’interprete:l’interprete per la prima volta diventa musicista di alto rango. Finora l’interprete era solo colui che suonava la propria musica, ma era più importante la musica scritta che non chi la suonava. Con la generazione dell’80 invece succede che l’interprete è importante quanto il compositore, anzi l’interprete permette di riscoprire tesori sepolti del passato e di riportarli all’oggi diventando quindi un moderno demiurgo tra passato e presente. Le due scuole importanti sono questa tedesca e la grande scuola russa. Tre nomi tra tutti: Rachmaninoff, Horowitz e Rubinstein, tutti e tre pianisti nati alla fine dell’800; tutti e tre fuggiti dalla Russia che nel frattempo è diventata bolscevica e comunista; tutti e tre esponenti di un mondo aristocratico che si è perso, vanno entusiasticamente incontro al mondo nuovo dell’America dove, con caratteristiche diverse, trovano un successo strepitoso. Rubinstein è l’immagine del pianista spavaldo che con la sua fuga rocambolesca e con i suoi mille aneddoti degli stravizi durante le tournee, ha riempito rotocalchi e cronache lasciando tutti sorpresi della sua incredibile valentia con cui comunque si metteva la sera al pianoforte davanti a migliaia di persone suonando impeccabilmente con estro inaudito. Horowitz, grandissimo funambolo della musica, in contemporanea a questi grandi pianisti filologi di scuola tedesca, è stato il grande genio che ha voluto prima di tutto farsi dire “bravo”; ha messo al centro dell’attenzione la sua bravura funambolesca, la sua capacità di ammaliare col grande gesto, col grande suono, con la grande abilità, con la grande bravura tecnica. Rachmaninoff è tra i tre il più complesso, e anche compositore, uno degli ultimi grandi pianisti compositori. Tutti sappiamo, anche per i fatti del cinema recente, dell’importanza dei suoi concerti per pianoforte ed orchestra, della supposta ineseguibilità del terzo concerto (che poi non è vero che non sia eseguibile: lo è, pur essendo estremamente difficile). C’è in lui questa aura di titanismo del pianista che lotta contro i suoi limiti; tra l’altro è il pianista che, nel suo scrivere per pianoforte, porta dentro tutti i suoi umori neri; è il primo pianista vittima e carnefice allo stesso tempo della psicoanalisi, che vive in modo totale e che entra prepotentemente nelle sue opere. I suoi concerti secondo e terzo sono espressione di un percorso interiore psicoanalitico, posto in musica senza alcun pudore.

Dopo di loro il Prof. Tenaglia prende in considerazione tre grandi personalità della storia del pianismo, solisti del dopoguerra, quindi moderni, più vicini a noi : Gould, Pollini, Ashkenazy

Gould è un grande pianista, come Chopin, maestro dell’assenza. Si è ritirato molto presto dalle scene concertistiche però, estremamente moderno, è stato il primo grande musicista colto a capire l’importanza del mezzo radiofonico e televisivo, non solamente come pura ripresa di momenti di recital, ma proprio dal punto di vista comunicativo. E’ stato autore e attore di programmi radiofonici e televisivi estremamente interessanti, accattivanti e in molti casi questi programmi entravano in casa sua, nel suo studio. È stato forse il primo grande interprete mediatico in senso moderno. Tutti i grandi interpreti sono stati grandi interpreti mediatici a seconda dei mezzi a disposizione nella propria epoca storica, ma Gould è stato il primo interprete consapevole della grande forza d’impatto della radio e della televisione e quindi capace di utilizzarli fino in fondo. Ashkenazy e Pollini sono da questo punto di vista molto più tradizionali. Ashkenazy lo è più di tutti. Dopo una carriera da pianista assoluto, forse uno dei maggiori allievi della grande scuola russa; dopo aver suonato tutto: tutto Chopin due volte, dopo aver inciso tutto Beethoven, aver suonato tutto il suonabile per pianoforte, sempre nell’ambito del concertismo classico ha deciso intorno ai 50 anni di chiudere con la carriera pianistica e cominciare come direttore d’orchestra. Adesso, che è intorno ai 70 anni, è uno de maggiori direttori d’orchestra che girano per il mondo ed è in questo assolutamente tradizionale. È strano che sia partito dal solismo pianistico per arrivare a dirigere l’orchestra, rimanendo sempre a quei livelli perché nel secolo precedente succedeva che il pianista era anche direttore nel senso che faceva tutte e due le cose, invece in questo è la versione modernizzata del grande musicista classico. Modernizzata nel senso che lui entra a vite e va fino in fondo finchè la vite non è completamente stretta, poi cambia e si avvita su un’altra cosa come sta facendo nella direzione dell’orchestra.

Pollini è l’altro grande interprete mediatico, importante anche lui per l’assenza. Ha sempre centellinato la propria carriera, fin da giovane quando arriva secondo in un concorso a Ginevra e a 20 anni vittorioso nel concorso Chopin a Varsavia. Cosa molto strana per un ventenne, decide di non intraprendere subito la carriera concertistica e si prende un anno di stasi completa per poter studiare, cosa molto rara perché normalmente gli aspiranti solisti fanno i concorsi per partire con la carriera. Lui decide di fare un’ altra cosa e difatti dopo il grande exploit della vittoria nel 1960 al concorso Chopin si prende questa stasi e negli anni 70 Pollini diventa il grande interprete della nuova musica del 900, delle grandi avanguardie. Questo è a sua volta un caso strano perché in questo senso è stato un caposcuola: era partito come grande interprete dal repertorio tradizionale ed eclatante per portare il suo pubblico popolare, seguendo il suo nome, a conoscere qualcosa che era estremamente più difficile da ascoltare: le sonate di Boulez o di Stockhausen e tutto quello che era l’avanguardia degli anni ‘7o.

Venendo ad aspetti meno legati alla storia e ai nomi del solismo e affrontando i rapporti del solista con il mondo, emerge che esso cambia nel corso della storia. Abbiamo visto cosa volesse dire essere solista per Chopin e cioè rivolgersi a pubblici estremamente limitati ed elitari e per Liszt, suo contemporaneo, che cerca il grande pubblico ed inventa la cerimonia per il grande pubblico. Questi due versanti sono sempre compresenti pur cambiando le modalità a seconda delle possibilità tecniche e tecnologiche. Tuttavia fondamentalmente non ci siamo spostati da questi due grandi filoni che in modo simbolico riferiamo alle figure di Chopin e Liszt. Il Prof. Tenaglia sottolinea che in questi seminari sta riempiendo gli ascoltatori di stereotipi e spera che venga compreso che è una presentazione limitata e che gli stereotipi sono utilizzati per intendersi; non vorrebbe che emergesse che sono realtà assolute perché il discorso dovrebbe avere una lettura critica molto più approfondita.

A questo punto propone di chiederci come il mondo recepisce il solista.

Il mondo continua a recepire il solista come nel mito di Orfeo: il solista resta colui che sta a metà tra gli uomini e gli dei; è colui che resta un pò a mezz’aria; è quello che ha una consapevolezza intellettuale incredibilmente speciale, non più alta dei professori universitari ma assolutamente speciale e specifica; qualcosa che è al di fuori del consueto, del normale sentire. Quello per cui nel mondo si resta affascinati nell’andare ad ascoltare dei grandi solisti è dovuto a questa loro capacità di portarci a mezz’aria, di portarci altrove e di farci scoprire dentro di noi qualcosa che non sapevamo che esistesse. In tutto questo c’è la componente del mercato che esisteva per Mozart così come esiste oggi per qualsiasi grande pianista che voglia imporsi nel mondo. Non esiste comunicazione se non si fanno i conti col mercato perché mettere su concerti per grandi folle vuol dire investimenti, grande movimento di denaro. La cosa su cui non si riflette mai abbastanza è la motivazione per cui i solisti, e in genere gli artisti capaci di catalizzare intorno a loro l’attenzione di tante folle, siano onorati di guadagni cosi elevati. Per quale motivo intorno a qualcosa che è assolutamente inconsistente, che appartiene non all’essenziale (mangiare, bere, dormire) si muovono così tanti soldi e non si ha da ridire se il solista diventa ricco. Non parliamo del mondo del rock, con qualità musicali diverse e capacità d’impatto maggiori; con biglietti venduti al pubblico a prezzi tali che se accadesse alla Scala, fuori ci sarebbero le manifestazioni dei metalmeccanici, ma con Madonna non è un problema. Fondamentalmente c’è un aspetto simbolico molto importante riguardo cosa viene a rappresentare mediaticamente, comunicativamente il solista di fronte al mondo: egli viene a rappresentare colui che sta a mezz’aria, che è un uomo, ma non completamente uomo; è una persona adulta, ma non è completamente persona adulta. Secondo Tenaglia il solista, che al pianoforte si rende interprete del grande pubblico, crea una magia collegabile all’infanzia, con tutto ciò che viene addebitato e ascritto alla capacità infantile di dire ciò che noi grandi non sappiamo più dire; di manifestare ciò che noi grandi non sappiamo più manifestare perchè pensiamo che quello che c’è da manifestare vada manifestato solo con le parole. Il solista viene a smuovere grandi masse di pubblico oppure semplicemente il pubblico di un salotto, presentandosi infantilmente come un bambino che sa fare la cosa bella al pianoforte ed è qualcosa di archetipico che c’è nella comunicazione tra tutti noi e nell’ambito archetipico delle comunicazioni familiari. Il fatto che il solista presenti questa grande catalizzazione delle capacità infantili di raggiungere il non detto, l’universale e in qualche misura l’assoluto, ha delle implicazioni. Il solista non cade dalla luna. Egli viene educato sin da bambino ad essere solista; non esiste solista che diventi solista a livelli alti che abbia cominciato a studiare solo a 14 anni; il solista non diventerà mai solista se non ha iniziato a suonare da bambino, possibilmente anche prima degli 8 anni. Nella storia dei grandi solisti non c’è solista che abbia iniziato a studiare più tardi dei 6 anni. Iniziare cosi presto e arrivare a 20 anni a vincere un concorso Chopin, che è un concorso internazionale di alto livello, vuol dire che tutta la vita di quel bambino, di quel ragazzo è stata finalizzata a quello. Sicuramente c’è stata la sua predisposizione, ma dietro c’è stata anche una famiglia che ha indirizzato il bambino verso quel obiettivo e con aspettative forti.

Per concludere riferisce di due film tra tanti che hanno parlato del tema del solista. Sono: “Hillary e Jackie” sulla storia di Jaqueline Du Prè e “La pianista” film di Hanecke tratto dal romanzo della Elfriede Jelinek. Brevemente: Hilary e Jackie è un film tratto dagli scritti di Hilary Du Prè sulla sorella Jaqueline che è stata una grande violoncellista degli anno 70 e che ha avuto una carriera eclatante, ma molto breve perché si è ammalata di sclerosi multipla. Nel diario e nel film viene presentata la storia delle due sorelline e la loro educazione: una madre maestra di pianoforte che sin da piccole le educa alla ritmica, ai giochi melodici e ritmici, il tutto apparentemente nel gioco però con una forte direzionalità. Nel film risulta assolutamente evidente quanto le due bambine facessero di tutto per accaparrarsi l’amore della mamma, quanto il ricatto affettivo fosse forte. Da bambine Hillary la maggiore, che sceglie di suonare il flauto, sembrava quella più versata e più disposta a diventare una vera solista, mentre invece la sorellina violoncellista era più strana, più disordinata e sembrava che non ce la facesse; poi con la pubertà cambia tutto: la flautista sembra spegnersi; la violoncellista, sempre più complicata, sempre più piena di lati oscuri, manifesta un talento sconcertante. Intorno ai 20 anni diventa famosissima: una delle principali stelle del concertismo internazionale. Tenaglia invita a vedere il dvd del film uscito circa 12 anni fa, dove risulta assolutamente evidente quanto poi la bambina che non riesce a diventare solista riesca a mediare con la vita reale e a costruirsi una vita con un certo equilibrio; quanto invece la solista non riesca a colmare i suoi buchi affettivi e continui a rincorrere in mille modi un amore che non le veniva donato altrimenti. Quando arriva la malattia fisica si trova in una situazione esistenziale veramente difficile. L’altro film è tratto da un romanzo con la meravigliosa Isabelle Huppert che interpreta il personaggio di un’ insegnante del conservatorio di Vienna che si ritrova tra le mani un allievo disordinatissimo, ma geniale. Lei come insegnante lo fustiga in tutti i modi, esercita il suo sadismo d’insegnante in modo assoluto, però a sua volta masochisticamente si sottopone al potere erotico del suo allievo. In tutto questo c’è come sfondo, come sottotraccia, il rapporto tra la pianista e sua madre che vivono da sole. Viene rappresentato in modo anche brutale il ricatto affettivo su questa figlia che non è riuscita ad avere veramente l’amore della madre che è stata con lei sempre estremamente dura. C’è nel film un passaggio in cui Annie Girardot, che interpreta la madre di Isabelle Huppert, prende una telefonata e dice “…per questo concerto non so se mia figlia è disponibile… è un concerto per la scuola ( si tratta del conservatorio di Vienna) non è così importante”. Qualsiasi cosa la figlia facesse non era mai così importante. Ci sono dei momenti molto forti, dove viene rappresentato in modo molto violento ma vero la difficoltà della formazione della personalità del solista. Arrivare ad essere un solista di successo a 20 anni vuol dire un percorso estremamente direzionato ed estremamente complesso, spesso molto difficile e dopo i 20 anni (perché a quei livelli se l’affermazione avviene, avviene intorno ai 20 anni o non avviene), c’è il resto di una vita estremamente stressante per la difficoltà di mantenere il livello, di mantenere le aspettative, la difficoltà di poter mediare queste aspettative e questo livello che vengono sempre interpretati come demiurgici rispetto a tutto il resto dell’umanità, con quelle che sono le normali esigenze della vita affettiva di qualsiasi persona e le necessità di mediare tutto questo anche simbolicamente nel rapporto con il grande pubblico.]

Fa seguito alla relazione il dialogo tra i partecipanti (r):

Il Dr. V. Lusetti si riferisce ai gusti musicali rispetto alla dicotomia Mozart

Beethoven che sono due musicisti eccelsi. Conviene col relatore sulla grandezza di Mozart sia per doti naturali, sia per completezza e vastità di produzione, cosa che non si può dire di Beethoven. Però le emozioni che gli danno le ultime produzioni beethoveniane con Mozart non le vive. Si chiede se possa riferirsi al fatto che Mozart non ha affrontato il mondo da uomo libero: era infatti uomo di corte. Aveva questa grande dotazione naturale ma dipendeva moltissimo dalla società aristocratica. Per quello che ne sa lui, Beethoven ha affrontato il mondo più da uomo libero e quindi nella sua musica si sente che c’è l’incontro e lo scontro col mondo per cui questa individualità solista emerge con maggiore intensità. Ha anche vissuto più a lungo, ma non crede che dipenda da questo bensì dal diverso rapporto col mondo.

Il Prof. Tenaglia osserva che a quei tempi, nel giro di 20 anni, è cambiato completamente il mondo e che, quindi, Mozart e Beethoven hanno vissuto due società molto diverse. Resta il fatto che Mozart è stato il primo esempio di musicista che si pone sul mercato. Quando Mozart ha deciso di lasciare Salisburgo e di trasferirsi a Vienna, ha lasciato un contratto di corte ed è andato a Vienna come privato cittadino. Quì ha avuto dei contratti per le opere al Teatro Regio; ha fatto dei concerti per sottoscrizione, cioè dei concerti gestiti per abbonamento, e ha vissuto di lezioni , di pubblicazioni, quindi ha assolutamente vissuto da uomo borghese, solo che è cambiata la società, la filosofia intorno, ed è cambiata completamente la consapevolezza di sè. Mozart non ha fatto queste scelte d’impostazione sociale della sua professione con consapevolezza morale, lo ha fatto per istinto; aveva una personalità per cui non si sentiva a proprio agio a fare il musicista di corte a Salisburgo. In Beethoven c’era assoluta consapevolezza di quello che era stato l’illuminismo, di quello che era stato Napoleone. Sapeva quello che faceva e come viveva , Mozart viveva e basta. Questo non toglie però che la prima grande figura di musicista moderno borghese è quella di Mozart, non di Beethoven. Sottolinea poi che dire chi sia il più grande tra i titani, è legato ai gusti personali. Il motivo per cui in genere si concorda nel ritenere Mozart il più grande in assoluto è perchè, come ha detto il Dr. Lusetti, ha raggiunto le massime vette in qualsiasi genere musicale.

Il Dr. Lusetti replica che Tenaglia ha precisato quanto da lui affermato, ma il nucleo del suo pensiero resta. Quello che Tenaglia chiama consapevolezza è anche un’articolazione interiore di rapporto col mondo che è più simile a quello che per noi è il concetto d’individualità moderna.


La Dr.ssa A.M. Meoni si chiede quali siano i reciproci rapporti d’influenza tra la presenza di un talento e questa pressione che è stata delineata sui solisti dal punto di vista dell’educazione musicale, cioè chi dei due prevale? Anche per gli interessi della nostra professione, dall’ultima esposizione sembrerebbero strutture di personalità affettiva deboli in quanto private di una connotazione affettiva, ragione per la quale cercano di gratificare la figura materna o paterna superando le loro stesse forze. Questo le sembra un po’ diverso dall’immagine di Mozart che invece è un libero talento che nessuno ha educato, nessuno ha forzato.

Il Prof. Tenaglia osserva che anche Mozart è stato forzato: a 8 anni andava in giro per l’Europa accompagnato dal padre che era il suo manager. Chiarisce che però non vuole che passi questo stereotipo del solista che è un poveretto che non riesce ad avere una vita decente, perché non è così. Conferma che la vita di formazione del solista è molto dura; è abbastanza evidente che dietro c’è un grande gioco di ricatto affettivo parentale, cioè accade molto frequentemente che i genitori vogliono che il figlio porti a compimento i loro sogni per cui spesso non riescono a lasciargli spazio nel portare avanti i suoi sogni: lo investono dei propri. Nella formazione del bambino votato a diventare solista questo è quasi palpabile con mano. Di solito il solista che arriva ad esserlo ha dietro un padre o una madre che avrebbero voluto essere solisti e che per mille ragioni non lo sono diventati .

La Dr.ssa Meoni chiede se c’è sempre la presenza di un talento speciale.

Il Prof. Tenaglia sottolinea che senza il talento non ci può essere niente. Spiega che il talento dello strumentista in genere e del solista in particolare è un talento che non è solo razionale, non è solo manuale, ma che mette insieme razionalità e manualità in un territorio che è differente da quello del linguaggio. È una cosa completamente distinta dalla capacità di apprendimento razionale che ha a che fare con il linguaggio verbale ed è completamente distinta da quella che è la semplice psicomotricità dello sport. È un territorio di apprendimento e di eccellenza che mette insieme le due cose. E anche per questo è strutturalmente demiurgico. Non è semplicemente il grande atleta che fa il gesto atletico e che per tutto il resto ha una vita normale e, come capita spesso, potrebbe non avere nessuna profondità culturale, nessuna preparazione speciale. Tanto meno della musica si può chiacchierare: il solista la deve suonare e la deve suonare nel momento a livelli eccelsi, non la può raccontare.

La Dr.ssa G. Sgattoni chiede se il musicista solista tira fuori la propria individualità in una spinta quasi persecutoria e però raggiunge l’individualità proprio attraverso quel linguaggio.

Il Prof. Tenaglia replica tutto accade in un territorio non verbale e allo stesso tempo non motorio, che fornisce gli elementi del disequilibrio strutturale della personalità del solista: una grande capacità di approfondimento emotivo e espressivo, che si accompagna a prestazione di livelli eccelsi, che sono svincolate dal percorso verbale e dal medium verbale. Quindi è un modo di entrare in contatto con l’inconscio e con le proprie configurazioni profonde che rimane non detto e viene sempre rivissuto ed è sempre lì in assoluta evidenza senza trovare verbalizzazione. Il grande solista affascina perché in qualche modo è nudo di fronte al pubblico: si pone senza diaframmi e porta la sua bravura gestuale, che potrebbe essere solo atletica, ma porta tutta la sua consapevolezza razionale estetica e tutta la sua emotività nuda. Tutto questo avviene senza le parole. Tenaglia parte dal principio lacaniano per cui l’inconscio si costruisce di parole, e chiaramente questo contatto stretto ed espressivo con l'inconscio, ma privato di verbalizzazione, può generare un disequilibrio strutturale.
La Dr.ssa Sgattoni osserva che poi l ‘inconscio nei sogni si manifesta con le immagini e che la musica ha a che fare con l’emisfero sinistro. Pertanto secondo codice neuropsicologico sembrerebbe che l’emisfero sinistro si esprima attraverso una forma di elaborazione di tipo onirico.

Il Prof. Tenaglia risponde che il musicista e il solista in particolare si trova a fare del suo lavoro la sua identità poiché il solista non fa il solista: è strutturalmente solista. È stato educato fin da piccolo a questo. Egli ha una personalità solista; solista vuol dire non collettivista; l’origine della parola signica “è solo”. “solo” con le proprie emozioni, con i propri pensieri che vengono assegnati ad una traduzione molto aleatoria che sta nell’aria e non si concretizza neanche nelle parole. È vero che i sogni prendono le sembianze principali delle immagini però poi quando ci troviamo a lavorare su questi sogni l’interpretiamo attraverso le parole e riusciamo a coglierne il significato perché li analizziamo attraverso le parole. Se non avessimo le parole e non riuscissimo a fare le associazioni libere, se non fossimo guidati da queste nell’interpretazione, i nostri sogni resterebbero delle belle storie.

Il Prof. Pisani come psicoanalista della scuola di Foulkes evidenzia che proprio Foulkes ha mutuato il termine conduttore dei gruppi, dal termine inglese per una ragione precisa : non amava essere chiamato il leader perchè in questo concetto c’erano implicazioni dittatoriali (erano gli anni 40). Ha mutuato il termine non solo per dare un impronta più democratica, ma anche perchè sentiva che la conduzione è un pò come quella di un orchestra. Chiede poi la differenza tra il solista che suona da solo e il solista che suona con l’orchestra. se sia corretto dire che ci sono i solisti nell’orchestra in riferimento a quanto detto da Tenaglia circa la rappresentazione del solista, pianista o violinista che sia, che suona da solo nella sala di concerto e che è una specie di divinità, sta tra il divino e l’ umano, che ha implicazioni magiche divine, grandiose, onnipotenti ed è condannato a ciò perché è la rappresentazione dell’onnipotenza. Si riferisce ad esempio al concerto per pianoforte ed orchestra e a quello per violino ed orchestra di CiajKovoski. Gli vengono in mente altri esempi non solo musicali: il solista delle frecce tricolori dove c’è il gruppo di aeroplani con i quali l’esecuzione del solista è in relazione, oppure il regista teatrale che ha a che fare con un contesto di persone, ma è a sua volta un solista, oppure il calciatore.

Il Prof.Tenaglia chiarisce che il ruolo solistico è sempre tale sia che suoni da solo sia con l’orchestra. Il contesto musicale vuole che in qualsiasi concerto per pianoforte ed orchestra ci sia alternanza: ci sono momenti in cui suona il pianoforte e l’orchestra sta ferma e viceversa; ma la dinamica musicale è quella del dialogo tra il pianista solista, personalità individuale ed individualizzata in modo netto ed assoluto rispetto ad un insieme. Il solista può anche fare il direttore ed impartire all’orchestra la sua interpretazione, ma questo avviene con un certo tipo di repertorio che può arrivare fino a Mozart, e non con tutto Mozart. E’ comunque possibile eseguire la parte del pianista e del direttore. Stiamo parlando dell’inizio del solismo. Già all’inizio del solismo il pianista viene messo in scacco quando vuole fare anche il direttore. Il pianista solista si pone in dialogo col direttore e normalmente la dinamica è che il direttore ha un solista ospite a cui chiede quali siano le sue idee interpretative, quindi chi conduce il gioco normalmente è il solista. Può succedere che il direttore sia un nome di fama maggiore di quella del solista. Succede con i giovani come ha fatto Von Karajan quando ha invitato la ventenne Anne Sophie Mutter. sicuramente la autorevolezza e l’autorità della figura di von Karajan erano tali che egli ha permesso a Anne Sophie Mutter di fiorire nel suo solismo dando a lei delle indicazioni decise da lui che era direttore di fama. Il gioco è tra solista e direttore; tra solista ed orchestra c’è il direttore: solista ed orchestra non hanno contatti. Quindi il gioco è casomai tra due solisti.

Il Dr. Zipparri sposta il focus su un tipo di musica che conosce un pò meglio: la musica pop. Con i Beatles c’era la chitarra solista e la chitarra d’accompagnamento. Non sa se si possa generalizzare, ma il solista può apparire rispetto al resto dell’orchestra come la figura e lo sfondo. C ’è un tappeto sonoro come sfondo e c’è poi un solista che si staglia. Siccome sa che Tenaglia, oltre ad essere un musicologo raffinato, non è digiuno di psicoanalisi gli chiede se in realtà si possa approfondire il rapporto tra solismo e narcisismo in senso costruttivo e dall’altra parte l’orchestra, che fa da sfondo, sarebbe la libido oggettuale che segue il solista il quale deve esprimere in maniera virtuosa la propria individualità.

Il Prof.Tenaglia sospende il discorso sull’orchestra perchè non si sente di affrontarlo. È invece convinto del narcisismo del solista. Non esiste possibilità che uno si sottoponga allo stress di fare il solista se non per un narcisismo fortissimo. Gli risulta che il narcisismo nasca da un debito d’affetto strutturale. Quando parlava di ricatto affettivo in ambito parentale nel rapporto con figure parentali non ha usato la parola narcisismo perché gli sembrava banale, ma è evidente che uno che si propone nella vita di fare il solista è un narcisista; non esiste la possibilità di pensare una cosa del genere se non si ha un forte narcisismo. È una forma di narcisismo in cui quello che è un problema diventa qualcosa di estremamente eccezionale e gratificante. Tutto questo stress è ripagato non solamente dal successo, non solamente dal denaro, ma dall’appagamento narcisistico, cioè il sentire che alla fine del concerto questa ondata di applausi è tutta per te; hai sopportato tutto questo perché mentre suonavi sentivi che le tremila persone che erano lì ad ascoltarti avevano il fiato sospeso.

Il Dr. Zipparri commenta che è come per il bambino che sale sulla sedia per recitare la poesia. Tenaglia concorda e ribadisce che dipende poi dalle situazioni di famiglia per cui nel bambino che sale per la prima volta sulla sedia a recitare la poesia di natale o la filastrocca, viene scorto da una figura parentale qualche talento particolare che suscita l’idea debba essere coltivato e comincia a pensare che da grande il bambino potrebbe diventare quello che lui non è stato. ]

Note di redazione

(r) elaborazione testi dialogo da registrazione vocale a cura di Dr.ssa Antonella Giordani

Antonella Giordani rivisti dal relatore Prof.A.Tenaglia agior@inwind.it e Anna Maria Meoni agupart@hotmail.com


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